Interviste ai Tarocchi - racconto di Alessandro Scalzaferri
Alessandro Scalzaferri
Interviste ai Tarocchi
La mano avanza e scrive e quando ha scritto procede.
Né tutta la tua indulgenza, né il tuo ingegno la indurranno
a tornare indietro e cancellare un solo mezzo rigo.
Né tutte le tue lacrime laveranno via una sola mezza parola.
(Quartina attribuita al poeta persiano Omar Khayyâm)
Presentazione
Un racconto costruito con venticinque interviste a figure simboliche, mitiche, che appartengono all’immaginario collettivo e pervadono la nostra cultura da secoli. L’Autore approda al Reame dei Tarocchi intarsiando alchimia e cabala, utilizzando cartomanzia e occultismo, evocando paranormale e flussi quantici.
L’Appeso, il Diavolo, l’Imperatrice, il Gerofante, l’Eremita, l’Innamorato, la Luna, il Sole, il Diavolo, il Folle, Cupido, la Sfinge ed altri Arcani finalmente svelano la loro natura, dopo secoli di mistificazioni fuorvianti.
Intervista all’Appeso
12 gennaio 2021
Dopo otto settimane d’attesa, spero di riuscire ad intervistare l’Appeso. Purtroppo anche nel Reame dei Tarocchi la burocrazia mette i bastoni tra le ruote, ma sono arrivato all’ultima tappa di una faticosa scalata di permessi e documenti da presentare. L’Imperatore in persona oggi finalmente ha concesso l’autorizzazione per la divulgazione e la futura stampa delle interviste.
Proprio sul più bello, a sorpresa, il Cavaliere di Spade mi ha detto di pazientare perché non si trova il timbro. Sono già rassegnato all’idea di dovermene tornare nuovamente indietro, ma il guardasigilli ha giurato che presto mi darà il lasciapassare per accedere alla fortezza dove l’Appeso è detenuto.
Voleva accompagnarmi Mario Felicioni, il direttore di Rete Destino, quella tv privata che dedica alla cartomanzia più dell’ottanta per cento dei suoi programmi; desiderava scattare alcune foto all’Appeso, ma gli è stato negato il visto d’ingresso. Io mi sono fatto valere grazie alle mie pubblicazioni, che ho portato a spasso per farle conoscere al mondo delle carte, sperando che almeno lì vadano a ruba.
A nessuno è mai venuta l’idea d’intervistare i Tarocchi. Il direttore aveva suggerito di cominciare da un Arcano più disponibile e simpatico, il Mago, una delle carte predilette dal pubblico. Io invece ho insistito per iniziare con l’Appeso proprio perché è il più ostico, il meno propenso al dialogo e alla confidenza.
Per tornare all’ultimo ostacolo e ingannare il tempo nella speranza che spunti il timbro, mi sono messo a leggere al Cavaliere di Spade alcune parti del mio ultimo romanzo. Il guardasigilli ha perso tutto il suo buonumore, non so se per la logorante attesa, o per avere ascoltato alcune delle mie pagine preferite. Nell’apporre nervosamente il timbro ha imbrattato il documento con l’inchiostro, tuttavia mi ha ribadito che anche così è valido e quindi non ci sono più formalità da assolvere.
L’Appeso, avvinto da una fune al secolare patibolo, penzolava a testa in giù, fiero del suo sacrificio. Appena mi ha intravisto percorrere il cammino di ronda che immette al cortile centrale della prigione, ha cominciato a piegare la gamba come d’ordinanza. Secondo i manuali più attendibili proprio quella flessione trasforma il corpo dell’Appeso nel segno alchemico del Compimento della Grande Opera.
Ad accompagnarmi fino a sotto il suo naso è venuto il Fante di Bastoni, che ne è il custode, in veste di responsabile della fortezza adibita alla detenzione dei condannati. «Questo Messere è venuto fin qui per intervistarti» ha detto. «Aspetta da ore. Trattalo bene, altrimenti ti riempio di botte».
L’Appeso mi ha salutato: «Mistiche riverenze, nobiluomo».
«Lo conosco bene, questo intellettuale depravato» ha detto il Fante. «Se non lo intimorisci, non aprirà bocca neanche con le cannonate. Pensate Messere, un giorno venne qui sua santità Celestino V, prima di rinchiudersi a meditare. Pare gli avesse letto le carte la sua perpetua; il Pontefice, in segreto, si affidava ai Tarocchi ogniqualvolta doveva prendere una decisione importante. Beh… costui neppure a Celestino voleva rispondere! Solo dopo avere riflettuto un’ora mi disse di farmi da parte, che ci avrebbe parlato per rispetto dell’abito…».
Il detenuto, in quella scomoda posizione, doveva vedere tutto sottosopra. Mi sono rivolto al Fante di Bastoni e l’ho pregato d’interrompere quel supplizio per darci modo di parlare civilmente. Il carceriere ha preso a leggere con scrupolo il lasciapassare e mi ha fatto notare che avevo diritto di realizzare solo un’intervista, e che lui non era autorizzato a fare sconti di pena a quel malandrino per nessun motivo. Allora ho replicato: «Questo poveretto sono secoli che penzola. Penso che abbia scontato a sufficienza i suoi peccati. Presenterò il caso ad Amnesty International perché siano riconosciuti i suoi diritti. Nessuno, dopo Cesare Beccaria, può essere più trattato in questo modo! Avrà una cella, un letto adeguato, libri da leggere…».
«Da quale Mondo venite, Messere? Qui le leggi le fa l’Imperatore! E quel Cesare Beccaria… non l’ho mai sentito nominare».
L’Appeso, udendo le mie difese, ha pianto dalla felicità. Mi ha stretto la mano e si è messo a raccontare tutta la storia dal principio alla fine. «Facevo la corte alla Donzella...».
«Quale Donzella?» ha chiesto quell’ignorante del Fante di Bastoni.
«Quella che posa per l’Arcano Numero 11 e tiene spalancate, con la forza delle sole mani, le fauci di un leone pronto a divorarla. Eravamo sulla bocca di tutti. Lei tenacemente difendeva la sua illibatezza. E l’Imperatrice mi venne a stuzzicare; forse era stanca d’essere ignorata da quel dongiovanni di suo marito che la trascurava per altre dame di corte. Così mi beccarono sul fatto. Una fantesca fece la spiata, ma l’Imperatore mi graziò dal taglio della testa. Allora ero Bibliotecario del Regno e ogni settimana portavo all’Imperatrice alcune novità. Le piaceva leggere, passava ore e ore immersa nella lettura. Tolsero di circolazione la mia carta di Bibliotecario e mi riprodussero come Appeso. Non ci fu processo (del resto non lo reclamai, avevo insidiato la sposa regale e non potevo negare l’evidenza dei fatti). Mi rassegnai, e neppure mai chiesi la grazia, nonostante gli amici mi suggerissero di farlo. Ma io, come Socrate, accettai il verdetto! L’Eremita, con la complicità dell’Imperatrice, aveva anche preparato una fuga, ma preferii restare, ad eterno esempio del sacrificio. Grazie alla meditazione e allo yoga ora posseggo poteri paranormali. Potrei svincolarmi dalla fune cui sono legato; potrei sollevare questo torrione fino alla Luna. Ma resto confinato nel mio supplizio; mortificato dalla gogna infernale, ma purificato».
L’aver svelato i retroscena della sua condanna stava per costargli caro… Il carceriere gli avrebbe voluto rifilare una randellata in testa, ma l’Appeso è riuscito a schivare il colpo con un’oscillazione perfetta del corpo e ha mandato a vuoto anche il secondo colpo; così il Fante di Bastoni ha perso l’equilibrio ed è caduto a terra, trascinato dalla foga e dal peso di quel randello spropositato, che anche Golia avrebbe fatto fatica a brandire.
«Questo intellettuale depravato racconta frottole, Messere. Con i suoi libri diffondeva i semi della rivolta contro l’ordine costituito, di cui l’Imperatore è l’unico legittimo depositario. È un rivoluzionario pericoloso, uno scomunicato!».
«Certo. Sapevo leggere, scrivere e pensare» ha ribattuto l’altro, «ero il più colto del Regno! Fui condannato per la mia tresca con l’Imperatrice. Il sovrano non perdonò il tradimento di un amico che aveva libero accesso nel suo palazzo. I miei scritti circolavano liberamente da anni, perché era un sovrano illuminato e non un despota. Io ero il suo consigliere, la sua guida morale... Questo stupido carceriere non conosce i fatti sostanziali. È solo uno zotico villano».
Il Fante, senza replicare nulla, ha lasciato il pesante bastone al suolo e se ne è andato in silenzio.
«Sta andando a chiamare rinforzi. Due sbirri per bloccare il mio corpo e riempirmi di botte. Aspetta e vedrai, professore. Lesto fai le tue domande, prima che torni quel sadico».
«Secondo alcuni interpreti, con il tuo sacrificio e la tua espiazione simboleggi la salvazione dell’umanità, la figura del Cristo incarnato che lava i peccati del Mondo» ho azzardato.
«Naah… Sono pruriti da spiritualisti perennemente attraversati da folgorazioni mistiche. Vedono i santi e la provvidenza dappertutto. Se nemmeno il figlio di Dio è riuscito a trasfigurare questo circo della violenza e dell’orrore, pensi forse che basti il mio patimento a provocare l’agognata palingenesi morale?». In risposta, concordando con la sua analisi, mi sono limitato a scuotere il capo. «Io posso a malapena edificare e salvare faticosamente la mia anima giorno dopo giorno, sapendo che potrei smarrirmi in un attimo fatale. Piuttosto toglimi una curiosità, amico. Cosa ti ha spinto a venire sin qui ad intervistare i Tarocchi?».
«Queste mie opere letterarie, che hanno per oggetto appunto i Tarocchi. Anzi, ne approfitto per leggerti una lirica dedicata proprio a te».
«Non c’è tempo, amico; il mio carceriere può tornare da un momento all’altro. Lascia qui una copia del tuo libro, me lo leggerò con calma. Comunque tu sei qui per un altro motivo… i tuoi scritti sono una scusa».
«Come ogni autore, credo di meritare una risonanza più vasta di pubblico. È pura ambizione. Effimera e vana ricerca di gloria».
«No, amico, il motivo è più profondo, più intimo. Tuttavia non ho tempo per esplorare la tua mente. Addio. Sta arrivando il mio carceriere».
Mi sono voltato e ho visto il Fante di Bastoni venirmi incontro con accanto il Sei e il Sette di Bastoni. Sorpreso, ed anche un po’ spaventato, mi sono fatto istintivamente da parte.
Nel mentre l’Appeso improvvisamente è scomparso alla nostra vista e io – scioccato – sono caduto, per svenimento, come corpo morto cade. Il Fante di Bastoni, forse più preparato di me ad assorbire le novità, mi ha fatto rinvenire con quattro schiaffetti.
Uscendo da quella prigione, le mie gambe ancora tremavano; se non fosse stato per il suo aiuto sarei crollato a terra di nuovo.
«Scompare ogni tanto, Messere» mi ha rassicurato nell’accompagnarmi. «Lo fa da anni, quel dannato intellettuale. Poi mi ritorna a penzolare; due, tre giorni dopo che io ho denunciato la sua fuga. Saranno migliaia le sue sparizioni, non le contiamo neppure più. Viene archiviata ogni volta la pratica perché il fatto, quando ritorna, non sussiste».
Ancora mezzo stordito, ho deciso di congedarmi. Il guardasigilli, all’atto del commiato, mi ha messo sull’avviso: «Se Amnesty International riuscisse a liberare l’Appeso avresti incrinato gli equilibri di questo Reame secolare. Non proporrai alcuna istanza di perdono, lascerai le cose come stanno. Nel tuo dolce paese, d’altronde, la filosofia è questa… perché mai dovresti ficcare il naso in un regno amico, che ti ha ospitato oggi e domani ti offrirà l’occasione di fare altre interviste? Non ne vedo l’opportunità».
Più tardi il Cavaliere di Spade mi ha consigliato di divulgare il testo che il reo avrebbe scritto di suo pugno, per quanto relegato in quella scomoda posizione. Non è propriamente una dichiarazione spontanea rilasciata dall’Appeso; vi ho riconosciuto la calligrafia cesellata e inconfondibile del guardasigilli stesso, il quale aveva apparecchiato una diversa versione dei fatti.
“Dichiaro che questa mia posizione simbolica è dovuta ad una meditata scelta esistenziale. Ogni giorno passo un’ora in palestra. Ogni settimana ricevo la visita gradita di alcune fantesche di facili costumi che mi vogliono tanto bene. Se debbo dire la Verità, vi rispondo che ancora la sto cercando. A tutte le persone nate il giorno 12 auguro buona fortuna, ne hanno bisogno: a me questo numero non ha portato sempre bene. Sono lieto d’essere stato il primo Arcano tra i Maggiori ad essere intervistato. Qui i giorni trascorrono lieti. La mia mente possiede segreti che ancora non può svelare. L’umanità, sulla scia delle mie riflessioni, in futuro troverà la via della salvezza e della rigenerazione morale.”
In calce v’era la firma dell’Appeso. Era una falsificazione perfetta. Sembravano parole scritte dal condannato, che in quel frangente ho sentito vicino a me, quasi darmi una pacca sulle spalle, come segno d’incoraggiamento.
Allora ho avuto il sentore che tutto il tempo impiegato per chiedere permessi sia stato solo una scusa per aspettare che tornasse dalle sue fughe, che devono essere perenni. I Tarocchi vivono di pubblicità. Chi, più di ogni altro, può fornirgliela? Lui, l’Appeso, che spalanca le porte alle polemiche, alle dispute sulla giustizia, alle pene esemplari! Ci ero cascato, lo ammetto. Ed ero stato così ingenuo da ipotizzare un appello ad Amnesty International che avrebbe potuto far cadere un castello di carte che diletta creature di ogni ceto sociale e soprattutto confeziona tanti bei sogni.
Al mio rientro a casa, dopo l’intervista, sono andato per riporre nell’astuccio ligneo il mazzo speciale di carte quantiche che avevo apparecchiato sul tavolo ottagonale, sistemando l’Appeso al centro di una corona circolare formata dagli altri 21 Arcani Maggiori, tuttavia mi sono reso conto di essere stato preceduto da un misterioso visitatore. Sono rimasto basito e quasi non riuscivo a credere ai miei occhi, ma quasi subito ho pensato allo zampino dell’Appeso… che infatti se ne stava beato in poltrona a leggere il mio poemetto!
Quel prodigio mi ha salutato, scusandosi per l’intrusione. «Non vorrei averti spaventato, ma dovevo venire a trovarti. Quando tornerò al mio patibolo, non sono certo di trovare il tuo libro. Il mio carceriere, perfetto per la sua rozzezza e insensibilità, non ama la cultura».
Poi si è messo a declamare qualcuno dei miei versi, in segno d’omaggio.
«La materna terra accoglie
nelle sue calde viscere
il girovagare
del monolito caduto dal cielo.
La zolla ferita
esala tiepidi vapori di zolfo
che alimentano alberi secchi,
ossuti e senza fronde.
Alle plaghe spettrali,
dove sono piovuti i segni astrali,
vanno peregrinando
tutti i veggenti:
come foglie d’autunno,
appesi, con la testa in giù,
per capovolgere
la stupidità indifferente.
Così espiando,
messa alla gogna,
s’immola la diversità:
vittima della macchina dell’Inquisizione
e protesa verso l’alba
della rigenerazione collettiva».
«Professore» ha commentato, «mi hai rappresentato prima come il simbolo del sacrificio che capovolge la stupidità indifferente, poi come la Donzella martire e testimone della fede dei Catari. Hai saputo leggere l’archetipo, oscurando i demoni che confondono i segni. Sei risalito alle origini, traendo conforto dalle immacolate riviere!».
«Ho rinverdito la vaga, blanda animula che ci portiamo appresso» mi sono schermito. «Ho capovolto il numero 12 per attingere il 21 grazie ad una limpida operazione suggerita dalla Cabala. Come i veggenti so leggere i segni astrali: il girovagare dei monoliti caduti dal cielo».
«Sei un epigono sommerso dall’indifferenza. Io resto qui a temprarmi nel sacrificio, in attesa del giorno ultimo dell’Apocalissi. Versi profetici i tuoi!» ha detto.
«Tutti insieme, pieni del sacro furore della Donzella, potremmo sbaragliare ogni nemico e mettere in fuga la morte. Tuttavia gli uomini, accecati dal fanatismo e dall’intolleranza, sono fiacchi e smarriti nell’arido deserto».
«Sembra proprio anche a me. Questo mondo, perfetto alle origini, è stato massacrato giorno dopo giorno. Il peccato originario ha disunito, confuso gli uomini. Forse gli unici immacolati siamo noi: gli archetipi. La residua sapienza, accumulata nel corso dei secoli, frequenta il mondo delle carte. Tuttavia non bastano i sacrifici dei pochi testimoni appesi. Legioni di demoni sono al servizio di pochi privilegiati. Hai presagito la fine dei tempi e vuoi investigare nei meandri oscuri della coscienza: forse ho capito perché sei venuto a intervistare i Tarocchi, professore».
Intervista al Diavolo
15 febbraio 2021
Il Cavaliere di Spade, inflessibile e rigido nel rispetto delle procedure, autorizza ogni intervista e rilascia il nullaosta.
«Professore, l’Arcano del Diavolo ha abbandonato il Reame dei Tarocchi dal primo giubileo della Chiesa. Nell’anno 1300 si è trasferito agli Inferi».
«Se giungere sin qui è stata già un’impresa, agli Inferi come ci arrivo?» ho obiettato. «Laggiù l’Arcano del Diavolo detta le regole. Devi trovare una guida femminile piacente e disponibile. Se poi è cartomante, tanto meglio».
«Questo è possibile; tuttavia, come arriveremo agli Inferi?».
«Sarà la donna a condurti. Ascolterà la voce dell’Arcano».
«Non c’è qualcuno che possa ragguagliarmi sulle incognite di un tale viaggio?».
«Tutti, quando tornano indietro, sono tenuti a custodire il segreto per sempre. Fa parte del contratto che debbono firmare. Ecco professore, queste sono le due copie che tu e la donna dovrete sottoscrivere. È indispensabile che siate consapevoli di quello che state per fare».
Ho risposto che mi sembrava giusto così. Il guardasigilli ha arrotolato le due pergamene e le ha infilate in un piccolo cilindro di legno istoriato con simboli alchemici.
Tornando a casa, ho rammentato le parole quasi profetiche del direttore di Rete Destino, il quale in certe circostanze vuol dare l’impressione d’avere in mano la situazione e insiste nel dare consigli gratuiti. Tipo: «Alla prossima intervista, vedi di farti accompagnare da una di quelle signore che stanno sempre al telefono a raccontare i fatti di tutti. Nel Reame dei Tarocchi dovreste trovare le porte spalancate… A proposito, complimenti: la tua prima intervista al pubblico è piaciuta».
La richiesta di una guida femminile andava dunque nella direzione suggerita da Mario Felicioni il quale, fiero del suo sesto senso, ha commentato con un «te lo avevo detto io!». Per averla al mio fianco come accompagnatrice, ho contattato la cartomante Lucinda che lavora in pianta stabile per Rete Destino. Dopo essersi apparecchiata i Tarocchi per conoscere le mosse da fare, ha detto che all’appuntamento sarebbe venuta per stuzzicare il Diavolo. Con me ha palesato le sue intenzioni tessendo una scurrile filastrocca, sconveniente per i miei ascoltatori. Nell’apporre la firma con le gocce del proprio sangue, non ha fatto mistero che aspettava un’occasione del genere da non so quanto tempo ed io ero benedetto per offrirle quell’opportunità. Il contratto ci vincolava a non divulgare in alcun modo come saremmo entrati agli Inferi, pena la vita. Per quanto mi riguarda, mi sono punto con un ago sterilizzato e ho lasciato cadere sulla pergamena due stille della mia linfa vitale.
Subito il fiuto sottile del Diavolo dei Tarocchi si è accorto che nel pertugio di Venere circolava un’aria libertina; e, ancor prima che proferissi parola, mi ha invitato a fare quattro passi.
Lasciato il Diavolo ai suoi svaghi erotici, mi sono imbattuto nel puttino che lancia gli strali irresistibili verso i futuri innamorati. Cupido non stava certo lì per caso, ho pensato, quando l’ho riconosciuto. Vedendo la piccola faretra vuota, gli ho chiesto a bruciapelo: «Una freccia non era sufficiente?».
«Conosco perfettamente il mio mestiere. Cosa credi di venirmi a insegnare?».
«Cupido, allora sei proprio suscettibile! Era una domandina per riscaldare l’ambiente… Non la vuoi la tua intervista?».
«Se me la fai sono contento, anche se già mi conoscono tutti. Il lavoro non manca. Comunque le frecce non erano per la donna. Se proprio lo vuoi sapere: erano per Lui! Senza i dardi non gli si rizza più. Deve innamorarsi. Altrimenti niente. Per aumentare la virilità al massimo, ho scagliato sei frecce».
«Questa sì che è una notizia, Cupido!».
«Lui non lo ammetterà mai. Dirà che quella donna gli resisteva!».
«Ma gli umani… perché hanno bisogno dei tuoi favori? Non potrebbero innamorarsi senza freccia?».
«Scuse. Vogliono scuse! Così mi danno la colpa di tutto quello che succede».
Cupido insisteva che continuassi sul serio la sua intervista, cominciata per scherzo. Gli ho detto che non era prevista nel copione, che non potevo fare di testa mia, che ci saremmo rivisti quando avrei incontrato l’Innamorato.
È un tipetto paffutello, con ali piuttosto grandi. Ogni tanto si librava in aria stizzito e ha dato in escandescenze quando mi sono opposto alle sue impertinenti velleità di farsi intervistare prima del tempo.
Belzebù ha copulato per 66 minuti, secondo quanto cronometrato con il cellulare dalla donna languida e soddisfatta che gli voleva vendere l’anima.
«Te la puoi tenere! Per una volta che ti sei concessa…» è stata la risposta. «Che me ne faccio di un’anima come la tua? Mi prendo, se voglio, le anime illustri… In passato ho rifiutato anche quelle».
A tali parole, Lucinda si è messa a piagnucolare ripetendo che non voleva passare il resto della sua vita a straparlare sulle carte per ore.
«Allora, professore, quali domande hai preparato per quest’intervista?» mi ha chiesto infine il Diavolo impaziente.
«Non ho domande pronte. Le avevo appuntate su un foglio, poi mi sono parse banali e questa mattina, prima di farci traghettare da Caronte, le ho stracciate».
«A proposito, come sta il nocchiero della livida palude?».
«Annoiato. Stava poggiato sul fianco della sua barca e si puliva le unghie. Mi ha detto che non traghetta ospiti da non so quanto tempo».
«Capisco il disappunto. Domani lo vado a consolare e ci faremo una briscola».
«Ti manda i saluti. Non ho capito bene cosa ci stia a fare, se dannati da traghettare non ce sono più».
«È un gentiluomo, Caronte. Fedeli sudditi come lui non ne nascono più. Sei il secondo che viene a intervistarmi quaggiù. Il primo servizio giornalistico della storia, negli Inferi, è stato Dante a realizzarlo. Lo guidava quel poeta latino... Vi...».
«Virgilio...».
«Sì proprio lui. Ce l’avevo sulla punta della lingua».
«All’epoca, quando è disceso Dante, gli Inferi dovevano essere stracolmi. Dove sono andate a finire tutte le anime dannate?».
«Un’amnistia. Tana libera tutti. Sono venuti giù con una legione di Arcangeli, dopo che Charles Darwin aveva esposto la sua teoria sull’evoluzionismo, nel libro sull’origine delle specie, datato 1859. Dicevano che Lui perdonava i peccati commessi. Io non mi sono opposto. Ho detto che si potevano prendere una libera uscita, tanto poi sarebbero ritornati…».
«E invece? Sono diventati tutti buoni?».
«Sulla Terra c’era penuria di anime. Io non lo sapevo. Mi hanno fregato. Gli uomini adesso sono così rammolliti che non riescono neppure a costruirsi un’anima dannata. Troppo cinema. Troppa televisione. La Chiesa non forma più come una volta».
«E allora, qua cosa ci stai a fare? In solitudine!».
«Solitudine un cacchio! Cupido mi porta una donzelletta alla settimana. E, considerata l’età, mi accontento!».
«Certo, in fondo poi qui è sempre casa tua!».
«Sei venuto per l’intervista; sono proprio contento professore. Finalmente è venuta l’ora di raccontare le cose come stanno!».
Io e Lucinda, che non aveva smesso di frignare, ci siamo guardati attoniti e abbiamo fatto gli scongiuri.
«Beh, professore, sembri basito…».
«Confesso che tutto quello che ho visto sinora mi ha un poco messo in agitazione. Non trovo le parole adatte a simili circostanze… Non ero preparato».
«E hai fatto tutta questa strada, fino alla mia dimora, correndo i rischi che sai, per venirmi a dire che non hai neppure uno straccio di canovaccio da seguire? Credi che sia un rubagalline qualunque, a cui si può domandare qualsiasi fesseria?».
«Il fatto è che lo scenario infernale è cambiato! Tutte le domande possibili che avevo in testa a questo punto mi parrebbero insulse, banali. Non voglio correre il rischio di offenderti, tutt’altro! Anzi, questa mia cautela e ponderazione va presa come un segno di rispetto».
«Professore, voglio venirti incontro: puoi anche chiamarmi, senza sbagliarti, Belzebù. Tanto per cominciare».
«Secondo l’etimologia ebraica, Belzebù significa signore degli Inferi. Questo personaggio compare nel Nuovo Testamento come principe dei demoni. Mi domando perché anche i cattivi abbiano bisogno di un comandante».
«Non ti garba il mio nome, professore? Sono secoli che tutti mi chiamano Belzebù. Io cosa posso farci?».
«Non ho nulla da eccepire sul nome… dicevo così per dire. Dunque, Satanasso Belzebù, tu sei l’essenza del Male?».
«Assolutamente no, professore! Sono semplicemente il signore degli Inferi. Lucifero, l’angelo della luce, il capo degli angeli ribelli, aspetto da secoli d’incontrarlo. Ho fatto di tutto per avere un abboccamento, non c’è stato verso. Pare avvolto dal nulla, dal mistero. Ho tentato molte vie, lecite e illecite; messaggi educati e offese spudorate. Niente: non risponde».
«Sono sconfortato… Prima sono venute meno le anime, ora è svanito pure Lucifero. Mi sembra troppo. Faccio fatica a digerire tutte queste novità. Dammi tempo, Satanasso Belzebù!».
«Te lo ripeto una seconda volta, scettico di un letterato scansafatiche: Lucifero aspetto da secoli d’incontrarlo! Sei veramente sotto tono, oggi! Mi aspettavo un temperamento più deciso…».
«Se fossi un peracottaio qualunque, non sarei qui. Non hai idea di quali forche caudine ho dovuto superare, prima di approdare al mondo delle carte. Legioni di ostacoli, divieti, permessi, autorizzazioni, ispezioni, prove, esami, curriculum vitae. Sarebbe stato più facile colloquiare con Dio (mi sia permesso di fare il nome della concorrenza)».
«Molti profeti già ci sono riusciti. Dopo un’intervista un bel libro: un best seller che ancora si vende dopo migliaia di anni. Professore, trova tu il coraggio di scrivere un libro dedicandolo espressamente a Belzebù!».
«Un tempo le credenze nei demoni portavano offerte e devoti alle acquasantiere. Oggi il male si è radicato, ramificato… è ovunque. Non frequenta più soltanto postriboli e osterie. Debbo riconoscere che hai fatto un buon lavoro, Satanasso Belzebù! Adesso vivi di rendita… Sì, ogni tanto un’impennata eclatante, sulla bocca di tutti e poi si torna al male quotidiano. Penso persino che tu sia, a volte, annoiato».
«Io non sono mai annoiato. Sei venuto agli Inferi per farti beffe di me?».
«Non mi permetterei mai! Con tutto il potere che hai, come potrei competere? Sarebbe una gara al massacro persa in partenza».
«Vieni alle domande, professore… Vuoi che le indovini?».
«Dimmi qualcosa sulla tua origine, Satanasso Belzebù. Le tue generalità pare siano controverse. Data di nascita. Segno zodiacale, ascendenti. Così avremo un giorno sicuro per festeggiarti!».
Mi ha guardato con l’aria del menestrello che interrompe sul più bello la canzone per la sua innamorata. Allora ho aggiunto: «Mi rendo conto… dev’essere passato tanto tempo; e all’epoca non c’erano registri, forse neppure scrivani con penne e calamai. Accetto anche delle approssimazioni. Puoi dirmi che sei sempre esistito. O che eri l’alter ego di Dio».
«Io e Lui siamo due facce della stessa medaglia, due opzioni. Come la mano destra e la sinistra. Rientriamo nella legge del dualismo universale. Prima eravamo intrecciati, poi ci siamo scissi; ma mai separati. Siamo forse indissolubili. Questa filosofia la capiranno i tuoi ascoltatori?».
«Non ti sei dunque ribellato alle leggi divine? Non vuoi distruggere quel ben di Dio che è il mondo e la natura?».
«Sono tutte calunnie di letterati scansafatiche come te. A me il mondo sta bene come Lui l’ha fatto. Gli devo riconoscenza. Senza gli umani non avrei pane per i miei denti, diletto per la mia carne. Io Lo benedico sempre. Mai una bestemmia! Neppure un gesto di ribellione».
«E tutti quegli emuli che ti sono venuti dietro a frotte? Un’altra bufala?».
«Quali emuli? Io sono unico! Gli altri demoni sono espressione dei quei gran figli di buona donna che sono i tuoi simili: bipedi razionali che Lui ha creato a sua immagine e somiglianza».
«E allora Satanasso Belzebù… se sei unico e raro, gli altri diavoli sarebbero un’invenzione?».
«Più o meno è così. E anche questo devi riferire alla gente. Hai per caso incontrato qualche diavolo negli Inferi?».
«Uno solo: te, il Principe del Male! Ma la storia degli Angeli ribelli come la mettiamo, come la raccontiamo?».
«Come non la raccontiamo, professore. È un’altra bella frottola per educande».
«Tuttavia il sommo poeta nella Divina Commedia ne ha parlato. Tu stesso hai affermato che fu il primo a scendere negli Inferi per fare interviste. E Dante sostiene d’avere incrociato diversi diavoli: una sfilza di cui potrei fare l’elenco. Frutto della fantasia allucinata di uno scrittore scansafatiche?».
«Attori. Sedicenti diavoli. I più furbi di queste malebolge si autoproclamavano angeli ribelli. Torchiavano i meno esperti, come al mondo fanno i ricchi con i poveri».
«E il Satanasso Belzebù ne avrà pure insigniti, con titoli e riconoscimenti ufficiali!».
«Certo, che avrei dovuto fare? Avevo bisogno di servitù a buon mercato, di collaboratori. Non potevo fare mica tutto da solo!».
«Dunque anche gli Inferi sono una mezza fregatura».
«Dipende dalla prospettiva, professore. Sono un palcoscenico, come la vita. Dove ci sono comparse, comprimari, protagonisti, divi…».
«Come mai ti sei deciso solamente oggi a raccontare la verità?».
«Se vuoi, professore, ti autorizzo per iscritto a raccontare gli Inferi vuoti come li hai visti: senz’anime e senza diavoli. Visto che (forse anche giustamente) vuoi cautelarti, metto nero su bianco. Anzi, rosso su pergamena. E intingerò nel tuo stesso sangue la mia penna».
«Continuo a chiedermi perché ora. E perché hai scelto me. Mi scorticheranno vivo se non prenderò le mie precauzioni... Possiamo distruggere l’idea di Dio nell’uomo; se dovessimo amputarlo anche di Lucifero, l’uomo non avrebbe più scuse. In molti faticherebbero a trovare un albero a cui impiccarsi».
«La tua sarà la prima e l’ultima delle interviste che concedo. E racconta che sedicenti diavoli mi scimmiottano, mi rovinano la reputazione… Perché certe schifezze neppure io sarei in grado di compierle, e questo lo puoi, anzi lo devi sottolineare! In Belzebù ci inzuppano il pane da secoli. Mi attribuiscono tutte le malandrinate possibili e immaginabili».
«Dunque vuoi essere riabilitato! Beh… forse ho esagerato: vuoi i tuoi meriti e non essere confuso con le birichinate altrui».
«C’è un solo Belzebù. Da solo posso fare tutto il male che voglio. Non ho bisogno di lacchè, di devoti. Gli altri demoni si fanno in quattro per essere al mio servigio; la tua compagna mi si è offerta e io non l’ho neppure voluta. La sfilza dei fedeli è incommensurabile. Eserciti… per conquistare un mondo che è già mio! Io sono ovunque, in ogni angolo, in ogni creatura. Io sono Dio!».
Per un attimo io e Lucinda abbiamo avuto paura che non ci lasciasse tornare da quella bolgia infernale in cui ci eravamo calati senza incontrare anima viva. Un Inferno, il suo, vuoto e silente, ma immaginato dagli scrittori popoloso di trapassati, a patire pene indicibili.
«Se non lo racconterete come l’avete visto, l’Inferno senz’anima viva» chiosò, «passerete il resto dei vostri giorni a ripassare quest’intervista. Fino alla fine dei tempi».
Ho fatto una mossa come per andarmene. Mi sentivo confuso e minacciato.
«Scappi? Hai fretta professore? Non me la vuoi regalare una copia del tuo poemetto? Non la merito?».
«Credevo non fosse di tuo gradimento e non volevo tediarti».
Per compensare lo sgarbo, mi sono messo a leggergli la parte che lo riguardava. Ogni tanto lo guardavo in faccia per paura ed afferravo i suoi ghigni per capire le sue reazioni ai miei versi. Mi ha ascoltato attento ed ha anche socchiuso gli occhi, come se ascoltasse una musica affatto sgradita. E’ tornato a sgranarli quando gli ho letto cotali versi e gli ho strappato anche un sorriso.
«Talora, armoniche vibrazioni,
palesano la natura del 15
che docile si lascia ridurre a un 10 + 5.
Accade d’essere avvolti
dalla fragranza d’un odor perfetto,
sprigionato dai Numeri,
e fugacemente
sentirsi più vicini agli Dei,
come una particola nel tutto,
in virtù dell’energia
condensata nella Cabala:
l’unica capace di liberarci
dall’eterna schiavitù del Maligno».
Ha ascoltato il resto dei versi in silenzio e ha ponderato le parole un tempo prima di fare sentire la sua voce.
«Dovrei credere che cerchi gloria in questi lidi vuoti e silenti, professore? Tanto esibizionismo letterario non è fine a se stesso. Chi ti manda? Te ne vieni a visitare gli Inferi vuoti, con in mano un libello che non è innocuo, né neutrale».
«Chi più degli Arcani Maggiori dei Tarocchi può fare pubblicità ai miei libri? Nessuno! È logico, lapalissiano…».
«Nascosto nei meandri della psiche, ti scruto e ti osservo, come vigile inconscio collettivo e faccio sentire la voce infernale, camuffata come quella degli Angeli… Cerco di manipolare la tua mente, ma non ci riesco. Vorrei influenzare anche i tuoi quotidiani proponimenti; tuttavia sono impotente. Questo sei venuto a dirmi. L’intervista è una scusa! La chiave sta nei tuoi libelli».
E mi sono ritrovato fuori dagli Inferi; senza nessuno dei miei libri sotto il braccio.
Al ritorno, Lucinda mi si è stretta addosso e tremava dalla paura. Ed io le ripetevo che là, in quella bolgia infernale vuota, non c’eravamo mai stati e l’intervista era stata solamente un’invenzione letteraria, una pagina di scrittura. Insistevo nel farle capire che il nostro Belzebù non sarebbe potuto apparire altrimenti. Sarebbe stato banale ascoltare la solita solfa già raccontata, divulgata nei tempi. Se volevamo passare alla storia dovevamo riferire di un Inferno vuoto, senz’anime, senza trapassati, senza diavoli. La cartomante però non mi credeva, anche se mi abbracciava e mi guardava negli occhi innamorata della mia bugia.
Ed io le facevo balenare l’idea che l’anima bella e fatta, inclusa fin dal giorno della nascita, è proprio una mistificazione. E le spiegavo che forse l’anima bisogna sapersela costruire con una condotta virtuosa ed è indispensabile un’adeguata crescita morale e intellettuale. E ancora le dicevo che ci hanno inculcato tante castronerie per tranquillizzarci e non farci pensare, perché il popolo dei parlanti dev’essere tenuto all’oscuro e al popolo degli scriventi sono concesse solo le storie che servono per alimentare un sistema d’idee che non può essere mai messo seriamente in discussione.
E quella sera l’ho accompagnata a casa per tranquillizzarla, e per farla addormentare le ho anche letto una mia novella, come si faceva un tempo con i bambini, quando la gente parlava di più e non c’erano televisione o computer a toglierci ogni spazio per la conversazione.
Intervista al Messaggero degli Dei
7 marzo 2021
Nei Tarocchi, l’icona raffigurante l’Arcano Numero 7 mostra un carro a due ruote, anticamente usato anche in battaglia, più noto col nome di biga. Hermes, con in pugno le redini che controllano due destrieri aggiogati al cocchio, verosimilmente svolge la funzione di messaggero dei numi. Raccomando una visita (anche solo virtuale) al Museo archeologico di Delfi, per ammirare un gruppo statuario composto originariamente di auriga, cocchio e due cavalli. Con questo bronzo, donato al santuario d’Apollo per ingraziarsi gli Dei, il tiranno di Gela volle immortalare la vittoria, ottenuta nella corsa con le bighe, durante lo svolgimento dei giochi panellenici.
Delfi: centro del mondo, individuato da Zeus grazie a due aquile planate nello stesso punto. Qui la Pizia pronunciava i suoi vaticini seduta su un tripode e cadeva in trance dopo aver respirato il vapore di zolfo che fuoriusciva da una spaccatura della terra. Alle ore 22 e 22 minuti il gruppo statuario, rivitalizzato da una luce azzurrina per 22 secondi, si anima e la voce degli antichi Dei, proveniente dalla mitica Eusfera, si manifesta per bocca dell’auriga con cadenze cicliche regolari, ogni sette anni. (L’Eremita mi ha svelato il segreto per incontrare Hermes in questo orario insolito per i frequentatori del Museo.)
Dopo la mia intervista tali voci, note e circoscritte ad una cerchia d’iniziati, forse non passeranno inosservate e avranno la giusta risonanza; infatti il direttore Mario Felicioni, che mi affiancherà in questa impresa, provvisto di una telecamera tradizionale ed una a raggi infrarossi, consegnerà al Mondo le prove inconfutabili dell’esistenza degli Dei. Secondo un esperto del paranormale, le due ottiche, puntate verso il medesimo obiettivo, consentono di interagire con i flussi quantici provenienti dalla quarta dimensione.
«Divo Hermes, sentite ancora viva, dopo tanto oblio, la vostra funzione d’intermediario tra gli Dei e gli uomini?».
«Quest’antica consuetudine non si è spenta del tutto; resiste invero alla corrosione del tempo, sfidando l’incredulità del monoteismo che ha oscurato gli Dei, ma non ne ha cancellato del tutto l’energia ancora viva e vibrante».
«Credete che il destino di Delfi fosse già scritto?».
«Non ritengo che il Fato segua un percorso già delineato. Che ne sarebbe allora della nostra volontà, della nostra libertà? Un tempo i numi erano i padroni del Mondo, progettato a loro immagine e somiglianza. Ora ne sono spettatori non indifferenti».
«Esiste una barriera oggettiva che separa Eusfera, il mondo degli Dei, da ogni interferenza esterna. Oggi voi l’avete attraversata davanti agli occhi del Mondo, tutti puntati su questo prodigio. Queste occasionali intromissioni non appaiono casuali…Qual è il loro obiettivo?».
«Noi Dei ci siamo isolati dal mondo con il nostro silenzio creando una barriera che separa Eusfera da ogni interferenza esterna. Da una parte ci vuole l’auriga, dall’altra la mediazione dell’Eremita per stabilire un contatto. E, soprattutto, ci vuole la nostra disponibilità».
«Risposta sibillina, se mi consentite… Ma passiamo ad altro: sono convinto che i Tarocchi fotografino la chiave dell’esistenza attraverso un sistema di icone contrassegnate da Numeri…».
«Professore, se proprio vuoi saperlo, i Tarocchi li abbiamo ispirati noi!».
«Lo sospettavo da tempo, e adesso ne ho la conferma. Ebbene… percorrendo insieme all’Eremita il Reame dei Tarocchi, non siamo riusciti ad incontrare l’Arcano del Carro. Secondo tutti coloro che abbiamo interrogato, si fa vivo raramente in quei lidi. Un’apparizione fugace e subito si dilegua tra le sublimi sfere...».
«Devi ringraziare il tuo maestro: conosce tutti gli itinerari possibili e immaginabili. Con quale lirica mi hai eternato nel tuo poemetto? Vorrei ascoltarla dalla tua viva voce».
Ai fedeli ascoltatori risparmio l’intera lirica, per non trovarli assopiti come l’ermetico Messaggero, che sembrava essersi smarrito e al suo risveglio dopo sette minuti ha saputo ripetere perfettamente a memoria alcuni versi chiave:
«Il 7 attinge la vitalità portentosa
emanata dal Numero 1
e l’attesa pensosa trasmessa dal Numero 6.
Il 7 unifica la forza generatrice
scaturita dal Numero 3
e l’autorità indiscussa del Numero 4.
Il 7 decifra i dualismi
insiti nel Numero 2
e la natura occulta della quintessenza.
Il triplice 7 spalanca
le porte alla palingenesi,
il 21:
punto d’arrivo di tutte le cose».
«Ad ascoltarti sembra quasi che tu abbia stretto la mano sapiente dei numi, ti sia mosso accanto agli atomi democritei e abbia udito le suadenti voci dei demoni invisibili, generati dall’ineffabile inconscio. Non sei solo un vate, ma un puro di spirito che ha solcato le benedette contrade degli Dei!».
«Tutto è solo il frutto della scrittura che talora compie miracoli. Lo sapete bene anche voi, ermetico messaggero. Grazie all’aura del sogno, talora, incredibile dictu, attraverso i lidi di luce e percorro le benedette contrade dimora degli Dei».
«Io, professore, sono tornato per annunciare la discesa dell’aureo cocchio e il trionfo dell’armonia sulle schiere dei figli di Satana».
«Divo Hermes, ricordate l’ultimo vaticinio pronunciato dalla Pizia?».
«No, è passato troppo tempo. Potrei così al momento tesserne uno oscuro e ambiguo, ma non sarebbe dignitoso. E poi, se anche lo rammentassi, a che servirebbe?».
«E ricordate l’ultimo messaggio?».
«Sì lo ricordo; ogni sette settimane torno a rileggerlo, anche se lo so a memoria».
«Dunque gli Dei formulavano un messaggio scritto ed Hermes doveva limitarsi a trasmetterlo a voce?».
«Non volevamo che i nostri messaggi fossero travisati in alcun modo. Io avevo anche il compito di conservarli tutti, e di trascrivere la data e le persone a cui veniva affidato».
«Sarebbe possibile accedere a documenti di tale portata?».
«No, assolutamente! E poi dimentichi che è stata creata una barriera che ci protegge. Non possiamo mettere in pericolo la nostra dimensione».
«Certo… Tuttavia non capisco perché rileggere l’ultimo messaggio, se lo rammentate a memoria».
«Un messaggio possiede una propria energia intrinseca. Mi aspetto che quelle parole facciano scaturire una luce, un segno. E si faccia vivo qualcuno, finalmente. Rievoco il messaggio sette volte».
«Volete dire che potrebbe farsi vivo un nuovo Messia?».
«Non so, forse. Bisognerebbe andarsi a rileggere le pagine dell’Apocalissi dell’apostolo Giovanni».
«Divo Hermes, state facendo un riferimento esplicito alla fine dei tempi… Dunque questo messaggio possiede un contenuto apocalittico?».
«Potrebbe averlo…».
«È possibile trasmettere questo messaggio? O dobbiamo aspettare i fatidici 7 giorni?».
«Sono qui per questo. Ogni sette anni rileggo lo stesso messaggio all’eletto che interagisce con l’auriga di Delfi».
«Allora fateci partecipi di questo messaggio speciale».
«Perimene enasta poios,
sikolos mefistela poiasis,
telos literos sol».
«È greco antico?».
«Parrebbe di sì».
«Parrebbe?!».
«Non l’ho mai decifrato».
«E perché mai gli Dei avrebbero affidato al loro emissario un messaggio indecifrabile allo stesso Hermes?».
«Indubbiamente perché non fosse oscurato dal tempo, fino al giorno in cui sarebbe finalmente compreso».
«E, secondo il divo Hermes, quale può esserne la decifrazione più probabile e per approssimazione più vera?».
«Sappiamo con certezza che sono nove vocaboli, suddivisi in tre livelli ontologici: perimene enasta poios/ sikolos mefistela poiasis/ telos literos sol. Il messaggio è volutamente oscuro, tuttavia a volte il suo silenzio parla. L’ultimo messaggio doveva essere nella sua essenza indecifrabile. Non ve ne sarebbero stati altri. Sono stato volutamente escluso dall’ultima assemblea dei numi, quando lo stilarono».
«Volutamente escluso? Perché mai?».
«Dovevo essere un emissario imparziale. Gli uomini da tempo non ascoltavano più la voce degli Dei trascurando intenzionalmente i contenuti dei loro messaggi; tuttavia non avrebbero potuto ignorare un messaggio siffatto. Professore, sei venuto a confrontarti con l’ultimo responso degli Dei. I loro templi vennero distrutti dai terremoti, dalle guerre, saccheggiati, trasfigurati in chiese, moschee. Tuttavia pure le colonne distese a terra hanno voce e parlano come questo non-messaggio. Confidiamo che tu possa dare voce e risonanza alla nostra esistenza e raccontare al mondo la verità».
Mi sono ritrovato disteso a terra, ai piedi dell’auriga, dinamico anche se immobile. Sembrava quasi vivo nella sua posa consueta. Incuteva rispetto e un poco di soggezione. Emanava tanta energia, mi sovrastava con la sua lunga tunica a pieghe che lo rendeva più snello e più alto di quanto fosse in realtà. Il volto era più che espressivo, le labbra intarsiate di rame, gli occhi di pasta vitrea, i capelli finemente cesellati, le ciglia marcate con una lamina di bronzo più chiara. Sembrava un re salito sul suo cocchio per compiere una missione. Mi osservava con il suo sguardo dignitoso e la forza di un Dio greco che ti scava dentro senza ferirti e ti rende meno vulnerabile.
Dopo l’intervista avevo perso i sensi, mi ha riferito il direttore Mario Felicioni mentre mi offriva dell’acqua. Entrambi provati, per ritrovare l’atmosfera quotidiana ci siamo seduti in una taverna, per bere del vino resinato, secondo millenarie usanze ancora vive nella Grecia moderna.
Qualche giorno dopo il mio ritorno a Roma, negli studi della Rete Destino si è presentato un tizio nerboruto, simile a quei marcantoni che vestiti da gladiatori rinverdiscono le memorie dell’Impero. Capitano ogni tanto visitatori esagitati, che non riescono a controllarsi. Noi, in questi casi, usiamo sempre una buona dose di prudenza e comprensione. Cerchiamo di accontentarli il più possibile e di calmare i bollenti spiriti. Con tutti preferiamo il dialogo allo scontro frontale, vogliamo distinguerci per l’alone di tolleranza e apertura ideologica che contraddistingue la nostra Rete televisiva.
«Signore, buongiorno. Se abbassa la voce, bene. L’ascolto. Altrimenti faccio intervenire la forza pubblica. Dove mai crede di essere? Sta gridando come uno scaricatore di porto. Sono qui, a sua completa disposizione». Alla muscolatura gagliarda dello sconosciuto ho contrapposto la calma e la dissuasione.
L’uomo per fortuna si è subito tranquillizzato. Si esprimeva in dialetto romanesco, ereditato dalle poesie del Belli, ma preferisco riferire le sue parole in lingua italiana, lasciando qua e là qualche espressione colorita.
«Hai ragione. Me devi da scusà! Sono ignorante, un poco monnezzaro. Tu sei uomo di cultura. Non mi dire che pensi d’avere intervistato il Carro! Ci hai fatto vedere in televisione il Museo, l’auriga!».
«Non pensa, egregio signore, che il divo Hermes possa rappresentare degnamente l’Arcano Numero 7: il Carro?».
«No! Saranno pure parenti. Ma non è il Carro: ci metto la mano sur foco!».
«Sarà pure come dice lei, signore; ma voi cosa c’entrate con lui?».
«E mei cojoni! Fa il principe! Anzi lo sarà puro; ma so’ cent’anni, secola e secolorum, che rimastica sempre la stessa zuppa. Num je devi da’ retta! Ogni volta che torna qua, riannacqua er vino. Un poco me fa pena; e un poco me fa incazzà puro».
«Il messaggero degli Dei: Hermes… pensa sia un impostore?».
«Peccarità. Non lo penso e non l’ho detto».
«E allora che cacchio volete?».
«Ma lo sapete chi so’ io?».
«Un maleducato impertinente».
«None. So’er vero Arcano der Carro. Er carrettiere de la canzone romanesca della povera Gabriella. So’ quello che mbriaca le ciumachelle sul lungotevere. Na vorta le portavo in carrozzella a pomicià. È a me che devi intervistà, scemo! Ti sei sbagliato!».
«Ma tu sei un folle esibizionista!!! Pensi che ti creda?».
«Me devi da crede; sennò faccio un macello! Ho diritto, pretendo l’intervista, porca quella zozza ladra monnezzara de tu sorella!».
«Modera i toni, buzzurro!».
«So’ l’Arcano der Carro. Ne voi la prova?! O me fai arrestà, prima de vede e toccà con mano, coll’occhi tua?».
«Dammi la prova».
«Prendi in mano sto mazzo di Tarocchi... Prendilo: ci hai paura, ci hai?... Mischia e rimischia... Poi pija na carta... Vedi, è uscito er Carro!... Arimischia... Aripijo... Vedi: esce sempre er Carro! Lo voi fà dieci volte? Venti?... Trenta volte?... Riacchiappo sempre er Carro: cioè me medesimo... Col tempo me so’ invorgarito... in questa babele de città, dietro alle cartomanti, alle baldracche, alle ragazze da marito... Annunciavo vittoria, fortuna. Dove c’era zizzania, na buccia de banana, na puncicata ar cattivo, na spintarella a fiume... Ecco: er Carro so’ io! Cocchio? Ma quale cazzo de cocchio. So’ er Carro, quello genuino. Trasporto umanità, un po’ monnezza, un po’ truffa, derelitta, sognatrice, cantatrice... Er carro so io!!!... Dillo, raccontalo, che t’è venuto a trovà un matto che t’ha dimostrato d’esse er vero Carro dei Tarocchi; ma che non gli hai creduto e lo hai preso a carci ner culo!».
«Signor Arcano, per rispetto alla mia etica professionale, racconterò anche questa seconda parte della mia intervista. Ho registrato tutto dal momento della sua irruzione nel mio studio. Sarà contento, adesso!».
«So’ contento solo a metà. Come?! Li intervisti tutti e a me, me lasci fora?».
«Domani avrai il tuo spazio. Un addendum e via, tutto risolto».
«E le domande vere: quelle che contano non me le fai?».
«Beh certo; se vuoi altre domande, te le faccio».
«Le voglio toste. Anche de concetto».
«Cambi spesso mezzo di locomozione?».
«Certo: carrettini de frutta, carrozzelle per turisti, carretti cor somaro per ramazzare le cantine, carrette de vino, de carbone, pure de cadaveri».
«E la gente...?».
«Ne ho visto passà tanta. Rassegnati un po’ tutti. Je manca il coraggio di dire di no. Alla fine dicono sempre de sì. Magari in punto de morte, se fanno fregà sempre dar prete».
«E quali sono i tuoi rapporti con Hermes: il messaggero?».
«Hermes, io lo rispetto. M’incazzo, quando si fa passare per me. Quando ce s’incrocia lo saluto sempre per primo, pe’ rispetto. È più vecchio de me, così impara l’educazione».
«E a quelli che incontri su un tavolo dei Tarocchi, cosa dici?».
«A tanti dico: non lo fà, che te fa male. Niente; lo fanno lo stesso. A Gabriella ho detto: continua a cantà, che ce fai contenti. Niente; l’ha fatto lo stesso. Ho ispirato qualche stornello e pure canzoncine».
«Come ti giudichi?».
«Non ci ho meriti e neppure demeriti. Se nun ce fossi, non farebbe na grinza. Se n’erano già accorti gli Dei, che i messaggi erano inutili. Che li scrivi a fà. Nessuno li vuole leggere e nessuno li vuole capire. Alla fine, andiamo tutti a nanna senza sapé un cazzo. Te saluto, professo’. Adesso lo poi gridare a voce alta, che hai intervistato pure il Carro!».
Con questo tipo venuto a reclamare l’identità dell’Arcano del Carro, alla fine ci siamo stretti la mano; e io, tanto per non perdere il vizio di farmi pubblicità, gli ho voluto regalare una copia del mio poemetto con una breve dedica.
Intervista all’Imperatrice
3 aprile 2021
Premetto che l’Imperatrice dei Tarocchi, se vista da una prospettiva tradizionalista, personifica la femminilità, la maternità, la fedeltà coniugale, la fertilità, il focolare domestico, gli affetti e i legami tra consanguinei; io la considero piuttosto una donna che va rispettata e studiata nel contesto generale delle carte e della situazione.
Dopo aver assolto le formalità burocratiche, il guardasigilli mi ha spiegato che Lei è difficilmente avvicinabile: sia per l’ottusa gelosia dell’Imperatore, che vede ovunque rivali, sia perché non è abituata a dare confidenza ai comuni mortali, a meno che non si siano distinti per meriti particolari nel campo artistico, o nella ricerca, o nel pensiero. Allora ho fatto osservare al Cavaliere di Spade che poteva donare all’Imperatrice una copia del mio poemetto con il quale ho cercato di ricostruire la nascita delle carte della divinazione. Ne porto sempre un esemplare con me, ovunque io vada, nella speranza che, nel corso di una situazione imprevista, esso possa servirmi a fare conoscere la ricostruzione storica dei Trionfi. Il guardasigilli ha preso in mano il piccolo volume e l’ha sfogliato un poco. Poi, sorridendo, mi ha promesso che forse avrei potuto meritare, se fosse stato di gradimento dell’Imperatrice, il suo plauso e la sua attenzione.
Approfitto di questo frangente per fare conoscere ai miei ascoltatori la lirica che illustra la genesi e le prerogative dell’Imperatrice. Leggo alcuni versi.
«O Regina del Cielo,
irrorata dall’albume cosmico:
sottile energia discesa dalle Stelle,
filtrata e assorbita dal mare
che la dispensa abbondante;
ci inginocchiamo
di fronte al tuo concepimento miracoloso.
O feconda Madre,
noi, tuoi devoti discepoli,
per le vie del mondo
andremo ad annunciare
l’avvento dell’Imperatrice.
In una notte stellata
ci hai palesato il volto oscuro
del demone nascosto in noi.
Ci siamo purificati
alla luce dei tuoi occhi.
Insieme al figlio delle Stelle,
noi, Catari* trasfigurati,
ripristineremo l’originario equilibrio,
spalancheremo le porte del Paradiso,
e racconteremo la tua diletta nudità corporale
immune dall’avvilimento della vecchiaia.
Noi, figli devoti degli Dei,
siamo come foglie mosse dal vento,
e siamo il vento che spira
dai chiostri del tempo.
Noi vati del Nuovo Mondo,
pietosi figli dei Catari *,
sparsi per la terra,
alla ricerca di un paese innocente».
Il guardasigilli mi ha informato, tre giorni dopo, che potevamo farci vivi appena possibile, perché l’Imperatrice aveva acconsentito a concedere un’intervista: la prima in assoluto, nella sua carriera.
Questa volta non ho potuto fare a meno di portare con me il direttore della televisione privata Rete Destino, che stava dando ampia risonanza alle mie precedenti interviste. Mario Felicioni sembrava già un beato che aveva toccato materialmente l’agognato paradiso; è stato meno gioviale quando il Cavaliere di Spade gli ha rammentato che era presente solo in veste di osservatore e che non avrebbe potuto fare domande.
Ci ha accompagnato il mediatore in persona, dopo aver predisposto l’incontro in una località segreta per tutelare la privacy dell’Imperatrice, che non poteva riceverci nella sua dimora abituale. «L’Imperatore pretende di decidere sulle persone che possono essere ammesse all’interno del palazzo. È affetto dalla psicosi del complotto. Io posso andare e venire liberamente, ma non concederebbe mai d’ospitare quest’intervista, anche perché è molto geloso. Anzi dichiarerete pubblicamente che l’incontro con l’Imperatrice è avvenuto attorno ad un mazzo di Tarocchi, durante la lettura delle carte, nello studio di una famosa cartomante di cui volete mantenere l’anonimato».
L’Imperatrice stava giocando con delle piccole pietre colorate sulla sabbia e si divertiva a comporre vari disegni geometrici. Subito ci ha sorriso e messo a nostro agio.
«Professore, grazie per il tuo poemetto. L’ho letto volentieri. Altri scrittori più noti non hanno avuto l’ardire e la fantasia di venire a trovarmi. Quindi ti accolgo a braccia aperte, per essere il primo ad avere immaginato un simile incontro e averlo reso fattibile».
«Mi lusingano queste parole di elogio…».
«Toglimi una curiosità. Dove hai visto quell’aureo monile di foggia strana: un triangolo rovesciato e incastonato di gemme azzurro mare, sorretto da fili intrecciati e modulati sui colori dell’iride?».
«Non so proprio. Credo d’averlo immaginato, o forse sognato. Perché?».
«Ne ho uno proprio eguale: un dono dell’Appeso. Nessuno l’ha mai visto prima d’ora…».
«A volte, Imperatrice, accadono, quando si è in sintonia, strani fenomeni telepatici. Poi vi sono oscure ma costanti circolazioni delle idee».
«Sono d’accordo con il mio ex-innamorato. Non sei qua ad intervistarci solo per vanagloria, o presentare i tuoi libri. V’è un motivo più profondo che ti ha spinto sin qui. A proposito… l’Appeso mi ha detto di salutarti. Ed ora comincia pure la tua intervista».
«“Donna, mistero senza fine bello”. Una pennellata di Guido Gozzano, poeta crepuscolare strappato alla vita nel fiore degli anni da una tubercolosi. Forse se gli Dei fossero stati più misericordiosi, ci avrebbe sommerso d’altre illuminazioni. Sapeva di dover morire e concentrò i suoi sforzi per raccontarsi nelle parole scritte col lapis, dando eco alle piccole cose di pessimo gusto».
«E tu, professore, sapresti rappresentarmi con un solo verso?».
«Strimpellando, forse scempiando versi d’altri, direi “donna, dolce desio donato”. Non pretendo d’essere originale».
«E allora come nasce quest’idea d’intervistare i Tarocchi?».
«Mi sto accingendo ad eternarli in un ciclo…».
«… scusa se t’interrompo. Siamo già eterni nella mente delle persone che ci interrogano sulle future sorti. Ci vuoi conferire, diciamo, una certa dignità letteraria».
«Appunto; durante una cena conviviale con alcuni amici, parlando della mia passione per i Tarocchi, mi è venuta l’idea di farli conoscere al pubblico attraverso una serie d’interviste».
«E t’aspetti che faccia rivelazioni, magari citando aforismi?».
«Non m’aspetto nulla! Talora insieme riusciamo a costruire momenti piacevoli che durano lo spazio di una giornata. Vediamo di abbozzare una mezza intervista.».
«Allora rischia: fammi una domanda intrigante!».
«Oso, Imperatrice, mi avete solleticato. Sono curioso. L’Appeso ci ha svelato un antico retroscena, quando da Bibliotecario del Regno vi portava dei libri che erano il vostro diletto quotidiano. Diceva il vero?».
«Per un tempo fui la sua amante, con fierezza. Travolti dalla passione, ci siamo amati. Poi il Bibliotecario è stato punito duramente, malgrado fossi stata io a stuzzicarlo. Non mi ebbe, né con la parola astuta, né con le promesse fraudolente. Né ci fu mai complotto contro l’Imperatore, come si era anche vociferato. E neppure capisco perché non fui ripudiata, e mio marito non prese un’altra Donzella più attraente e più giovane. Disse che non voleva macchiare il proprio orgoglio di sovrano e far sapere ai Fanti, ai Cavalieri, alle Dame del Reame delle nostre miserie. Restai Imperatrice per salvare le apparenze. Questa è la verità».
«E l’Imperatore, quando saprà di questa vostra esternazione pubblica, come reagirà?».
«Non m’interessa. Sono passati tanti anni! Eravamo alle soglie del primo grande giubileo della Chiesa. Fu Papa Bonifacio VIII ad inventarlo, per vendere le indulgenze. Aveva bisogno di soldi. Era l’anno del Signore 1300. Un suo emissario si presentò al mio cospetto per vendermi un’indulgenza speciale, visto che il fatto poi si era risaputo...».
«Mi permetto di suggerire all’Imperatrice di ponderare su quanto dichiarato. Potrebbe avere un’eco inaspettata e incontrollabile. Meglio essere prudenti, giudiziosi».
«E invece no, professore. È questa l’occasione giusta per rivendicare alla donna il diritto d’amare, soprattutto quando viene trascurata. Siamo o non siamo nel XXI secolo?».
«Non posso darvi torto. Se volete rendere pubblici certi fatti personali, è un diritto che non posso censurare. Sono qui per cercare notizie. Non sarò certo io ad affossarle. Del resto è passato così tanto tempo e anche la mentalità della gente si è evoluta. Dimostrate di possedere coraggio e temperamento, questo vi fa onore».
«Avete dunque scavato tra i pettegolezzi e avete fatto bene, sono quelli che il pubblico predilige. L’intrattenimento è terapeutico».
«Deferente m’inchino, come un cavaliere medioevale. Donna, Imperatrice, ti sto implorando di ridarci l’amore che forse tu conosci e tieni custodito nel tuo scrigno. Ecco perché sono in ginocchio. Oggi, con coraggio, hai rinverdito il bacio galeotto del tuo amante. Tu sei ancora in quel paradiso primordiale d’affetti che non ci appartiene più. Discendi ed illumina i nostri cuori, o madre celeste, o dea. Ispira il nostro sorriso. Alimenta la nostra passione. Tu che sei il simbolo dell’eterno femminino. Forse tu sai cose che sono celate alla nostra vista. Svelale! Discendi super nos, come uno spirito. Ti chiedo un miracolo. Sogno un’osmosi mistica che i poeti sapranno narrare. Fammi sentire un poco della tua voce di donna, di madre, di dea!».
L’Imperatrice si è messa a declamare lettere piene d’amore.
«“Benedetto sia ‘l giorno e ‘l mese e l'anno e la stagione e ‘l tempo e l’ora e ‘l punto e ‘l bel paese e ‘l loco ov’io fui giunta da’ duo begli occhi che legato m’ànno; e benedetto il primo dolce affanno ch’i’ebbe ad essere con amor congiunta, e l’arco e le saette ond’io fui punta, e le piaghe ch’infin al cor mi vanno”».
Citando Petrarca, beatificato e rinverdito nei versi, l’Imperatrice voleva ripercorrere il suo antico amore; poi è rimasta in silenzio, ad osservare il direttore venuto insieme a me, per intervistarla. Ed io, qui, rispettosamente mi taccio, insieme a lei.
(A questo punto facciamo intervenire l’autorevole sito dell’Accademia della Crusca, che, interpellato, così s’esprime: “in conclusione, le forme taccio e mi taccio sono da ritenersi entrambe corrette, ma nell’uso attuale la prima predomina largamente, mentre la seconda sembra un arcaismo, volutamente esibito”.)
L’Imperatrice sembrava stesse sul punto di congedarci.
Mario Felicioni era rimasto tacito, tra l’estasiato e l’esterrefatto, rispettando le volontà espresse da un guardasigilli categorico. Mi sentivo responsabile; preso dal meccanismo dell’intervista, non avevo presentato il mio amico, mancandogli di rispetto.
«Volete farmi una domanda, signore un poco timido, in silenzio tutto questo tempo? Anche se ha preso i suoi bravi appunti, vedo...» ha detto la signora con garbo.
Il direttore sul momento è arrossito, poi ha parlato. «Mi era stata imposta una presenza passiva. Alla creatura eterea, soave, trasparente, mi sono permesso di dedicare una poesia d’amore. Vorrei leggere quello che ho scarabocchiato su questo foglio:
«Titolo. Risonanza d’amorosi sensi.
Le brame che svelerò sono buone,
come il vento di libeccio
che ti attraversa dentro,
quando sei travolto da un innamoramento
improvviso, soverchiante, totale.
E la dedizione alla creatura desiderata
dev’essere custodita, protetta
nello scrigno del cuore;
gridarla ti toglierebbe la forza
di stringerla, per trattenerla sempre accanto.
L’omaggio languido del poeta
è appena una mezza strofa inadeguata
quando il vento della passione ti sferza,
perché mai potrai raccontare,
con approssimati versi,
l’emozione che ti trascina e travolge.
E l’incontro inatteso ti appartiene
e non vorresti condividerlo con altri.
Ci sono languori che diventano romanzi,
altri si snodano in pochi versi.
Viverli è il dono concesso
da vibrazioni d’amorosi sensi,
incarnati negli occhi di risacca
nelle carezze intrecciate,
nei gemiti e nei palpiti sublimati
e protesi alle sfere da dove siamo venuti.
L’erotico incantamento dura un attimo,
rapido dilegua e sfugge,
anche se lo insegui nei versi
che lo rendono eterno.
La stella-guida osserva e si specchia
nel nostro amore condiviso
e ricondotto alle origini del faticoso cammino.
E in questa celeste osmosi
si compie il ciclo cosmico…».
L’Imperatrice ha sorriso ed è svanita lentamente...
Spuntato dal nulla, accanto a Mario Felicioni, ho intravisto un Cupido che mi faceva segno di tacere. La sua faretra era ancora piena. Non era venuto per scagliare dardi. Forse proprio lui aveva ispirato quei versi d’amore al Direttore che, senza saperlo, li aveva fatti suoi.
* Catari: eretici scomunicati, contro cui il papa Innocenzo III indisse nel 1208 la crociata che portò al saccheggio e alla distruzione della città di Béziers per aver dato asilo ai perseguitati.
Intervista all'Eremita
9 maggio 2021
«Oggi, amico Eremita, sarei volentieri tornato indietro».
«E perché mai avresti voluto rinunciare all’intervista, professore?».
«Sono secoli che ci interroghiamo, ma nessuno è mai arrivato ad una soluzione logica, definitiva, inconfutabile. Noi due, oggi, potremmo replicare i medesimi dubbi, gli interrogativi di sempre. E riscoprire la nostra millenaria impotenza».
«Condivido talora il tuo pessimismo, professore».
«E allora perché continui nell’eterna peregrinazione ed esplori il mondo, appena confortato dalla luce della preziosa lanterna?».
«Per il piacere d’osare un’avventura impossibile, professore».
«E non sei mai esausto e disperato, Eremita?».
«Già lo sono stato – e lo sarò ancora – tuttavia non smetterò mai d’osare».
«Perché tanta tenace ostinazione?».
«Non certo per dare soddisfazione all’Artefice dei Tarocchi, che mi ha ritagliato questo ruolo scomodo; piuttosto per dare un senso alla mia condanna esistenziale».
«Smetti una buona volta, e gioca un poco, Eremita!».
«Ogni tanto, quando desidero rilassarmi, vado a incontrare il Mago. Lui sì che ne conosce di giochi di carte! E se avessi dalla mia un poco di sorte, smetterebbe di prendermi in giro, perché perdo quasi sempre».
«Non ti stanchi di percorrere inutilmente gli stessi sentieri e di tornare sui tuoi passi, Eremita?».
«Se abdicassi dalle mie funzioni, toglierei per sempre un punto di riferimento, una guida maestra. Rimarrebbero solo polli allevati in batteria. Sparirebbe l’ultimo ruspante libero di qualità».
«Quando sei sotto scacco, come reagisci?».
«Quando sono sotto scacco, ascolto musica per trovare l’energia di salvare il mio Re».
«Ora capisco perché oggi mi hai voluto ricevere nell’Antro della Musica. Perimene, il factotum della Dimora, ha tanto insistito perché attendessi qui la tua venuta».
«Certo professore, volevo che ascoltassi qualche nota musicale, tra le più pregevoli mai scritte, raccolte da Perimene e protette in questo Antro, ideato, progettato e realizzato per ospitare momenti di evasione. Qui mi rilasso e trovo la forza interiore per andare avanti nella ricerca esistenziale».
«Anch’io Eremita condivido la passione musicale. Per me è stata una forma d’iniziazione alla riflessione. Da ragazzo scrivevo versi ispirati a brani musicali. Se le parole degli uomini sono fredde, la musica magicamente spalanca la porta dell’emozione. A scuola, tutti avremmo dovuto studiare storia della musica, apprendere la grammatica musicale e ascoltare i brani eccelsi di Bach, Vivaldi, Mozart, Beethoven. Saremmo stati sensibilizzati e resi più consapevoli».
«Certo, professore! Il linguaggio musicale è universale; non conosce barriere, spalanca orizzonti, coniuga l’essenza della libertà originaria, racconta dell’uomo primordiale… Questo tipo d’educazione sarebbe stato in linea con quanto auspicato dal filosofo Rousseau nella sua opera pedagogica l’Emilio, ma il potere costituito e il potere occulto hanno voluto formare non uomini, bensì automi ignoranti».
«Siamo circondati da masse manipolate all’inverosimile. E gli sparuti, impauriti filosofi perdono sempre una partita truccata contro forze organizzate e armate. Pensa a quando il povero Torquato Tasso voleva bruciare la sua Gerusalemme Liberata per un senso di colpa indotto dalla macchina repressiva dell’Inquisizione…».
«Anche se tormentato, il Tasso riuscì a salvare la sua opera d’arte. Nulla c’impedisce di continuare, professore. Alla fine troveremo la sequenza delle mosse vincenti».
«Eremita, sembra quasi che qualcuno, volutamente, ci abbia estromessi dal Paradiso della conoscenza. E ci abbia condannato a ignorare le nostre origini».
«Sono d’accordo… Eppure avremmo tutti gli strumenti logici per capire. Tuttavia non ne veniamo a capo!».
«Miliardi di persone credono in un solo Dio, Eremita».
«Coltivano un’illusione, una speranza. Pregano».
«Alcuni eletti, Eremita, dicono e scrivono d’avere udito la parola di Dio».
«Raccontano della voce della loro coscienza, professore».
«Ne sei sicuro? Come fai a dirlo?».
«Anch’io, un giorno, ho udito una voce ambigua di un sedicente Dio, professore. Ho risposto con le armi dello scetticismo e mi sono espresso con grande rispetto. Considerato che aveva scelto me per manifestarsi, ultimo tra i meno meritevoli, gli ho suggerito di coinvolgere altre persone ben più degne di me. Così, dai vari angoli della terra, avremmo potuto testimoniare d’avere ascoltato, insieme e nello stesso momento, la parola del Dio ineffabile».
«Lo avrai certo irritato con tale provocazione».
«Con un lampo quasi accecante mi ha maledetto e marchiato il mantello con la M del miscredente e poi si é dileguato».
«Voci, presunte voci udite dai Profeti, hanno segnato, nel bene e nel male, la storia dell’umanità. A pensarci bene viene quasi da ridere. O meglio dovremmo piangerci su. Tu cosa dici Eremita? Indicaci la via che possiamo percorrere».
«L’unica possibile: quella indicata dalla logica, professore. Analizzare l’evento primordiale: la cacciata dall’Eden per un peccato commesso contro gli Artefici del progetto Mondo».
«Artefici?!».
«Non si progetta un Mondo complesso come questo, se sei immerso in un’infinita onnipotente solitudine. Da solo, al massimo, scrivi un poemetto come hai fatto te. Anche un semplice film ha bisogno di svariati contributi e punti di vista: sceneggiatori, costumisti, orchestranti, comparse, attori di primo piano. Dio, al massimo, avrebbe potuto fare il regista».
«Le tue parole cadono a proposito Eremita. Pur se conosco il detto latino carmina non dant panem, tuttavia sono fiero del mio poemetto. Vorrei fartene dono, con tanto di dedica. Lo faccio con tutti gli Arcani Maggiori, per farmi una sfacciata pubblicità. Frequentando i vari tavoli della cartomanzia potrete suggerire, se lo vorrete, la lettura dei miei libri».
«Ancora vai correndo dietro alle tue avventure letterarie? Sai bene che i meccanismi editoriali sono alquanto oscuri. Bisogna far parte dell’élite privilegiata che orienta i destini del Mondo. Essere forse iscritti a qualche loggia massonica. Aver compiuto gesta eclatanti, partorito mostri. Non erano forse incendiari i tuoi antenati futuristi? Pensi forse di potere aspirare alla notorietà con le tue buone novelle?».
«Anche a me piace osare; senza fine».
«Orsù, fammi ascoltare un frammento dei sudati versi».
«In una notte costellata di stelle,
alleggeriti dal fardello
dei nostri quotidiani tormenti,
rinvigoriti dai tenui bagliori,
irradiati dalle miche adagiate
e abbandonate nel fondo dei torrenti
dai cercatori d’oro,
con mente lieta accompagniamo, o fratelli,
l’Eremita nella captazione
della fievole luce, emanata
dalle infinitesime pagliuzze
sparse dal vento.
Tante vaghe,
fuggevoli luminescenze,
fanno entrare in risonanza
lo spartito dell’armonia
creata dai Numeri.
E il disegno melodico originario,
in ombra,
risplende».
«Noi, professore, abbiamo in comune le illusioni alimentate dai sogni; distilliamo gli enigmi della vita in alchemiche ampolle di vetro; costruiamo mura ciclopiche con l’essenza dei Numeri; andiamo a braccetto in una perenne peregrinazione e distilliamo gocce di solitudine nell’alambicco della nostra coscienza».
«Tu, con la tua lanterna, vai investigando e trovi anche il tempo d’intrattenerti con i viandanti che incontri. E a tutti, indistintamente, leggi il tuo aforisma, che vorrei ci trasmettessi e spiegassi. So bene che, se io fossi sapiente, non avrei bisogno delle tue chiose; ma ora puoi colloquiare idealmente con diversi ascoltatori. Illuminaci con la tua saggezza, Eremita».
«Non v’è un unico percorso. La mia è solamente una scheggia di luce. Il resto deve farlo ciascuna persona, con la propria coscienza, mettendo anche in discussione le mie parole. Chi può dire, ora, di possedere la verità? Credo nessuno. Essa si nasconde. Si camuffa. Si replica. Compare e riaffiora. Possiamo solo inseguirla. Ghermirla e poi di nuovo sfiorarla e apprendere. Giorno dopo giorno, fino alla fine dei tempi. E questo a causa del nostro peccato originario, per avere corrotto quella natura che ci era stata data. Siamo usciti da un Paradiso e abbiamo perso la comunione con tutte le creature. E le malattie, l’invecchiamento sono il nostro fardello per avere peccato».
«Vorrei osservare, dotto Eremita, che, secondo il Profeta Maometto, l’uomo commise sì il peccato originale, ma fu perdonato dall’infinita Misericordia di Allah. Mi sembra che la questione del peccato originale non possa essere sorvolata, o trascurata».
«Professore alla luce delle Scritture la funzione del Cristo era quella di redimere l’uomo dal peccato originale. Se invece, come afferma Maometto, Allah, il Misericordioso, ha già cancellato la macchia primordiale, la venuta del Messia sarebbe in discussione e il suo percorso sarebbe riconducibile a una pagina di buoni propositi. L’intenzione del Profeta era appunto proprio questa».
«Concordo con la tua interpretazione, Eremita. Paese che vai, religione che trovi. Questa difformità sostanziale di giudizio sul peccato originale da parte delle due grandi religioni monoteiste, il cristianesimo e l’islam, mi lascia abbastanza interdetto. Possono mai due Libri sacri, ispirati da Dio, trovarsi su posizioni così contrastanti tra loro su una questione sostanziale e non marginale, perché attinge la natura stessa del male?».
«Aggiungo, professore, che le tesi del Corano divergono dal Vecchio Testamento anche quando affronta le circostanze che hanno determinato la genesi del Maligno. Allah, il Dio ineffabile che si manifesta e si completa nella natura umana, infatti esige che tutti gli angeli prestino omaggio ad Adamo, tuttavia un angelo si ribella alle sue volontà e diventerà quel Satana che tenta di sviare l’uomo dalla retta via, orientandolo verso il male».
«Io osservo, Eremita, che la voce dell’Artefice impressa nei Libri Sacri rimane lettera morta, soprattutto per i potenti della Terra che usano la religione come strumento di potere. Milioni di fedeli in ginocchio testimoniano la loro fede e soffrono in silenzio. Satana sventola la bandiera del male».
«Professore, ascolta questa citazione, pescata dalla professione della fede islamica. ‘Io ero un tesoro nascosto e volevo essere conosciuto. Ho creato le creature per essere conosciuto. Ed è dunque abbandonandosi con fiducia a Dio che il musulmano guadagna la guida del suo Signore. Io sono, secondo l’idea che il Mio servo ha di Me, e Io sono con lui quando Mi menziona; e se Mi menziona in cuor suo, lo menziono in cuor Mio. E se Mi menziona in pubblico, lo menziono in un pubblico migliore di quello; e se si avvicina a Me di un palmo, Mi avvicino a lui di un cubito; e se si avvicina a Me di un cubito, Mi avvicino a lui di un braccio; e se viene da Me camminando, vado da lui correndo’».
«M’inginocchio di fronte ai beati che credono, Eremita. Comunque sia la chiave della storia dell’umanità sta proprio nell’individuare la natura del peccato originario. Non fu un atto di ribellione verso Dio, bensì un atto di presunzione: mettersi al vertice del creato e autoproclamarsi la creatura prediletta da Dio. Il monoteismo, e ogni mito che spiega la genesi del Diavolo, sono impalcature che giustificano il male e lo rimandano ad un’entità potente e malvagia. L’uomo in tal modo si assolve dal peccato originario, lo maschera. E le tue parole dimostrano che siamo in sintonia. Siamo usciti da un Paradiso e abbiamo perso la comunione con tutte le creature. E le malattie, l’invecchiamento sono il nostro fardello per avere peccato».
«Fa piacere, professore, incontrare rari compagni di viaggio, attraversando questo deserto di violenza e di sopraffazione, di fanatismo e ignoranza».
«Ma adesso vorrei tornare al tuo aforisma. È dunque divenuto obsoleto?».
«Affatto, è sempre attuale!».
«E allora, perché non lo ripeti ai nostri amici? Non vorrei essere io a citarti. Sarei inopportuno e potrei non trovare l’intonazione giusta per cotante parole. Esse perderebbero spessore… non vorrei inaridirle. Dicci il tuo aforisma, se pensi che questa sia la sede più opportuna per divulgarlo; perché finalmente tutto il mondo sappia, illuminato dalla tua viva voce».
«Per ascoltare l’aforisma nelle migliori condizioni possibili ci vorrebbe la luce della mia lanterna, a illuminare la via e le coscienze degli ascoltatori. Potremmo ora registrare la mia voce, ma non avremmo il conforto prezioso della facella e perciò, anche se leggessi il mio aforisma, sarebbero parole vane. E pensi forse, amico, che basti un aforisma per cambiare il mondo? Vedo che sei un poco ingenuo».
«Io penso Eremita che oggi manchino le antiche vibrazioni, che non vi siano più corrispondenze d’amorosi sensi; bensì voluttà di possedere, conquistare, primeggiare. Tu sei un’eccezione, sei contro la regola dell’uniformità, dell’omologazione».
«Questa intervista l’ho accettata proprio perché turba le regole…».
«La scrittura fa miracoli, Eremita. La tua lanterna illumina i sentieri, la coscienza delle persone, ti protegge dalle insidie, ti avverte del pericolo. In quale occasione ti è stata più utile? Quando non avresti potuto fare a meno di lei?».
«Errori ne commetto anch’io. Questa miracolosa lanterna a forma di tetraedro, frutto della mia ricerca sulla cabala e sulle note cosmiche, possiede l’essenza del tutto. Sprigiona ioni di luce. Ci riporta alle stelle, alle origini, dove tutti dovremmo attingere. Un giorno cadde. Non so, forse misi un piede in fallo… o un oscuro trabocchetto. E si ruppe. E io piansi tanto. Poi la rividi e mi accorsi che avevo sognato e seppi che non ero ancora maturo per farne a meno. Ecco, quel giorno capii che eravamo inseparabili. La nostra osmosi mistica e magica ci alimenta e ci rende un’unica entità. Senza questa lanterna, non sono. È il mio specchio, la mia mente. La mia parte migliore. Ed io, limitato, con lei rinvigorisco e cresco e parto, esploro, ripercorro, rivedo. Col passare del tempo, penso saremo una sola cosa e allora avrò finito d’andare, di percorrere vie, sentieri, passi, attraversare fiumi, ascendere torrioni, discendere scale infinite e risalirle».
«Non so Eremita, ad ascoltare certe considerazioni, ci si sente tanto finiti. Tu ancora sei in grado di meravigliarci, di commuoverci».
«Importante è sentirsi in sintonia, professore. Allora tutto è possibile».
«Questa tua dimora, sprofondata nel cuore della terra, ha una sua logica intrinseca. Mi viene in mente, così per affinità e contrasto, quel laboratorio scientifico che nelle profondità del Gran Sasso cerca di catturare la più piccola delle particelle: il neutrino».
«Qui siamo volutamente dentro la Madre Terra. Al riparo da luci, rumori. In un’atmosfera settica, ideale per pensare. Esiste una comunità in Italia che ha voluto erigere nelle viscere della terra uno dei più grandi templi, proprio per captare quell’energia sotterranea che vibra anche dentro di noi. La conosci, professore?».
«Ne ho sentito parlare. Ho anche visitato il suo sito, ammirando quel prodigio a cui ti riferisci. Vorrei anch’io segnalarne l’esistenza. Non tutti ne parlano. Eppure è straordinaria. Si tratta di una piccola comunità, quasi del tutto sconosciuta al grande pubblico. Sembra sia riuscita a mantenere una sua aura di verginità. Lungi dall’invadenza della stampa, della televisione. A due passi da Torino: uno dei grandi poli dell’occultismo, insieme a Lione».
«Vogliamo nominarla esplicitamente, professore? O la ovattiamo anche noi nel silenzio?».
«Per conoscerla bene, bisogna andare a visitare il sito damanhur.org Dai suoi abitanti è stata definita una comunità etico-spirituale. Non hanno bisogno della nostra pubblicità e neppure l’hanno cercata. Li citiamo in questa sede come una meta di riflessione esistenziale».
A questo punto l’Eremita mi è venuto incontro e ci siamo abbracciati, mentre le note di Mozart accompagnavano il nostro commiato. Perimene, nella sua funzione di Maggiordomo, è venuto ad aprire le numerose porte che mi separavano dall’uscita. Ogni porta ha un nome, credo simbolico. Prossimi al portone, ho avuto il coraggio di corrompere con altre parole quell’atmosfera magica, un poco celestiale e soporifera, che l’Eremita aveva saputo creare attorno a sé. Ho chiesto timidamente: «Posso intervistare anche te, Perimene? Nella tua stanza… qui sulla porta mi sembra di offenderti».
«Tutta questa dimora è la mia stanza. Vivo ovunque, non ho un mio alloggiamento».
«All’Eremita chiedi mai quale sia la verità, in questo grande guazzabuglio che è il mondo?».
«Certo; anch’io non smetto mai di fargli domande».
«E lui risponde?».
«Sempre; tuttavia sempre per approssimazione. E ho capito che potrei domandare per un tempo infinito, senza approdare a nulla di concreto. Dice d’essere come quel responso degli Dei che appare sul frontone del tempio di Apollo, a Delfi. Conosci te stesso.
Credo che tutti possediamo la risposta. Non ammettiamo di sapere. Ecco tutto, signore. Perché non è possibile che tutto sia tanto aggrovigliato, come si pensa. Credo che la verità possa essere alla nostra portata. Non è un teorema complicato. Sì, è vero: il mondo è matematica, divina armonia delle sfere. Tuttavia il demiurgo non è unico. Non è ineffabile. Noi siamo il progetto. E il progetto è logico, commensurabile, comprensibile. Credo che tutti sappiano e tutti abbiano voluto dimenticare. Aveva ragione Socrate, quando diceva che conoscere è ricordare!».
E poi ha aperto il portone, cigolante e vecchio, con rispetto, placidamente, quasi non volesse mandarmi via affatto. Era come se avesse spalancato la porta del Tempio della conoscenza anche per chi mi avrebbe seguito. Mi ha sorriso e ho sentito un abbraccio, forte e soave, insieme.
Dietro Perimene ho visto comparire anche l’Eremita, come fossimo stati lì, insieme, nello spazio della nostra breve chiacchierata. E ho scorto pure le sembianze di taluni uomini del passato, giunti chissà come in quei cunicoli carsici, umidi e oscuri. I loro volti placidi stavano lì, forse da sempre, in attesa di altri visitatori. Ho rivisto i miei avi, i miei consanguinei: mio padre e mia madre, tutti convenuti nella medesima dimensione. In fila, in un breve arco di tempo… Forse partoriti in frammento. Tutti prossimi, coevi. Insieme, nella luce della piccola lanterna dell’Eremita.
Intervista alla Forza
11 maggio 2021
«Professore, questo è il tuo nullaosta… ma ti servirà ben poco nel Reame dei Tarocchi. La Forza non si fa vedere in giro dal periodo della Grande Scommessa, quando non è riuscita a domare un leone di pietra».
«Avresti potuto dirmelo prima, Gran Ciambellano della Giustizia!».
«Comunque, hai fatto bene a seguire la prassi. Perché correre il rischio di farsi censurare l’intervista, dopo, a cose fatte?».
«Dunque non frequenta più il Reame… Mi sembra assai strano; perché scegliere un esilio volontario?».
«Che io sappia, persino i Minori si divertivano ad avvilirla ad ogni passo. Non ce la faceva più a sopportare dileggi e umiliazioni continue. Si è trasferita nella vicina Gea e si fa corteggiare dai cartomanti e dagli ammiratori che sperano di ricevere qualche favore o potere speciale».
Le parole esplicite del guardasigilli, il Cavaliere di Spade, mi hanno dirottato verso la direzione giusta e dunque, per intervistare l’Arcano della Forza, ho contattato telefonicamente una cartomante con fama di medium. Pare avesse il potere d’evocare spiriti di defunti o altra entità in circolazione. Le ho promesso un compenso adeguato; tuttavia, per capire meglio le mie intenzioni, Fatima ha voluto conoscermi personalmente e mi ha voluto fare le carte per vedere se erano favorevoli. Ha apparecchiato solamente una sequenza di sette Arcani Maggiori, disposte entro la stella di Davide intarsiata sul suo tavolo ottagonale.
«Il responso è benigno. Torna il prossimo 11 maggio, una mezz’ora prima delle undici di sera. L’Arcano è schivo, difficile da coinvolgere. Debbo chiamare altre persone per avere il necessario apporto d’energie. Senza la mia mediazione non riusciresti mai a udire la sua voce. Dalla rete televisiva per cui lavori voglio duemila euro. Garantisco: se non avviene il contatto auspicato, restituisco i soldi».
Il direttore Mario Felicioni, puntiglioso, ha sentenziato che non si sarebbe mai piegato a un simile ricatto e che la parcella era esosa. Io, molto più pragmaticamente, ci ho scommesso sopra una parte dei miei risparmi perché poi pretenderò la restituzione della somma, se mi vorranno ancora come collaboratore.
Quella sera, a comporre la catena medianica per la chiamata, v’erano quattro donne che indossavano a prima vista il velo islamico. «Le mie amiche vogliono mantenere un certo anonimato. Debbono chiedere un favore speciale alla Forza. Vediamo se questa pattuglia agguerrita riesce nel suo obiettivo».
Ho salutato le signore sottovoce. Loro non mi hanno neppure guardato in faccia; già erano concentrate e forse non volevano distrarsi.
«Questo è il letterato di cui vi ho parlato. Ha avuto la faccia tosta di domandare un’intervista ai Tarocchi. Ne parla in una televisione privata che è tutta pappa e ciccia con le carte delle divinazione» ha spiegato Fatima. Dopo la presentazione della cartomante, ho ottenuto maggiore considerazione e le donne mi hanno degnato di un cenno.
Sul tavolo già stavano apparecchiati tutti e 22 gli Arcani Maggiori: 21 in cerchio e la sola Forza al centro. Attorno alla corolla di Tarocchi, le cinque donne si erano disposte allargando le braccia a toccandosi con le dita, come avevo già visto fare nelle sedute spiritiche. Sul tavolo erano state accese 11 piccole candele colorate. La cartomante ha formulato una mezza preghiera in una lingua a me sconosciuta.
Eravamo a due passi da una sinagoga ebraica, al centro di Roma; le donne al collo portavano una corona di grani utilizzata per il rosario dagli arabi. Ho avuto la sensazione che le tre grandi religioni monoteistiche della storia si fossero date appuntamento in quella stanza per rendere fattibile un incontro ravvicinato. La seduta doveva iniziare esattamente alle ore 11 di sera e protrarsi in attesa che l’Arcano si manifestasse.
«Se non viene entro undici minuti, tornate tutti a casa. Significa che non ci meritiamo una sua visita». Fatima è stata categorica nelle consegne. «Quando il prof finirà la sua intervista ci lascerà, garantendo alle mie amiche una certa privacy».
Io ho risposto subito che sarei andato via, rispettando la sua volontà. V’erano in ballo i miei soldi, in questa storia. Appena iniziata la chiamata, dopo alcuni minuti, due invitate sono cadute in trance, le altre due si agitavano alquanto e non erano padrone di sé. Solo la cartomante restava lucida. Confesso che ho avuto un fremito di sgomento quando l’ho sentita intonare con una voce diversa (soave, quasi ovattata):
«Non sono mai stata evocata per un’intervista. Ma in fondo, mi sono detta, che male c’è?».
«Porgo i miei rispetti alla Donzella, personificazione della Forza. Dolce e diletta diva, sono emozionato e sto persino tremando un poco. Puoi tu leggermi dentro… Lo sento ora: quasi un soffio etereo mi attraversa la mente e io te la spalanco» ho pronunciato.
«Accondiscendo alla tua intervista un poco pettegola. Mi piace sguazzare in certi guazzabugli del cuore umano. Devi essere insinuante quanto basta. Voglio prendere quest’occasione come un gioco».
«Dolce donzella, mia diletta… dimmi sul “si dice”. Corre voce che non sia riuscita a tenere a bada un leone di pietra e che il prodigio animato ti abbia saputo resistere e ti abbia persino dilaniato le braccia, inutilmente protese a controllare la ferocia della belva. Il Mago aveva scommesso che non avresti saputo domare il leone di pietra e puntualmente ha gabbato tutti gli Arcani che avevano puntato sui tuoi poteri».
«Sapevo che mi avresti fatto questa domanda!».
«E perché mai avrei dovuto risparmiartela?».
«E se ti dicessi che io e il Mago ci eravamo messi d’accordo prima, per fare uno scherzo a quella brigata briccona e becera, che ha perso tutti suoi averi in un sol giorno?».
«Pare che però il Diavolo e il Papa avessero fiutato la frode e non scommisero nulla!».
«E chi lo racconta? Letterati scansafatiche? Scommisero tutti e tutto quello che avevano, per avere tra le mani la bacchetta del Mago, a turno, una settimana per ciascuno, e fino alla fine de tempi!».
«Dunque fu tutto combinato!».
«Certo! Abbiamo preso tutti per i fondelli! E fino ad oggi nessuno lo ha mai saputo».
«Secondo quanto racconta il guardasigilli, però, hai lasciato il Reame dei Tarocchi per tacitare le male lingue che si facevano beffe della tua impotenza».
«Storie! Da allora, quando passa il Mago, si mettono sull’attenti! E a me, in faccia, strizzavano l’occhio, per dire ‘poverina, non è stata colpa tua, quel leone di pietra era un prodigio diabolico’... Ci volevamo quasi più bene, da quel giorno. E poi il Mago rivendicava le sue poste solo per scherzo. Così la brigata ha avuto il suo diversivo. Eravamo eternamente divisi, ma ci siamo ritrovati amici per uno scherzo concertato con il Mago per rimettere le cose in riga».
«E quei Minori che ti prendevano a pernacchie quando passavi?».
«Pagai qualche diversivo ad alcuni di loro, per qualche tempo. Per accampare una scusa e lasciare il Reame che non sopportavo più».
«Che io sia dannato, non ci avevo pensato! Questa sì che è una notizia! E quando sarà divulgata, come ci resteranno gli Arcani Maggiori?».
«Ci resteranno a bocca aperta! Pieni di boria e prosopopea, si fanno le scarpe l’un l’altro a chi ha più poteri, più ammiratori… a chi ha provocato più benefici, o più danni. Li ho messi tutti sull’attenti di fronte al Mago: il più vilipeso, perché non sapeva fare veri prodigi, perché lavorava su un mezzo tavolino sghembo, e la spada era piccola, e la moneta d’oro forse l’aveva rubata e la coppa era di latta da due soldi!».
«Stiamo sempre ai pettegolezzi, dolce Donzella. È vero che un anonimo Fante si mise a farti la corte, una volta? E che, per essere stato respinto, si volle isolare in un sito infernale? Là, in cima al vulcano attivo, nelle isole Eolie, a Stromboli? Dove poi rimase solo 12 anni, tanto per crearsi una sfacciata pubblicità?».
«Conosci proprio tutte le chiacchiere che contano! Il suo era tutto esibizionismo. Per questo elesse Stromboli a sua dimora. Poteva scegliere un posto qualunque, fuori dalla folla, invece voleva godersi eruzioni e spettacoli pirotecnici. Una volta, che andai a trovarlo, lo vidi che si ciurlava una lombarda formato strapaese».
«Un Casanova impenitente».
«Lo puoi dire forte. Aspetta che finisca tutta la storia. Anche dopo non ebbe fortuna. Per un certo tempo potè vantarsi del titolo di Bibliotecario del Regno. Poi gli dette di volta il cervello e si mise a corteggiare l’Imperatrice. Non l’avesse mai fatto! Adesso si ritrova a personificare l’Appeso, ma solo quando gli pare».
«È vero! Mi è sparito davanti agli occhi. Sono pure svenuto dallo spavento…».
«Glielo dissi pure a quello scemo di lasciar perdere; ma lui niente, testone, non mi ha dato ascolto. C’erano diverse fantesche libere tra i Tarocchi, ma lui voleva farsi amare da una signora, da una regina, e così si è ritrovato a patire per la sua dabbenaggine… ma ci sguazza nel fare la vittima. Il suo, ripeto, è tutto esibizionismo ».
«La tua intervista, Donzella, passerà agli annali, unitamente alla grande scommessa del Mago. Mi inchino di fronte alla tua genialità carnascialesca. I tuoi denigratori sono dei principianti».
«Questo l’ho sempre saputo, professore. Per questo mi sono scelta come amante il Mago. Nessuno ha mai sospettato una nostra tresca…».
«Ora, diletta, lo sapranno anche i pesci in fondo al mare. Sarai sulla bocca della tua indegna combriccola di confratelli».
«Certo, e li informo, con questa intervista, che la Donzella e il Mago si sposano. Alla faccia degl’impiccioni. Le nozze si celebreranno nella dimora dell’Eremita, che ce l’ha messa a nostra completa disposizione quando, alcuni giorni fa, sono passata a trovarlo e a ragguagliarlo per primo. Del resto è l’unico degno di vero rispetto, tra tutti. Mi ci metto anch’io, tra gli inaffidabili».
«Ti prego… descrivi la tua essenza. Raccontala con parole semplici. Trasmettila al volgo, al profano, al passante di strada».
«Professore, il veicolo primo d’ogni energia interiore sono le mani. Il Mago compie ogni tipo di prodigio in virtù dei flussi che attraversano le sue mani. Tuttavia spesso dimentichiamo questa verità elementare. Il massaggio avviene attraverso questo unico strumento della natura che sono appunto le mani, coordinate per scrivere, dipingere, toccare strumenti musicali. Vorrei rammentare quella splendida immagine affrescata da Michelangelo, dove il dito creatore di Dio si tocca con il dito di Adamo e viene celebrata appunto la genesi che avviene attraverso il flusso divino che si irradia nell’uomo».
«Sono consapevole dell’importanza di quello che dici. Continua...».
«Professore, l’automassaggio è molto utile anche per fare circolare l’energia corporea. Toccando i punti chiave si possono attivare i meridiani energetici».
«Tuttavia, Donzella, purtroppo non ci viene insegnato nulla in tal senso. La cultura d’impronta umanistica spiritualistica trascura le potenzialità insite nel nostro corpo, che è l’unico vero valore che possediamo fin dalla nascita».
«Io invito a potenziare le facoltà che passano attraverso le mani. Suggerisco di captare la propria energia interiore e di farla confluire nelle dita. Non capisco perché l’istruzione abbia trascurato il corpo visibile a vantaggio dello spirito invisibile».
«Purtroppo tutta l’istruzione scolastica, anche quella laica, ignora l’anatomia e le funzioni del corpo, e le demanda a una classe sociale privilegiata: stregoni, sciamani, medici, biologi. Esiste un disegno della classe dominante che espropria il popolo delle conoscenze basiche per alienarlo nella religione, nelle pratiche superstiziose. L’incenso soporifero delle fedi ottunde lo spirito critico e i ricchi prosperano sul fatalismo, sull’accettazione della miseria come una volontà dell’Altissimo ineffabile, i cui disegni non debbono essere messi in discussione, o interpretati, ma accettati passivamente».
«Siamo in sintonia, professore. Peccato che l’umanità abbia rinunciato a pensare in maniera autonoma. L’uomo gregario ha bisogno di un condottiero, di un padrone, di un re. Rinuncia alla propria dignità di creatura libera e si lascia condurre per mano, come uno schiavo obbediente. Stolte figure senza personalità si affacciano sul palcoscenico della vita e muoiono ignoranti dietro al proprio funerale».
«Donzella, grazie per le tue parole preziose! La mano è il tratto più nobile, essa riceve gli impulsi più sottili direttamente dal cervello, ne è un prolungamento in grado di produrre sofisticate opere. I manufatti dell’uomo sono il segno visibile del suo dominio sul resto delle creature. La mano, con i suoi tratti, è anche un poco lo specchio dell’anima. Nel palmo della mano sta scritto il nostro destino. Grazie! Ora ti lascio; e ti ringrazio per aver reso possibile quest’intervista».
«Aspetta professore; non andare! All’Appeso hai dato il tuo poemetto….Lasciane per me una copia nelle mani del guardasigilli. Adesso vorrei proprio sentire, dalla tua viva voce, come mi hai immortalata!».
«Ti accontento subito, mia diletta, con una breve pennellata.
Sfiorata appena dalle mani sottili
e dal candore della Donzella,
la fiera selvaggia si placa
e mansueta si accoccola ai suoi piedi.
Bella e di gentile aspetto,
col suo tocco soprannaturale
riesce a dare nuova linfa
ai fiori appassiti del bosco;
con la sua grazia e naturalezza di gesti
incanta anche l’uomo più rozzo
e ne ingentilisce l’animo trasfigurandolo.
La postura rammenta
un regina che, per essere rispettata,
non ha bisogno d’indossare monili preziosi,
o vesti sfarzose e non necessita
di scorta al seguito.
Quando la vedi, t’inginocchi
come di fronte ad una dea;
se invaghito, subito la desideri
e avverti un amore
privo di malizia e senza peccato.
Il solo sguardo della Donzella
ti emoziona e ti fa vibrare
all’unisono con le sue fibre.
Dai suoi occhi non stillano lacrime
ed è ancora agli albori dei tempi,
nel Paradiso originario
prima che Satana
turbasse l'equilibrio.
Concentra nelle sue mani
i poteri del Mago
e senza verga prodigiosa, spada,
aurea moneta e coppa,
riesce a compiere qualsiasi incantamento».
«È vero, professore: concentro nelle mie mani i poteri del Mago e senza verga prodigiosa, spada, aurea moneta e coppa riesco a compiere qualsiasi incantamento. Come hai avuto questa intuizione?».
«Mi sono immedesimato. E mi sono fatto aiutare dalla cabala: 11 la Forza, 1 il Mago».
«Mi piace: hai fatto della Donzella il simbolo della resistenza contro il Pontefice di Roma, che ci fa una brutta figura. Tuttavia lui ne ha fatta di strada con tanti fedeli al seguito. Ci vogliono le crociate e i soldi e le protezioni che contano per avere fortuna e risonanza cosmica. Pensi di arrivarci così, alle porte del Paradiso, professore?».
«Penso di poter essere sommerso, da un momento all’altro, da una valanga di nemici; ma poi evoco in me la forza della Donzella per andare avanti. E così ricomincio e rifiorisco, giorno dopo giorno. Esule e perseguitato, come un cataro cacciato da ogni terra. Ho perso già tante battaglie. Tuttavia la mia guerra continua».
«Allora voglio proprio accompagnare la tua tenzone e vedere come va a finire!».
«Dolce Donzella, diletta diva, hai finto di non avere saputo domare un leone di pietra. Hai avuto per amante il Mago e ora te lo sposi per fare rabbia a quella combriccola di Arcani vagabondi, che non ti hanno mai capita e accettata per quello che sei: una donna spigliata, simpatica, poco sofisticata. Come non averlo compreso prima, e letto nel vero spirito della cabala? L’Arcano Numero 11, la Donzella, non poteva che legittimamente convolare a nozze con l’Arcano Numero 1, il Mago!».
Alle mie parole, io e la Donzella ci siamo messi a ridere. Le donne della catena, turbate, si sono risvegliate dalla trance. E la voce della cartomante è tornata quella abituale: roca e alquanto sgradevole.
Sono andato via dalla sala e le cinque donne sono tornate a formare di nuovo la catena. Ho sentito un profumo di muschio selvaggio, che ancora non mi lascia e mi rinnovella la soave presenza dell’Arcano della Forza.
Allora ho ripensato alla profondità di alcuni versi attribuiti al poeta persiano Omar Khayyâm. Sopiti nella mia mente, si sono risvegliati prepotenti: La mano avanza e scrive e quando ha scritto procede. Né tutta la tua indulgenza, né il tuo ingegno la indurranno a tornare indietro e cancellare un solo mezzo rigo. Né tutte le tue lacrime laveranno via una sola mezza parola.
Ho condiviso l’elogio della scrittura, sancito con forza dal geniale pensatore, testimone critico del suo passaggio in un mondo reso assai meno meraviglioso dall’intolleranza e dal fanatismo religioso.
Intervista alla Giustizia
8 giugno 2021
«Questi signori in fila presentano istanza per ottenere udienza dalla Giustizia. Non ci sono priorità. Qui non si fanno eccezioni, né si accettano raccomandazioni. Devi pazientare e metterti in coda».
Il guardasigilli era stato chiaro e categorico.
Il mondo delle carte, debbo riconoscerlo, è ben organizzato, con regole precise. Ho fatto osservare al Cavaliere di Spade che la mia richiesta era speciale e non assomigliava a un iter giudiziario di nessun tipo; tuttavia è stato irremovibile e ho capito che non conveniva insistere. Mi sono seduto sul prato, dopo avere steso sull’erba un asciugamano. Nelle mani dell’ultimo in fila ho lasciato il mio biglietto da visita (guardato e preso con una certa riluttanza). Un santone bendato, librato su un’esile colonnina con capitello corinzio, pontificava i suoi verdetti ed elargiva appuntamenti con una certa parsimonia. Gli accontentati erano una minoranza: quasi tutti i casi erano respinti.
Otto gazze (G come Giustizia?) facevano da corona e da filtro, allontanavano gli intemperanti e si davano un gran da fare per mettersi in mostra. A più d’una di queste creature avevo spiegato il mio caso, ma non mi avevano dato ascolto. Quasi mi ero appisolato sul prato, quando una di loro si è avvicinata e sottovoce mi ha detto: «Aspettami all’uscita del parco, vicino alla fontanella».
Ho obbedito al suo consiglio, con la speranza che avesse trovato il modo di facilitare la mia intervista aggirando l’assurdo regolamento impugnato con testardaggine dal guardasigilli, senza tenere conto delle vere ragioni che mi spingevano a chiedere un colloquio con la Giustizia.
Con me la gazza è stata ciarliera e cordiale. «Caro amico, i cosiddetti altarini nel mondo sono tanti. Se li scopri tutti, rischi un collasso globale. A cominciare dai preti, che dovrebbero cambiare mestiere. Immagina tu, se non ci fosse quell’equilibrista a levitare, succederebbe un pandemonio. Invece tutti buoni a perorare la propria causa, a sperare nell’intervento miracoloso della giustizia. Gli uomini, per vocazione Gregari, debbono credere in qualcosa. La Giustizia con la G maiuscola è una Garanzia per un Giusto verdetto e forse anche di Grazia».
Frattanto, mentre sputava sentenze, con la sua G in si bemolle, la gazza mi precedeva sculettando con movenze assai poco naturali per un uccello del suo rango. Se è stata scelta come filtro alla Giustizia qualche merito dovrà pure averlo, ho pensato io, che faticavo quasi a starle dietro, per la gran fretta che aveva.
«Dove stiamo an-dan-do di gra-zia, signorina?».
«Non hai spiegato alla mia collega che dovevi semplicemente intervistare la Giustizia?».
«Certo; è così!».
«E allora, ti guido io. Non potevamo dare a vedere a tutti che facevamo un’eccezione. Salviamo sempre l’apparenza del rigore, dell’imparzialità. Altrimenti ci farebbero arrosto all’istante!».
Si è fermata alla fine di fronte ad una macchina di rappresentanza, di quelle nere, con i finestrini oscurati. Ne è sceso il Fante di Danari che mi ha mostrato una benda eloquente e palesato senza fiatare le sue intenzioni.
«Bendato?! Devo essere bendato?».
Alla mia osservazione stizzita ha annuito la gazza, che si è accomodata accanto a me, sui sedili posteriori della vettura. «Queste sono le regole. Domani non vogliamo trovarci ad avere a che fare con una troupe cinematografica. Dobbiamo essere molto cauti. Non possiamo rischiare che una plebaglia in rivolta invada la nostra tranquillità».
Ho passato forse un’ora, ospite di una berlina confortevole e silenziosa. Ogni tanto la gazza fischiettava qualche musichetta, tratta da un repertorio classico.
Quando mi hanno tolto la benda, mi sentivo come in uno di quei film che narrano le storie dei malavitosi. Mancavano solo la zampogna e lo scacciapensieri. Finalmente alla luce del sole, ho riconosciuto il Cavaliere di Danari venuto per stringermi la mano. Io mi sentivo intontito; certo avevo perso il senso dell’orientamento. Poi sono stato condotto in una stanza insonorizzata e blindata. Non avrei mai potuto riconoscere il luogo dove era ubicato quel mezzo rifugio antiatomico.
«Quando abbiamo saputo che stavi per intervistare la Giustizia, siamo corsi subito ad investigare il tuo passato. Appena qualche lieve contravvenzione automobilistica. Hai sempre pagato le tasse. Allora ci siamo pure sincerati delle tue ideologie. Hai assolto gli obblighi di leva come soldato semplice. Al corso allievi ufficiali sei stato scartato per miopia. Sulla tua scheda di servizio spiccavano le parole: elemento inaffidabile e non idoneo al comando. Hai insegnato lettere italiane e storia nella scuola media superiore. Adesso corteggi i Tarocchi. Per la tua intervista, puoi usare questo altoparlante: così parli, così ascolti».
«Stiamo scherzando?! Non dialogo con un’ombra e non mi faccio prendere per i fondelli! O mi fate vedere con chi sto parlando, o non faccio nessuna intervista! Sia chiaro!».
Se i miei interlocutori avessero voluto, non avrei potuto portare a termine il mio lavoro. Per fortuna, il Cavaliere di Danari ha ricevuto una telefonata e ho potuto respirare l’aria pura.
Lei mi aspettava in un gazebo. Tutta vaporosa con un abito bianco, leggiadro, trasparente. Pareva avesse ispirato la protagonista del romanzo The Great Gatsby di Scott Fitzgerald. Il vento la rendeva più bella, perché accarezzava i suoi capelli. La Regina di Danari mi ha offerto il classico tè, fatto con vere foglie di menta fresche. E poi alcuni dolciumi di pasta di mandorle. Una delizia.
«Lo avevo detto e ripetuto che non avresti parlato da quella stanza isolata con una voce. Hanno voluto seguire le procedure di sicurezza. Sei stato tenace e sei stato accontentato. Ecco svelati gli Arcani!».
«Ma tu sei la Regina di Danari. Io volevo parlare con la Giustizia…».
«Ti devi accontentare, professore. Al momento sono io che la rappresento ufficialmente».
«La Giustizia è andata forse in ferie? Posso ripassare tra qualche giorno…».
«L’Arcano della Giustizia non si è mai manifestato. In passato, a turno, lo rappresentavano i Tarocchi più autorevoli. Poi il Regno di Danari se n’è legittimamente appropriato, acquistando di fatto i diritti di quella carta, depositati presso il guardasigilli con tanto di ricevuta».
«Procedure e regolamenti non mancano mai nel vostro Regno. Siete l’eccellenza della burocrazia! Riverisco, Signora».
Il boccone del pasticcino levitava nel mio gozzo e non andava giù. Ho chiuso gli occhi e ho bevuto altro tè. L’intervista all’Arcano della Giustizia non era mai cominciata.
«Suvvia, professore, cerca d’essere realistico. Fai pure le tue domande. Non m’illudo che questo sistema sia perfetto. È solo il male minore. Lo sai anche tu, questo. Abbiamo bisogno dei vessilli, dei sovrani, dei fanti, della droga, della religione e della Giustizia paludata che solenne tutela la Legge e tara con la sua bilancia il peso delle contese. È un teatro pirandelliano con le sue maschere. Le sue pause. Poi, ogni tanto si organizzano le grandi rivoluzioni, pure necessarie, solo quando decidiamo noi. Trionfi della democrazia conclamati. Campionati del mondo di calcio. E la grande Ruota della Fortuna che gira senza guardare in faccia nessuno».
Ci siamo osservati a lungo, aspettando una mossa sbagliata dell’avversario. Neppure ho arroccato, per difendere il mio Re, come si fa a scacchi. Ho ammesso la sconfitta, risposto col silenzio e lasciato sopra un tavolo il mio poemetto, spalancato là dove faceva bella mostra la lirica che avevo dedicato all’Arcano della Giustizia. Ho fatto ventidue passi in avanti. Poi ho avuto un moto d’orgoglio e fatto altrettanti passi indietro. Ho cominciato a leggere alcuni versi, quasi cercassi un’ispirazione.
«Esistono libri, dichiarati sacri,
che non puoi mettere in discussione,
su cui una casta privilegiata
ha instaurato la sua incrollabile Chiesa.
Giudici mercenari,
ignorando le leggi, arbitrariamente,
ti condannano a qualunque tipo di pena,
solamente perché sei uno schiavo
senza diritti.
I regnanti nascondono
tutti questi orrori
con un indecoroso silenzio
e mantengono relazioni lucrose
con le terre dell’ingiustizia.
Qui, nelle regioni bagnate dal grande mare,
e là, oltre le colonne d’Ercole,
governano usurpatori; e falsi profeti,
unti nel nome del Signore,
hanno esiliato la Giustizia
che ora guida la diaspora
dei Catari perseguitati».
La Regina di Danari ascoltava in silenzio. Ero lì a testimoniare. E la mia voce aveva la forza della tempesta. Non ha avuto l’ardire di zittirmi. Le sembravo un soldato ferito che non vuole consegnare la sua bandiera al nemico.
«Se lo spirito dei Catari fosse sopravvissuto, o preziosa Regina, uno di loro avrebbe potuto incarnare l’Arcano della Giustizia. Purtroppo hanno prevalso il conformismo e la rassegnazione. Il popolo dei parlanti deve restare all’oscuro e il popolo degli scriventi ha perso di vista l’obiettivo primario: la funzione di educare».
Il sedicente Arcano della Giustizia, silente, ha atteso che la gazza, sopraggiunta dalla stessa auto che mi aveva condotto fin lì, mi riportasse dove ero venuto. Lungo il tragitto di ritorno, la mia accompagnatrice ha rimesso in moto la conversazione.
«Signore, intuisco che non ha realizzato la sua intervista nei modi che avrebbe dovuto. La vedo triste».
«Ci sono da chiedere permessi, per intervistare le gazze?».
«Credo proprio di no, signore. Domandi pure!».
«Voi gazze ne avrete visto di tutti i colori, immagino. Vi scambierete le solite confidenze delle ragazze. Insomma, vi trastullerete con i pettegolezzi… Una di voi è incappata in qualcosa d’inusuale? In un’anomalia?».
«La gazza Cinerina, una volta, mi ha fatto una confidenza. Durante una pausa, nel suo cantuccio di rami, aveva messo il naso all’ingiù e per caso si era imbattuta in un ragazzo che stava leggendo una di quelle storie illustrate: un fumetto di Martin Mistére. E le parole appena lette se le era andate ad annotare nel suo taccuino, dove fedelmente trascrive i nomi di coloro che, in fila, o protestano, o litigano, o bestemmiano, o fanno minacce. E pure io me le sono appuntate sul mio taccuino, e anche le altre gazze hanno fatto lo stesso. Se le avesse serbate solamente per sé la Cinerina, sarebbero potute sparire per volontà superiore, mentre riteniamo che sia impossibile far sparire in un solo giorno le annotazioni di otto gazze zelanti e attente. Questa può essere una vera anomalia, signore».
«Allora falla conoscere anche a me, quest’anomalia».
Me l’ha letta: «Le società e il potere si fondano su determinati schemi, consolidati da rituali, religioni, credenze. Se qualcuno li sconvolgesse, ribalterebbe i ruoli e l’ordine costituito. Se si scoprisse, anzi si dimostrasse che esiste un’altra forma di vita intelligente, qualcuno comincerebbe a pensare. Il potere vacillerebbe e noi non possiamo permettercelo! La nostra funzione di controllori è necessaria. Noi esistiamo da sempre. Da sempre eliminiamo tutto ciò che può turbare l’ordine che ci permette di spadroneggiare ed è impossibile distruggerci perché siamo ovunque; ma anche nella testa della gente, nel suo inconscio, e possiamo ascoltare tutti i pensieri. Una voce ci avverte, ci comunica, se ciò che deve rimanere segreto sta per essere divulgato!».*
«Pensi che nella mia intervista possa fare menzione delle tue confidenze? La Cinerina vorrà essere citata?».
«Sarebbe meglio raccontare che siete stato voi ad imbattervi in quel fumetto; magari in sala d’attesa, mentre aspettavate d’essere ricevuto dall’Arcano della Giustizia. Nessuno potrà rimproverarvi di nulla. Fate una citazione, riferite il pensiero d’altri».
L’auto mi ha riportato al cancello principale del parco, dove gli uccelli cinguettavano, pochi bambini si rincorrevano, alcune mamme gridavano e qualche cavallo a passeggio lasciava cadere in terra la sua cacca.
* Citiamo (più o meno testualmente) un fumetto pubblicato in cartaceo nel 1982 ed oggi visibile gratuitamente in formato digitale: Martin Mistère n°1, Sergio Bonelli Editore, 2012, pagg. 88-89.
Intervista al Mago
1 Luglio 2021
Un signore distinto e ben vestito, seduto di fronte ad un tavolino rettangolare, nell’attesa si distraeva con un solitario. Si era sistemato in fondo alla sala quasi vuota, affrescata con dipinti ispirati alla mitologia. Percorrendola, si udiva l’eco spiacevole del calpestio dei passi. Accostate al tavolo, come ancelle, stavano due savonarole tipiche del Quattrocento fiorentino (forse tarde imitazioni, comprate da qualche rigattiere di Porta Portese). Il palazzotto antico ospita un club privato, dove si poteva8 giocare e incontrare qualche escort per gentiluomini facoltosi.
A condurmi sin là è stato il direttore, Mario Felicioni, che vanta frequentazioni ludiche e libertine. Qualcuno, sapendo delle nostre trasmissioni dedicate ai Tarocchi, gli aveva confidato che avremmo potuto incontrare un Tizio, contornato da un certo alone di mistero, che andava dicendo agli amici d’essere il Mago dei Tarocchi in persona. Al direttore avevo manifestato subito le mie perplessità, anche se l’Eremita mi aveva confidato che un abboccamento con l’Arcano Numero 1 sarebbe stato un vero rompicapo, da quando aveva lasciato la sua dimora abituale di Montecarlo per andarsi a cacciare chissà dove.
Il direttore ha portato con sé un mazzo di carte nuove. Intendeva sfidare lo sconosciuto al suo gioco preferito: teresina (una variante del poker che prevede una carta coperta e le altre quattro servite a vista). Il Tizio ci ha stretto la mano e, sorridendo, ha ripulito quel pollo di Mario Felicioni il quale, senza battere ciglio, ha lasciato sul tavolo i cinquemila euro che aveva portato con sé per quella storica sfida.
«Avevo detto a Mario d’essere cauto, specie con una persona che vanta frequentazioni col Mago» ho detto al Tizio. «Comunque, vorrei palesare tutte le mie riserve. Il fatto che tu abbia azzeccato quattro colori di fila e una scala reale dimostra solo che hai una fortuna sfacciata».
«Tenta la sorte, adesso, professore. La dea bendata potrebbe essere dalla tua parte» ha replicato.
«Non posso subentrare al mio amico; economicamente non potrei tenerti testa. Sono qui per realizzare una delle mie interviste, non per giocare».
«Certo. Siamo qui per questo!».
Il sedicente Mago ha subito accettato, a condizione che indovinassi la posizione esatta dell’Asso di Danari che veniva spostato, a velocità supersonica, tra il Re e la Regina dello stesso seme.
Avendo a disposizione 22 mirabolanti combinazioni (tante quanti sono gli Arcani Maggiori) di primo acchito ho sperato che fosse facile portare a termine l’impresa. Tuttavia per 21 volte non ho saputo indovinare dove era stato messo l’Asso. L’uomo era così esperto che non avrei azzeccato nemmeno l’ultima chance, se non si fosse mosso, volutamente, al rallentatore e avessi ben capito dove era il marrano. Ha sorriso. Senza il suo beneplacito, sarei dovuto andarmene con le pive nel sacco; ma ha elargito il suo buon cuore a centottanta gradi. Ultimato il gioco delle tre carte, su un tocco di mano di Felicioni ho notato una singolarità che prima, accostandomi al tavolino, non avevo osservato: era senza un gamba e per le leggi della fisica sarebbe dovuto cadere; invece stava in piedi sfidando la gravità.
Interpretando i nostri sguardi, il sedicente Mago, rivolto verso le mie pupille basite, ha puntualizzato: «Ho spostato di poco il baricentro: così potrete raccontare che avete visto con i vostri occhi una vera magia».
Ho poggiato un pugno verso la parte del tavolino zoppo e ho dovuto constatare che quel prodigio continuava a funzionare. A quel punto ho applaudito e chiesto anche di scattare una fotografia. Era quasi principesco, con il mantello bordato di zibellino bianco e il cappello a grandi falde con le piume di struzzo…
Si vedeva che il Mago era vanitoso, ma simpatico; esibizionista, ma scherzoso; consapevole d’essere anche un poco ridicolo: aveva imitato l’abito dei moschettieri e ci aveva messo un non so che di fru-fru sopra.
«Posso vedere la tua bacchetta? L’hai appresso con te?».
«Vuoi che la dimentichi? E se un imbecille qualunque, per strada, mi ferma e mi chiede una magia? Io cosa gli rispondo, che ho impegnato la bacchetta al gioco?».
«E questi numeri arabescati sulla bacchetta… sono d’oro zecchino?».
«Lo erano un tempo. Questi me li sono fatti incastonare dai cinesi; sono imitazioni. Gli originali li ho persi una sera, giocandomeli al poker. Sono andato ad incappare in un colore di picche. Io avevo in mano una scala, quasi reale».
«Non potevi bluffare facendo credere al tuo avversario di possedere una scala reale?».
«Certo, avrei potuto, ma al gioco non ricorro a magiche. I miei avversari del resto lo sanno. Giochiamo sempre ad armi pari. Sono le carte a parlare».
Ho taciuto un poco. Stavo pensando a una domanda originale. Avevo annotato qualcosa su un taccuino, tuttavia gli volevo imbastire la domanda ideale in faccia. «Ce la possiamo fare, adesso, una mano secca a teresina?».
«E cosa ci giochiamo professore: il misero stipendio di un mese?».
«Va bene, ci sto; se vinco, non voglio soldi… mi racconti almeno tre pettegolezzi veri, tratti dal mondo degli Arcani. Non ti dico di fare la spia; mi racconti appena la voce del popolo, talora voce di Dio».
Magicamente ha fatto sparire le tre le carte dal tavolino ed è comparso un mazzo ancora sigillato di carte da poker poi ha sussurrato: «L’ho comprato dal tabaccaio questa mattina. Guarda però che questa volta non ti lascio nessun vantaggio».
Ho avuto fortuna. All’ultima carta ho pescato un otto e vinto con un tris di otto. Lui aveva due J e due K e ha chiuso con un Asso beffardo che non gli è valso nulla. «Suvvia Mago, snocciolami tre bei pettegolezzi!».
«Allora: prima chiacchiera. Pare che Cupido sia diventato esclusivo appannaggio del Diavolo. Gli ha fatto un contratto esclusivo, lo vuole tutto per sé. Senza le sue frecce non riesce più a trombare. Dardi potenti, con la forza del Viagra. E sai quale sarà la triste conseguenza? Nessuno più si innamorerà sul serio».
«Signor Mago, mezza di questa già la sapevo. Confidenza di Cupido in persona».
«Ciò prova che è autentica e che sono un teste attendibile, professore! Seconda indiscrezione, dove bolle tanto in pentola. Questa ti soddisferà pienamente. L’Imperatore avrebbe intenzione di fare una riforma storica. Affiderà il ruolo della Giustizia nientedimeno che al Due di Coppe, che è stato nominato recentemente Ambasciatore degli Arcani Minori, per essersi distinto in virtù delle sue doti morali. Non so se tale progetto andrà mai in porto. Gli Inquisitori hanno mille orecchie. Uno di loro gioca con me a poker e talora si lascia andare a sconsiderate confidenze, quando beve un po’ troppo whisky. Avrebbe avuto come consigliere per questa riforma l’Appeso, che verrebbe graziato dall’Imperatore e ritornerebbe al suo antico ruolo di Bibliotecario del Regno, che nessuno ricopre più da oltre seicento anni».
«Sono sinceramente contento per l’Appeso. Se lo merita…» ho risposto subito. «Ultimo pettegolezzo. Dopo cure presso i più famosi terapeuti e strizzacervelli, dopo avere ingerito ogni tipo di farmaco anti depressivo possibile, il Giudizio, l’Arcano Numero 20, ha deciso di dare le dimissioni. Secondo l’ultimo medico che l’ha preso in cura è l’unica via possibile, la più realistica, per uscire dalla depressione cronica che lo attanaglia da quando è nato. Nessun commento?! Non sei soddisfatto, professore?».
«Lo sono! Pensavo ad un altra domanda...».
«Ne posso fare una io, professore?».
«Ne sarei onorato! Come potrei non rispondere?».
«Sono anni che ci frequenti senza costrutto. Non potevi giocare d’azzardo? Distrarti al bar? Punzonare pulzelle? Cosa trovi in questa combriccola d’Arcani, da partorire persino l’idea, alquanto originale lo riconosco, dell’intervista?».
«Beh… voi avete spessore e spontaneità. Mi sono innamorato delle vostre beghe, delle rivalità, dei complotti. Fuori, già sai cosa accade. Tutti scrivono le solite novelle. Il mio passatempo preferito, la scrittura, credo sia un vezzo di distinzione; poi magari nessuno se ne accorgerà, ma per lo meno ce l’ho messa tutta! Osare e volere ad ogni costo. Una sfida persa in partenza contro l’industria editoriale».
«Ci vorrebbe una bella magica sulle sudate carte! Voglio proprio darti una mano. Abracadabra!».
Ho visto spuntare tra le sue mani un sorta d’amuleto triangolare dorato, con una sequenza decrescente a scalare di 36 lettere incise. Poi ha aggiunto: «A, essendo la prima lettera dell’alfabeto, simboleggia il principio d’ogni cosa. Lettera magica, forse demiurgica, ha dato origine al vocabolo abracadabra, usato nei rituali propiziatori. L’amuleto, a forma di triangolo rovesciato, doveva curare le malattie, eliminare gradualmente le tossine ripristinando la salute originaria, simboleggiata appunto dalla lettera a.
abracadabra
bracadabr
racadab
acada
cad
a
Eccoti in regalo quest’amuleto. Spero possa servirti».
Ovviamente, come da copione, per ripagare, anche io ho fatto dono del mio poemetto al Mago e lui, da vero gentiluomo, l’ha aperto, sfogliato e preso a leggere il suo ritratto. Poi mi ha citato ad alta voce:
«Roteando, la vindice spada del Mago
provoca vortici d’aria
capaci d’annientare il nemico.”
“Copioso, dalla coppa sgorga
un’elisir medicamentoso.”
“L’aurea moneta capta l’oro lucente
nascosto negli oscuri meandri della terra.”
“La magica bacchetta,
ricavata dal legno di noce,
fa vibrare l’essenza racchiusa
nei quattro elementi fondamentali della vita,
e levitare i corpi,
leggeri come fiamma d'alchimista.”
Sulla scia delle voci ascoltate,
i ragazzi favoleggiavano
attorno alle virtù straordinarie del Mago,
loquace con gli spiriti boschivi,
capace di colorarsi come scorza,
pronto a fondersi con la zolla
e rimescolarsi alle nubi,
bigie e maculate,
per rinverdire con la pioggia l’arido suolo.
Bella la foto, che mi racconta. L’hai realizzata tu?».
«Sì: una dissolvenza digitale. Mostra il direttore d’orchestra, alias il Mago, che trasferisce sui Numeri l’armonia delle note».
«Hai saputo raccontare in pochi versi le vicende delle contrade macchiate dal marchio dell’eresia, nemiche della Chiesa romana e purificate col ferro e col fuoco del giudizio di Dio. Credo nessuno abbia dedicato un poemetto alla santa crociata bandita contro le terre dei Catari. Oggi che il mondo vive una guerra di religione perenne, i tuoi versi sono anche drammaticamente reali. E sei andato a travasare le idee dei Catari, imbavagliate e temute, in tavolette colorate assomiglianti a semplici carte da gioco: i Tarocchi!».
Allora mi sono permesso di rispondere al Mago, spiegando la genesi dei Trionfi. «Potrebbe essere stata veramente questa, la misteriosa origine delle carte della divinazione. Una vicenda plausibile. Anche perché le carte nel corso dei tempi sono state alquanto manipolate. Il Diavolo e la Torre mancano dal più antico mazzo conservato, i Tarocchi Visconti, che ora si trovano esposti al Morgan Library Museum di New York. La Forza originariamente assomigliava a un Fante con in mano un grande bastone nodoso. La Temperanza non aveva le ali. La dicitura Torre divenne Casa di Dio. Le manipolazioni degli Inquisitori sono evidenti nel corso dei secoli… Le carte un tempo erano l’unico mezzo di svago popolare esistente. Avevano un’importanza capitale, capillare, che neppure immaginiamo oggi. Altrettanto potenti quanto gli odierni mezzi di comunicazione di massa: cinema, televisione e gli intrattenimenti digitali come il computer e lo smartphone».
L’intervistato si è limitato ad annuire. Insieme siamo tornati nelle stanze da gioco aperte al pubblico, al primo piano. Il Mago ha scelto un tavolo di roulette, per suggerire i numeri della sorte al classico principiante in cerca di gloria.
Io l’ho seguito apposta, per fare scudi.
Illuminato, ho puntato 80 euro sul numero 11 ed ho vinto! E Mario Felicioni si è accasciato al suolo. Svenuto per rabbia, dopo un’invettiva da non ripetere.
Intervista all’Innamorato
6, 7, 8 Luglio 2021
L’intervista accuratamente programmata con l’Innamorato è stata la più tortuosa e imprevedibile, se paragonata alle altre che ho già realizzato.
La prima volta sono andato a trovarlo nel mondo delle carte, in un giorno con una valenza cabalistica speciale, il 6: numero che nei Tarocchi contraddistingue appunto l’Arcano dell’Innamorato. Speravo di conquistarmi subito le sue simpatie e infatti si è dimostrato disponibile al dialogo. Conoscendone un poco il carattere, gli eterni dilemmi, i ripensamenti, ne ho approfittato immediatamente.
«Ascoltiamo dalla viva voce dell’Innamorato qual è stata la tresca più intrigante, o la più inattesa» ho attaccato. «Scegli la prediletta tra le tue avventure».
«Professore, non ti posso rispondere, ne andrebbe della mia dignità. Non svelo nessuna tresca, nemmeno quella più passeggera e insignificante, me lo vieta la mia etica professionale. Debbo tutelare la privacy degli amanti, non posso metterli sulla bocca di tutti. Sono disposto a confrontarmi su qualsiasi altra questione… ma in questa tua curiosità non posso accontentarti».
«Riconosciamo all’Innamorato il merito di rispettare le sue pulzelle, dalle più corrotte, alle più innocenti. Cambiamo argomento, quindi… e gli chiediamo: cosa dovrebbe regalare un vero spasimante nel giorno di San Valentino? Un portafoglio? Un profumo? Un libro? Un ingresso allo stadio? Un mazzo di rose rosse?».
«Secondo me, dovrebbe scrivere un biglietto d’amore… come si faceva una volta. Una bella dichiarazione spontanea, dicendo quello che prova: l’emozione del bacio, dell’abbraccio, del corteggiamento, del prendersi la mano e stringerla. In questo frenetico mondo d’oggi un bel biglietto d’amore è un segno di distinzione, una rarità a cui nessuno più pensa, magari spendendo soldi per acquistare un oggetto qualsiasi, impersonale, forse più prezioso, ma meno intimo».
Stavo per formulare un’altra domanda, quando a sorpresa è squillato come un trillo di cellulare. Lì per lì ho creduto fosse un altro prodigio del mondo delle carte, dove ogni volta scopro qualcosa di sorprendente. Poi il paffutello Cupido si è frapposto fra me e l’Innamorato e ho preso atto della sua presenza. Era spuntato a sorpresa e zufolava ripetutamente un fischietto, dando ai suoni un ritmo preciso.
«Professore, hai ascoltato anche tu, immagino…».
«Ho udito certo, ma non ho capito niente».
«È il nostro morse segreto, fatto di suoni, per le conversazioni riservate».
«Oh, bella questa! Siete forse sul piede di guerra?».
«Qui siamo perennemente in allerta. V’è da aspettarsi di tutto. Le spie sono ad ogni angolo. Non possiamo far sapere in giro i fatti d’amore. Rischieremmo grosso per la nostra attività».
«Sono sorpreso, tuttavia posso anche capire».
«Continueremo l’intervista domani, professore. Torna qui alle sei del pomeriggio in punto. Ti concederò un’ora del mio tempo prezioso».
Mentre mi allontanavo, lento pede, sono stato avvicinato dal Fante di Spade, vestito in abito smagliante. Mi ha invitato a bere del sidro nell’osteria gestita dalla sua fantesca: un bel locale alla moda, a metà strada tra la fortezza dove era detenuto l’Appeso e la dimora dell’Imperatore. Ci siamo messi a scherzare e a giocare a tressette.
Poi, tra una carta e l’altra, ho voluto sondare quello strano amalgama di Arcani Minori che se la spassavano tra ilarità e canzonette medioevali. Un gruppo di coristi goliardici ha persino intonato l’incipit dei Carmina Burana, eseguito a meraviglia. Coinvolto dal clima festoso, mi sono lasciato andare e abbiamo gozzovigliato fino all’alba.
«Non vedo Trionfi in giro. Come mai, ragazzi?».
«Sono soltanto dei fanatici con la puzza sotto il naso. Invece il professore sì che è democratico! Quel pirla dell’Innamorato ti ha piantato in asso nel bel mezzo dell’intervista. È diventato lo schiavetto del suo Cupido, il vero comandante della brigata».
Taccio sugli altri pettegolezzi piuttosto volgari dei miei commensali. Posso solo accennare agli stornelli carnascialeschi che abbiamo cantato per la vie della città che non dormiva mai. Un eterno via vai, un andirivieni, in una dimensione che non conosce la stanchezza e la sazietà, e vive perennemente una giostra di lazzi, di risa, di incontri, di promiscuità, di sesso giocoso, di scherzo. Sono tornato soddisfatto e sazio al mio cantuccio terreno. Sapevo che, stando alle rigorose leggi quantiche, non potevo restare per più di ventiquattr’ore, altrimenti sarei rimasto ancora in quella dimensione ludica che assomigliava tanto al Paese di Cuccagna raccontato da Collodi nel suo Pinocchio.
Il giorno dopo, sette luglio, con in mano il solito mazzo di carte quantiche sono approdato puntuale al Reame dei Tarocchi, per proseguire l’intervista con l’Innamorato.
«Professore, ti debbo le mie scuse. Ora capirai perché ieri sono stato così maleducato nei tuoi confronti. Oramai, quello che un tempo era il mio fedele compagno è caduto sotto l’influsso maligno di Belzebù e con Lui io non posso competere. Sarà difficile riavere il mio Cupido. Me lo fa incontrare solamente la domenica mattina, per un’ora. Una concessione e un’umiliazione nello stesso tempo. Ogni volta che vado a vedere il mio figlioccio mi viene la voglia di strangolarlo, tuttavia gli sorrido per quieto vivere. Ogni tanto però Cupido riesce a svignarsela e mi viene a trovare».
«Capisco il tuo stato d’animo. Anche se, a detta del Mago, Belzebù ha stipulato con Cupido un contratto perché ha bisogno delle sue frecce per trombare».
«E tu, professore, ti fidi delle chiacchiere messe in giro dal Mago?».
«Non dovrei?... Secondo te, invece, cos’è accaduto veramente?».
«È stato plagiato da Belzebù! Sto cercando un buon avvocato disposto a fargli causa per plagio. Tutti dapprima si sentono fieri d’essere stati interpellati, poi, quando faccio il suo nome, accampano scuse. Secondo i migliori legulei, non ci sono gli estremi. Anche perché Cupido, in tribunale, non ammetterebbe mai. A dire la verità, a volte penso che quest’illustri signori del foro abbiano ragione da vendere e che siano stati onesti e professionali, scoraggiandomi dall’iniziare una causa che sicuramente perderei».
«Neppure Cupido è davvero contento del suo nuovo stato. Quando ci siamo incontrati, a casa di Belzebù, voleva mettersi in mostra ad ogni costo. Si vedeva che aveva una gran voglia d’essere eternato insieme ai Tarocchi in un’intervista che sarebbe passata agli annali come una delle più straordinarie della storia del giornalismo. Il mio piano è questo: gli suggerirò di tornare a vivere col suo padre adottivo e di soddisfare le richieste di Belzebù solamente la domenica, esigendo però un compenso adeguato per questo, perché non deve ridursi ad essere lo schiavo di nessuno. Così le reazioni del suo negriero saranno contenute e potrà affrancarsi».
«Che tu sia benedetto, professore! Questa strategia potrebbe anche funzionare, io non ci avrei mai pensato. Se avessi avuto coraggio, me lo sarai andato a riprendere personalmente il mio Cupido, ma sono un vigliacco e me ne vergogno».
A questo punto tra me e l’Innamorato si è frapposta un’ombra sinistra che non prometteva nulla di buono. Alzando lo sguardo, ho riconosciuto il sorriso beffardo del guardasigilli, che percorre il Reame dei Tarocchi con l’obiettivo di fare rispettare i regolamenti: quelli scritti e quelli campati in aria, partoriti dalla sue manie di rigore ed esibizionismo.
«Professore, siete stato autorizzato a realizzare una sola intervista all’Innamorato: semel in saeculis, sta scritto!».
«Appunto; quella di ieri si è interrotta bruscamente e questa ne è la legittima prosecuzione» ho puntualizzato, e pure l’Innamorato ha confermato la mia versione dei fatti.
«Io non posso farci niente» ha replicato il Cavaliere di Spade. «Sono previste sanzioni. E potrei anche, a mia discrezione, annullare tutti i permessi per le future interviste. Quindi dovete continuare la vostra chiacchierata in un’altra giurisdizione».
L’Innamorato lo ha preso sottobraccio, cercando di fargli chiudere tutti e due gli occhi; ma quello era irremovibile e ci ha invitato a sloggiare all’istante.
Così ci siamo dati appuntamento al giardino del lago di Villa Borghese, per il giorno dopo e sempre alla stessa ora, ore diciotto!
Quando sono arrivato, puntuale al secondo, l’Innamorato era seduto ad aspettarmi su una panchina. Perlomeno dimostrava buona volontà… Dinanzi a noi stava il limpido laghetto sul quale gli spasimanti d’amore facevano un giretto in barca, per strappare qualche bacio e immortalarsi nel tempio classicheggiante che fa la sua bella figura. Le foto un tempo finivano in una cornice d’argento accompagnando l’esistenza di una persona per tutta la vita; adesso queste istantanee frettolose finiscono su facebook e raccontano a tutti gli amici di una giornata diversa che presto verrà dimenticata, perché seguiranno nuovi scatti altrettanto belli da divulgare. L’Innamorato ha voluto prendere la barca perché remassi e sbarcassimo sull’isoletta, lontano da orecchi indiscreti; era perseguitato dal sospetto che un occulto demone potesse ascoltare le nostre confidenze. Mentre filavamo lenti verso la meta, ha declamato un mezzo sonetto di Dante: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio.”
«Vorrei qualche rivelazione sulla natura delle frecce che Cupido scaglia, colpendo il cuore degli indifferenti per provocare ad arte quella corrispondenza d’amorosi sensi così fragile, così passeggera, ma sempre così intensa».
«Non si possono svelare segreti sul marchio di fabbrica di queste sagitte particolari; né dove si fabbricano, né dove si possono acquistare. Forse è l’unica manifattura medioevale che ancora non ha chiuso bottega o licenziato manodopera. Per secoli siamo riusciti ad avere un monopolio che non intendiamo certo mettere a rischio con quest’intervista».
«Non intendevo riferirmi all’origine delle frecce, ai segreti di un prodotto irreperibile, anche sul mercato dell’usato. Volevo sapere se esse vengono scagliate a caso, o su commissione, su una richiesta specifica. Se ci sono casi di persone che pagano, per ottenere questo tipo di favore. Svelaci dunque quali sono i meccanismi segreti dell’innamoramento».
«In passato le frecce venivano scagliate da Cupido quando decidevo io. Poi lui si è gradualmente emancipato. Ha rivendicato i suoi diritti e sceglie i suoi bersagli da quando l’Europa è stata attraversata da quella ventata culturale che prese il nome di romanticismo. Ciò non mi dispiace affatto».
«Vorrei che fossi più esplicito, se possibile; esiste un percorso per guadagnarsi il favore, la complicità di Cupido?».
«Dovresti immaginarlo, professore».
«Io sto facendo un’intervista all’Innamorato e vorrei fossi tu a svelarlo ai nostri lettori. Facci sentire la tua versione dei fatti, esplicita!».
«L’unico vero tramite sono stati sempre i Tarocchi. Quando vengo evocato scatta un meccanismo, una specie di campanello che ci avvisa e noi, puntualmente, facciamo la nostra visita agli interessati. A volte la carta dell’Innamorato passa sotto silenzio, neppure viene presa considerazione da un Tizio che pensa più al danaro, alla carriera, alla salute. In tal caso rispettiamo le sue volontà. Le chiamate non ci mancano del resto… E poi la nostra è una vocazione, un servizio pubblico, un mutuo soccorso. Non so se mi spiego».
«Sei stato chiarissimo. E poi, una volta scoccate le frecce, segui il caso particolare? Perché la persona merita un ausilio extra, che so… per una certa subentrata curiosità, per voyeurismo?».
«Confesso, quando c’è di mezzo una bella donna non me la perdo di certo. Sarei sciocco! Non sono un puritano, bensì un peccatore come tutti».
«Secondo alcune fonti storiche abbastanza attendibili, sembra che il Gerofante, nei secoli, ti abbia scomunicato a più riprese. Tu come hai reagito a quest’intromissione, a questa vera e propria violenza agli affetti, agli istinti?».
«Me ne sono sempre infischiato. Ti dirò che sono andato dritto per la mia strada. Ho seguito il cuore, le pulsioni, le attrazioni fisiche».
«Ma come spieghi queste intromissioni, queste censure sull’amore?».
«Sono prodotti culturali, necessari per porre un freno agli istinti, per tutelare la famiglia, i figli, l’equilibrio sociale. Comunque l’amore trova sempre e comunque il suo spazio. Sia quello sacro, che quello profano. Non si può regolare. È un fiume in piena. Non ci sono anatemi, scomuniche, bolle pontificie, prediche dai pulpiti che tengano. L’amore non si placa, non si spegne. Su di esso poggia la riproduzione della specie e ruotano la psicologia, la poesia, l’arte, il diritto. Vengono riconosciuti oggi anche dei diritti agli omosessuali, benché il fanatismo religioso imponga veli, pratiche d’astensione sessuale e via discorrendo».
«Vedi… Io vorrei, in maniera sintetica, illustrare ai lettori le mie tesi. Esistono meccanismi di controllo inconsci su cui si è poco investigato, a parte qualche piacevole eccezione: Freud e Jung. Esiste un inquisitore virtuale che cancella sogni, indirizza le pulsioni, vigila sulla coscienza. Si tratta di una censura inconscia, radicata nell’alma primitiva. Se non ci fosse, saremmo più virtuosi e più saggi. Non avremmo bisogno di leggi, sovrani, soldati, sacerdoti. Sarebbe il trionfo dell’anarchia primordiale. Tutti rispetterebbero il codice morale scritto in ogni creatura. Anche i Libri Sacri sarebbero superflui».
«Vedo che il professore intende coniugare l’amore con la virtù. Pensa che siano due facce della stessa medaglia?».
«Lo sono. Sono complementari, si alimentano. Non ci potrà mai essere vero amore senza virtù. E neppure una persona potrà essere davvero virtuosa, se non sarà capace d’amore».
«Condivido le tue tesi, professore».
«So bene che definire l’amore in poche parole, con alcune etichette, è praticamente impossibile. Sembra quasi di fargli violenza. Se dovesse, l’Arcano che più lo interpreta come lo rappresenterebbe? Con quali voci approssimative, imperfette?».
«L’amore è forse l’unica occasione che abbiamo per conoscere l’altro nella sua essenza più profonda. Senza amore non v’è conoscenza. È l’amore che muove il Sole e l’altre stelle, come diceva il poeta fuggiasco. L’amore è l’interazione cosmica delle creature, l’essenza stessa della vita. Dall’elio primordiale fino al genoma umano».
A questo punto abbiamo smesso di gironzolare in barca, per visitare l’isoletta adagiata sul minuscolo lago di Villa Borghese. E qui, come se stessi calpestando il sacro suolo dell’amore, ho declamato alcuni versi della mia lirica che fotografava la natura dell’Arcano Numero 6.
«La brama inestinguibile
ti prende dentro
e ti fa ardere di voluttà
come una candela nuda e splendente.
Coi baci cerchiamo di dissetarci
alla fontana dell’Eros
e corriamo dietro all’eterna giovinezza
per ingannare le rughe del tempo.
Il dominio delle passioni dura un attimo
e poi ridiventiamo schiavi
delle carezze d'amore.
Il nostro corpo si appesantisce
sotto il fardello degli abbracci
e invecchia, tradito
dalla perdita dei fluidi amorosi.
Poi l’Innamorato ha voluto che gli leggessi proprio tutti i versi (che ometto).
«Mi sono abbastanza riconosciuto in questa lirica, professore. Mi ha colpito quando l’iniziato ai misteri esoterici traccia il poligono stellato per ascoltare la voce del cuore, o della ragione; e, nel momento cruciale dell’illuminazione, sfoglia le pagine dell’Apocalissi e incontra il Numero 666, associandolo alla Grande Bestia. Vorrei sapere, in virtù delle tue competenze cabalistiche, come interpreti il Numero 666».
«Alla luce della cabala, il numero 666 equivale al numero 1+2+3+4+5+6….+11+12+13+...+66+67+68+...+111+112+113++211+213+214...+311….+312+313..+411+412+413...+511+512+….+664+665+666. L’addizione di questa lunga successione approda a 222111. Tale numero va letto a partire dal centro: come un 21 amplificato tre volte, distribuito per tre volte su tre piani diversi. Dove il 21 è la palingenesi del Mondo, che subentra all’Apocalissi».
«Concetti da approfondire, professore. Comunque veniamo alla parte più interessante di questa chiacchierata: voglio avvertire Cupido della tua disponibilità a fargli un’intervista speciale. Ne sarà felice; tuttavia sul quando dovrete mettervi d’accordo voi due. Cupido, nel momento in cui si tratta di mantenere impegni, o non viene affatto, o se ne ricorda dopo due giorni, o si giustifica dicendo che era distratto dalle troppe frecce da scagliare. Io passo parola e spero che tu riesca veramente a fare breccia nel suo cuore, con le sagitte della persuasione e della cultura. Addio».
Intervista alla Luna
18 luglio 2021
«Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai? Il giovane poeta di Recanati cercò di strapparti dal tuo aspro silenzio, ma tu sei rimasta indifferente a rimirare il pellegrino del sapere. Perché mai dovresti essere più pietosa con me? Potrò mai scovare un argomento per intenerire il tuo cuore? Vorrei ascendere fino alla tua ruota celeste, con un mazzo di fiori in mano, ma sarebbe impossibile per le leggi della gravità universale». Ho accarezzato la carta della Luna, a lungo, come se dovessi rivitalizzare una creatura amata.
«Dimmi tu, luna, ed io che sono? Rimiri i borghi, il dì di festa, le mura e gli archi e le colonne della nostra tormentata storia. Nel tuo cammino periodico hai contemplato ogni ansa di fiume, ogni convalle, respirato incensi, ascoltato preghiere. Quasi sospesa per magia, non ci cadi addosso. Fai sollevare gli oceani, dai impulso alla fertilità irrorando donne, animali, piante. Soffi sulla vita una fresca aria notturna e illumini il cammino incerto dei viandanti. Sei fredda solamente in cielo. Tuttavia sei presente, testimone attenta delle nostre fragili vite. Mandami un’eterea parola del tuo infinito andar nel tempo, perché diventi anch’io immortale, grazie alle virtù del tuo splendore e candore. E possa dire: sono anche un frammento di te. E specchiandomi nel firmamento, mi riconosca come parte di un tutto. Verso la tua misericordia invio questa supplica, mentre scruto quella porzione di cielo che porto dentro».
Mi sono immerso in un rispettoso silenzio durato 18 minuti. «O Luna dei Tarocchi, non sei il freddo astro che ci osserva un poco malinconico nel nostro quotidiano tormento. Tu sei il parto di Selene; ne interpreti le volontà. Ti mescoli con le miserie umane, ascolti le suppliche, suggerisci le previsioni dei cartomanti, accompagni i nostri sogni. Talora discendi tra queste coltri terrestri e scandisci il rintoccar delle ore. E grazie a te viviamo l’illusione d’intrufolarci nelle rughe del tempo».
In ossequio alla cabala maestra, ho atteso altri 18 minuti. Sul tavolo ottagonale stavano allineati e coperti tutti i Tarocchi, ad accompagnare benignamente la metamorfosi della Luna. Il mazzo di carte quantiche cooperava e finalizzava i miei desideri. Senza il suo prezioso ausilio non avrei mai potuto interagire con gli Arcani Maggiori.
Nel 2011 mi ero recato con la scolaresca in visita a Ginevra, dove si trova il più grande acceleratore di particelle esistente sul pianeta: il grandioso progetto, nato dalla cooperazione di vari Paesi, al fine di studiare e sperimentare le condizioni fisiche che hanno reso fattibile la genesi della materia. Senza farlo sapere ai profani e per non essere additato come stravagante, avevo portato con me un mazzo di Tarocchi (concepiti dall’occultista Oswald Whirth) affinché potesse beneficiare delle influenze dell’acceleratore e modificasse la sua natura, la potenziasse. All’epoca ebbi anche un colloquio con una ricercatrice del CNR, la quale, messa al corrente delle mie tesi, palesò tutto il suo scetticismo, anche se mi promise che avrebbe seguito il mio percorso; infatti abbiamo mantenuto negli anni una profonda amicizia e ci siamo scambiati preziose informazioni. La misi al corrente della tavola delle corrispondenze secondo la filosofia cinese, a partire dalla teoria dei 5 elementi, e le insegnai l’importanza delle interazioni energetiche: argomenti che allora la studiosa, dotata di un’apertura mentale non comune, disconosceva.
Trascorsi 18 minuti (i tempi necessari dettati dalla cabala) leggiadra, la carta si è animata e ha preso vita; si è divincolata dall’inerzia e ha preso a levitare e prendere forma, dapprima come un dagherrotipo ingiallito, da cui è scivolata via per librarsi come una farfalla; poi ha indossato i panni della principessa delle fiabe. Ed ecco, ho avuto di fronte l’Arcano della Luna e sono stato investito dall’abbraccio del vento. Insieme, sul divano, in silenzio, contemplavamo una distesa di girasoli scesi in mezzo a noi, filtrati da una riproduzione di una famosa tela del pittore Vincent Van Gogh.
Lo spazio attorno a noi era cambiato, in virtù dei fluidi emessi dal mazzo di carte quantiche. Questo straordinario ponte verso la dimensione dei Tarocchi, frutto della mia ricerca, non è riproducibile. Colgo ora l’occasione per ribadirlo, una volta per tutte, e tacitare coloro che mi hanno scritto. Il mazzo è unico e non se ne può approntare un altro con le medesime caratteristiche. Inoltre, anche se lo prestassi o vendessi, non sprigionerebbe più quegli influssi che lo rendono diverso dagli altri esistenti. Bisognerebbe replicare esattamente, con un mazzo di Tarocchi qualsiasi, il medesimo percorso iniziatico ed energetico; sono convinto che quell’esperienza non si può ripetere tale a quale, né può dare gli stessi frutti.
Attorno al collo della Luna ho adagiato una collana d’oro, al fine di trasmetterle la forza necessaria per farla parlare.
«Finalmente libera, potrò rispondere alle tue domande, professore» ha subito pronunciato. «Hai dischiuso lo scrigno e mi sono librata alla luce della tua canzone. Grazie a te, o diletto figlio delle Muse, sono stata rigenerata dal pietoso verso e riscattata dall’ombra».
«O Luna, secondo un cliché gotico la gente trema sotto i tuoi influssi, le tue malie, la tua luce glaciale. E la tua faccia appare nella notte a sbirciare tombe profanate. Ipnotici tetri violini ti ritraggono nei pozzi e tu uncini la vita dei viandanti trascinandoli verso il nulla».
«Strapazzano la Luna nell’immondizia per rubarmi l’incanto delle note sideree. Si alimenta così la paura, si accentua l’ansia. Si semina orrore e malessere. Pochi sfuggono ai messaggi subliminali propagati nell’etere, mentre la quintessenza s’assottiglia ad una lamella tenera di stagno».
«Dei nostri sogni, cosa puoi dirci, o Luna? Fattrice di oniriche visioni. Alimento dei nostri incubi. Sussurro di voci soavi e suadenti cori».
«Parlo sillabe dolci che ninnano i cuori e lancio tenere visioni; ma gli orchi e le streghe ci inzuppano il pane e sui trastulli quieti e buoni stemperano il sangue infetto».
«E Dio, sommerso da una valanga di devote preghiere, possibile che resti sordo alle grida di dolore lanciate da derelitti innocenti? Possono mai tante voci della fede confondere l’Artefice?».
«Il Demiurgo non ascolta le suppliche, da qualsiasi regione provengano, da fedi in competizione, eguali in tutto di fronte al dio muto. Dovremmo, semel in anno, tutti tacere ed ascoltare la parola del Signore. Tenue e sottile, forse essa si lascia intendere solo dal silenzio globale e totale di un giorno. Niente musica. Niente auto. Niente clamori di folla. Neppure preghiere. Solo la voce tenue ma distinta di Dio. Se questa stravagante proposta prendesse vita, potremmo forse captare, insieme alla divina favella, le voci contorte del firmamento mescolate alla parola dell’Artefice, da secoli sommersa dal guazzabuglio mondano».
‘Questa mattina l’osservatorio astronomico di Jodrell Bank ha potuto chiaramente registrare una successioni di voci indistinte, poi decodificate da un computer. Esse dicevano: il 22 agosto dell’anno 2024, alle ore 22 del meridiano di Greenwich, le trombe dell’Apocalissi segneranno l’inizio della fine dei tempi. Preparatevi tutti al giorno del Giudizio.’
«Tu, o Luna, a tale annuncio come reagiresti? Alimenteresti la confusione, lo spavento? O ci ammoniresti a trovare la pace interiore e riflettere?».
«Il tema dell’Apocalissi permea le carte della divinazione. Non possiamo farci travolgere, neppure dalla fine dei tempi. Dobbiamo sempre restare lucidi: per rispondere alla confusione; coraggiosi: per sapere combattere ogni insidia; sapienti: perché abbiamo letto la parola del destino; vogliosi: in attesa della palingenesi. Mai domi. Mai disarmati. Pronti alla lotta, attorno ai fuochi; già in allerta, istruiti dalla voce della Luna».
E mi ha preso per mano, e insieme siamo andati attraverso quel prato di girasoli, che stavano chinati come beduini a ricevere il sole.
«Bizzarri movimenti sincroni cooperano sì che la luna mostri sempre la medesima faccia. Singolarità nella casualità?».
«Il fine è la meraviglia. La grazia cosmica sa stupire. Andar danzando, all’unisono nei moti, è di per sé un segno di una presenza benevola. Quasi amasse la terra da non girarle mai le spalle».
«Esiste una corrispondenza d’amorosi sensi tra la carta dei Tarocchi e la luna in cielo?».
«I flussi tra microcosmo e macrocosmo, sottili e miracolosi, avvolgono le nostre vite. Può una carta risollevare chi cade, confortare; ma anche confondere e trascinare via verso gorghi infernali. Come insegna la saggezza cinese, bisogna sapere leggere i segni».
«Secondo alcuni studiosi esisterebbe una correlazione tra le fasi lunari, le eclissi e i terremoti. Tu pensi che abbia un fondamento questa teoria non ancora dimostrata?».
«I fenomeni tellurici interessano l’intero globo. Gea si muove, respira, freme. È una creatura; essa già controlla le scosse più intense; riesce a dosarle abbastanza; tuttavia non sempre le riesce, specialmente quando entrano in gioco altre forze, come la gravitazione e gli astri, quando si trovano allineati».
«Può la luna alimentare la censura onirica? O si tratta di un’altra diceria?».
«Alla Luna s’imputano opere scellerate. Perché mai dovrebbe adoperarsi nella censura dei sogni? Se poi esista una relazione tra una visione onirica e le fasi lunari, non posso smentirlo né confermarlo».
«Luna e Terra: due astri che si corrispondono, si completano, sfere armoniche in sintonia. Vorrei che tu spiegassi l’essenza dell’interazione tra macro e microcosmo. Forse nessuno è più adatto di te per trattare una materia così importante».
«Consideriamo una grande sala vuota. Se l’attraverso in lungo e in largo, ne percepisco l’assenza d’oggetti; tuttavia se quella stessa sala dovesse essere gradualmente arredata con divano, poltrone, tavolo, sedie, televisore, libreria, luci e infine piante ed un piccolo acquario, io ne avrei una percezione totalmente diversa. Essa diverrebbe sempre più un habitat naturale in cui trascorrere piacevoli ore. La mia interazione con la sala è via via cambiata. La sala modifica il mio stato psico-fisico e a sua volta viene modificata dalla mia presenza. Se poi nella stessa sala ospito alcune persone, due donne e due uomini, avremo altre ulteriori interazioni. Anche la disposizione degli oggetti, la natura e la qualità delle suppellettili hanno un loro peso e svolgono un proprio ruolo. Se l’ambiente è ordinato e ogni oggetto è ben sistemato, le persone che ci vivono avranno un certo tipo d’interazione; se invece tutto è in disordine ne avremo un’altra. Eventuali quadri appesi alla pareti, poi, potrebbero svolgere un ruolo particolarmente interessante. Aprirebbero nuovi orizzonti e ne scaturirebbero ulteriori interazioni, scambi d’informazioni, sensazioni, emozioni. Tutti i corpi, anche i più piccoli, interagiscono con lo spazio circostante e lo modificano, tuttavia solamente in modo del tutto trascurabile e impercettibile all’occhio umano. La musica che ascoltiamo interagisce con noi. Anche le immagini che percepiamo influiscono sul nostro stato d’animo. Un film fatto d’azione e d’effetti speciali condizionerà il nostro sonno, ritardandolo ed agitandolo. La violenza che attraversa e domina la scena cinematografica si ripercuote sulla follia della società che la riverbera. Le parole in un libro ci esaltano o ci deprimono. L’agopuntura cinese è una forma d’interazione con i meridiani energetici. Il massaggio stesso è la forma più diretta ed elementare d’interazione. La stessa intuizione, anche dal punto di vista semantico, richiama l’interazione. Cartesio sembra ignorare, come poi dimostra Condillac con l’esempio della famosa statua, che i concetti sono un prodotto, un derivato delle sensazioni e dell’azione congiunta dei cinque organi sensoriali. La mente organizza i concetti e la coscienza non preesiste, bensì dipende dall’esperienza sensoriale che interagisce con la realtà circostante. Il mondo psichico scaturisce da varie interazioni con la biodiversità. Un corpo stellare, un pianeta, un satellite, modificano la spazio circostante, interagiscono con esso alterandolo, rendendolo simile ad un tappeto elastico che genera il movimento dei pianeti: la rivoluzione attorno al Sole e la rotazione sul proprio asse. La gravità universale scaturisce dall’interazione degli astri con lo spazio circostante. L’individuo non è che la somma dell’esperienza, delle interazioni col mondo circostante. E tutto vive intimamente interconnesso in una fitta rete di piccole e grandi cose. Nel nostro quotidiano, purtroppo, per rincorrere l’avere non guardiamo più in là della cerchia ristretta ed ottusa del nostro orto; sovrastati da un egoismo cieco, i fiori non ci inteneriscono e neppure il canto degli usignoli ci emoziona. Questo egocentrismo ci isola privandoci delle interazioni necessarie, e tale carenza provoca la malattia e genera ogni tipo di morte drammatica e traumatica».
«Ti ringrazio, amica Luna, per questa lectio brevis. Prima di congedarmi ti faccio omaggio del mio poemetto. Ascolta alcuni versi:
Avvolti dal pallore lunare,
i corpi diventano eterei,
paiono senza peso;
in un paesaggio senza spessore
anche il tempo fluisce stanco
con la stessa andatura
della stravagante donzella siderale
la cui luce argentea, privata
dal calore e dal colore del fuoco,
sembra immersa nell’acqua e nell’aria.
Tutto volteggia
in un’atmosfera onirica e irreale,
permeata di particelle sonnolente e glaciali.
Le creature sottostanti
sembrano come ipnotizzate
da quella lattea enigmatica
rotondità variabile,
dai tratti ironici e sorridenti».
«Professore, la Luna rischiara l’inconscio; le carte lo svelano e lo raccontano. Lui, accovacciato e ritorto, quasi smascherato si ritrae per nascondersi accanto a segni occulti, incisi sopra le pietre levigate delle torri edificate dagli alchimisti, o confondersi tra le insidie nascoste affioranti da livide acque palustri, ospiti di nemici invisibili. Tu giustamente esorti a non temere la Luna: essa protegge la fuga dei Catari dagli instancabili persecutori. Insegni come raccogliere gl’invisibili flussi siderei, come afferrare i frammenti della vita disseminata in una perenne odissea cosmica. Se Leopardi non riesce ad ascoltare la voce della Luna, tu hai saputo coinvolgerla nella scoperta dell’inconscio originario collettivo che per millenni ha tenuto nascosta la verità in uno scrigno. Nato nel segno zodiacale dell’Acquario, hai spalancato forse una nuova era. Ora si pone una questione. Riusciranno queste tue interviste a viaggiare attraverso l’etere e a provocare una rivoluzione culturale? L’inconscio originario collettivo, che svolge le veci di un Inquisitore universale, mimetizzato fin dall’alba della Genesi, si lascerà mettere sotto il riflettore della Luna? Un minore, rovistando vecchie carte e dando voce al buon senso, senza inventare nulla che non sia stato già detto a mezze parole, ha risposto ai grandi quesiti esistenziali. Nietzsche si esaltava nel raccontare la nascita del superuomo e la morte di Dio e poi venne internato in un manicomio per arginarne i conati rivoluzionari. Tuttavia il Cavaliere di Spade ha rilasciato il nullaosta e l’Imperatore concesso l’imprimatur. Se hai superato il vaglio dell’apparato più censorio mai esistito, allora dovresti essere in una botte di ferro, professore».
Intervista alla Morte
13 agosto 2021
Per intervistare l’Arcano della Morte sono andato ad incontrare una cartomante che vanta frequentazioni tenebrose, neppure poi tanto gridate alla luce del sole. Preferisce non farsi pubblicità e si affida al passaparola di una cerchia ristretta di fidati clienti che blandiscono la sorte, chiedono fatture e vogliono credere di ascoltare la voce dei propri defunti. Io, nel mio connaturato scetticismo, mi limito a registrare le chiacchiere che circolano.
In questo frangente Mario Felicioni ha fatto il possibile per scampare al temibile incontro ravvicinato, adducendo le scuse più banali; in compenso mi ha regalato il classico corno portafortuna e ha comprato anche un oggetto di un certo valore, in avorio e piuttosto antico. «Contro le influenze negative conta la materia prima: l’osso dell’elefante; mi sono andato ad informare in internet…» ha sentenziato, nell’atto di porgermi l’amuleto.
Personalmente trovo tutto ciò abbastanza risibile, tuttavia neppure io riesco a sfuggire ai rituali scaramantici, alle barriere contro la iettatura. Ovviamente, anche per non offendere la sorte e creare un precedente pericoloso, ho messo in tasca il corno che avrebbe dovuto proteggermi dall’Arcano della Morte, insignito nei Tarocchi dal numero 13, considerato di buon auspicio nell’Italia meridionale. Dovrebbero mettersi d’accordo su certe interpretazioni controverse, specialmente quando si tratta di rispettabili numeri. Questa confusione dimostra quanto le credenze popolari a volte cozzino tra di loro e si dimostrino arbitrarie. Comunque nei Tarocchi il 13 ha un suo fondamento logico, perché l’Arcano della Morte viene dopo l’Arcano dell’Appeso, contrassegnato dal numero 12.
Quando ho spiegato alla cartomante che volevo incontrare l’Arcano del dolore e della sofferenza per fargli un intervista, lì per lì si è messa a ridere nel modo più smodato e sfrenato. Di solito la gente la interpellava per altri motivi, diametralmente opposti: o per guarire da un male incurabile, o per confezionare fatture letali.
«Scusa» ha poi detto «per deformazione professionale sono abituata a guardare dentro la testa dei miei clienti. Dunque sei uno studioso di Tarocchi, anche scrittore, e vuoi intervistare la Morte!».
«Cosa c’è di strano? Ho realizzato altre interviste, prima di questa».
«Procedi in ordine sparso? O segui un tuo criterio?».
«Ho deciso di seguire – per quanto possibile – un certo ordine: le lettere dell’alfabeto. Per non fare torto a nessuno. Secondo alcuni interpreti ad ogni Arcano può essere associata una lettera dell’alfabeto ebraico, che sarebbe scaturito direttamente dalla voce di Dio!».
«Interessante! Si capisce che sei un uomo di cultura...».
«Etel, quanto vuoi per rendere fattibile quest’intervista?».
«Mille e trecento euro. Sono una vera professionista. E i miei clienti rimangono sempre soddisfatti. Ti farai rimborsare le spese dalla televisione per cui lavori».
«Caspita! Una bella cifra! Il mio direttore non è uno spendaccione. Troverà da ridire».
«Allora manda lui a fare l’intervista! Avvisalo però che il prezzo sarà lo stesso».
«Non é voluto venire, per paura. Tanto che si è premurato di darmi un bel portafortuna!».
«Allora paghi, o te ne vai?».
«Pago, Etel. Cosa credi? Che siamo pezzenti?».
«Tutto cash; niente assegni, professore».
«Ci avrei scommesso. Ho il danaro qui, con me».
«Allora paga! È un atto di fiducia verso l’Arcano. Non vorrai mica mancargli di rispetto?».
«Posso registrare l’incontro?».
«Puoi, ma non voglio fotografie. Capirai bene, devo tutelare la mia professione».
«Certo, manterrò su di te il più completo anonimato. Volutamente ho deciso di non chiamarti con il tuo vero nome».
«Io mischio sempre le carte, dopo averle ordinate. Solamente gli Arcani Maggiori. Tredici volte: quante il Numero che identifica la nostra signora vestita di nulla».
«Etel, mi sembra corretto e rispettoso, sotto il profilo della cabala».
«Se non esce l’Arcano Numero 13, ovviamente ti restituirò i soldi. Tuttavia, professore, se vuoi farti leggere le carte, anche senza intervista, sono il mio mestiere; paghi solo cinquanta euro».
Ho fatto un cenno d’assenso.
La cartomante ha mescolato il suo mazzo sudicio e ingiallito. Io l’ho tagliato con un certo distacco. Ero sicuro che l’Arcano della Morte sarebbe rimasto nascosto. A questo punto le ho mostrato gli strumenti del mio mestiere. Non volevo stuzzicare la sua suscettibilità, presentandomi subito con il mio mazzo di carte quantiche e spiegandole che possedevano dei poteri speciali.
«Sono abituata a lavorare solo con il mio mazzo. Non posso usarne uno diverso. Gli Arcani sono suscettibili e gli equilibri dell’occulto assai sottili» ha obiettato lei.
«Etel, se le carte le mischio io e le dispongo sul tavolo, mi puoi fare da tramite dando voce all’Arcano Numero 13? So che ti presti a fare anche sedute spiritiche. Mi cadi in trance e gli dai modo di parlare».
«La seduta spiritica non era prevista nel contratto, mi devi un extra!».
«Etel, adesso esageri! Era chiaro che non si sarebbe trattato di una semplice lettura delle carte. Non ti ho già pagato abbastanza!».
«Caccia altri mille e trecento euro, professore».
Ho ceduto e l’ho accontentata.
L’Arcano della Morte è uscito come settima carta, nella posizione più consona, visto che era il protagonista indiscusso. Per sette volte, con le dita della mano sinistra, la cartomante ha tracciato il segno benedicente della croce sullo scheletro con la falce; poi lo ha baciato e lo ha preso tra le mani e gradualmente è scivolata verso la trance; solamente allora ho udito la voce della Signora in gramaglie.
«Per caso, hai con te qualche santino nel portafoglio, professore? E non mentire! Chi bazzica le acquasantiere mi fa venire l’allergia!».
«Assolutamente no, sono un laico convinto. Se poi ti gratti, sarà colpa della cioccolata! In compenso il direttore della televisione per cui lavoro, Rete Destino, mi ha regalato un bel corno d’avorio per l’occasione. Ce l’ho in tasca, per rispetto. Non me ne vergogno, gli amuleti possono svolgere una certa funzione».
«Non devi avere paura di me. Sono solo un simbolo del momento fatale a cui tutti vorrebbero sfuggire. Anche se la gente fa poco o nulla per conoscermi, tutti mi trascurano nei loro discorsi».
«Ti posso chiamare Thanatos, alla greca?».
«Mi gusta, professore. I vari citrulli in circolazione non coltivano le scienze umanistiche».
«Io mi sento ben protetto, credo di possedere le 4 virtù ermetiche della tradizione alchemica: osare, volere, sapere, tacere. Certo non esistono corazze impenetrabili. Tuttavia spero d’uscire arricchito da quest’incontro».
«Non voglio arrecarti danno, professore. Ora sono qui per la tua intervista, che hai pagato salata!».
«Thanatos, mi puoi dire chi ti ha più resistito e con quali armi in suo possesso? Un nome famoso… se possibile. Vorrei un pettegolezzo di qualità».
«Ce l’ho! Rasputin: un santone che leggeva le carte, un guaritore. Pare fosse affetto da priapismo. Il suo fallo enorme, secondo le cronache, sarebbe conservato al Museo del sesso, nella città di San Pietroburgo».
«Rasputin è un personaggio storico di un certo rilievo. Perì in una congiura di nobili, che temevano le sue trame e i suoi influssi. Alcuni dicevano che fosse anche l’amante segreto e il consigliere della zarina. Dichiarò di fronte all’intera corte dello zar di Russia che avrebbe dovuto mantenere la neutralità nel conflitto mondiale scoppiato tra le grandi potenze occidentali. Aveva previsto una disfatta per la nazione e la rovina dei Romanoff, poi giustiziati dalla guardie rosse, durante la rivoluzione bolscevica».
«Sei informato alla grande, non vale professore! Mi togli tutta la sorpresa».
«Continua pure. Ricordo che quel povero Rasputin fece una brutta fine. Non ne convieni Thanatos?».
«Io c’ero, professore… Eravamo in simbiosi da anni. Gli insegnai io a leggere le carte. Lo guidai nella sua scalata sociale. Glielo avevo detto di non accogliere l’invito di quella canaglia di Jusupov, l’avevo avvertito che l’attendeva una fine ingloriosa. Eppure li volle sfidare e dimostrare che non aveva paura di morire. Poteva farla finita quando tentarono di avvelenarlo col cianuro! Dopo avere ingerito il veleno, disse che aveva solo un poco di solletico allo stomaco. E chiese persino un pasto. Così lo accoltellarono alla schiena, perché in faccia non avevano il coraggio d’affrontarlo. E poi lo evirarono pure, perché erano gelosi dei suoi attributi. E lo gettarono nel fiume gelato d’inverno. Il suo cadavere non fu più ritrovato. I congiurati assolti. Nessuno degli assassini pagò per quel delitto. E l’intera famiglia degli zar fu fucilata, per la legge del contrappasso. Eppure erano stati avvertiti. Ma i consigli gratuiti, i grandi, presuntuosi e boriosi, non sempre li ascoltano».
«Prima della Grande Guerra prevalse l’interesse dei guerrafondai; e l’ambizione dello zar di strappare terre alla Germania. Sai quanti soldati russi morirono durante il conflitto?».
«Non ne ho un’idea esatta. Credo molti. Dimmelo te, che sei professore».
«Più di due milioni, i soldati. Le vittime civili del conflitto in Russia furono un milione e mezzo. Rasputin avrebbe potuto mutare il corso della storia… Era stato lungimirante. La Grande Guerra fu una follia collettiva».
«Io non ci soffiai sopra, professore; non mi vergognerei di confessarlo! Altri, che ben conosco, attizzarono l’incendio. Anzi io, insieme a Rasputin, ce la mettemmo tutta per risparmiare quei futuri orrori. Senza riuscirci. I giovani erano attraversati da un’insana passione per la guerra, per il gesto eroico. La propaganda in ogni paese soffiava sul patriottismo».
«Anche i nostri giovani interventisti cantavano inni alla guerra. L’Italia contò 651.000 morti, ma guadagnò l’Istria, Trieste e una piccola porzione della odierna Slovenia, una parte della Dalmazia e alcune isolette. Il cimitero dei caduti ora si trova in terra straniera, a Caporetto. Un tempo, quando calpestavo quelle terre, l’ho visitato. Era ben tenuto, non sembrava affatto abbandonato, benché fosse in terra straniera. Per caso m’imbattei anche nella tomba di un mio antenato. Su un loculo, ricordo di avere visto inciso il suo nome».
«Allora quella guerra ce l’hai nel sangue…».
«Dopo la Seconda Guerra Mondiale abbiamo restituito tutte quelle terre, tranne Trieste, alla ex Jugoslavia, come riparazione dei danni di guerra provocati dall’Italia fascista. I soldati morirono invano per ricostruire intatto il sacro suolo della patria. I giovani nazionalisti erano vittime di una politica aggressiva che usava gli uomini come pedine e li mandava a morire per presunti ideali costruiti nel laboratorio del profitto bellico. Tu, Thanatos, non hai sguazzato in quella lunga e dolorosa guerra di trincea?».
«Non te la prendere con me, professore. In fondo si combatteva all’arma bianca, con la baionetta innestata sul fucile, si moriva da eroi e viveva chi aveva più forza e coraggio. Comunque, sulle guerre in genere, io non ho mai soffiato. Si muore, come al mattatoio, senza dignità. La morte va trattata con i guanti. Rispettata. Ci si deve preparare mentalmente. Bisogna essere addestrati. La morte costituisce lo snodo chiave dell’esistenza terrena».
«Ne convengo Thanathos, vai pure avanti».
«Ascolta bene, professore. La maggioranza degli uomini non si prepara per nulla ad affrontare la morte. Anzi preferisce non parlarne. Usa metafore per blandirla ed oscurarla. Non v’è conoscenza autentica del corpo e delle sue risorse. La morte, nella coscienza contemporanea, è un tabù. Non ci si confronta, né tantomeno ci si prepara al grande passo con dignità. Ancora in molti paesi civili l’eutanasia è proibita, in nome della religione e dei principi morali».
«Le tue parole, Thanatos, aiutano a smantellare tanti luoghi comuni. Hai ragione: dovremmo prepararci a vivere la morte, ad attraversarla con dignità e consapevolezza, senza ignorarla nella sua essenza. La cultura ufficiale ignora la morte, la camuffa, la procrastina… Siamo dinanzi a un progetto che ha posto sul piedistallo Dio e l’anima immortale. Gli stessi Tarocchi portano impressi, sacramentati, i simboli della fede: il potere, gli angeli, il papa, l’apocalissi, la temperanza, la Casa di Dio. Gli Inquisitori sposarono le carte, usandole per adescare le anime. I corpi li bruciavano perché appartenevano a individui peccatori che dovevano essere purificati dal sacro fuoco del giudizio di Dio!».
«Io mi sono sempre ribellata ad essere raffigurata come uno scheletro che con la grande falce semina morte. Dovevo fare paura. Terrorizzare. Così correvano a confessare i propri peccarti e a salvare l’anima dai tormenti dell’Inferno».
«Thanatos, certo sai di Matusalemme: uno dei patriarchi antidiluviani che s’incontrano nell’Antico Testamento. La sua figura è diventata popolare e proverbiale per la sua longevità; secondo il racconto biblico, raggiunse i 969 anni. Non so, almeno così riferiscono le fonti. Esagerano forse?».
«Professore, vorrei puntualizzare che allora io ancora non esistevo. Sono l’Arcano Numero 13 dei Tarocchi e ho visto la luce in Roma, nel Foro Boario, a due passi dall’isola Tiberina. Sono uscito fuori, insieme ad un mazzo di carte, da un pertugio di pietra, che ancor oggi è chiamato Bocca della Verità».
«Facciamo allora una considerazione, nobile Arcano. Le fonti bibliche attestano che Matusalemme abbia di poco sfiorato il millennio. Cos’è intervenuto nel frattempo? Sei diventata più capillare, più poderosa? L’uomo più fiacco agli agenti patogeni?».
«Non lo so proprio cosa sia successo professore. Nessuno ti potrebbe rispondere. È un mistero!».
«Affatto, Thanatos. Le difese immunitarie primordiali funzionavano perfettamente, l’uomo era più longevo. Il processo d’invecchiamento era rallentato. Pare che qualcuno abbia scoperto il vaso di Pandora e favorito la diffusione di morbi che prima non esistevano. E questo è successo dopo che Adamo ed Eva commisero il famoso peccato, infrangendo la legge di Dio. È venuto meno l’equilibrio originario che i programmatori avevano previsto tra tutte le creature e il resto del creato. La Morte sopraggiungeva tardi e colpiva un individuo già preparato al trapasso finale».
«Hai ragione. Le difese immunitarie originarie forse consentivano all’uomo di vivere molto più di oggi che abbiamo la chimica e le medicine. Le varie razze umane non avrebbero potuto diffondersi su tutto il pianeta, se la specie non fosse stata progettata per sfiorare i mille anni».
«Invece si vuole far credere ad un’evoluzione ininterrotta della specie, verso sempre nuove conquiste. Le macchine, la chimica, i viaggi sulla luna, il computer, internet. L’homo sapiens sapiens domina il pianeta messogli a disposizione dall’unico Artefice di tutte le cose. Pare che questa storiella abbia convinto la maggioranza degli uomini che professa una fede religiosa».
«Vuoi tu forse, professore, osare mettere in discussione tutto questo, contro miliardi di uomini convinti del contrario? Vorresti scoprire un altro vaso di Pandora? Le credenze hanno una loro necessità. Sono funzionali a un progetto».
«Thanatos, il popolo degli scriventi registra solo quello che deve essere detto. Il popolo dei parlanti ripete i dogmi degli scriventi. Le multinazionali della chimica e della medicina producono farmaci. Si generano nuovi virus, semmai ne mancassero in natura. Si producono film con immagini subliminali per addormentare le reazioni. Si proibiscono le droghe, per triplicarne la vendita…».
«E la nave va... perfettamente. Tutto secondo copione. Vorresti forse infrangere, professore, questo meccanismo, dove ognuno recita la sua parte?».
«Non esistono muri invalicabili. Non esistono barriere. Le idee circolano liberamente e nessuno potrà mai fermarle. Poche gocce d’acqua sono filtrate. La diga eretta, prima o poi crollerà».
«Lo credo anch’io. Un ciclo si sta per chiudere oggi, proprio con questa intervista... Mi è giunta l’eco del tuo poemetto, fammi ascoltare alcuni versi, professore».
«Certamente Thanatos, non volevo risparmiarteli, aspettavo solo il momento propizio:
‘Di fronte all’ineluttabile,
ci coglie il rammarico d’avere perso
i momenti e le occasioni più belle,
ma rimandiamo tutti,
quasi per debolezza e paura.
Un universo inspiegabile ci sovrasta
e ci disperdiamo così
nelle frasi fatte di sempre:
veri luoghi rassicuranti.
Consapevoli d’esistere
sospesi tra lo sfuggire e il rincorrere,
quando la Morte ci raggiungerà
ne resteremo folgorati,
e ricorderemo, rimpiangendo,
lo stato dei sempiterni numi.
Siamo come nuvole effimere
di un temporale che muore.’ ».
«Complimenti, hai raccontato la Morte nella sua dimensione storica, civile, e la Morte come dramma esistenziale. Hai anche tratteggiato un percorso. Io, Thanatos, porto in serbo un fardello non mio e rimpiango lo stato dei sempiterni numi. Un universo inspiegabile ci sovrasta e ci disperdiamo così nelle frasi fatte di sempre: veri luoghi rassicuranti. Professore, voglio confessarti una debolezza: neppure io so cosa si nasconde dietro la morte. Mi spingo spesso al limitar di Dite; tuttavia non sono riuscita ancora a vedere oltre il velo di Maya».
«Mi piacerebbe concludere la nostra chiacchierata con un breve percorso fonetico. Dimmi, Thanatos: morte e sorte. Parole affini solo per assonanza, o per sostanza?».
«È una domanda intrigante, professore. La lingua italiana è straordinaria! Il destino riserva a tutti lo stesso punto d’arrivo finale. Nessuno riesce a sottrarsi a un momento tragico che le moderne culture, soprattutto quelle occidentali, hanno cancellato da ogni dibattito con un colpo di spugna. Ribadisco: vorrei ribaltare certi pregiudizi moderni che hanno occultato la morte dissimulandola, oscurandola. L’eutanasia dovrebbe essere scritta in una nuova carta dei diritti inalienabili dell’uomo».
«Thanatos, gli dei hanno oscurato la verità. Bandito l’uomo dall’Eden originario per il suo peccato, che poi era la volontà di dominare il mondo come monarca assoluto. E l’umanità è condannata a vivere nell’ignoranza delle origini e non riesce a rispondere ai quesiti esistenziali. Muore nella sofferenza e nell’incertezza del proprio futuro ultraterreno».
«Condivido. Talora, non a caso, le tesi intelligenti cadono nell’oblio. Se conoscere è ricordare, come diceva il filosofo Platone, tu hai rammentato le origini, le hai percorse. Tuttavia... tu sai ch’è l’ora, tu sai ch’è tardi».
«Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi. Tuttavia... sarebbe bello se un alieno potesse vederci come in un film. Captare le nostre luci e le mie parole essere eterne in un copione immortale».
Ad un certo punto la voce della cartomante si è fatta più fioca, indistinta. La donna si è messa a tremare per un freddo interiore che sembrava stesse divorandola. Forse, presa da smania vendicativa, una forza oscura camuffata dietro a Thanatos avrebbe voluto prendersi la vita della cartomante, ma l’ho abbracciata con forza, come fosse mia figlia.
Etel, uscita dalla trance, si è messa a piangere e a singhiozzare e mi ha a sua volta abbracciato mentre stavo per lasciare l’appartamento, dove si poteva respirare il profumo degli incensi benevolenti misto all’aglio soffritto.
A Roma ci si ritrova tutti insieme nello stesso segno, marchiati dalla tradizione culinaria: bucatini all’amatriciana, coda alla vaccinara, carciofi fritti, fave col pecorino.
Sull’uscio, la cartomante ha tanto insistito perché restassi a pranzo. Non ho saputo dirle di no. Secondo un’antica consuetudine, in alcuni paesi del centro-sud, dopo avere frequentato la Signora vestita di Nulla, si fanno gli scongiuri con una buona scorpacciata finale.
Intervista al Mondo
21 agosto 2021
Tutti i tentativi fatti per intervistare il Mondo erano miseramente andati in fumo: la visita al Reame dei Tarocchi, sorretta dalla mediazione dell’Eremita e dal placet del guardasigilli; il rituale con il mazzo di carte quantiche; la seduta spiritica e relativo tabellone decorato con le lettere dell’alfabeto. Piuttosto immalinconito, veleggiavo verso la malattia del secolo: la depressione. Poi, un giorno insperato ricevo un pacchetto privo di mittente, contenente un mazzo di Tarocchi Visconti e un bigliettino inequivocabile, con su scritto: Ci vediamo domani al Caffè Greco, alle ore 21, il 21 agosto dell’anno del Signore 2021.
Il sedicente Arcano del Mondo non avrebbe potuto scegliere un ambiente migliore: uno storico crocevia mondano, che fin dalla seconda metà del Settecento aveva svolto un ruolo sociale, politico, culturale in quanto simbolo della rivoluzione dei valori, voluta dalla borghesia illuminista.
‘Nella centralissima Via Condotti, a due passi da Piazza di Spagna e da Trinità dei Monti, si trova uno dei Caffè più antichi d’Italia, da sempre punto di ritrovo non solo per i Romani, ma per coloro che passano da Roma, o vi risiedono per un periodo più o meno lungo. Re, regine, maragià, scrittori, poeti, compositori, attori, cantanti e persino indiani e cow-boys sono stati visitatori più o meno assidui di questo Caffè, delle sue sale (forse piccole ma uniche) piene di opere d’arte, foto e oggetti che ne raccontano il passaggio. Entrare in questo Caffè equivale a fare un viaggio nel tempo: i tavolini con marmi antichi, uno diverso dall’altro, sembrano popolati da personaggi di altri tempi, intenti a scrivere un racconto, una poesia, o a leggere un libro, in attesa che venga servito il caffè. Caffè sempre uguale, servito nelle stesse tazzine cerchiate di arancione e dai camerieri rigorosamente in frac. Se non fosse per le bustine di zucchero, si potrebbe essere in qualsiasi epoca, a partire da quel lontano 1760, anno in cui l’esistenza del Caffè Greco fu ufficialmente registrata in occasione del censimento che (essendo all’epoca Roma capitale dello Stato della Chiesa) venne effettuato dalla Parrocchia di San Lorenzo in Lucina. Questa circostanza, pur non dandone certezza, rende estremamente probabile l’ipotesi che il Caffè Greco esistesse da data ben anteriore al 1760. Se poi si arriva in fondo al locale, si trova una quasi inaspettata, sia per grandezza che per bellezza, Sala Rossa, con le sue pareti damascate a cui, da anni, fa da guardia la statua di un fauno e dove si trova il divano proveniente dal soprastante appartamento in cui soggiornò per lungo tempo Andersen. In questa sala si riuniscono associazioni culturali, si ricevono ospiti di riguardo e dietro un pianoforte a coda si trova una libreria che ospita l’archivio con documenti e testi riguardanti la storia del Caffè. La mente di Roma vive qui da quasi tre secoli nella celeberrima saletta ‘omnibus’, dove passarono Liszt, Bizet, Gogol, Wagner, Goethe, Casanova, Stendhal. E insieme a loro, tutti i grandi pensatori, artisti, letterati degli ultimi duecento anni, corroborati dallo scambio d’idee e dalla bevanda orientale. È un monumento della Capitale. Il Caffè Greco è un vero e proprio museo: con oltre 300 opere d’arte, è la più grande galleria d’arte privata, aperta al pubblico, esistente al mondo.’
Per coloro che forse non conoscono uno degli angoli più caratteristici della Capitale, ho voluto trascrivere integralmente la presentazione che nel web racconta la storia dell’antico caffè, che non ha certo bisogno di pubblicità. Gli sono grato per avere ospitato, a sua insaputa, quest’intervista.
Quando ho informato il Direttore dell’inattesa novità, è saltato per la gioia. Il suo spontaneo evviva si è propagato nell’etere e ha investito tutti. Non ho contato i complimenti, le strette di mano, gli abbracci. Abbiamo brindato con champagne francese. Mario Felicioni, da quel momento di tripudio, non mi ha mollato più. Avrei dovuto ucciderlo per non averlo al mio fianco in quest’intervista. Siamo entrati nello storico locale che sembravamo due fratelli siamesi: incollati. In mezzo a turisti curiosi, a caccia di un pezzetto di storia, la nostra presenza passava inosservata.
Noi scrutavamo tra la gente per individuare la misteriosa presenza che ci aveva convocato a quello storico incontro. Io tenevo in mano il bigliettino d’invito, per farmi riconoscere. Il Direttore, eccitato, puntava i tavolini in cerca di un segno di riconoscimento. E infatti siamo stati calamitati dai Tarocchi Visconti, messi apposta su un tavolino per richiamare la nostra attenzione. Io ho tirato fuori dalla tasca il mazzo di carte che mi era stato recapitato. Nel segno della nobile casata dei Visconti ci siamo riconosciuti. Da molti studiosi è ritenuto il più antico dei mazzi, anche se la datazione probabile risale al periodo 1442-1447; il seme di denari, infatti, raffigura le due facce del fiorino d’oro fatto coniare dal duca di Milano Filippo Maria Visconti nel 1442 e rimasto in circolazione fino all’anno della sua morte: 1447.*
Abbiamo familiarizzato e ordinato una granita di caffè con panna. Felicioni ha voluto anche dei pasticcini. Erano ottimi e freschi. Sono spariti in un attimo e ne abbiamo chiesti altri. Frattanto giocherellavo con i Tarocchi, che ogni tanto mischiavo dinanzi al sedicente Arcano del Mondo. Osservavo l’uomo e cercavo d’investigarne il viso corpulento e gioviale. Sommerso da interrogativi, distratto dal vociare, stentavo a trovare la giusta concentrazione. Senza scambiarci parole, l’uomo ha letto le mie intenzioni e ha scelto una carta dal mazzo aperto a ventaglio sotto i suoi occhi. Sorridendo, ha pescato il Trionfo numero 21. Io, imperterrito, ho voluto sfidare i suoi fluidi che hanno inequivocabilmente tratto dal mazzo il medesimo Trionfo. E anche una terza volta ha dato una chiara dimostrazione dei suoi poteri.
«Come fate? Già l’Arcano del Carro mi ha messo a tacere con siffatta dimostrazione! Nel mazzo ci sono 78 carte! E tu, per tre volte consecutive, hai pescato giusto!».
«Poteri paranormali, forse. Forse alchimia: il simile attrae il simile. Vuoi ad ogni costo una spiegazione logica, professore, ma non sempre si può avere. Bisogna sapersi accontentare dell’evidenza».
«Prevedendo di stare in un ambiente chiassoso e sviante, ho preparato e scritto delle domande. Di solito preferisco improvvisare». Ho preso in mano gli appunti e ho iniziato a leggere la prima domanda, anche a costo d’apparire un principiante impacciato e timido. «Iniziamo da come i vari interpreti hanno voluto raffigurare l’Arcano del Mondo...».
«Un buon inizio, professore».
«Nei Tarocchi Visconti, i più antichi giunti quasi intatti sino a noi, vediamo la rappresentazione del Mondo in una maniera del tutto verista, come se un astronauta volasse in cielo e ci inviasse una fotografia del globo terrestre».
«Esatto, professore. Si vedono due puttini che sorreggono idealmente il Mondo, segno che il dualismo è alla base della genesi del tutto: lo yin e lo yang del pensiero taoista. Non è la tartaruga cinese che sopporta il peso del Mondo; non è l’Atlante mitologico che lo sostenta; il Mondo dei Tarocchi Visconti è aereo, leggero, senza peso, gravita in cielo, i puttini lo presentano come se si trattasse di una rappresentazione teatrale».
«Dopo quaranta lustri, tuttavia, la versione ufficiale dell’Arcano Numero 21 viene stravolta: compare una donzella che danza nuda entro una ghirlanda di fiori, circondata da quattro animali sacri, simbolo dei quattro elementi primordiali della vita. Si tratta di una raffigurazione certo più complessa e filosofica. La prima rappresentazione originaria era invece più immediata: fotografava un aspetto del mondo, una città medioevale con le sue mura. Gli alchimisti, quasi due secoli dopo, si appropriano dei Tarocchi, ne vogliono proporre una rilettura. La carta dei Visconti può essere decifrata da tutti, la seconda versione invece è esclusivamente riservata a iniziati, dotti. La gente comune viene allontanata. Come spieghi questo mutamento? Come lo hai vissuto? Cosa puoi dirci in merito?».
«Me lo sono ritrovato sul muso, l’ho vissuto come un’imposizione. Neppure ero stato interpellato. Tutto è avvenuto nelle stamperie di Marsiglia, dove era stata partorita questa nuova versione dell’Arcano Numero 21. All’epoca andai personalmente a conoscere il miniatore e gli feci: “Ragazzo, ti ha dato di volta il cervello? Dove li sei andati a pescare questi quattro animali? Non certo nel mio cortile privato. Un leone, un toro, un’aquila, un angelo? Chi ha detto di metterli ai quattro angoli della carta?”. Neppure si mise a ridere. Mi fece segno di reclamare con il Maestro che dirigeva la miniatura e aveva ordinato quelle carte; lui le aveva fatte come richiesto, senza fiatare, perché non voleva perdere il posto. Il Maestro mi rispose che un nobile di Marsiglia, senza un volto preciso, si era presentato perché gli fosse realizzato un mazzo così e così. E non aveva dato spiegazioni. Ubi maior, minor cessat. Non riuscii a sapere l’identità di quel messere. Poteva essere un nobiluomo, o forse un vescovo senza abito talare. Probabile fosse un emissario del Re di Francia che con i Tarocchi ci guadagnava assai. Ogni mazzo di carte era rigorosamente tassato e l’imposta arrivava puntualmente nelle casse regali. Il nuovo mazzo andò a ruba. È tuttora in circolazione quel mazzo di Tarocchi, detti di Marsiglia. Tutti li comprano e nessuno fiata. Andai persino a Parigi, per chiedere un chiarimento. Il Re di Francia non mi ricevette. Dissero che non avevo nessun titolo per essere ammesso al cospetto del sovrano. Io, il vero autentico Arcano Numero 21, fui messo alle porte! Che potevo fare? Nulla! Subii rassegnato l’umiliazione e tornai a casa, tra la gente che frequenta i Tarocchi. E ancora oggi pago per quella malaugurata metamorfosi dell’Arcano. Se chiedi a uno che si fa leggere le carte cosa rappresentino quegli animali, la maggioranza non lo sa e neppure se lo è mai domandato. Ci hanno fatto il callo. Non amo questo dipinto della mia famiglia, ma debbo subirlo; quasi nessuno seriamente ha proposto di tornare alla versione originaria. Dovrei presentare domanda al guardasigilli. Legittimare le ragioni. Incorrere nelle bizze dell’Imperatore. Scomodare la Giustizia. Insomma mettere quasi un intero regno in subbuglio. Rischierei l’anatema del Gerofante. Lo sprezzo dei Fanti, dei Cavalieri, delle Damigelle. Insomma sarei quasi un esiliato nel mio stesso territorio. Quindi non posso farci più niente, anche se ancora sto cercando una via per fare trionfare la mia volontà di rivincita. Neppure il Due di Coppe, nominato recentemente Ambasciatore degli Arcani Minori, ha voluto immischiarsi in questa storia. Quando seppi che il noto occultista Wright stava per lanciare sul mercato una sua versione dei Tarocchi, più raffinata di quella rozza e cialtrona dei Tarocchi di Marsiglia, mi sono subito fatto vivo. Speravo fosse quella una buona occasione per riformare l’Arcano Numero 21. Quell’uomo, che vantava poteri taumaturgici e altre diavolerie, non volle saperne affatto; anzi praticamente ricalcò la versione precedente. Fece la ghirlanda un poco più tonda e meno ovale e dette più carne alla ballerina. Mantenne persino la posizione dei quattro animali sacri: angelo, aquila, leone e toro, se li leggiamo in senso orario, dall’alto verso il basso. Volli sfidare quel mago moderno a duello e feci recapitare le mie volontà di un cimento con la spada. Sapevo che era considerato un bravo spadaccino, anche se dava di scherma per diletto. Non accettò la sfida! Neppure ucciderlo a tradimento avrebbe cambiato le sorti della nuova versione dei Tarocchi. Le bozze già erano state disegnate. Ne avrei fatto un santo, un martire, e io sarei finito alla gogna eterna, accanto all’Appeso nel torrione dei condannati. Forse ora però, professore, forte del tuo autorevole parere, potrei sperare in una revisione della carta».
«Sarà molto difficile ripristinare l’Arcano nella versione Visconti. Tempo sprecato. Volevo soltanto la tua versione dei fatti».
«Sono felice d’averti accontentato, professore».
«Lo facciamo dopo… domani. La filosofia del dopo è sempre attuale. Pare un sottile vizio universale. Risorge dalle ceneri come la Fenice della leggenda. Molte persone vivono nel dopo. Dimensione di un futuro sempre instabile, aleatorio. Rincorriamo il dopo ogni volta che facciamo il proponimento di non fumare, di non mangiare più cioccolata. Dopo è il tardi vestito da gentiluomo. Dopo è volenteroso, ordinato, disposto a tutto. Poi verrà un altro dopo. Dopo il dolce, faccio la cura dimagrante. Dopo un abbondante pasto, mi prendo pure il digestivo. Il dopo è spesso goloso, raffinato, pantagruelico. Non ha odore; non è antipatico; non costa; non disturba; non litiga con nessuno. Ha tutti gli amici che vuole, non è mai solo. Non costa. Non piange mai. Non ride mai. È serio. In attesa di un altro dopo di lui. Non so immaginarmi il dopo di quel Tizio morto per essere stato morso da un cane rabbioso. Forse dopo lo incontreremo, senza fretta però. Tutti abbiamo voglia di mille altri dopo, così che il tempo, se pur frammentato, sia duraturo ed infinito».
Dopo questo lungo giro di parole, domando al mio interlocutore: «Dopo l’Apocalissi, come sarà il Nuovo Mondo?».
«Dopo l’Apocalissi, nei Tarocchi, c’imbattiamo nella rappresentazione del Mondo nella sua essenza originaria. Il Numero 21 indica una rinascita generale alla riscoperta dei valori primordiali, prima del peccato e dello squilibrio tra le creature. Dopo gli Arcani cosmici, Stelle, Luna e Sole, sopraggiunge l’Apocalissi che chiude un ciclo e ne apre poi un altro, con il Nuovo Mondo. Il 21, anche numericamente, è segno di una nuova vicenda storica, dopo le due decine che raccontano il divenire del mondo terreno nelle sue varie sfaccettature. I Tarocchi sono un sistema rigoroso, una costruzione architettonica sapiente, basata appunto sui Numeri. Se i numeri fossero solamente un accidente, neppure sarebbero scritti in lettere romane. Siamo di fronte ad una sorta di via crucis laica che presenta gli eventi secondo un ordine logico».
«Ti ringrazio per la spiegazione, non potevi essere più chiaro di così. A proposito: una curiosità… Perché nel Reame dei Tarocchi le pene comminate sono eterne? Non esiste amnistia, grazia. Non si parla di pietà, di perdono».
«Caro professore un proverbio latino sentenziava: dura lex sed lex. Certi reati gravi, come l’omicidio, non dovrebbero ammettere attenuanti, cavilli giuridici… Noi prevediamo un esilio che dura in eterno, una pena esemplare che scoraggia tutti. E debbo dire che funziona. Se anche da voi gli assassini fossero relegati in un’isola a tempo indeterminato, ci penserebbero mille volte a privare della vita una persona».
«Certo hai ragione; tuttavia già sento le lamentale dei buonisti, dei pii, degli psicologi. Legioni insorgerebbero verso un provvedimento del genere, giudicandolo disumano».
«Allora sopportate le conseguenze di una legislazione fiacca e non lamentatevi se i delitti più atroci restano impuniti».
«Cambiamo argomento. Il termine mondo deriva dal latino mundus, che traduce la parola greca cosmos: una totalità organica e organizzata in maniera razionale. Secondo l’Enciclopedia Einaudi, parlare del mondo significa parlare della totalità, sforzarsi di riunire l’insieme completo degli elementi, uomini, animali, oggetti naturali e artificiali, per descriverne la genesi o farne l’inventario. Il mondo è stato così oggetto di miti e credenze diverse che vi scorgevano un campo d’azione per dei e demoni. Ma è stato oggetto anche di dottrine filosofiche e di teorie scientifiche. ** Ti faccio adesso la domanda più complessa, ma pertinente alla tua natura di Arcano. Tu come vedi il Mondo?».
«Professore, mi sento parte di un tutto. La mia entità, se paragonata al cosmo e alla sua complessità, rimanda alla consapevolezza d’abbracciare le cose secondo un percorso logico, armonico, matematico. Se mi isolo, mi smarrisco. Solo se mi coordino al resto non svanisco nel nulla. Paradossalmente non sono io, nella mia specificità, che do forza al mio essere; piuttosto è il Mondo che mi conferisce la misura del mio esistere nella diversità. Il mio fluire è anche e soprattutto nelle cose che sono attorno a me. Più che sentirmi a disagio in esse, debbo trarre dal Mondo quella forza e quell’energia che non possiedo per intero. Così è il Mondo che mi rende eterno e immortale».
«Può un Mondo così complesso e articolato essere figlio di un solo Artefice? Tu che hai sposato la condizione di Arcano, credi che la famosa prova cosmologica dell’esistenza di Dio abbia un suo valore intrinseco?».
«Assolutamente no, professore. Mi sembra ingenuo, infantile, demandare ad un unico Ente la genesi del Mondo. Siamo tutti passati attraverso una violenza al nostro intelletto, avallatata da coloro che servono le entità maligne che controllano i destini del Mondo. Dio è soporifero, garantisce anima e immortalità; ottunde la mente, garantisce ordine e disciplina. I potenti intanto banchettano sulle spalle dei poveri derelitti che sgobbano. Tutto ciò è stato già detto e ridetto; ma gli Inquisitori sono sempre in agguato per cancellare, per ribadire, per scomunicare, per mettere a tacere».
«Certo sai che circola, con tutti i crismi dell’autorevolezza scientifica, una tesi che va sotto il nome di Big Bang. L’universo (con l’energia e la materia in esso contenuta) sarebbe scaturito da una singolarità: una specie di uovo cosmico di dimensioni piccolissime contenente il mondo come lo vediamo oggi attraverso i più potenti radiotelescopi».
«Conosco la tesi, professore. Questa singolarità, il Big Bang, avrebbe una sua radice in una specie d’altra dimensione da cui scaturisce l’energia che poi si dispiega in luce e materia. Tuttavia l’energia originaria non può derivare dal nulla. E vorrei citare Lavoisier: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Dietro, dentro quest’energia originaria v’è un disegno intelligente. Essa non è frutto del caso, non promana dal caos. Dobbiamo ammettere l’esistenza di molteplici essenze progettuali, di Dei originari, che preesistono al Mondo e lo rendono fattibile».
«Perché non riconosciamo più queste essenze? Perché abbiamo dimenticato le nostre origini? Perché gli Dei primordiali sono caduti nell’oblio e sono stati sostituiti da un Dio unico?».
«Professore, l’uomo, proclamandosi figlio di un Dio unico e legittimando il suo dominio sul Mondo, ha estromesso le altre essenze, le ha rese subalterne e ne ha voluto cancellare il ricordo. Questo in sintesi il peccato originario, di memoria biblica. L’uomo esce dall’Eden originario e comincia ad invecchiare e a morire nella disperazione».
«Perché anche la filosofia e la scienza non sono riuscite a ricostruire la probabile genesi ammettendo l’esistenza, logica, di essenze progettuali e si sono invece nascoste dietro alla casualità, all’evoluzionismo, alla teologia, al materialismo?».
«Professore, le scienze umane non vogliono incrinare credenze millenarie, in tal modo avallano un sistema di potere e di controllo delle coscienze. Gli scriventi sono al servizio dell’inconscio originario collettivo, del presunto Dio che ha voluto dominare sul Mondo come sovrano assoluto. Questa è la sola spiegazione razionale. I misteri sono figli dell’ignoranza e sono stati creati e alimentati a regola d’arte. Ogni tentativo di ricondurre l’uomo alle origini viene puntualmente censurato dagli Inquisitori di turno. Basta leggere la storia. Gandhi ucciso. Hitler scampato ad una congiura di generali. Chi rubava la mela andava ai lavori forzati. I grandi delitti rimangono impuniti. Entità occulte negative hanno sposato il male e ostacolato il bene. Gli intellettuali oggi non svolgono più quella funzione educativa e formativa delle masse in balia dei grandi mezzi di comunicazione: cinema, televisione e web. Il libro è un mezzo in declino. Si legge sempre meno. Questa crisi della riflessione segna la morte dell’homo sapiens sapiens».
«Siamo stati troppo filosofici oggi. Adesso però voltiamo pagina. Andiamo ai pettegolezzi, alla gente piacciono… Secondo quanto si dice, sei l’Arcano più gioviale e ridanciano di tutti; un uomo di mondo, che in determinate situazioni riesce ad essere anche un discreto intrattenitore, sottile e provocatore. Facci sorridere!».
«Va be’… Allora, professore, ti racconto un aneddoto. Nel paese di Ravascletto, i Verdi organizzano una festa molto strapaese: con riffa, alberi della cuccagna, polenta e birra. E danno anche un premio a chi riesce a coniugare insieme cuore e culo. Così… per fare ridere la gente, che sguazza in un marasma di barzellette e piccole oscenità. Io l’anno scorso ho partecipato e ho vinto coccarda e alloro. Ti leggo il testo della performance, che allora avevo imparato a memoria: “Parole dette col cuore. Avere un gran cuore. Non hai cuore. Ha cuore da vendere. Certo, se dovessimo scegliere tra un cuore sano e un bel culo, tutti sceglieremmo la prima opzione. Teniamo alla vita, che non ha prezzo. Il culo potremmo sempre farcelo rimodellare da un chirurgo plastico. Eppure, se la classe non è acqua, e se al cuor non si comanda, dobbiamo ammettere che nella vita ci vuole culo. Non quello di ciccia, bensì quello che è imparentato con la dea bendata, con la fortuna. Quella squadra ha sempre culo. Quel Tizio ha un gran culo. Dunque sì, è vero, l’acqua va sempre verso il mare, verso coloro che non ne hanno bisogno. Il Mago (da me ribattezzato Merlino) quando perde a carte mi dice sempre “Hai più culo, che anima”. Non riconosce i miei meriti di giocatore e imputa le mie vittorie meritate alla sorte. Dante mise il culo al centro dell’Inferno, con quel verso divenuto proverbiale: col cul ei fe’ trombetta. O Malebolge dilette, o versi mirabili scritti col cuore. Noi siamo divisi, tra l’erotico e il faceto. Siamo sul punto di cesellare un verso eterno, però al momento manca l’ispirazione: l’input del culo. I grandi romanzi della letteratura americana sono stati scritti col cuore e col culo. Per questo sono più famosi e letti dei romanzi italiani, colti, salottieri, cesellati, imbalsamati nella grande tradizione della classicità. Un detto chiosa: dire pane al pane, e vino al vino; noi invece, per spirito di contraddizione, abbiamo scelto di mescolare culo e cuore, osannando Venere e strizzando l’occhio a Galeno. Se mi commuovo di cuore, non posso petare di culo. O forse sì: andando in un cinema di periferia, a rubacchiare le avance di qualche smandrappata. Se al cuor non si comanda; al culo si può sempre comandare, fino ad un certo punto. Altrimenti sono guai! Divisi sempre tra cuore e culo: una vita intera a correre, a fare sacrifici, a destreggiarsi tra il sacro e il profano. Non potevamo fare altrimenti. Una botta al cerchio e una bella botta al culo. Per fare quadrare il senso delle cose, la proporzione. Ti do il mio cuore, per avere il tuo culo. Suvvia cantiamo insieme. Una canzone senza cuore, ma con un titolo. Viva i pompieri di Viggiù, che quando passano i cuori infiammano… Erano amori di periferia. E i cuori temprati al sacrificio e alla lotta, facevano innamorare le ragazze. Altri tempi. Altri cuori. Altri culi. No! Erano sempre quelli, anche se coperti. Forse più belli perché da scoprire la sera, facendo lo spogliarello e il saliscendi delle mutande”…».
Mario Felicioni stava per dare vita ad un applauso da avanspettacolo. Poi mi ha guardato e ha frenato la sua foga zingaresca. Si è presentato di nuovo come Direttore di Rete Destino e ha snocciolato una collezione di proverbi sul mondo. Non se li era scritti da qualche parte, li recitava a memoria, come un rosario in chiesa. «Chi è in pace col mondo, non è ancora addormentato che già russa. Chi non vuol durare fatica in questo mondo, non ci nasca. Chi vuol vivere e star bene, prenda il mondo come viene. L’argento tondo, compra tutto il mondo. Il mondo è fatto a scale, chi le scende e chi le sale. Il mondo è bello perché vario. Il mondo è rotondo e chi non galleggia va a fondo. Morto io, morto il mondo. Il mondo è di chi se lo piglia. Il mondo va da sé. Chi va per il mondo impara a vivere. Questo mondo è una gabbia di matti. Rispetti, dispetti, sospetti guastano il mondo. Il mondo non fu fatto in un giorno. Tutto il mondo è paese. Percorrendo il mondo, la sapienza popolare sintetizza la nostra esistenza. In quale detto ti riconosci meglio?».
«Ogni detto è autentico, vero; quindi mi riconosco in tutti».
«Perdona il Direttore, ci tiene a fare bella figura» ho chiosato. «Adesso che ha avuto il suo spazio di gloria, vorrei esplorare la dicotomia: caos-cosmo. Se ordiniamo le lettere di caos avremo le parole cosa e caso. Orientando i suoni moduliamo l’esistente. Oasi nasce in quei paraggi».
«Certo professore! Caos, poi caso e cosa. Cosmo e oasi. Le lettere primordiali producono suoni non casuali. I suoni esprimono l’essenza, la rappresentano. Il mondo non può che essere tondo… Ma ora debbo andare. È stato un vero piacere».
Quell’uomo straordinario ha terminato di bere il suo secondo caffè e si è alzato, stringendoci la mano. Io ho cercato di trattenerlo, per fargli altre domande. Lui ha sorriso ed è uscito. Non voleva fotografie. Avremmo potuto immortalarci mentre degustavamo il caffè dalle storiche tazzine. Niente; è stato inflessibile. Ha voluto conservare l’anonimato. Non ci ha voluto dire come si chiamava in realtà. Come aveva fatto ad intrufolarsi nella carta, come viveva. Sparito tra la folla di via Condotti, in un giorno qualsiasi di un’estate afosa, bagnata appena da un acquazzone tropicale. Avrei voluto inseguirlo per vedere dove andava; ma ho rispettato le sue volontà e mi sono accontentato delle poche parole che aveva cortesemente concesso nel corso dell’intervista. E lo ringrazio ancora adesso, per averla resa possibile.
Diversi Arcani scaturiscono rigorosamente fuori da una carta, durante un consultazione dei Tarocchi; lui invece già stava seduto al caffè e ci ha atteso, facendo carambolare la sua icona tra le dita come un vero giocoliere. Ogni volta che entro in un bar, spero d’imbattermi nuovamente nel suo sorriso, nel suo profumo di menta, che non so proprio dove abbia comprato, nella sua pettinatura moderna, nel suo abito un poco logoro, nel suo giornale piegato sotto il braccio, nel suo basco nero calato sugli occhi e quegli occhiali piccoli, tondi, un poco fuori moda. Aveva un accento leggermente piemontese. Garbato. Signorile. Educato. Colto. Forse insegnava; forse viveva di rendita; forse leggeva le carte. Ah, dimenticavo! Mentre usciva dal Caffè Greco, gli sono corso dietro per dargli una copia del mio poemetto. Lui l’ha preso e ha promesso di leggerlo.
E un giorno mi sono stati recapitati, in una lettera senza mittente recapitata da un pony express, alcuni versi della mia lirica dedicata all’Arcano del Mondo.
«All’orizzonte spunta la palingenesi,
annunciata da una scia
d’azzurre siderali
creature cosmiche,
discese come meteore
sulla marina infranta
dall’ondeggiare fragoroso
che si trasforma
in un’opalina mano
pronta ad afferrarmi
e confondermi nella risacca,
sempre più soave,
placidamente lenta,
quasi affettuosa.
Librato, attraverso il fluire
dell’onda corpuscolare,
mi sottraggo infine agli echi lontani
dell’oscurità diradata
e inseguo il chiarore
della ricomparsa luna,
spuntata tra il pulviscolo ridente di stelle
a pennellare il rigenerato firmamento.
Ogni sera
si può morire
per assenza di luce.
Ma oggi ho rischiarato
queste tenebre,
coi ricordi soavi
che avvolgono la mia coscienza,
protesa verso l'alba
del nuovo mondo».
* Giovanni Berti, Storia dei Tarocchi, Mondadori, 2007
** Enciclopedia Einaudi 1980, vol.9, pag.490
Intervista al Gerofante
5 settembre 2021
In quasi tutti i mazzi di Tarocchi, all’Arcano Numero 5 (quale ne sia la fonte ispiratrice e la relativa rivisitazione) viene attribuito il nome di Papa. L’autore della presente intervista, studioso delle carte della divinazione, suggerisce il termine di Gerofante. Il vocabolo, di derivazione greca, indica un sacerdote che interloquisce col sacro, interagisce col divino e ascolta le voci dei numi, interpretandole e diffondendole nel mondo. L’uso del termine Papa potrebbe sembrare irriverente e offendere il comune sentimento religioso del popolo italiano. Andando non troppo indietro nel tempo, nel 1980 un film satirico di Renzo Arbore, il Pap’occhio, pur avendo ottenuto il visto preventivo della censura, vide i suoi interpreti denunciati per vilipendio alla religione e la pellicola non poté più circolare nelle sale cinematografiche. Solo da qualche decennio il Pap’occhio è stato riversato in DVD, e un’originale presentazione ricostruisce le vicende avventurose di quel film che pochi italiani allora riuscirono a vedere. Dobbiamo in qualsiasi circostanza rammentare che le leggi (nel dolce Paese e non solo) sono puntualmente applicate contro i Minori, mentre i Maggiori possono ordire qualsiasi complotto e truffa e ne escono sempre impuniti.
Dopo questa doverosa parentesi, racconto in breve l’antefatto di quest’intervista. Se mi fossi mosso in maniera del tutto ortodossa, non sarei riuscito a realizzarla. Per interloquire col Gerofante ho fatto ricorso a una seduta spiritica guidata da una nostra collaboratrice e veggente, che si è prestata a svolgere la funzione di medium. Io ho predisposto per l’occasione il classico tabellone con le lettere dell’alfabeto. Al centro ho messo l’Arcano numero 5 e attorno tutti gli altri Arcani a fare da spettatori.
A partecipare alla chiamata ho invitato il Direttore, Mario Felicioni, e la sua compagna eritrea: una ragazza di colore che sto svezzando e iniziando al mestiere di cartomante; le impartisco lezioni di lingua italiana e la istruisco sul mondo delle carte. Il Direttore vuole impiegarla nella rete privata televisiva che dirige a Roma, ottenendo un discreto successo di pubblico.
Due uomini e due donne sono bastati per la chiamata con cui contavo di captare la voce benevola del Gerofante. Non mi ero sbagliato. Un portacenere leggero, servito per tracciare i cerchi entro cui avevo adagiato le lettere, si è messo ad andare su e giù dopo alcuni minuti di concentrazione. Gli indici della mano destra erano poggiati al centro del piattino che andava soffermandosi, lento ma deciso, sulle lettere che, via via, avrebbero composto l’intero messaggio.
B E Z I E R S
E G L I S E D E L A M A D E L E I N E
C I N Q O C T O B R E
P R E M I E R E C O N F E S S I O N A L
A D R O I T J U S T E A M I D I
L’entità ha menzionato una città della Francia meridionale, nella regione della Linguadoca, e indicato una chiesa. Là mi sono recato per incontrare un sacerdote in un confessionale: il primo, entrando sulla destra, a mezzogiorno.
Solamente io, tra i presenti della catena medianica, sapevo che le mura della città di Béziers erano state violate dai crociati nel 1208. Secondo le cronache del tempo, tutti gli abitanti erano stati massacrati, comprese le donne e i bambini. Più di 20.000 morti, rei di praticare l’eresia. In quell’anno, per debellare i Catari, era stata indetta una santa crociata dal Pontefice Innocenzo III (che non posso per verità storica ribattezzare Gerofante).
Chi frequenta i Tarocchi sa che bisogna confidare nel paranormale e non sono mancato all’appuntamento. Inginocchiato sullo scalino del confessionale di fronte al sedicente Arcano, non ho potuto scorgere la fisionomia del prete che mi attendeva con la stola del sacramento che stava amministrando. Mi sono fatto riconoscere e gli ho detto subito che non ero là per motivi spirituali, bensì per realizzare la mia intervista col Gerofante. Avrei gradito un luogo più consono e mi sentivo anche abbastanza a disagio; avevo la sensazione d’apparire blasfemo e non volevo offendere la sacralità del luogo.
Il sacerdote, per mettermi a mio agio, ha spalancato lo sportelletto che di solito rimane chiuso e ha tolto la stola della confessione, proprio per dare alla nostra conversazione una veste meno irriverente. Parlava un francese perfetto, pulito. Possiedo ancora quella conversazione che ho registrato per intero, fin dal momento in cui mi ero inginocchiato.
«Sublimità, qui siamo a due passi dall’antica rocca della città di Béziers. La crociata contro gli Albigesi fu una macchia per la Chiesa cattolica. Nel giorno della memoria si rammenta il genocidio degli ebrei. Io vorrei che qualcuno cogliesse questo mio appello e fosse indetto anche un giorno della memoria dedicato al massacro dei Catari da parte della Chiesa di Roma. Confesso che in questi anni non ho mai udito parole autorevoli che stigmatizzassero l’evento in modo chiaro. Voi, nelle vesti di Gerofante, siete sui luoghi del massacro. La vostra presenza qui costituisce una testimonianza. Siete qui per avallare, o piuttosto per condannare?».
«Professore, concedo quest’intervista per solidarietà con tutte le altre carte del Reame dei Tarocchi, di cui io sono l’espressione più eccelsa. Intendo difendere la nostra peculiarità, la nostra funzione di mediatori tra la dimensione profana del quotidiano e la dimensione sacra che impregna le carte della divinazione. Non siamo solamente oggetti ludici, bensì oggetti di culto. Dovremmo essere benedetti, adorati».
«Soavità, sono ai vostri piedi, in segno di deferenza. Se Gesù ha assolto una peccatrice, una prostituta, Voi sarete benevolo verso un non credente».
Alle mie parole, il Gerofante ha fatto uno strano movimento e l’ho visto brandire il pastorale, impregnato di quintessenza. Forse voleva intimidirmi, tuttavia io sono tornato sull’argomentazione precedente.
«Sublimità, Voi siete a Bèziers, dove trionfò la crociata che si protrasse ancora per anni. Altro sangue fu sparso. Vi ho invitato a prendere una posizione… La vostra presenza va intesa come testimonianza, dunque siete qui per avallare, o piuttosto per condannare quel massacro?».
«Sono stato concepito, tra queste mura, da un occultista eretico. Sono coerente con le mie origini. Taluni vedono in me il Papa che indisse la crociata. Altri il suo antipapa, l’antagonista, il puritano che rivendica una Chiesa povera in difesa dei derelitti e degli oppressi. Tutte le carte, figliolo, hanno in sé poli opposti, che si confrontano, s’elidono. La nostra natura di Arcani è duale; non potrebbe essere diversa, non dimenticarlo».
«Soavità, taluni trovano blasfema la Vostra presenza in mezzo alle carte da gioco. Una figura storica viene calata in un contesto mondano, manipolata da scommettitori, bari, ladri, prostitute. Come sopportate questi compagni di viaggio?».
«Posso irradiare la mia luce benefica in mezzo a loro, posso indicare la retta via. Ammonire. Lanciare anatemi. Il mondo ha bisogno d’essere mondato dalle sue sozzure. E con esse dobbiamo confrontarci, convivere».
«Parole sagge, Sublimità. Nel passato la Chiesa ha puntualmente condannato il gioco delle carte, l’attività ludica che sposa l’avidità, la competizione, il lucro facile, la scommessa, il bere, il chiasso, la licenza. Qual è la Vostra posizione in merito al gioco? Possiamo oscurare per sempre l’homo ludens, una categoria dello spirito, per imbrigliarla nella meditazione, nella preghiera?».
«Non possiamo, tuttavia dobbiamo vigilare. Accompagnare. Incanalare. Acconsentire uno sfogo, lecito, se fatto con lo spirito giusto. Guai ad assumere posizioni estreme, che non mi si confanno, frutto di propaganda anticlericale. Ridicola spazzatura!».
«Soavità, dunque la commedia è lecita? L’uomo può sorridere? Non deve solo flagellarsi e pregare?».
«A che serve la preghiera ostinata, se non si ama il mondo e non si sorride dinanzi alla vita? Mi si attribuiscono astinenze, digiuni. Io sono favorevole a una condotta equilibrata. Sarebbe lecito anche bere, se lo si facesse con moderazione».
«Sublimità, inizialmente avete voluto rimarcare che vi sareste volentieri sottratto a quest’intervista mondana. Vorrei che tornaste sul concetto. Forse i nostri lettori potrebbero fraintendere le vostre parole».
«Sono contro ogni forma d’esibizionismo mondano. Non vorrei essere confuso con uno strumento di divinazione. Il futuro è nelle mani della Provvidenza divina. Possono mai i Tarocchi pretendere di leggere i disegni di Dio? Certo che no… piuttosto, le carte possono lenire e confortare, accompagnare le nostre misere dispute quotidiane, proprio perché sono uno strumento di diversione, lecito, se praticato con lo spirito giusto».
«Soavità, posso dichiarare che Voi, oggi, state approfittando di quest’occasione per fare conoscere il vostro pensiero, spesso frainteso… È facile bollarvi come simbolo di una Chiesa vetusta, antiprogressista, intollerante».
«Siano benedette le tue parole, professore! Oggi dobbiamo tutti remare verso la tolleranza religiosa. Ogni religione dovrebbe farlo in maniera aperta, chiara, senza equivoci. Non possiamo avallare gesti folli, crociate ed altro. Il fanatismo religioso semina odio. E la parola di Dio è intrisa d’amore verso le creature».
«Vorrei ricordare, Sublimità, il vile attentato commesso contro la redazione del giornale satirico francese…».
«Je suis Charlie Hebdo. Anche la satira religiosa, quantunque possa infastidire e offendere la coscienza dei credenti, non dovrebbe provocare tali crimini. La si può stigmatizzare, isolare, ridurla al rispetto, alla ragionevolezza; tuttavia resta sempre un mezzo di libertà laica, che il pensiero occidentale ha conquistato. Io sono il primo a detestare questo tipo di satira; ma lascio che faccia il suo corso e si spenga, si esaurisca, si mortifichi da sola nella sua sprezzante malizia, si ritorca contro chi invece l’esalta e ne va fiero. Tale satira è sconveniente e gli eccessi non sono mai positivi».
«Soavità, non avreste potuto usare parole più sagge, credo che i nostri lettori le apprezzeranno. Vorreste commentare il proverbio “scherza coi fanti e lascia stare i santi”?».
«Dobbiamo rispettare tutte le fedi religiose, anche se sono sempre circolate storielle blasfeme. Anzi, se me lo consente professore, vorrei raccontare una di queste barzellette, che circolano anche in ambienti di preghiera. Penso che possiamo anche sorridere sulla fede, con garbo, con rispetto».
«Sublimità, oggi, con la volontà espressa di raccontare una barzelletta che irride la fede, vi siete conquistato una nomination!».
«Dunque posso raccontarla?».
«Certo Soavità, non me la perdo!».
«È piuttosto lunga, assomiglia a un aneddoto…».
«Sublimità, è giusto che la vostra intervista abbia più spazio delle altre».
«Allora: c’era una volta un boscaiolo. Alcune storielle classiche cominciano così, ma la nostra favola eretica non è adatta alle caste orecchie delle pie orfanelle. C’era una volta la Madre del profeta Gesù, alquanto rattristata perché non aveva più ricevuto in sogno una visita dell’Arcangelo Gabriele da tempo immemorabile. Torniamo un poco indietro, a quando tutto ebbe inizio. Giuseppe lavorava sodo e la sera era sempre stanco. Piallava. Levigava. Torniva. Segava: operazione questa abbastanza faticosa, per cui quando si coricava, si addormentava e basta. Maria pure lavorava, ma non era stanca come Giuseppe. Una sera prega Dio di farle conoscere qualche buon giovane, perché non ne poteva più. Il giorno dopo si presenta alla porta un venditore ambulante con alcuni tappeti. “Mia bella signora, volete comprare uno stupendo tappeto persiano? Un affare, ve lo vendo al cinquanta per cento di sconto”. “A me il tappeto non interessa, siamo poveri, non possiamo pagare”. “A questa bella signora, allora il tappeto lo regalo”. “Non posso accettare doni da uno sconosciuto”. “Non sono uno sconosciuto, io sono l’Arcangelo Gabriele, inviato qui dal Signore”. Allora il viso di Maria s’illumina e ringrazia Dio per avere ascoltato le sue preghiere. L’Arcangelo Gabriele dimentica di lasciare il tappeto e lascia Maria gravida. Quando la donna deve raccontarlo a Giuseppe, riferisce che è venuto appunto l’Arcangelo Gabriele ad annunciare la nascita del figlio di Dio. Giuseppe, consapevole che non può essere suo figlio, accoglie la notizia con entusiasmo. Dopo quella visita, malgrado le rinnovate preci di Maria, nessun inviato del Signore si presenta più alla sua casa, fino a quando, quasi 33 anni dopo, bussa alla sua porta un altro mercante di tappeti, alquanto dimesso e neppure tanto più giovane, il quale dice d’essere l’Angelo Napoletano. Maria risponde chiedendo una spiegazione. “Una volta è stato qui un Arcangelo piuttosto bello. Gli Angeli che gradino occupano?”. “Ahimè signora, l’Arcangelo vale molto di più, come il settebello a scopa. Gli Angeli sono abbastanza comuni”. “Una volta il Signore mi ha mandato un Arcangelo”. “Beh, allora eravate più giovane. Dovete accontentarvi di me”. Maria allora, senza indugi, si spoglia e chiama l’Angelo Napoletano presso di sé. Questi spalanca gli occhi. “Signora, avete frainteso la mia visita. Io sono un finto venditore di tappeti. Veramente sono venuto a comunicarle una notizia riservata. Quel Gesù va raccontando da qualche anno che è figlio di Dio. Il grande Sacerdote, se non la smette, gli riserva una brutta fine. Finisce accussì”. E allarga le braccia, indicando, con le palme in fuori, il segno del supplizio della croce. Maria rimane sconvolta e domanda cosa può fare per risparmiare al suo diletto figlio quel tormento. “Dovete dire la verità: che non è figlio di Dio, ma dell’Arcangelo Gabriele”. “Cosa penseranno di me Giuseppe, e Gesù, e la gente?”. “La gente chiacchiera sempre. Giuseppe ha sempre lavorato di pialla e di sega. Gesù sarà quello che soffrirà di più, ma almeno si risparmierà il martirio”. “E chi glielo va a dire a Giuseppe?”. “E glielo dico io, l’Angelo Napoletano”. “E chi glielo va a dire a Gesù?”. “E glielo dico sempre io, l’Angelo Napoletano”. Così l’Angelo informa prima Giuseppe, che, sentendosi in colpa, non intende farne un dramma. Poi incontra Gesù, il quale si sta preparando spiritualmente per affrontare una sfida importante: la prova con il Demonio nel deserto. Gesù gli si rivolge con tono seccato. “Come osi importunarmi? Non vedi che sono in meditazione, sciocco venditore di tappeti?”. “Questo è solo un travestimento, io sono l’Angelo Napoletano”. “Sei venuto per dirmi cosa?”. “Dio mi manda a dirti che devi smettere di raccontare che sei suo figlio. Primo: perché sei figlio dell’Arcangelo Gabriele. Secondo: perché, se continui a raccontare questa storia, il grande Sacerdote ti riserva una brutta fine. Finisci accussì”. E allarga le braccia, indicando, con le palme in fuori, il segno del supplizio della croce. “Maria ha sempre detto che sono figlio di Dio!”. “Non è vero; lo può confermare lei stessa”. Gesù resta alquanto interdetto e contrariato per quella notizia che sconvolge tutta la sua predicazione. “E adesso chi glielo dice al Demonio che non sono figlio di Dio?”. “E glielo dico io, l’Angelo Napoletano”. Così l’Angelo Napoletano va a raccontare a Satana la verità sulla vera paternità del presunto Messia e Gesù sale al Tempio per parlare con il grande Sacerdote. “Signori Scribi e Farisei, devo fare una ritrattazione. Non sono figlio di Dio, bensì dell’Arcangelo Gabriele”. Allora Caifa, rassicurato, scende le scale e abbraccia Gesù. “Benvenuto fratello, qui davanti a te ci sono diversi figli dell’Arcangelo Gabriele”. Dio aveva sempre saputo della debolezza dell’Angelo Napoletano e dei suoi inganni megalomani a sfondo erotico. Tuttavia aveva con pazienza aspettato che questi spontaneamente confessasse i suoi peccati. Lo aveva mandato da Maria, per offrirgli l’occasione propizia di raccontare alla donna tutta la verità e non soltanto una parte. Quando l’Angelo Napoletano era stato chiamato dal Signore per quella delicata missione, si era sminuito proclamando di essere il meno degno di tutti gli spiriti celesti. Dio però aveva insistito e, suo malgrado, l’Angelo Napoletano si era dovuto rassegnare a quella sgradita funzione. La storia sembrava chiarita, quando l’Angelo Napoletano si presenta di nuovo a Gesù nella sua veste più dimessa e naturale, senza le ali, con i suoi tappeti sottobraccio. Cacciato dal Paradiso, aveva perso i suoi attributi celesti e adesso girovagava nel mondo, in segno di penitenza, come un vero venditore ambulante, per rispettare la legge del contrappasso. S’inginocchia e chiede perdono a Gesù. “Ho sempre mentito. Quando ero giovane, andavo di notte nella stanza delle ragazze ancora vergini ad ascoltare mentre pregavano, per ricevere un segno della divina provvidenza. Il giorno dopo non potevo presentarmi loro nelle vesti ordinarie dell’Angelo Napoletano; così, per vantarmi, per essere ben accetto dalle ragazze che andavo a ingravidare, mi spacciavo per l’Arcangelo Gabriele. Purtroppo adesso la voce si è sparsa e l’Arcangelo in persona mi ha trascinato al giudizio di Dio. Ho dovuto confessare le mie colpe, sono stato declassato e decaduto nella misera condizione dei comuni mortali. Vorrei la tua benedizione, figlio mio”. Gesù lo guarda meravigliato e lamenta. “No, questo proprio non ci voleva! E poi, adesso, chi glielo dice a mammà?”. “Glielo dico io, l’Angelo Napoletano”. S’inginocchia e chiede perdono a Maria, che aveva già scoperto l’inganno, perché aveva riconosciuto l’Angelo. Infatti accoglie il venditore di tappeti tutta sorridente e felice; prima che proferisca parola, lo zittisce e sussurra. “Lo so già”. Poi, rivolgendo verso il cielo lo sguardo, lesta lo conduce verso la sua stanza da letto. “Questa volta il Signore ha ascoltato le mie preghiere. Ho tanto pregato di farmi rivedere, ancora una volta, quel venditore di tappeti persiani che tempo fa si era spacciato per l’Arcangelo Gabriele”».
«Soavità, blasfemia partorita da Voi?».
«No, assolutamente. Fa parte del repertorio che il Folle aveva conservato nel cassetto. Un giorno si è presentato al mio cospetto, con dei fogli mezzo spiegazzati in mano. E voleva il mio imprimatur. Io stavo per prenderlo a calci nel sedere, poi mi sono frenato, tuttavia ho voluto conservare queste pagine che investono il mistero stesso della natura del Cristo».
«Soavità, a tutti io sottopongo il mio poemetto. Lo faccio per vanità, per farmi una sfacciata pubblicità nel mondo dei Tarocchi e tra gli stessi cartomanti e i loro clienti. Mi permetto di leggervi qualche verso».
«Ti ascolterò, professore».
«Il quinto Arcano ha saputo captare
i portenti della quintessenza;
i seguaci si sono inginocchiati
e lo hanno ricoperto con onori e ricchezze;
i sacerdoti gli hanno edificato una Chiesa
per ricevere oboli e lasciti in terre;
e, in nome di Dio, sono stati scritti
sacri testi, a baluardo del suo potere.
Vittime dell’eterna persecuzione,
i Catari aspettano,
fino a quando un giorno
vedranno infranto il primato
di Pietro, in ginocchio e prostrato
dinanzi alla fine dei tempi.
Parola dell’Artefice
che seppe dar vita alle magiche icone
dette Trionfi, per aver resistito indomite
all’intolleranza fanatica dei crociati».
Poi il Gerofante ha voluto leggere la lirica a lui dedicata, per intero, all’istante, per curiosità e per dimostrare forse che era un’entità colta, diversa dalle altre più comuni in circolazione.
«Professore, vorrei un chiarimento riguardo al punto in cui dici che l’Artefice mostra nei Trionfi l’inganno primordiale alla luce della filosofia dei Numeri, e svela le complicità tra il Diavolo e il Pontefice scomponendo l’essenza del quinto Arcano essendo 5 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 = 15».
«Sublimità, la somma dei primi cinque numeri dà esattamente 15: il Diavolo. Il Papa, numero 5, rimanda al Diavolo. In fondo questa era la tesi sposata dai dolciniani, i seguaci di Fra’ Dolcino, un eretico condannato al rogo dall’Inquisizione ed anche atrocemente torturato nel 1307. Con tenaglie arroventate fu mutilato del naso e del pene; ma alcuni raccontano che sopportò le sofferenze senza lamenti. Non è casuale che il Papa e il Diavolo nei Tarocchi siano contrassegnati dal Numero 5 e dal Numero 15».
«Ho capito professore. Ma spiegami cosa intendi per inganno primordiale».
«Soavità, la Chiesa di Roma giustificò la nascita del potere temporale grazie ad un importante documento storico, detto Donazione di Costantino, secondo cui l’imperatore omonimo avrebbe fatto dono di molte terre al Papa. L’umanista e filologo Lorenzo Valla dimostrò solamente nel 1450 che il documento era un falso. Ne fece l’analisti testuale e osservò che molte parole non appartenevano al latino classico, ma al latino medioevale. Il documento fu falsificato al tempo di Papa Gregorio Magno, quando era già iniziato il conflitto tra il potere temporale dell’imperatore e quello spirituale del Papa. Bisognava, con una presunta donazione, legittimare la nascita dello Stato della Chiesa. È un dato inoppugnabile. Tuttavia molte persone non sanno neppure che il vescovo di Roma si autoproclamò Pontefice in maniera arbitraria, approfittando della vacanza dell’autorità dell’Imperatore romano, quando l’Impero si stava dissolvendo per diversi fattori. Tutto questo processo lo sintetizzo con l’inganno primordiale che sta alla base della nascita del potere temporale della Chiesa cattolica».
«Professore, le religioni hanno una doppia anima: una temporale, in quanto esse scaturiscono da un preciso contesto storico, che conferisce loro determinate caratteristiche: rituali, linguaggio, dogmi; e una etica, ovvero l’esigenza di guidare le genti smarrite in questo arido deserto che è il Mondo. Per un verso hanno dato un prezioso ausilio alle persone in cerca di una risposta ai grandi quesiti esistenziali; dall’altro hanno generato enormi strutture di potere che hanno condizionato l’esistenza d’intere generazioni per millenni».
«Sublimità, le religioni prosperano sulla paura, sull’ignoranza, sulla credulità, sulle superstizioni. Costituiscono la droga dei popoli. I filosofi lo hanno scritto; tuttavia bisogna sempre ribadirlo ad ogni occasione, perché la memoria delle masse è assai corta. La mia cultura laica sposa lo scetticismo e la critica. Soavità, Vi ringrazio di cuore per quest’intervista, che si aggiunge alle altre che ho già effettuato...».
«Ti auguro di riuscire a completare il tuo progetto. Buon lavoro!».
«Sublimità: un’ultima domanda personale, se posso. Non so se vorrete rispondere».
«Orsù, favella, professore!».
«Soavità, qui siete nelle vesti di un prete… Ma in che reale rapporto siete con l’Arcano Numero 5? Siete un attore? Vi prestate a dare voce ad un’entità che vi ha suggerito le risposte? Vi siete incarnato in un uomo di Chiesa per l’occasione?».
«Non do voce a nessuno. Io sono una manifestazione corporea dell’Arcano. Le entità più potenti hanno bisogno d’involucri per muoversi, per interagire col Mondo. Il mio inconscio è territorio dell’Arcano. Io gli fornisco gli strumenti culturali, i mezzi fisici. Sono animato da un’entità ben precisa, che ha obiettivi precisi. Mi identifico in lei, ne interpreto le motivazioni».
«Tra poco uscirete dal confessionale, al termine del Vostro ufficio. Con quale nome dovrò rivolgermi a Voi?».
«Père Réginald. Già adesso l’Arcano si è dileguato dalla mia psiche. Ci siamo scissi consensualmente».
«E di questa intervista si rammenterà, Père Réginald?».
«Certo, come non potrei, professore?».
«Dinanzi alla videocamera del direttore Mario Felicioni, sarebbe disposto a riconoscere pubblicamente di ospitare un Arcano dei Tarocchi?».
«Non potrei. Sarei destituito dalle mie funzioni parrocchiali l’indomani! Perderei i miei fedeli. L’ufficio. Forse sarei anche scomunicato. Bisogna sempre indossare quella maschera ufficiale che ci siamo dati e che tutti riconoscono come buona, decorosa, civile. Tuttavia anche dentro un confessionale può accadere che si svolga una rappresentazione teatrale, dove recitiamo una parte diversa. È soddisfatto delle mie risposte, professore?».
«Lo sono. E lei lo è, delle mie domande?».
«Abbastanza. Ci siamo venuti incontro, anche se siamo partiti da prospettive differenti. L’unica cosa che un poco mi ha infastidito è stata quella deferente ironia, modulata attraverso quegli appellativi……. “sublimità”, “soavità”! Comunque l’ho digerita in quanto contiene una certa grazia. Del resto dovevi per forza omettere “santità”: un terreno non tuo».
«Père Réginald, la invito a pranzo. Conoscerà qualche buon ristorante, qui, a Béziers».
«Ce n’è uno ottimo proprio vicino alla mia parrocchia. Chiama anche il tuo amico direttore, sarà nostro gradito ospite».
Intervista alla Temperanza
14 ottobre 2021
«Alba Temperanza».
La giovane donna emanava una delicata essenza floreale, esotica.
«In cosa posso esserle utile?».
«Sono venuta per l’intervista».
Forse era scivolata via da una novella araba, perché mi sono sentito avvolgere dalle note della sinfonia Shéhérazade di Rimsky Korsakov, come se si fosse portata dietro un’intera orchestra.
«Veramente non riesco a ricordare d’avere fissato per oggi un’intervista. Non so, forse si è creato un equivoco. Cerca un altra persona…?».
«Non mi ha ancora messo bene a fuoco. Io sono la signorina Alba Temperanza. Il mio nome non le dice proprio nulla?».
Dai lineamenti sembrava orientale: il naso aquilino, lo sguardo fiero, l’accento straniero. Vestiva in maniera classica, quasi non volesse dare nell’occhio. Non ho notato tracce di trucco sul viso, per marcare le labbra o le sopracciglia già folte. Ho intravisto una certa somiglianza con la cantante greca Maria Callas. E allora sono stato attraversato da un delizioso gorgheggio canoro, tratto dal Barbiere di Siviglia. Quella donna aveva il potere di farti sentire dentro le note musicali. Cullato da quel dolce interludio, non ho trovato le parole e mi sono smarrito nel bel canto. «Professore, proprio il nome temperanza non le dice nulla? Non aveva chiesto al suo amico Eremita una mediazione, perché le concedessi quell’intervista che insegue da diverse settimane?».
«Certo! Lei è in grado di condurmi al cospetto della Temperanza?». Non volevo ancora prestare fede al prodigio, inchinarmi all’incantamento musicale.
«No, professore, io sono la Temperanza, sono l’Arcano Numero 14 che lei, in suo libello, ha alquanto strapazzato».
«Dunque lei, signorina, pretende d’essere l’Arcano della Temperanza?».
«No, professore, io non pretendo d’essere, io sono la Temperanza. Sono la sua incarnazione. Scelgo persone che m’ispirano simpatia, affini, elette. Tuttavia, se il suo scetticismo è incrollabile, posso anche togliere il disturbo».
Mi sono alzato e con garbo l’ho abbracciata. Intriso di quel contatto, ancora la porto dentro nelle fibre come fosse sempre con me, ad incoraggiarmi e risollevarmi dalla quotidiane cadute di tensione e coraggio.
«Signorina Alba Temperanza, per me verso dell’ouzo. Vuole anche lei nell’acqua una piccola dose di liquore greco?».
«Sì; non l’ho mai provato. Lei invece, professore, so che ha percorso reiterate volte i lidi greci inseguendo il pensiero, la storia, la natura».
«In Grecia questo distillato risale ai tempi dell’Impero Ottomano (almeno dicono). Viene ottenuto facendo fermentare uva fresca e uva passa ed aggiungendo spezie come l’anice stellato, il coriandolo, la radice d’angelica e il finocchio. Ogni produttore ha una ricetta segreta che conferisce al suo ouzo un aroma caratteristico».
«Queste spezie sono state ben amalgamate, professore. Come può apprezzare, in questo momento di degustazione del suo ouzo, alla base d’ogni operazione di distillazione sta sempre la temperanza. Essa esprime non soltanto una virtù cardinale, ma l’essenza stessa di un’operazione alchemica. L’equilibrio dell’ottetto, gli 8 elettroni che completano un legame chimico, rientra nella sfera della temperanza!».
«14 = 8 + 6. Tale equivalenza cabalistica mostra come la Temperanza scaturisca dall’equilibrio espresso dal Numero 8 e dall’innamoramento condensato nel Numero 6».
«Esatto, professore. Anche se, nel suo libello, ha alquanto travisato la natura della temperanza… Essa deriva dal latino temperantia, ed era considerata una virtù perché consentiva d’apprezzare in maniera equilibrata i piaceri mondani, mettendo in pratica quel detto che diceva ‘in medium stat virtus’. Poi nella teologia cattolica è diventata una virtù cardinale, propria dell’uomo che persegue il bene, insieme alla prudenza, la giustizia e la fortezza».
«Non so a quale libello si riferisca. Nel mio racconto, il Folle, dopo avere incontrato la Temperanza, rivede i propri pregiudizi e ne esce più sereno, mondato. Non mi sembra che lei, signorina Alba, abbia fatto poi una brutta figura, tutt’altro».
«Corre voce professore che lei trovi ridicole le mie ali e che abbia in antipatia gli esseri angelicati».
«Non so a quali chiacchiere si riferisca. Certo, ammetto che le mie simpatie laiche possono essere sgradite in certi ambienti che bazzicano le acquasantiere; ma non le ho mai mancato di rispetto. Anzi approfitto del fatto che sia qui e le mostro da dove scaturisce tutta la mia polemica. Ora prendo due carte che raffigurano la Temperanza e saprò spiegarmi meglio».
Sono tornato con le due versioni degli Arcani Maggiori. «Vede, signorina Alba: questa è la Temperanza laica della prima versione: i Tarocchi Visconti; questa è invece la Temperanza in versione controriforma: i Tarocchi di Marsiglia. Dalla prima versione alla seconda sono passati circa 200 anni, più o meno. Il gesto delle due donne è il medesimo: travasano acqua da una brocca superiore ad un’altra sottostante. La seconda figura femminile è una donna angelo, una figura mistica che non ha niente a che fare con l’essenza del travaso alchemico, sottolineato nella prima. Lei concorda? O si riconosce nella seconda versione, più che nella prima?».
«Qui le do ragione, professore. Le ali non sono un corollario. Cristianizzano una virtù che era originariamente tipica del mondo pagano, come io stessa le ho dimostrato andando a farne l’etimologia. Concordo con lei che la rivisitazione delle icone originarie aveva una sua ragione: bisognava appropriarsi di certi valori pagani ed inserirli nella tradizione della religione cattolica».
«Perché mi ha fatto questa sorpresa signorina Alba, scomodandosi dal Reame delle carte per venire a insozzarsi nella mondanità?».
«Non mi avrebbe mai trovato, professore. Non mi lascio evocare dalle cartomanti, non parteggio per confessioni religiose e neppure visito quei siti dove s’accelerano le particelle per vedere come si comporta la materia».
«Signorina Alba, lei è un’incarnazione, una proiezione, un’entità in transito, una sfida alle leggi della logica, una provocazione? Io stesso sono perplesso. I miei ascoltatori stenteranno a credere in questa visita così miracolosa».
«Sono ospite gradita di una persona squisita, consapevole della sua funzione, del suo ruolo d’accompagnatrice, mediatrice. Non uso nessuna violenza psicologica nei confronti di Alba Temperanza: nome fittizio che ho usato con lei questa mattina per presentarmi».
«Signorina Alba, faccia delle considerazioni ulteriori sulla sua natura, sulla peculiarità della sua essenza. Io sono consapevole che il Mondo non sa più cosa sia la temperanza, che tutto sia smodato, eccessivo».
«Sì, manca equilibrio, professore. Se anche in un cibo gli ingredienti non sono ben temperati, avremo un piatto difficile da digerire, spiacevole al palato. Sono anch’io dell’avviso che oggi l’essenza della temperanza sia quasi svanita. L’uomo prova piacere nello squilibrare quello che per legge di natura deve rimanere equilibrato. La natura intrinseca del male sta nello squilibrio. Io rappresento la natura del bene che si estrinseca attraverso l’equilibrio di molte parti. Microcosmo e macrocosmo debbono essere visti, analizzati nella loro interazione equilibrata. L’energia yin deve essere temperata con l’energia yang. Io esprimo la legge che consente alla dualità di interagire e di progredire. Io produco la corrente elettrica che attraversa gli atomi. Io genero, unendo le parti diverse. Io rappresento l’essenza del Numero 14, affiancando il sette due volte, facendogli attraversare la luce e la notte. Accosto le due facce duali del sette che s’intersecano e alimentano a vicenda. Elaboro il progetto. Scrivo il DNA. Io sono l’emanazione più complessa e profonda di Dio. Io faccio sì che Dio sia ovunque, nell’aria, nell’acqua, nella terra, nel fuoco, nelle piante, negli animali, nell’uomo. Verso energia, la ripropongo sotto forma di materia e riconduco la materia all’energia originaria».
«Signorina Alba, le sue affermazioni hanno una valenza autorevole e convincente. Mi permetta di ringraziarla per le sue parole. Come un rivo d’energia positiva forse potrebbero risanare le nostra miserie quotidiane, far tacere le nostre beghe di palazzo e ricondurci al mondo originario di cui siamo l’emanazione. Lei ci ha rammentato l’equilibrio infranto!».
«Non si faccia illusioni professore. Se riesce a vibrare insieme a me, dovrebbero poterlo fare altre persone, affinché il mondo possa attraversare quella palingenesi di rinnovamento morale. Non può quest’intervista fare miracoli. Non si faccia illusioni. Come nelle canzoni, nelle favole, io sono la Temperanza in esilio. Su un punto ho taciuto: non sono neppure dentro il reame delle carte. Me ne sono dovuta andare. Contro di me si profilavano complotti, anatemi… Costituivo un problema. Non volevo essere plagiata anch’io. Volevo restare quello che ero; ma per mantenere la mia natura ho dovuto isolarmi. Crearmi un cantuccio. Muto di luogo spesso. Vago in cerca di meta. Con l’Eremita, che ama la peregrinazione perenne, ogni tanto ci incontriamo e siamo solidali».
«Una domanda culinaria. Al femminile. Inondiamo di temperanza un piatto tipico italiano».
«Facciamo felici i cuochi, professore. Dobbiamo esplorare, rivisitare, rispettando la tradizione. La mia proposta è un sugo di pomodoro e zucca che ne addolcisce l’acidità e lo rende più gradevole. Al posto della tradizionale cipolla e aglio, potremmo usare dello zenzero per renderlo piccante e della curcuma per dare alla salsa un soavità orientale. Lo consiglio per un piatto di pasta con dei bei gamberetti freschi e scottati appena qualche minuto nel sugo».
«Viene subito la voglia di provare questo piatto!».
«I lettori le scriveranno per captare altre ricette dalla viva voce dei Tarocchi!».
«A proposito, signorina Alba, ha qualche libro particolare di cucina da consigliarci?».
«Sì, professore. Le cinque vie della dietetica cinese. Edizioni Red. Insegna come e cosa mangiare. Tutti dovrebbero averne una copia in casa».
«Non si finisce mai d’imparare. Ma ora esploriamo insieme il fronte fonetico: temperanza, temperamento, temperatura, temperare, tempestivo, tempestoso, temprato».
Prima della risposta, sono stato investito dalle note inconfondibili del clavicembalo ben temperato di Bach.
«Fonemi sottesi e costruiti con dedizione attraverso il tempo. Le virtù ermetiche che lei predilige convergono tutte in queste parole virili. Anche la temperatura in fondo misura l’energia che ci avvolge e varia e nel tempo e nello spazio. I vocaboli hanno una loro logica fonica. Captano l’essenza degli eventi, dei fenomeni, degli stati d’animo».
Ci siamo versati un altro poco di ouzo e acqua. Quel gesto del travaso, quella mistura ci ha fatto entrare come in risonanza. Poi improvvisamente Alba Temperanza è uscita, come era entrata. Senza farsi annunciare. Discreta. Sorridente. Eterea. Mentre stava per chiudere a porta, le sono corso dietro con il mio poemetto.
«Ho tante copie, che non sono riuscito a vendere. Non le regalo agli amici, quando sono gratis non ti leggono! Ti preferirebbero analfabeta; potrebbero sempre perdonarti, per apparire più dotti. Ho pensato che forse, cara Alba Temperanza, potrebbe leggermi senza timore d’essere ferita dalle mie parole».
«Certamente, mi farà piacere. Forse su di lei mi ero sbagliata, giudicandola superficiale e polemico».
Mi ha dato un segno di solidarietà, facendomi sentire più sereno ed è tornata indietro, sui suoi passi, sedendosi di nuovo di fronte alla scrivania. E si è messa a leggere ad alta voce alcuni versi che avevo scritto sull’Arcano numero 14.
«L’alchimista illuminato fonde insieme
la natura prodigiosa
celata nella quintessenza
con i quattro elementi
fondamentali della vita
condensati entro un alambicco.
Distillato a fatica
nel grande mortaio
l’oro dell’alchimista
restituisce alla materia
il soffio dell’etereo
e rende possibile la più sublime
delle metamorfosi:
il ritorno alla perduta unità originaria.
E’ questo il messaggio del Trionfo:
ripristinare l’equilibrio, infranto
quando gli Dei abbandonarono
il paradiso terrestre
e lasciarono a Satana
corpi avviliti dalla vecchiaia».
Dopo avermi sorriso, la signorina Alba Temperanza mi ha investito con altre note: quelle del Tannhäuser di Wagner. Conosceva perfettamente il passaggio che prediligevo. E, quando ho aperto gli occhi, non era più accanto a me.
Intervista al Sole
19 ottobre 2021
Conoscevo l’ubicazione della dimora dove vive l’Arcano del Sole, per averla frequentata in passato. Vi avevo ambientato alcuni capitoli del mio romanzo. Per arrivare a destinazione bisogna trovare una guida, anche se economicamente non è una trattativa facile. Il maghrebino ha preteso addirittura ventimila dirhram, circa duemila euro, dicendo che nessuno si avventura nel deserto verso sud, perché le dune sono alte e insidiose e i cammelli rischiano di rompersi una gamba. Gli ho letto negli occhi che stava mentendo, ma ho dovuto sottostare al ricatto e ho pagato quanto richiesto. Mi sono limitato a mostrare al cammelliere le coordinate geografiche. Con l’aiuto di un GPS portatile, non potevamo sbagliare destinazione. Oasi di Erfoud: latitudine: 31°26’ 99” / longitudine: -4°13’34.80”
Dall’oasi alla dimora del Sole sarà circa un’ora di cammino. Appena ho intravisto le rovine della millenaria città abbandonata mi sono messo a strillare e il mio cammello, spaventato, per poco non mi ha fatto cadere. Le antiche mura erano quasi del tutto seppellite dalla sabbia. Non restava che scendere. Alla guida ho dato appuntamento per il giorno dopo. Con me avevo una tenda e il necessario per sopravvivere nel deserto due giorni. Comunque mi ero cautelato, informando del mio viaggio un inglese conosciuto nell’hotel dove alloggiavo. Se non fossi tornato il giorno dopo, doveva recuperarmi nei pressi dell’oasi di Erfoud, proprio a quelle coordinate scritte sul mio biglietto da visita. L’inglese, un fotografo, ha garantito la sua disponibilità senza fare tante domande.
Del maghrebino Aziz, che vive caracollando gli appassionati in esplorazioni tra le dune, non mi fidavo, anche se mi aveva giurato sul Profeta che sarebbe tornato a prendermi.
Ho giustificato la sosta accanto alle mura semisepolte con la scusa di scattare foto e prendere spunto per un servizio giornalistico. Ho inventato che alcuni ricchi francesi volevano effettuare altri scavi; i precedenti non avevano dato i frutti sperati e la città era stata abbandonata al suo destino. Ho piantato una bandierina nel punto esatto dove il cammello mi ha depositato. Sono dei simpatici animali. Un poco suscettibili e talora imprevedibili. La loro cacca, oltremodo fetida, lascia una scia inconfondibile. Ho conficcato l’asta ben in fondo alla sabbia rossa del deserto. Sono stato prudente, dovevo lasciare un segnale visibile ed inequivocabile della mia presenza. Sapevo che, nei paraggi, avrei incontrato la famosa porta della Dimora; opportunamente occultata alla vista della spedizione archeologica di vent’anni fa. Uno dei due leoni in pietra posti a presidio dinanzi la porta si è messo a ruggire ed ha avvertito il Sole della mia presenza. Il padrone di casa, piuttosto aitante e muscoloso, con una folta capigliatura riccia, è sopraggiunto in un baleno e mi ha fatto subito accomodare. A ruota sono arrivati anche quei monelli di Elios ed Eloissa, i quali hanno portato i miei bagagli fino alla stanza che mi avrebbe ospitato.
«Ti aspettavo, professore. Vedo che sei ben equipaggiato».
«Spero che la mia acqua sia sufficiente».
«Credo di sì; non ti preoccupare, bevi pure, lentamente, tutto quello che vuoi. Ti preparo un corroborante tè alla menta».
«Ne avevo nostalgia. Qui in Marocco è squisito. Non so proprio dove si riescano a trovare tante foglie fresche, per tutta la popolazione che lo consuma quotidianamente».
«Io neppure sono riuscito a svelare l’arcano. Questa terra è miracolosa. Dicono sia la prediletta di Allah! Per questo è tanto generosa. Hai completato il tuo giro d’interviste?».
«Questa è la quindicesima. Prima è necessario il nullaosta del guardasigilli, e poi bisogna sempre rispettare il numero cabalistico che contrassegna ciascun Arcano… per cui non è stato facile».
«Comunque vedo, professore, che riesci tenerti in forma, corroborato dai viaggi e dalle sfide».
«Certo è davvero una bella esperienza, e poi la rete televisiva per cui lavoro mi ha offerto la possibilità di far conoscere alla gente queste mie interviste, quindi sono contento».
«Bene, mi fa davvero piacere, professore».
«Dimmi Arcisole: è proprio vero che il leone in pietra, quello di sinistra, non si è fatto domare dalla Donzella e le ha divorato le braccia, che poi le sono cresciute di nuovo?».
«Certo: è vero. Credi forse che ti abbia mentito, quando ti ho fatto certe confidenze, che poi ho ritrovato di sana pianta nel tuo libro?».
L’Arcano del Sole è molto diretto e cordiale; amico di tutti i Tarocchi, sempre rissosi e individualisti, pronti a polemizzare su ogni questione e a cavillare anche su ogni banalità.
«Arcisole, alcune domande ti parranno forse banali o ripetitive, ma sono indispensabili per i nostri lettori, che finalmente potranno conoscerti più da vicino».
«E i ragazzi non li coinvolgi? Vogliono almeno una domandina a testa».
«Li accontento subito, questi due monelli!». Da quando ero giunto, mi gironzolavano attorno incuriositi. Anche se eternamente ragazzini, possiedono la parlantina dei sofisti e mi hanno fatto delle rivelazioni straordinarie che non avrei immaginato. «Elios ed Eloissa, qui non vi sentite un poco soli, isolati? Ogni tanto giocate a nascondino; vi rincorrete; il babbo vi leggerà o racconterà qualche favola; come passate il vostro tempo, come organizzate la giornata?».
«Abbiamo appreso tutti i giochi più importanti: dama, scacchi, domino, bridge, scopone, tressette. Organizziamo tornei. Col babbo. E con lo zio Zero, o il Mago, o l’Eremita, che sono gli unici che ci vengono a trovare con una certa frequenza. Gli altri si fanno vivi ogni tanto, in qualche occasione speciale. Tuttavia non partecipano ai nostri passatempi, pensano che il gioco sia una perdita di tempo. Sono davvero idioti, perché sfugge loro la dimensione ludica dell’esistenza».
«Non avete mai voglia d’altri divertimenti? Di viaggiare? Visitare altri luoghi?».
«Con il babbo siamo stati in quasi tutti i paesi del globo. Anche in Australia, dove lo zio Zero, di tanto in tanto, organizza corse tra canguri, con tanto di scommesse».
«Studiate, leggete, desiderate farvi una cultura?».
«Nella testa possediamo una vera enciclopedia. Il babbo ci ha trasmesso integralmente tutte le sue conoscenze».
«Accipicchia! Siete dei geni allora! E con la gente normale come vi trovate? Vi sembra banale? Vi tedia?».
«Qui gli sciocchi non hanno mai messo piede. Nel mondo ne abbiamo incrociati fin troppi. Ci sentiamo diversi, questo sì. Ma il sapere non ci rende presuntuosi, perché vi sono sempre frontiere della conoscenza da esplorare».
«Oltre che istruiti, vedo che siete anche maturi. Debbo farvi i miei complimenti ragazzi, avevo sottovalutato questo aspetto della vostra personalità. A proposito di frontiere… pensate che esistano davvero gli extraterrestri?».
«Se fossero stati a visitare questo pianeta, certo sarebbero venuti a trovarci; in fondo non dovremmo passare inosservati. L’assenza di un incontro ravvicinato ci spinge a dire che ominidi su navi spaziali non hanno mai messo piede su questa terra».
«E come spiegate tutte le prove che adducono gli ufologi? Tutte menzogne? Avrebbero ragione i governi che non ammettono visite di astronavi aliene…».
«I governi gettano acqua sul fuoco. Le prese di posizioni ufficiali ridimensionano tutto: avvistamenti, incontri ravvicinati, eccetera».
«Allora gli extraterrestri sono un parto della fantasia degli scrittori?».
«Esistono altre forme di vita intelligenti senza andare tanto lontano dalla Terra. Le piante ad esempio provano sensazioni, trasmettono pensieri. Comunicano tra di loro. Il loro DNA è quattro volte più complesso di quello umano; il che ha sorpreso non poco i ricercatori».
«E gli UFO: gli oggetti volanti non identificati?».
«Sono manifestazioni visibili di un’altra dimensione. Costituiscono segni inequivocabili. Come lo sono i crop circles. Attraverso i cerchi la natura esprime la sua essenza più profonda. Le luci nel cielo sono altrettanti segni».
«A Dio pensate mai?».
«A volte capita».
«Dio esiste davvero?».
«Il babbo ci ha voluto insegnare tutto sulla storia delle religioni. Ci ha però anche detto che dovremo formarci una nostra idea liberamente, senza forzature».
«E voi un’idea già ve la sarete fatta?».
«Certamente. Il silenzio di Dio ha solo una spiegazione logica: non esiste».
«Gli eletti giurano, al contrario, d’ascoltare la voce di Dio».
«Ascoltano solo la voce del proprio inconscio e l’interpretano come voce di Dio. Gli adoratori del Diavolo giurerebbero d’avere ascoltato la voce di Belzebù».
«Siete piuttosto espliciti. Non avete qualche dubbio?».
«Dubbi ne vengono sempre. Tuttavia possiamo affermare con certezza che promanano da una forza oscura primordiale che governa le coscienze di tutti».
«Vi dilettate di scrittura? Avete mai provato a comporre poesie?».
«Sarebbe un’operazione vana. Non troveremmo un editore disposto a pubblicarle. Non siamo ricchi. Non siamo famosi. Non siamo assassini pentiti».
«Adesso vi lascio ai vostri giochi, ragazzi. Dopo ci facciamo uno scopone scientifico: io insieme al babbo, contro voi due».
Elios ed Eloissa hanno intuito che quella era una scusa per portare a termine, in tutta tranquillità, l’intervista alla parte adulta dell’Arcano del Sole, il quale può vantarsi di possedere uno schermo gigante a cristalli liquidi da cui riesce a vedere ogni angolo del mondo, ingrandito a suo piacimento.
«Se investigassi i segreti di questo schermo, farei la figura dell’idiota. Manca la corrente elettrica, tuttavia siamo illuminati. Scruti ogni angolo del mondo, ma dubito che sia un satellite ad inviare i segnali».
«Forse, professore, dobbiamo andare per gradi. Anche per offrire ai lettori la possibilità di sentirsi a loro agio…».
«Giusto. Cominciamo allora: perché hai scelto questa dimora, Arcisole? In fondo sei nel mezzo del deserto, lontano dal mondo. Non hai forse troppa voglia di isolarti, come un anacoreta?».
«Qui la natura avvolge e soffoca ogni creatura, che le sopravvive solo se ha imparato, come i beduini, a ricevere il sole. Bisogna inchinarsi dinanzi al Dio visibile che rende possibile la vita».
«Dialoghi mai con il tuo omologo astro in cielo?».
«Come potrei esimermi dal farlo? Da lui ho appreso tutto e siamo sempre in risonanza».
«Ai nostri lettori quale frammento della tua sapienza saresti disposto a concedere?».
«L’uomo non sa più interagire con il proprio corpo. Lo usa per mangiare, per camminare, per suonare il pianoforte, per provare piacere; ma non lo conosce a fondo».
«Non lo conosce a fondo? Spiegati meglio!».
«Il corpo umano, dal punto di vista anatomico, fisiologico, psicologico, non lo si conosce affatto. Al medico, un estraneo, viene delegata la funzione di guaritore, di mago chimico. La scuola in tal senso non insegna nulla. Solo poche persone all’università possono approfondire certi argomenti. Anche per loro però il corpo rimane un mistero».
«Confesso che ancora non ho capito bene. Il corpo non è un mistero...».
«Gli sorridi mai? Sai ascoltare le sensazioni che ti inviano i vari organi? Ti alimenti naturalmente e in maniera equilibrata? Affatto! I cibi trattati e gli alimenti confezionati dall’industria stanno prendendo il sopravvento. Invecchi precocemente perché non sei cosciente delle funzioni delle tue cellule».
«È vero: siamo sommersi da una cultura umanistica che privilegia la cosiddetta psiche e assegna al corpo la funzione di una capsula mortale, logorata dal tempo e destinata all’oblio».
«Mens sana, in corpore sano. La massima latina perlomeno stabiliva una connessione tra la psiche e il corpo. Nessuno pensa mai alle cellule meravigliose che lo compongono. Nella crescita non vede un miracolo costante della natura. Non ringrazia mai il corpo di avergli predisposto le condizioni per sviluppare una coscienza. Ci si limita a qualche sterile orazione per il proprio Dio. E si ignora che la vera divinità visibile risplende nel cielo e rende possibile la vita».
«Ci stai dando una grande lezione. Ma adesso veniamo alla natura dell’Arcano del Sole, analizzato secondo le regole della cabala, alla luce della filosofia dei numeri. Il numero 19 associa, accosta il numero 1 al numero 9. Ovvero 19 = 1 < > 9».
«Esatto professore. Questa equivalenza cabalistica descrive la natura dell’Arcano. Il Sole nei Tarocchi accomuna, abbraccia, integra le funzioni del Mago e dell’Eremita. Il Mago risplende di luce propria in virtù della sua attività. L’Eremita rischiara il cammino con la fiammella che alimenta la sua lanterna magica. Il Sole nel Mago si riscopre Demiurgo e Artefice del tutto. La magia del Numero 9 non è altro che la sostanza stessa del Sole».
«Vorrei leggerti alcuni versi di una mia lirica dedicata all’Arcano del Sole. È un passaggio cruciale in ogni intervista. Gradirei un tuo commento, se credi possa meritarlo».
«Volentieri!».
«Il nuovo giorno
é messaggero di speranza
per la comunità itinerante
dei Catari senza terra.
Perseguitati, ancora ricordano
l’odioso massacro,
alimentato dagl’incubi della notte,
avvolta tra le fiamme
ardenti nei roghi purificatori.
Nel nome eterno del Sole
vagheggiano una nuova città,
eretta con ciclopici massi
per proteggersi dalle persecuzioni future.
Sognano un regno di liberi ed eguali
fratelli, senza bandiere sovrane,
senza sacerdoti e soldati.
Un arcobaleno li guida
verso il nuovo destino,
alla ricerca della magica lira,
capace, con l’incantamento
generato dalle note,
d’animare le pietre inerti
benedette dal Sole».
«Versi nitidi, trasparenti, pieni di pathos. Trasmetti attimi di rara felicità. Riporti il Sole nella coscienza dei puri di spirito, nutriti e benedetti dalle particole di luce. Tutti sognano un regno di liberi ed eguali fratelli, senza bandiere sovrane, senza sacerdoti e soldati. Tuttavia la nostra esistenza si fa sottile e trasparente come un cristallo e, da un momento all’altro, può cadere in frantumi sotto gli sguardi assassini dei nemici oscurantisti. Sull’esigua comunità derelitta e perseguitata, l’eterna crociata si rinnova sempre».
«Stando accanto a te, Arcisole, ho ricevuto l’impressione che tu sia riuscito a carpire la vera natura della luce: corpuscolare ed ondulatoria».
«La luce rilascia energia e la distribuisce, accumulandola come materia. Il simbolo alchemico del Sole equivale a quello dell’oro: un punto interno a un cerchio. Il punto rappresenta un corpuscolo, l’origine del tutto, il Big Bang, e il cerchio rappresenta l’onda. ☉ Nel simbolo alchemico del Sole, nell’essenza di quel segno, penso sia racchiusa la risposta a molti quesiti. L’oro dovrebbe trasmetterci l’energia del Sole racchiusa in un simbolo; anche se il dispiegarsi di quell’energia non è affidata al caso, procede per pacchetti circolari, come nel simbolo del Sole. Gli alchimisti avevano già intuito certe correlazioni tra macro e microcosmo. Siamo espressione di correlazioni. Se pensassimo d’essere unici, saremmo soli. Se idealmente tornassimo ad immedesimarci nel simbolo alchemico del Sole, scopriremmo d’essere già là, in quel punto. Il Sole ci fornisce quella certa energia definita; determina il movimento del nostro pianeta; è il nostro Dio visibile, fonte di calore, di vita. Ha generato gli elementi più complessi e tra questi l’oro è il più puro metallo che per colore e proprietà ci riconduce alle origini. Tutto il resto è un corollario, una conseguenza».
«Vorrei un tuo autorevole parere sulla teoria del Big Bang. Mi sembra impossibile che un’unica singolarità abbia prodotto l’intero cosmo da cui siamo circondati. Il Big Bang ha prodotto semmai lo spazio e la materia che si è organizzata dando vita a creature di varia natura: vegetali, pesci, uccelli, animali. Più difficile da spiegare è il passaggio dalla materia cosiddetta inorganica agli organismi pluricellulari complessi».
«Professore, prendiamo un bambino in età della ragione e portiamolo in una stanza con diversi giocattoli; diciamogli che in passato quella stanza neppure esisteva ed era quindi vuota e che il Grande Giocattolaio un giorno ha aperto un sacco invisibile da cui sono scaturite tutte quelle meraviglie di giocattoli che vede sotto i suoi occhi e con cui può ora giocare e divertirsi. Concettualmente noi avremmo replicato il Big Bang. Il bambino, dinanzi alla nostra spiegazione si metterebbe a ridere e penserebbe che vogliamo prenderlo in giro. A suo avviso è più logico che siano esistite varie fabbriche di giocattoli che, utilizzando diversi materiali, hanno prodotto tutte quelle meraviglie a cui hanno contribuito centinaia di tecnici, inventori ed operai. Il paradosso è che una singolarità, il Big Bang, abbia prodotto una biodiversità. Prendiamo una cellula vivente. Si divide, si scinde, si separa in due cellule. E queste a loro volta si dividono e si specializzano in compiti differenti. La cellula utilizza l’energia, l’assimila e la trasforma in altra materia. Ogni cellula si specializza: una produce tessuto osseo; una fibre nervose, una muscolatura, una si specializza nel costruire il cervello, una l’occhio. E questo accade in migliaia di animali tutti diversi. E in migliaia di pesci differenti. Dietro questo progetto complesso e mirabile non sta un unico Artefice o Demiurgo, ma una molteplicità di principi, o essenze, o Dei progettisti, che si sono trasformati in energia e materia aggregata per costruire la vita. Il politeismo energetico è l’unico percorso che resta da battere; è una soluzione intermedia tra il monoteismo e il caso. La terza via, la più probabile. Un mondo complesso non può essere opera di un solo Ente metafisico, per quanto perfetto. Alla formazione del Mondo hanno concorso varie essenze. Secondo logica, la strada da percorrere è questa. Che poi questa via sia stata oscurata, accantonata, è un mistero. Che la stessa filosofia occidentale non l’abbia presa seriamente considerazione, almeno una volta, è un altro mistero che tu professore saprai certo analizzare meglio di me».
«Sei l’unico Arcano che ha scelto di vivere in un paese arabo. Questa tua scelta risale a molti secoli fa. Ancor oggi non hai avvertito l’esigenza di scegliere un’altra dimora».
«Solo un popolo che sa vivere nel deserto può rispettare la natura come merita. Un tempo fui attratto dalla fierezza della gente. Gli arabi sono tenaci, ostinati, non dimenticano uno sgarbo, non perdonano i nemici. Nomadi e guerrieri».
«Nel secolo XXI, se dovessi fare un suggerimento ad un arabo, verso quale argomento propenderesti?».
«Gli farei osservare che talora trova il tempo necessario per pregare anche cinque volte al giorno, ma dovrebbe riflettere sul proprio fanatismo religioso, alimentato dall’incapacità di fare autocritica, e collocare la parola del Profeta in un preciso contesto storico».
«In particolare se dovessi fotografare con un aneddoto il Marocco, come lo racconteresti?».
«Un inglese, in visita a Marrakesh, decide di soggiornare in un piccolo hotel a conduzione familiare, gestito da una francese. La padrona, molto gentile, lo accoglie nel migliore dei modi possibili e gli dà alcuni suggerimenti: cosa evitare di mangiare, gli itinerari più interessanti, i ristoranti tipici, eccetera. Alla fine gli fa una raccomandazione: “Stia attento a non farsi abbindolare dai venditori mascherati. In Marocco nulla è gratis. Si paga anche l’aria che si respira”. L’inglese sorride e replica con una sottolineatura ironica: “Non sono d’accordo, gentile signora. La preghiera che intona l’iman dalla moschea è un dono munifico e gratuito elargito a tutti.”».
Intervista alla Ruota della Fortuna
10 novembre 2021
Comparabile a una colossale macina, spinta da maestose pale di un mulino a vento eretto con ciclopici massi – dove i viandanti, fiaccati dal tempo, passano via e non si fermano – la Ruota della Fortuna, lentamente, inesorabilmente, senza alcuna regolarità, schiaccia o risparmia, riserva alterne sorti, indifferente alla gioia e al dolore delle creature chiamate all’appello senza alcuna possibilità di sottrarsi e trascinate dentro gli ingranaggi del divenire.
Severa e superba, svettava sulla sommità di una collina spoglia di vegetazione. Ci siamo trovati, immobili, ai piedi del manufatto ligneo che giganteggiava in mezzo a quattro torri poste a presidio e sfida del passeggero. Quattro alabardieri sventolavano un vessillo identico, con impresse quattro profetiche lettere.
R O T A
O R A T
T A R O
A T O R
Il vento alimentava vaghi suoni indistinti, divenute possenti voci che a tratti sovrastavano lo stridore dell’ingranaggio che muoveva la possente creatura.
Ruota. Occulto. Terrore. Alambicco.
Orrore. Ricordo. Armonia. Trasformazione.
Terra. Aria. Ritorno. Origini.
Acqua. Terremoto. Oblio. Resurrezione.
Noi, in segno di devozione, siamo caduti in ginocchio di fronte al Trionfo Numero 10, che troneggiava umiliando la nostra superbia. Erano convenuti tutti i Tarocchi a rendere omaggio alla gigantesca Ruota della Fortuna anche se, quando avevo espresso la volontà d’incontrarla, mi avevano risposto che sarebbe stata un’impresa vana, perché non v’era verso dal farla parlare diversamente. Da secoli si ascoltavano sempre le medesime possenti voci, a intervalli alimentate solo dal vento delle tempeste, o dalle fresche brezze notturne. Ciclicamente le stesse parole sfidavano il passeggero e incutevano un sacro terrore.
Il 10 di novembre, l’undicesimo mese, per rispettare la Cabala, quando oramai avevo perso ogni speranza di fare un’intervista alla Ruota della Fortuna, i Tarocchi sono venuti a prendermi in sogno. Ben disposti avevano deciso di darmi una mano, nessuno escluso; forse non volevano mancare allo storico convegno, non volevano perdersi l’occasione propizia per farsi pubblicità e rendere possibile un’impresa che sembrava titanica. Improvvisamente spuntati dai meandri onirici, mi hanno accompagnato a quella mezza supplica e mezza processione.
Si erano allineati come dei soldatini, rispettando rigorosamente la Cabala. Avanti a tutti v’era il Mago, seguito dalla Papessa, per terza stava l’Imperatrice davanti all’Imperatore, e dietro veniva il Gerofante a chiudere il primo scaglione di cinque Arcani. L’Innamorato apriva il secondo gruppo, composto da Ermes il messaggero sul suo aureo Cocchio, dalla Giustizia rappresentata dalla Regina di Danari, dall’Eremita e dal Folle. Apriva il terzo drappello la Donzella, seguita dall’Appeso; venivano poi la Morte, la Temperanza e infine il Diavolo. La Torre, con le Stelle, la Luna, il Sole e il Giudizio costituivano il quintetto finale. A chiudere il ciclo il Mondo, che mi teneva per mano come fossi un bambino.
Tutti gli Arcani Maggiori presenti si aspettavano che il Trionfo Numero 10, una buona volta almeno, dicesse qualcosa di diverso e non deludesse le attese di tutti.
Il movimento della Ruota della Fortuna era irregolare, a volte lento, a volte impetuoso; sembrava alimentato dal caso, dal capriccio. Neppure l’andamento era sempre lo stesso: ora procedeva in senso orario, ora in senso antiorario. Doveva essere così, non avrebbe potuto essere diversamente.
Gli alabardieri hanno smesso d’agitare il vessillo e da ciascuna torre è spuntata una figura classica dei Tarocchi. Ognuna pareva rappresentare un seme: il Fante di Bastoni, il Cavallo di Spade, la Regina di Coppe e il Re di Danari. Ciascuno degli Arcani Minori ha preso il vessillo, l’ha piegato diligentemente e riposto in un’urna di vetro trasparente. E tutte quelle voci possenti che si intersecavano, s’elidevano e si mescolavano hanno perso vigore, fino a dissolversi in lettere elementari che si sono spente insieme al vento. La Ruota della Fortuna ha gradualmente esaurito i suoi giri e si è mossa ancora per inerzia. Poi si è fermata del tutto, tra la meraviglia dei Tarocchi che giuravano di non averla mai vista immobile neppure una volta nella loro lunga vita. Nel frattempo si era creata una doppia corolla di Arcani Maggiori ed io ero al centro della corona circolare, ove erano convenuti anche i quattro Arcani Minori che mi ammantavano con la loro presenza.
Tutti si aspettavano che interpretassi i segni. Nel silenzio generale stavo impietrito non per lo sgomento, bensì per la sequela dei movimenti che parevano essere stati preparati ad arte. Non sapevo al momento che fare. Ero insicuro, forse indegno d’essere il protagonista di un evento che non si sarebbe ripetuto: ascoltare la voce della Ruota della Fortuna (ammesso poi che fosse quello il prodromo di una spettacolare rivelazione). Se avessi proferito una sola parola errata, avrei infranto quella magica occasione. Quindi ho sentito che dovevo uscire dallo schieramento dei Tarocchi, a cui non appartenevo, e sono andato verso una delle torri da cui era disceso il Re di Danari; dalla sua vetta, forse, avrei potuto realizzare l’intervista impossibile.
Una voce interiore mi suggeriva d’aspettare ancora e riflettere meglio, e mi invitava ad attendere un segno inequivocabile della volontà degli Dei. Una mi invitava a scegliere un’altra torre, quella da cui era disceso il Fante di Bastoni. Un’altra mi consigliava di tornare indietro e di chiedere consiglio ai Tarocchi. Un’altra ancora mi incantava come le mitiche Sirene e stava per bloccare il mio passo condannandomi ad un’eterna inazione. Mi sono lasciato guidare dal primo impulso, senza lasciarmi condizionare dalla voci aliene, e ho cominciato l’ascesa della turrita creatura che sembrava possedere una sua vita. Una statuaria testa della dea Fortuna bendata poggiava su di un’esile colonnina, sormontata da un capitello corinzio. Assomigliava tanto al bronzo di famiglia che avevo ereditato da mio nonno pittore, insieme ai debiti e ai quadri. Il sogno stava mescolando gli arredi della mia casa con le carte della divinazione.
Non sapevo come esordire, mi sentivo inadeguato. La Dea bendata ha frantumato quel silenzio imbarazzante e ha preso la parola per prima, per incoraggiarmi ad essere più spigliato. E devo esserle riconoscente. Se non fosse stato per lei, mi sarei risvegliato dai lacci onirici che mi avevano avvinto e sarei salito dalla solitudine bianca alla caraffa della vita.
«Fai pure le tue domande. Ti concedo però solamente quattro quesiti: uno per ogni elemento primordiale: uno per il Fuoco, uno per la Terra, uno per l’Aria e uno per l’Acqua».
«Non sarà facile; sono totalmente impreparato ad una simile eventualità. Non sono all’altezza di un compito di tanto spessore e responsabilità. Preferisco palesare tutta la mia fragilità, anziché nasconderla. Perlomeno so di fare una migliore figura».
«Sai che la vita ci sorprende sempre e non siamo mai pronti. Anch’io non ero preparata a ricevere una tua visita. Sono sorpresa quanto te della tua venuta. Anche se ciò ti parrà strano, è vero. Rilassati. Attingi spunto dai quattro elementi primordiali».
«Le origini sono il Fuoco primordiale che scorre nelle mie vene. Anche se sono trascorsi miliardi di anni dal Big Bang originario, penso che il tempo sia molto sottile e ci si possa passare attraverso, fino a risalire all’inizio del tutto. La teoria dell’entaglement quantistico dice in fondo la medesima cosa: due particelle che sono adesso separate milioni di anni luce, erano una cosa sola e ancora sono unite in un punto. Vorrei sapere se questa intuizione è vera».
«Vai avanti! Formula prima tutte e quattro le domande».
«La Terra sono i frutti del giardino. Il giallo dei limoni trasferisce sul viso la luce del sole anche se è sera. La noce riflette esattamente il mio cervello… Ogni frutto ha una sua proprietà, una sua funzione: completa, arricchisce, nutre. C’è un’energia infinita a mia disposizione, attorno; non la so adeguatamente sfruttare e neppure la conosco bene. Non mi hanno istruito per apprendere la natura, bensì per servire un re, una regina, una patria, una religione, un sacerdote. La Terra e i suoi frutti, come diceva il filosofo Rousseau, dovrebbero appartenere a tutti e la proprietà privata non dovrebbe essere un diritto, bensì dovrebbe essere considerata un abuso del più forte e del più fortunato. Non mi appartiene neppure il mio corpo: dovrei scegliere io quando potere morire, se voglio».
«Avevi tanto timore per nulla. Ti stai destreggiando bene entro i primi due elementi: il Fuoco e la Terra. Procedi».
«L’aria che respiriamo non ce la possono fare pagare; verrebbe meno la manodopera. Inscatolarla sarebbe troppo costoso e non porterebbe alcun lucro. Nonostante ciò qualcuno alimenta fuochi puzzolenti e tossici che rendono l’aria malsana e spiacevole. In molti paesi non c’è alcun rispetto per la qualità di un’aria veramente salubre. Si è perso l’odorato fino e primordiale degli animali. Respiriamo tutto: smog, sigarette, gas combusti di petrolchimico. I potenti, per i loro interessi, hanno calpestato i nostri diritti naturali e ci fanno respirare un’atmosfera mortale, cancerogena».
«Stai centrando il bersaglio!».
«Siamo creature morbide, fatte di acqua. Il prezioso liquido giustamente ha un costo. Deve essere filtrato, trattato, incanalato, messo in bottiglia. Ho voglia di bere. Offrimi dell’acqua! Se non bevo, corro il rischio di svegliarmi e non ascolterò più la tua voce».
«Già hai saputo ascoltarla con le tue parole. Già hai riferito quanto io stessa ti stavo suggerendo. Dirò al Fante di Bastoni di portarti una coppa colma d’acqua fresca, così potrai dissetarti».
«Cosa t’impedisce d’essere malleabile come l’acqua? Cosa t’impedisce di cambiare le regole; di toglierti la benda e distribuire la Fortuna non a caso, ma secondo un’etica dei valori, a chi la merita?».
«Se potessi togliermi questa benda, comincerei a piangere ininterrottamente e l’umanità sarebbe sommersa da un altro diluvio. Non sarei più benevola, bensì fatale e la mia commozione travolgerebbe tutti. Solo bendata posso assolvere le mie funzioni. Possibile che tu non capisca questo punto essenziale? Sono condannata ad alimentare sorti propizie che sembra (almeno si vocifera) facciano la gioia di coloro che meno le meritano; e propino sciagure ai disperati che già soffrono. Forse i demoni mi hanno bendata per assolvere un compito ingrato di cui non sono responsabile. La dea Fortuna deve essere cieca. Una volta, nei primi Tarocchi, giravo la manovella di una piccola Ruota, della mia stessa altezza. Ero una donzella esile ed affamata. Potevo esibirmi nelle riffe di paese, dove i premi erano castagne e sacchi di farina. Poi è sopraggiunto il progresso; gli utenti sono aumentati e fui relegata in una torre e poi trasformata in questa statuetta di bronzo, perché volevo fuggire».
«Dove volevi fuggire?».
«Non so. Neppure avevo idea di dove fossi stata portata. Né avevo visto i miei carcerieri in faccia. Promisi che non avrei parlato, se mi avessero lasciato andare. Neppure una gigantessa avrebbe dato il benché minimo impulso alla Ruota della Fortuna, che infatti era mossa dal vento. O forse ebbero pietà della mia prigionia e mi ritrovai ad essere quella che sono: una creatura bronzea, silente. Tu mi stai ridando vigore e forse potremo uscire di qui insieme, mano nella mano, come nelle fiabe degli innamorati».
«Forse è in atto una metamorfosi alchemica: stai tornando ad essere quella che eri».
Improvvisamente è sopraggiunto il Cavaliere di Spade. Quando gli ho visto impugnare l’elsa era già troppo tardi. Stavo troppo distante dalla statuetta per poterlo fermare. Il fendente ha staccato di netto la testa al busto bronzeo della dea Fortuna, che è caduta a terra e rotolata fin sotto i miei piedi. Un altro fendente del Cavaliere mi è passato sopra la testa, tuttavia mi ha risparmiato. Se avesse voluto, anche la mia testa sarebbe caduta.
Il vento era tornato a soffiare e la Ruota della Fortuna aveva ripreso a girare… e altrettanto avrebbe fatto fino alla fine. Indifferente il Cavaliere stava per preparare un altro fendente, se mi fossi accostato alla testa mozza della Dea bendata.
Io, dimostrando scarso coraggio e nessuna determinazione, ho lasciato il torrione piangendo e singhiozzando per la codardia che mi attanagliava. In fondo sapevo che non avevo bisogno di proteggere quella preziosa statuina. Sta con me da sempre, da quando sono nato e mi ha accompagnato in tutte le peregrinazioni. È nel mio studio, accanto ai libri preferiti. Ci siamo guardati sempre in tutti questi anni, tuttavia non avevo mai avuto l’ardire di domandarle nulla. Eppure mi ha elargito una grande tenacia. E poi, quando non me l’aspettavo, mi ha anche concesso un’insperata intervista, trasportato nel suo reame, accolto tra i suoi pari, svelato segreti.
Sono andato a ripulirla dalla polvere accumulatasi nel tempo e mi è venuta la voglia di carezzarne le chiome e di asciugare le lacrime che in quel momento le stavano solcando il viso. E l’ho rivista donzella, a girare la manovella della Fortuna. Esile, con la benda sugli occhi, ma sorridente al sole che le baciava il viso.
«La moltitudine,
fiaccata dalle fatiche del viaggio,
ricorda i fratelli già discesi,
poi caduti e inabissati
nel fondo del mare.
Tanta fragilità ci fa sentire impotenti
nell’isola cosmica dimenticata,
dove siamo sbarcati
senza sapere nulla.
La nostra inquietudine
accompagna i tanti interrogativi
nel mezzo di un universo sereno.
Quando improvvisamente,
anche per noi si farà notte,
forse, entrando nell’eterno silenzio,
neppure rammenteremo il ricordo
più dolce nella nostra vita,
o meglio del nostro passaggio.
Vivere, dicono e credono alcuni,
significa tornare,
ricominciare un nuovo ciclo,
affrontare altre incarnazioni
secondo il piano della metempsicosi,
in attesa della purificazione finale».
Intervista alle Stelle
17 novembre 2021
«Il nullaosta te lo concedo. Sappi però che sarà difficile schiodare l’Arcano delle Stelle dal settimo cielo dove sta confinato da non so quanto tempo!».
Le parole del guardasigilli mi avevano preannunciato un cammino quasi proibitivo verso uno dei Trionfi più remoti e inarrivabili, blandito e corteggiato con espedienti che non avevano dato nessun effetto, se non quello di farmi sentire veramente impotente.
Sapevo che al servizio dell’Arcano, per un tempo limitato, era stato il Due di Coppe, poi nominato Ambasciatore degli Arcani Minori, incarico che non ha più lasciato, malgrado più volte abbia manifestato la sua volontà di dimettersi. Mi ero rivolto, infine, proprio a lui, che forse conoscendone le debolezze avrebbe potuto svolgere una proficua opera di mediazione. Non so ancora come sia riuscito a strappargli la promessa che finalmente l’Arcano delle Stelle avrebbe acconsentito all’intervista, tuttavia intendeva scegliere il luogo dell’incontro e stilare le domande a cui avrebbe risposto.
Quando mi sono presentato all’appuntamento, fissato al Planetario della Capitale, neppure sapevo quali sarebbero state le domande che l’Arcano aveva partorito e apparecchiato sul tavolo. Ho salutato con freddezza e senza sprecarmi in moine di circostanza. Anche con il mio atteggiamento volevo sottolineare il mio disappunto. Il mio interlocutore tuttavia si è mostrato, stranamente, subito cortese ed ha così esordito, per mettermi a mio agio.
«Qui, simbolicamente, sono rappresentate tutte le Stelle. Credo sia il luogo ideale per realizzare l’intervista». Mi sono limitato ad annuire. Del resto aveva ragione. «Forse la Luna, così vicina, è in grado d’ascoltare la nostra voce; mi sembra invece del tutto impossibile, in condizioni normali, riuscire ad ascoltare la voce delle Stelle. Qui invece può scattare la giusta empatia cosmica; non credi?» ha aggiunto. Ho annuito di nuovo.
«Non vuoi parlare? Ti limiti solamente a fare cenni col capo?».
«A che servirebbe? Se non è possibile farvi domande autentiche e avete preteso d’essere voi a stilare la scaletta dell’intervista… Se avessi potuto, avrei rinunciato a quest’incontro; tuttavia abbiamo promesso ai nostri ascoltatori una chiacchierata con tutti gli Arcani Maggiori dei Tarocchi e quindi non posso certo tirarmi indietro ora».
«Pensi dunque che abbia esagerato nel volere essere io a formulare le domande?».
«Certo! Sembra che ora anche Voi stiate per accorgervi di quanto sia esagerata la vostra pretesa!».
«Vedo che non capisci».
«Non vedo cosa vi sia da capire».
«La mia non è arroganza, o presunzione, o velleità di comando!».
«No? Allora cos’è?!».
«Ho voluto solo misurare la tua idoneità, il tuo temperamento. Se sei adatto ad un ruolo di tanto spessore. O sei semplicemente il solito passacarte, disposto a tutto, pur d’intingere nell’inchiostro la tua penna».
«Dunque ho superato l’esame. Come debbo chiamarvi, signore?» ho domandato dopo essermi abituato all’oscurità del Planetario, accostandomi all’unica ombra presente in quella sala.
«Chiamami Ester professore, sono una donna. Diamoci del tu. Quel Voi, intriso di deferenza, crea una barriera alla nostra comunicazione…».
«Tutte le parole delle varie lingue europee corrispondenti all’italiano stella – il francese étoile, lo spagnolo estrella (tramite il latino stella), il tedesco stern, l’inglese star, al pari del greco aster, del persiano sitareh, dell’indiano satra – derivano da un’unica radice, ster. Ciò dimostra come l’osservazione delle stelle, prima ancora che le varie tribù che avrebbero popolato l’Europa, gli altopiani dell’Iran e la valle del Gange si separassero, dovesse essere familiare a questi uomini».
«Le stelle appartengono all’immaginario dell’umanità, costituiscono un patrimonio condiviso anche linguisticamente. Una giusta notazione semantica la tua, professore».
«Ester, concedere un’intervista in un planetario, mi pare, a prima vista, banale; a meno che non siamo alla ricerca di corrispondenze segrete con le auree sfere celesti».
«Certo; un planetario è comunque un simbolo della volontà di racchiudere l’immensità in uno spazio chiuso, ma infinito nella fantasia di coloro che lo frequentano».
«A che tante facelle? Ed io che sono? Ester, il poeta Leopardi si lascia andare alla contemplazione della vastità del cosmo e s’insinua nella natura indifferente con la propria angosciosa domanda esistenziale».
«Professore, l’infinito firmamento e la solitudine dell’uomo finito: messe a confronto, per elidersi forse, o completarsi, integrarsi, forse per interagire. Sembra che Dio ci abbia voluto meravigliare, o meglio annichilire. Tutta la boria del maggior conquistatore del mondo si placa; si resta attoniti di fronte alle stelle incalcolabili e sterminate».
«A che tante facelle? Ed io che sono? Ester, nuovamente la citazione è obbligatoria. L’accostamento scaturisce dalla contemplazione del firmamento da parte del pastore errante. Leopardi, poeta filosofo, s’interroga e personifica l’umanità smarrita dinanzi alla natura infinita e poderosa. Sono le stelle una corolla di luce al servizio dell’uomo e l’uomo può essere considerato la massima espressione prodotta da una stella? Analizziamo questa interazione, secondo la prospettiva dell’umanesimo più integrale che pone Adamo al vertice del creato».
«Professore, hai centrato la questione. Sono gli umani, con la loro unicità ed intelligenza, l’espressione di un cosmo che senza di loro non avrebbe un senso perché nessuno lo esplorerebbe, invierebbe sonde, capterebbe messaggi extraterrestri?
Questo accidente, nel corso dell’evoluzionismo, sembra l’unico capace d’interrogarsi, di forgiare utensili, di comporre musica, di dipingere, innalzare cattedrali, solcare i mari. Scopre la natura della luce, progetta computer. Mette piede sulla luna. Probabilmente colonizzerà altri pianeti. Tuttavia, malgrado sappia usare la ragione per sfruttare le risorse del suo pianeta, non sa rispondere al quesito che si pone il pastore errante. Fanciullo basito, annichilito, dinanzi all’ineffabile. La natura silente resta indifferente. Funesto è il dì natale solo per l’uomo. La greggia pare serena. Non partecipa al tormento. Beata sorride la Luna. Eterna, forse lei sa il perché delle cose».
«Ester, possiamo pensare, noi uomini del XXI secolo, che questa miriade di stelle disseminate nel cosmo sia solamente il frutto casuale, meccanico, di esplosioni nucleari, forze gravitazionali e interazioni chimiche, senza che vi sia una finalità, un progetto collettivo alle radici? Coloro che credono in un Demiurgo, Artefice del tutto, hanno ragioni da vendere. L’equilibrio, la perfezione della natura sembrerebbero l’espressione di Dio. Tuttavia, essendo scettico, m’interrogo sulla natura del dio ineffabile. Dio si nasconde. Parla per bocca di fedeli, libri, profeti. Tace alle domande insistenti della ragione. E se vi fossero più artefici, più essenze, più intelligenze che si sono manifestate nel progetto mondo e sono in esso e lo hanno reso fattibile? E se la presunta creazione da parte di Dio non fosse che un’emanazione, un’estrinsecazione delle essenze nel mondo? Perché la filosofia occidentale, che pure ha prodotto tante teorie affascinanti, non è riuscita a tracciare una possibile terza via, tra il caso e Dio, quella più logica e poi più probabile?».
«Non so se i tuoi ascoltatori sapranno venirci dietro, professore. Stiamo veleggiando sopra acque molto tempestose, potremmo affondare ora, esserne travolti come lo furono Socrate e Giordano Bruno. I nuovi Inquisitori, sempre in ascolto, potrebbero farci tacere. Lo hanno fatto per secoli, attraverso i loro strumenti di controllo della coscienza delle persone».
«Ne sono consapevole; ma se non osassi, se non volessi, se non sapessi, a che sarebbe valsa la mia esperienza terrena? Dovrei forse per pigrizia e paura arrendermi, accasarmi con il conformismo, esaltare l’ignoranza, cedere al ricatto, alla paura?».
«Professore, l’industria cinematografica, editoriale e culturale producono messaggi indelebili. La NASA ha reso spettacolare una scoperta scientifica ampliandola, ingigantendola. Abbiamo scovato sette pianeti con le medesime caratteristiche del nostro. La vita è possibile. Non siamo soli nell’universo. Sono circa 40 anni luce. Per arrivarci una navicella spaziale, ammesso che si muovesse con la velocità della luce, impiegherebbe quasi 40 anni… Fantascienza. Siamo ancora al cinema, allo spettacolo. Tutto viene vissuto come una grande illusione. Ma la gente assimila, apprezza, ingurgita acriticamente tutto. E tu, all’indomani del grande annuncio, fatto in pompa magna il giorno 22/02/2017, ci vieni a raccontare che esiste una terza via? Che i misteri sono fittizi, artefatti? Che siamo manipolati? Che fuori e dentro ci sono le essenze, i progettisti, gli artefici, silenti da secoli, esiliati come Dei falsi e bugiardi? Come riuscirai a dimostrare tutto quello che sostieni, senza essere deriso, escluso, azzerato?».
«Ester, portandomi dentro la forza del vento; la robustezza della quercia; il nettare del fiore; l’acuta vista del nibbio; la resistenza del toro; il calore del sole; la luce delle stelle. Perché io sono in loro e loro sono in me. E possiamo allestire spettacoli ben più grandiosi da stravolgere credenze millenarie. Tu che rappresenti l’Arcano delle Stelle dovresti percepirlo, saperlo per avere ascoltato la voce degli astri. Tu sai bene che ha un suo fondamento quella credenza degli alchimisti secondo cui ogni stella segue una sua creatura, l’accompagna nella sua crescita morale e non la lascia mai fino alla fine dei suoi giorni. Tra la persona umana e le stelle esiste una corrispondenza, una relazione profonda, e gli astri diffondono la loro energia benefica tra la gente, non sono indifferenti al nostro destino di essere finiti e mortali. Siamo noi, con la nostra credenza nelle magnifiche sorti e progressive, che abbiamo censurato la voce della natura».
«Sai bene professore che, secondo la scienza moderna, la materia non è altro che un prodotto della stella e la stessa vita non sarebbe possibile se non vi fossero elementi indispensabili come l’ossigeno, il carbonio e l’azoto. Quindi questa concezione mistica e vitalista, che attribuisce alle stelle una volontà e un ruolo specifico nel corso dell’esistenza umana, non credo sia del tutto senza fondamento. Certo sfugge ad una rigorosa analisi scientifica, non può essere dimostrata con dati inconfutabili, tuttavia la ritengo possibile. Ha un suo fascino. Dà un senso a questa immensità che ci abbraccia e ci indica la via, astronomica e morale. Il numero delle stelle esistente nella sola Via Lattea è impressionante. I dati sono controversi: da 200 a 400 miliardi».
«Ester, ritengo, in base al calcolo delle probabilità e in base allo smisurato numero di stelle, che sia già esistita e forse si paleserà nuovamente altra vita nell’universo; tuttavia penso che in questo momento siamo soli, ad interrogarci; perché abbiamo peccato di presunzione e non meritiamo che il silenzio. Nelle cosmogenesi di diversa natura si racconta che l’uomo abbia infranto l’equilibrio originario e commesso un peccato. Penso siano miti con un loro fondamento. L’uomo è solo nell’universo, unitamente alla credenza di essere il figlio prediletto di Dio, che gli ha plasmato anche un’anima immortale. Questa visione antropocentrica del Mondo poggia su una visione monoteista della creazione. Una legittima l’altra. Esse sono inseparabili. L’uomo è solo per la sua arroganza e la sua presunzione. È stato isolato dal contesto della natura, che lo ha lasciato solo, confinato nel suo bel pianeta di cui ha il dominio indiscusso. Gli Dei non si palesano apertamente. Non concedono interviste. Non frequentano i salotti buoni. Osservano indifferenti il dispiegarsi dell’umana follia tra guerre, crociate, genocidi, rivolte, esplosioni nucleari, intolleranza, armi chimiche e batteriologiche. Poi la preghiera dei buoni dovrebbe mondare tutti. Ci sarà persino un Giudizio Universale. E i corpi risorgeranno! Saranno i migliori corpi possibili, come questo che era, prima del peccato, il migliore dei mondi possibili!».
«Forse hai ragione professore. Neppure in questo magico planetario sono riuscita ancora a sentire la voce di una stella; quantunque l’abbia invocata, chiamata in tutti i modi possibili... mi sia prostrata in buona fede, dicendo che sono senza peccato. Silenti tacciono tutte, senza eccezione, senza concedere nulla. Dovrei forse io, espressione d’ingegno umano, intrisa di colori e di lacrime, fare breccia in tanta ostinata indifferenza? Se pure ascoltassi la loro voce, se pure si compisse per me, o per un’altra creatura, questo grande miracolo, sempre rimarrebbe oscurato e confinato nell’oblio. Non potremmo organizzare uno spettacolo come quello della NASA, inviando giornalisti e fotografi ed eminenti scienziati da ogni parte del globo. Il silenzio, una volta comminato, è per sempre, e per tutti. I pochi eletti possono solo testimoniare, dire che sono stati nella casa degli Dei e ne hanno bevuto l’ambrosia, tuttavia non è concesso condividerne il sapore e gli effetti. Professore, anche la mia visione del Mondo è panteista. Le stelle non sono che una manifestazione, un’estrinsecazione del divino. La materia racchiude sapienza ed energia. Le stelle sono dei laboratori di vita. Esse partoriscono gli elementi costituenti dei vari corpi. I moti degli astri sono armonici, costanti, razionali. Tutto scorre, già lo avevano intuito i filosofi greci. La natura può essere raccontata e descritta da Numeri. Mi sembra paradossale che tutto questo sia opera di un solo Ente supremo».
«Ester, sei venuta oggi per l’occasione, per la prima volta, in questo planetario?».
«No, professore. Ne sono la direttrice. In sogno, ho ascoltato una voce che mi ha parlato della tua intervista impossibile. E ho ricevuto anche una strana e-mail, il giorno dopo. Ancora la conservo. Te la farò avere. Nella mia veste professionale ricevo molte mail, ogni giorno. La prima cosa che vaglio è il mittente. Un insolito, 17lestelle.tarocchi.eusfera mi sollecitava un incontro con un tarologo che voleva intervistare l’Arcano Numero 17».
«Sorprendente. Ester, non ho mai ricevuto e-mail dagli Arcani Maggiori. Se ne possedessi una, potrei sfidare ufficialmente il CICAP e dimostrare che il paranormale non è una finzione, bensì una realtà. Se ben ricordo, in passato avevano anche messo a disposizione una somma consistente alla persona che dimostrasse di possedere doti extrasensoriali».
«La e-mail profetizzava anche che nel giorno 17 del mese corrente si sarebbe presentato al Planetario un signore. Ed io sapevo che per quella data era stato previsto un giorno di chiusura per aggiornamento software di alcuni programmi».
«Ester, secondo te esistono altre forme di vita intelligente?».
«Sarei meravigliata, se non ve ne fossero. Attorno a noi vivono animali che hanno dimostrato di possedere una loro intelligenza. Possiamo fare degli esempi. Il delfino. La forma dell’alveare costruito dalle api. Il radar incorporato dei pipistrelli. La memoria degli uccelli trasmigratori. Le stesse piante. Elementi come il Silicio e il Carbonio esprimono forme inorganiche intelligenti. Il moto degli astri…».
«Ester, mi riferivo a ominidi extraterrestri. A presenze fisiche, con tanto di navicelle spaziali, come nei film di fantascienza».
«Professore, in base a certi dati astronomici che conosco, mi sembra improbabile. Non si può valicare la velocità della luce, che in fisica è stata calcolata e sfiora i 300 mila chilometri al secondo. La vita che si è certamente sviluppata in altri sistemi solari, simili al nostro, è troppo distante perché possa giungere sino a qui, e noi sino a lei. Sembra quasi che vi sia l’intenzionalità di creare una barriera eterna al nostro contatto. Come se gli Artefici avesse voluto palesemente tenerci lontano l’uno dall’altro, per non interferire nel nostro libero cammino».
«Sagge parole Ester. Ti lascio questo mio poemetto che racconta in forma lirica la genesi dei Trionfi. E ti leggo alcuni versi dedicati a te.».
«Grazie professore. Certamente lo conserverò, in ricordo di questo incontro. Addio».
«Folgorati dall’alba della genesi,
in un frammento strappato
al censore onirico,
tutti noi intravediamo solo ombre ingannevoli,
disegnate delle luminarie
che strappano applausi
e fanno gridare di stupore
gli spettatori del firmamento di cartapesta
assiepati in un planetario
allestito per l’occasione.
Gli astri non sembrano disseminati a caso,
ma creano tante corolle di luce,
somiglianti a segni da interpretare.
Il futuro e le fortune parrebbero
appartenere al cielo
che apparecchia le carte.
Sovente i poeti vati si sono sforzati
di dare voce al silenzio cosmico
e talora nei sogni sfuggenti riescono
a intravedere tra le pieghe della memoria
un senso che sfuma rapido nell’indistinto,
come se l’Inquisitore fosse anche
il signore della nostra coscienza».
Intervista alla Torre
16 dicembre 2021
Molte persone, anche se appassionate di divinazione, ignorano che l’Arcano della Torre e l’Arcano del Diavolo sono le uniche due carte che mancano dal più antico mazzo di Tarocchi, conservato attualmente al Morgan Library Museum di New York. Non sappiamo come fosse raffigurata la Torre originaria, se a base quadrata, o esagonale, forse ottagonale; né se fosse tutta intera, o mozza per essere stata colpita da un fulmine, o folgorata dalla collera di Dio. La carta che attualmente figura nei Tarocchi Visconti fu ricostruita, intera e incorruttibile, in anni posteriori al suo smarrimento, dovuto forse a negligenza o a circostanze fortuite, come può accadere appunto ad un manufatto cartaceo, soggetto a subire più di ogni altro le avversità del caso e il logorio del tempo.
Noi, per saperne di più, siamo andati a intervistare l’Arcano della Torre nella sua dimora esclusiva proprio per sviscerare, insieme al più che legittimo titolare dei diritti d’autore, gli oscuri retroscena ed intrighi che si sono avvicendati sulle sorti di questa carta. Vorremmo anche sottolineare una sorta d’acquiescenza, d’indifferenza che circola in alcuni ambienti che hanno accettato passivamente e acriticamente la versione mozza della Torre, proposta nell’età della Controriforma. Essa crolla irrimediabilmente, abbattuta da un improbabile fulmine celeste, e mostra tutta la fragilità delle costruzioni umane soggette a soccombere dinanzi alle smisurate forze della natura. Vorremmo svolgere una piccola investigazione sui motivi che spinsero i miniatori a proporre questa versione, che venne denominata la Casa di Dio, con l’intento di cancellare, anche con la nomenclatura, ogni antica vestigia della Torre che invece campeggiava solidamente e faceva la sua bella figura nel mazzo dei cosiddetti Tarocchi Visconti, per essere stati disegnati ad uso della nobile famiglia milanese che governava in quella regione.
«Professore, rammento bene la versione originale, oggi smarrita. La Torre aveva una pianta ottagonale ed era sormontata da una Torre più piccola, anch’essa ottagonale. La torre sovrastante era alta esattamente la metà della sottostante. L’Arcano Numero 16 era visibilmente un’emanazione simbolica del 4 e si rifaceva espressamente al Numero 8, simbolo di equilibrio. L’unico intellettuale consapevole della funzione magica di tale numero è stato l’imperatore Federico II di Svevia, che volle fare erigere il capolavoro architettonico conservato intatto a Castel del Monte, presso Adria, una città della Puglia. La Torre di Federico II è considerata dall’Unesco un patrimonio dell’umanità, una delle meraviglie scaturita da una mistura di cabala e di alchimia, di magia e astronomia. L’Imperatore, scomunicato dal Papa, aveva degli ottimi rapporti con gli arabi che allora occupavano Gerusalemme ed ospitava presso di sé dotti e filosofi provenienti da una cultura considerata eretica e pericolosa. Suo padre, Federico Barbarossa, invece si era imbarcato in una crociata costosa e pericolosa per conquistare il Santo Sepolcro e il suo Dio l’aveva ripagato facendolo affogare in un fiume mentre rientrava dalla gloriosa impresa. L’eretico Federico II era molto più pragmatico e aveva ripreso la Città Santa pagando ai mori una somma in danaro e avviando relazioni commerciali con l’infedele».
«Vorresti chiarire i motivi che hanno spinto i revisori a proporre l’attuale versione dell’Arcano Numero 16?».
«La gente oggi si vede sbattere sotto il naso la versione benedetta dall’Inquisizione che volle fare crollare la Torre e le appiccicò la dicitura “la Casa di Dio”, per sottolineare l’azione vindice dell’Artefice contro coloro che osano sfidare il suo potere. Due uomini cadono, mentre la Torre viene squarciata dalla forza di un fulmine scagliato dalla Provvidenza. Io a quei tempi (ero più giovane e combattivo) misi in atto un processo contro questo revisionismo dell’Inquisizione. Ebbi l’appoggio dell’Eremita e del Folle, ma gli altri Arcani non mossero un dito. Il Papa, astutamente, mi scomunicò. L’Imperatore si lasciò convincere, se non voleva fare la stessa mia fine, che era meglio tacere e lasciare inascoltati i miei appelli. La sedicente Giustizia non ebbe il coraggio di prendere posizione e sentenziò che sulla natura delle carte era competente il tribunale religioso, perché queste interagiscono con la coscienza delle persone e quindi ne va di mezzo l’ordine sociale, che deve essere il fondamento della sana politica. I Minori tramavano gli uni contro gli altri e non volevano che l’Inquisizione scoprisse certi altarini poco piacevoli. Così la versione revisionista prese piede e nessuno più osò tornare indietro. Non volevano cambiare quello che in fondo sui tavoli funzionava assai bene e metteva le persone in riga, di fronte all’autorità del Supremo Artefice, che poteva fare crollare miseramente ogni impresa ed opera che non fosse in sintonia con le credenze religiose ufficiali. Così ho ricreato questa Torre proprio all’interno del capolavoro architettonico voluto da Federico II, che avrebbe gradito essere sepolto in questo simbolico mausoleo, ma non fece in tempo a vederne la fine».
La Torre parlava come fosse un fiume in piena. Aveva dentro una rabbia secolare. Si capiva che voleva sfogarsi.
«È vero che sei riuscito a produrre dell’oro alchemico e che hai saputo decifrare i segreti degli alchimisti con i tuoi alambicchi, sfruttando le energie naturali, dosando sapientemente sostanze ed altri metalli?».
«Certamente, professore; tuttavia non posso svelare ai profani le tappe della mia ricerca alchemica, frutto di pazienti tentativi ed esperimenti. L’umanità non è matura. La natura dell’oro alchemico deve restare patrimonio esclusivo di pochi, che vi arrivano attraverso un cammino ascetico e mistico. Se qualcuno volesse attingere sapienza negli antichi libri medioevali, potrebbe apprendere la via. Tuttavia è quasi impossibile ripristinare quei fattori, quelle circostanze, che in passato hanno consentito di spalancare il velo che ottunde e nasconde, riservando a pochi l’aureo distillato della sapienza».
E all’istante la Torre mi ha mostrato una pepita aurea, perfettamente sferica, scaturita dalla sua mano destra, e poi un’altra comparsa nella sinistra. E le due sfere ruotavano su se stesse ed emettevano suoni ora tenui, ora vigorosi, e tutta la mia coscienza né è rimasta soggiogata. E mi sono detto che aveva ragione. Non avremmo saputo decifrare quelle note meravigliose che purificavano l’alma e tempravano il corpo. «Dunque la carta della Torre ha un significato esattamente opposto a quello che comunemente si crede» ho detto, commosso.
«Certo! Lo puoi ben scrivere a chiare lettere, e riferire, professore, che lo hai ascoltato dalla mia viva voce».
«E cosa mi dici della tesi sostenuta dalla maggioranza degli interpreti, che le carte hanno un significato negativo, se escono capovolte sul tavolo?».
«Può essere un segno, e i segni hanno un loro preciso significato; ma non deve essere una regola. Piuttosto è il contesto, la posizione che connota la carta. Facciamo un esempio: se l’Innamorato cade nella Casa Numero 6 saremo di fronte ad un amore pieno, totale, coinvolgente. Se la Torre cade nella Casa Numero 2 sarà sommersa dai dualismi e dalle contraddizioni. Se la Morte compare nella casa Numero 7 sarà la fine di ogni progetto e il messaggio globalmente negativo prevarrà sull’intera situazione».
«Oggi le persone stanno perdendo un poco di confidenza con le carte della divinazione. Siamo entro spazi che ospitano superstizione, ignoranza, malafede, trame oscure. E poi siamo invasi dai telefoni cellulari che sottraggono credito agli Arcani. La rete con la sua complessità monopolizza l’attenzione delle persone. Le carte appaiono forse sempre più come vetuste, medioevali, obsolete. È così? O v’è ancora spazio per la divinazione, per andarvi a leggere un poco di futuro, per orientarci?».
«Una volta le carte lambivano l’occulto; svelavano segreti; spalancavano porte. Oggi tutto appare più misurabile e decifrabile. Ci si fotografa in tutti i momenti della vita privata. Si mandano messaggi a tutti. Ci si esprime nella rete. Si comunica con tutti e con nessuno. Il tempo per parlare, per riflettere è sempre poco. Una volta la cartomante svolgeva una funzione terapeutica, come una psicoanalista, un guaritore, un amico di famiglia. Le carte erano una terapia. Ora il web aumenta il silenzio e l’incomunicabilità. Si giocava anche più a carte con gli amici. Oggi non abbiamo tempo per incontrarci, e giochiamo al computer con uno sconosciuto che si chiama Nebbiolina 39, senza volto, asessuato. Un tempo le carte erano anche un’occasione per incontrarsi e socializzare, un buon pretesto per scommettere, gridare e divertirsi. Concordo dunque sul fatto che la lettura delle carte sia quasi una nicchia per persone dal palato fino, se le paragoniamo alla gente che accetta passivamente i messaggi del web, omologata e senza personalità».
«Quindi, se la Torre dei Tarocchi originaria svettava con la sua forza e la sua energia, oggi dobbiamo riconoscere che è crollato l’intero sistema delle carte che appare come l’ultima spiaggia della libertà…».
«Professore, la mia visione del mondo forse sarà pessimistica, ma le creature non sono più interessate al cambiamento, alla riflessione. Accettano acriticamente tutto quello che i mass media propugnano, senza discutere; e neppure sanno cercare la via della lettura proficua, alternativa. Pare che l’homo sapiens sapiens sia morto, insieme all’homo ludens. Forse il gioco, paradossalmente, alimentava anche la sapienza. Ce ne siamo accorti tardi, tutti».
«Vorrei che l’Arcano riflettesse su quel potente simbolo che è la Torre. Pensiamo alla Torre di Babele. All’espressione “vivere in una torre d’avorio”. Al ruolo della torre nel gioco degli scacchi. Alla torre che difende le mura di un castello».
«La Torre è una parola ricca di forza, d’energia. Rimanda alla Terra: un elemento primordiale. In essa si possono fare esperimenti alchemici; si possono imprigionare nemici; ci si può isolare dal mondo. La Torre è un baluardo di difesa. Assicura l’integrità di un regno. Custodisce libri. Tuttavia è anche intrinsecamente fragile, pur se sembra edificata per non crollare. Quindi anche l’Arcano della Torre, in una lettura delle carte, può essere scalfito, sopraffatto da nemici, distrutto, raso al suolo. Sono le situazioni, il contesto, a determinare il corso degli eventi. Nessuna Torre in astratto può assicurare che un regno possa durare mille anni, o un uomo possa sconfiggere ogni insidia. Non esistono barriere impenetrabili e insormontabili, né progetti, per quanto ben concepiti, che non possano andare incontro alla rovina. Neppure le idee possono essere imprigionate e fermate; si possono ardere libri sui roghi dell’Inquisizione, ma le idee se ne vanno liberamente insieme al fumo e attecchiscono in altri lidi. In alcuni momenti una Torre può, in una partita di scacchi, essere sacrificata per salvare il Re; tuttavia dopo ci si deve confrontare con la realtà, con il flusso avverso della Ruota della Fortuna, e a volte bisogna avere il coraggio di scendere dalla Torre e affrontare il nemico a viso aperto. Sono le situazioni che insegnano e noi dobbiamo sempre saperci adattare alla circostanza con sapienza e intelligenza. Ogni piano, ogni progetto può essere cambiato sul momento. Questo devi insegnare ai tuoi lettori. Neppure a scacchi le partite si vincono mai con la sola Torre; un pedone, se riesce ad essere promosso per meriti sul campo, in quanto ha guadagnato la meta finale del campo avverso, può essere promosso a Regina e dare scacco matto al Re».
«Vorrei citare due versi di Dante. Una metafora. ‘Sta come torre ferma che non crolla, giammai la cima per soffiar di venti.’ Nel paesaggio terrestre la torre appare sempre come simbolo dell’uomo che erige manufatti che testimoniano il suo passaggio e la sua volontà di resistere contro ogni insidia. Con la torre il sovrano marca la terra, segna un confine, erige un baluardo e invita i nemici a starne lontani. Nell’immaginario collettivo la Torre custodisce, combatte con tenacia e costanza. Nei Tarocchi della seconda stagione controriformista, la Torre abdica e naufraga miseramente e inspiegabilmente. Eppure a questa farsa, che espropria la Torre della sua stessa essenza, diversi interpreti credono acriticamente. L’esproprio della Torre avviene in silenzio».
«Concordo, professore. Si tratta di un silenzio complice, emblematico. Si dà per scontato che la carta serva per illustrare il potere dell’Artefice sul mondo. L’uomo di fede, prostrato in ginocchio, accetta il disegno provvidenziale di Dio. Nella religione islamica Allah interferisce nell’esistenza delle creature in maniera totale. Questa dipendenza dell’uomo dalla volontà di Dio gli impedisce di ribellarsi, di costruire le premesse per una rivoluzione sociale e politica. Lo status quo viene giustificato dalla religione islamica che impedisce ogni tipo di cambiamento sostanziale. Il Profeta si pone al servizio della classe dominante e le garantisce un’intangibilità che dura da quasi mille e cinquecento anni».
«Vorrei omaggiarti con una lirica che racconta appunto l’esatta versione dell’Arcano Numero 16. Alcuni versi gradirei leggerli parsonalmente».
«Sarò lieto di ascoltarli, professore. Suvvia, favella!».
«
La Torre, raffigurata nei Trionfi,
porta incise le auree
formule degli alchimisti.
I simboli scalfiti
sulla pietra grezza
le hanno quasi trasmesso
una vitalità propria e sorprendente:
respira e fa ascoltare
la sua voce solo agli eletti
che riescono a mettervi piede.
8 + 8 = 16
Costruita assommando
il perfetto equilibrio del Numero 8
la Torre non può vacillare…
…Insieme con altri maghi, siamo saliti
fin sulla Torre, edificata dagli alchimisti,
per distillare con la luce,
sprigionata dal fuoco del cielo,
la pietra aurea della sapienza».
Intervista al Giudizio
21 dicembre 2021
Tutte le raffigurazioni dell’Arcano contrassegnato dal Numero 20 fanno riferimento esplicito all’evento apocalittico preconizzato dall’apostolo Giovanni: il Giorno del Giudizio Universale. Un Angelo simbolicamente suona una tromba che annuncia l’imminente fine dei tempi; i corpi mortali risorgono dai sepolcri e osservano stupiti il cielo squarciato dalla mano vindice del sommo Artefice.
Per la cultura cristiana il giorno del Giudizio resta un nodo cruciale nella storia dell’umanità. L’Apocalissi investe la letteratura, il cinema, il DNA, le coscienze delle persone, siano esse credenti o no. L’Arcano del Giudizio riassume tutto questo, lo riverbera, non può che restare marcato dalla sfavillante negatività che lo circonda e pesa come un vero macigno sulla sua coscienza. Lo sapevo taciturno e riservato, spesso depresso. Quasi mai si lasciava coinvolgere da una consultazione dei Tarocchi e le sue apparizioni sui tavoli della cartomanzia, anche i più famosi, erano abbastanza rare, dettate dal caso e mai da un vero interesse per una situazione reale. Ero consapevole del fatto che questa non sarebbe stata un’intervista come le altre.
Avevo sondato il terreno anzitempo, scambiando qualche confidenza con il Cavaliere di Spade, che così si era pronunciato: «Il nullaosta te lo concedo… ma vallo a schiodare quel tumulo dal suo cimitero! Se ci riesci, sei bravo!». Il guardasigilli su questa ostinata indifferenza avrebbe scommesso la propria reputazione e persino le fortune; tuttavia non mi sono lasciato trascinare dalla foga del gioco: sono un tipo prudente, non posso permettermi di rischiare.
Il guardasigilli mi ha confidato che solo una persona speciale, il monaco russo Rasputin, ha goduto in passato le simpatie del Giudizio che lo ha accompagnato nella sua folgorante scalata sociale: da contadino ignorante a consigliere della zarina. L’occultista, istruito dall’Arcano, era diventato un provetto lettore delle carte preposte alla divinazione. Rasputin aveva vaticinato una catastrofe per gli zar, se la Russia fosse entrata malauguratamente nel conflitto mondiale. La posizione neutralista caldeggiata da Rasputin contò poco contro la volontà della corte zarista, dominata da guerrafondai che spingevano per l’intervento. La guerra per l’esercito russo fu una vera rovina. Il regime zarista fu travolto dallo scontento della popolazione affamata da un conflitto logorante e dal contemporaneo scoppio della rivoluzione capeggiata dai bolscevichi, che catturarono lo zar e la sua famiglia, condannando tutti i prigionieri alla fucilazione dopo un processo sommario. Rasputin esercitava sulla zarina Alessandra una grande influenza ed era considerato un negromante e un profeta di sventure, pericoloso per le trame che venivano consumate da secoli ai danni della popolazione afflitta dalla miseria e dalla mancanza di giustizia sociale. Il Giudizio aveva accompagnato con trepidazione le sorti del suo amico Rasputin, ma non era riuscito ad evitargli la terribile morte: prima avvelenato col cianuro, poi accoltellato, bastonato, evirato e gettato nel fiume gelato. Per questo passava il suo tempo nel cimitero di Pietroburgo accanto ad una fossa comune dove erano state sepolte le vittime della rivoluzione e dove simbolicamente forse riposava anche il monaco, amante segreto della zarina e di innumerevoli nobildonne della corte, infedeli e trascurate da mariti vecchi o impotenti.
Sarei stato anche disposto ad intervistare l’Arcano del Giudizio in quel cimitero macabro e freddo; non potevo certo pensare di schiodarlo da un luogo a cui era maniacalmente affezionato da oltre 150 anni! Contro ogni mia previsione, mi ha fatto contattare da un suo emissario, il quale si è presentato in veste di funzionario del Vaticano. Dapprima ho pensato, a torto, che il sacerdote fosse venuto a protestare per certe venature anticlericali che a tratti attraversano la nostra rete televisiva tutta mirata alla lettura dei Tarocchi.
«In cosa posso servirla Monsignore?» ho azzardato.
«Vorrei accompagnarla a visitare i Musei Vaticani nel nostro giorno di chiusura, la prossima settimana. Sono certo che non vuole lasciarsi scappare d’ammirare gli affreschi della Cappella Sistina senza il flusso costante dei visitatori, frettolosi e ansiosi di catturare istantanee, lecite e illecite, con telecamere, cellulari ed altre diavolerie invisibili che la gente nasconde alla vista della sorveglianza».
«Ne sarei lusingato! Possiamo anche fare un servizio speciale per la nostra televisione?».
«Certo, sarebbe per la vostra emittente una grande occasione».
«E mi scusi Monsignore, a che devo questa cortesia gratuita?».
«Siamo stati contattati da un signore in abito scuro, piuttosto strano, che ha sostenuto di rappresentare l’Arcano del Giudizio. Costui ha espresso la volontà d’essere intervistato proprio sotto la volta della cappella affrescata da Michelangelo, con il suo più celebre dipinto: il Giudizio Universale».
«E non lo ha mandato a quel paese? Non ha chiamato un presidio medico psichiatrico?».
«Un tempo forse l’avrei fatto; ma dopo i noti episodi avvenuti all’interno della Città del Vaticano, che lei professore nel suo romanzo ha così bene raccontato, mi sono guardato bene dal ripetere l’errore di sottovalutare la voce dei Tarocchi, dell’occulto. Non costava in fondo nulla accontentarlo, mentre potrebbe costarci caro rispondere con le armi della logica, andando a cercare una ragione dove non esiste un briciolo di senso. Non le pare? Non avrebbe fatto anche lei la stessa cosa?».
«Farsi intervistare sotto la volta che racconta in maniera così sublime la pagina dell’Apocalissi mi sembra una trovata degna dell’Arcano del Giudizio. Sarà, per me e per la rete televisiva che rappresento, un momento indimenticabile, un onore ed anche un arduo compito, quello che mi accingo a compiere grazie all’autorevole mediazione della Chiesa fondata dall’apostolo Pietro».
Così ho spiegato ai nostri ascoltatori l’antefatto che mi ha condotto a conoscere l’Arcano del Giudizio proprio in un luogo che gli si addice a pennello, dove sono raffigurati gli istanti terribili dell’Apocalissi.
Qualcuno aveva già predisposto un angolo della Cappella Sistina per riceverci: un fratino rettangolare, con un piccolo rinfresco per gli ospiti e due lunghe classiche panche. Un fotografo ha scattato alcune istantanee storiche. Il Monsignore si è fatto ritrarre mentre stringeva la mano a un Tizio che diceva d’essere l’Arcano del Giudizio. Io mi sono fatto immortalare tra i due, mentre sorridevo e li abbracciavo fraternamente. Ci siamo intrattenuti tutti per rifocillarci con uno spuntino e chiacchierato amichevolmente. Poi siamo rimasti solamente noi tre, senza presenze estranee.
«Vorrei assistere, se non vi dispiace, a quest’intervista che non avrei mai immaginato di predisporre. Sono, debbo confessarlo, un poco emozionato, persino agitato. Qui a mio fianco siede nientedimeno che l’Arcano del Giudizio, nelle cui fibre passa la fine dei tempi. Nessuno più di lui può parlarci dell’avvento dell’Apocalissi… Certo il signore qui accanto potrebbe essere un impostore, un sedicente Arcano in cerca di notorietà, che simula una parte non sua, un ruolo che forse si è appiccicato sopra mandando a mente qualche trattato. E io sono qua appunto per vigilare sul suo comportamento. Su certe questioni non possiamo scherzare. Il momento finale del giudizio di Dio non può essere trattato come un qualsiasi argomento profano e scellerato. Dunque ribadisco la mia funzione di notaio, di spettatore imparziale, ma attento».
Io e il Giudizio ci siamo guardati negli occhi. Avremmo voluto entrambi fare a meno della presenza del Monsignore, nolente o volente in veste di angelo tutore della Santa Fede. Avremmo condiviso maggiore libertà nel portare avanti l’intervista. Un pensiero comune ci ha uniti, senza bisogno di parlarci.
«Cesare Papini ha dedicato un romanzo importante al Giudizio Universale. In casa v’era una copia di un libro che forse è passato inosservato. Immaginazione, presunzione, forse anche messaggi che nessuno ha veramente capito, o si sia curato di chiosare. Lei, Monsignore, lo ha letto?».
«No, confesso che non sapevo neppure fosse stato scritto!».
«Avrà ricevuto l’imprimatur, o sarà stato messo all’indice dei libri proibiti, Monsignore?».
«Dovrei informarmi, professore, se lo ritiene importante».
«Non è necessario, monsignore. Domandavo così, per associazione d’idee. Sinceramente non riesco proprio a immaginare una sacra rappresentazione di una tale portata, dove si lavano i panni sporchi davanti a tutti. Una via di mezzo tra un film che oscilla tra il catastrofico e il poliziesco, il drammatico e il rosa. E come riusciremo a sopportare un Giudizio interminabile per miliardi di creature, vissute da Adamo ed Eva fino al fatidico giorno dell’Apocalissi? Chi servirà i panini? Chi scandirà le pause? Già mi prefiguro una rivolta, una sommossa celeste. Sarà l’evento più straziante e sfibrante, più coinvolgente e irritante, più esilarante che si sia mai visto dalla notte dei tempi. Ve la immaginate la Sora Camilla, meretrice, beatificata dagli amanti e punita dagli Angeli?».
Alla domanda ironica e sfacciatamente blasfema era stato chiamato il Giudizio. Il viso del monsignore era diventato paonazzo. Mi avrebbe già fulminato e condannato con il solo sguardo, prima della fatidica fine dei tempi.
«Pazienza, professore! Non ci saranno passerelle. Tutti già sanno in cuor loro che razza di farabutti sono stati. Dio li liquiderà in un istante. Un Giudizio istantaneo. I giusti separati anzitempo dai malfattori. I peccatori minori assolti».
«Eppure pittori geniali come Michelangelo hanno voluto rappresentare la scena. Lo hanno fatto per commuovere e atterrire le masse dei fedeli. Erano i grandi registi del tempo. I film spettacolari si dipingevano sulle volte delle chiese. Erano pagati dal committente, il Papa... rispondevano ai progetti di un’ideologia. La religione cattolica si rappresentava grazie ai talenti degli artisti più famosi che erano ambiti e ben remunerati dalle chiese più ricche».
«Professore, ho voluto che la mia intervista avvenisse in un luogo tra i più celebri per la cultura occidentale, dove l’apostolo Pietro ha fondato la Chiesa. Roma è una città sacra, tanto quanto la Mecca per un musulmano. Per molti fedeli, anche cattolici, questa raffigurazione grandiosa del Creatore è un atto blasfemo. Dio è ineffabile».
Puntigliosamente, con determinazione, è intervenuto anche il Monsignore: «Non concordo, professore. Voglio difendere contro gli iconoclasti, siano ortodossi, siano musulmani, la liceità della rappresentazione del Signore. L’arte sacra è frutto di un atto d’amore, rende visibile la parola di Dio e la sua presenza nel mondo, accosta i fedeli ignoranti alle Sacre Scritture, educa, eleva lo spirito, raccoglie i fedeli che cantano le lodi del Signore».
«Veniamo alla natura dell’Apocalissi, con il nostro Arcano del Giudizio. Pare una costante ciclica che si ripete. I Millenaristi. I Testimoni di Geova. Si fanno calcoli sulla fine dei tempi. Il più grande genio dell’astronomia, Isaac Newton, era anche un cabalista che faceva computi sulla fine del Mondo. Lasciò un baule con appunti e calcoli di suo pugno. Una passione coltivata in segreto, per motivi religiosi. Poteva essere tacciato per mago ed eretico, eppure era uno dei più grandi scienziati. Ciò dimostra che l’Apocalissi è un tema che ha interessato le menti più acute della storia dell’umanità. Non è un tema marginale, una pagina tra le tante del Nuovo Testamento. Dicono che i Maia avessero fatto una previsione sulla fine dei tempi: 21 aprile del 2012, a cui si è ispirato un film recente. Siamo passati indenni attraverso le rapide. E la barca va. Nonostante tutto».
«Professore, sono dell’avviso che la consapevolezza di una prossima fine dei tempi abbia attraversato altre epoche passate e diverse menti, tra le più illustri. Alcuni profeti giurerebbero di avere intravisto, annusato, sentito come vicina l’Apocalissi. La loro è stata una percezione netta, non un’invenzione per cercare notorietà. Riconosco la buona fede, la volontà di condividere un patrimonio scomodo, pesante. Mi unisco idealmente al loro accorato appello. Anche io, in passato, sono stato immerso in questi sciami apocalittici, terribili, agghiaccianti. O meglio non esistono parole per esprimere quei momenti, che ho vissuto lucidamente. Dinanzi agli elementi fondamentali della vita che si separano, dinanzi alla terra informe, raggomitolata su se stessa, avvitata in un buco nero, non ci sono parole. Si resta sgomenti, annichiliti, e non si vorrebbe avere vissuto quei momenti. Noi, profeti e veggenti, portiamo sulle spalle un macigno fino alla sommità di una collina e come Sisifo siamo costretti eternamente a riprenderlo a valle. E il supplizio che gli Dei ci infliggono ha forse una valenza maggiore del mito greco, perché Sisifo venne punito per la sua astuzia e furbizia, per le trame ordite e i tranelli tesi verso persone indifese e ingenue, mentre noi, che leggiamo l’Apocalissi negli scrigni del tempo, siamo incolpevoli di un dono che non avremmo voluto possedere, né mai ci siamo sognati di chiedere. E il nostro fardello ci pesa nel cuore e rende cupe e interminabili le nostra notti e brevi i nostri giorni».
Ho visto l’Arcano del Giudizio sinceramente commosso e le sue lacrime sono state anche le mie. E io gli do atto della sua buona volontà. Se tutti gli uomini fossero, come lui, degni d’ammirazione e rispetto, potremmo fare a meno di leggi, soldati e sovrani per difenderci. Saremmo tutti rispettosi dell’altro e non ci sarebbe prevaricazione e malevolenza.
A questo punto è intervenuto il Monsignore, che ha suscitato una questione pertinente e sagace: «Come sono possibili queste visioni apocalittiche; qual è il meccanismo che le genera?».
«Ovvio; spesso mi rassicuro dicendo che mi sono sbagliato, che sono stato fuorviato da un demone; che sono attraversato da visioni infondate create dalla mia suggestione onirica, suscitata da una droga sconosciuta. Vorrei talora flagellarmi, fare penitenza, chiedere perdono per peccati che neppure ho commesso. Quelle visoni mi investono e mi schiacciano e pesano come fardelli giganteschi».
«E dunque dicci come sono possibili tali visioni: è forse un demone, o un Dio che le trasmette? O sono flussi apocalittici, sprazzi che viaggiano a caso nell’etere, che solo le menti più sensibili captano?» ho proseguito io, incalzando il Giudizio.
«Professore, spesso mi sono interrogato. E la domanda angosciante non trova mai una spiegazione logica, plausibile. Come può infatti scatenarsi in un attimo fatale l’Apocalissi, senza che vi sia un prodromo, un avvertimento? Ho avuto la netta sensazione che gli elementi fondamentali perdessero la quintessenza; che si tornasse quasi alle origini della vita e che l’Apocalissi fosse un ritorno, come se si fosse compiuto un ciclo già scritto».
«Vorrei che i miei autorevoli interlocutori, l’Arcano del Giudizio e il Monsignore, accompagnassero questa mia particolare riflessione sulle cause prossime che a mio avviso stanno, anche in questo preciso momento, determinando l’Apocalissi. Negli ultimi anni – dal primo esperimento nucleare avvenuto nel deserto del Texas, a Los Alamos, nel 1945, ad oggi – sono avvenute nel mondo più di duemila esplosioni nucleari, a cielo aperto, sotterranee, o in atolli del Pacifico. Varie località sono state sconvolte, nel corso degli anni, dagli esperimenti che attuano quelle potenti nazioni che attualmente detengono un arsenale nucleare. Io ritengo che la fusione dell’atomo d’idrogeno, che avviene naturalmente all’interno del Sole e ne fa una fonte perenne di calore indispensabile alla vita sulla Terra, viene replicata, provocata intenzionalmente quando si innesca la scissione dell’atomo di idrogeno o d’uranio per fare scoppiare una bomba nucleare. Questa sconsiderata, folle miriade di esperimenti, ha alterato i legami chimici della materia, scalfito le leggi della fisica e indebolito l’energia interna dell’intero pianeta. Un effetto farfalla sta per travolgerci. L’uomo ha infranto gli equilibri fisici del proprio ambiente e l’Apocalissi sarà l’effetto macroscopico dovuto a questa serie d’interminabili esperimenti atomici che hanno reso fragili i legami chimici del microcosmo. Di fatto una sottile Apocalissi già sta attingendo la materia e l’effetto finale sarà il collasso del pianeta, causato non dalla collera divina, bensì dalla volontà prevaricatrice dell’uomo che ha generato ordigni sempre più distruttivi per vincere una guerra mondiale e dominare».
Il Monsignore a questo punto è intervenuto dicendo: «Non sono d’accordo con il nostro studioso dei Tarocchi. Dio non è mai uno spettatore passivo; tutto viene filtrato dalla sua volontà. L’Apocalissi rientra in questa ottica; è un mezzo per porre fine alla prevaricazione del più forte sul più debole e rammentare le tavole della Legge. La cecità della scienza, gli arsenali nucleari sono uno strumento nelle mani del Signore».
«Io rispetto le tesi del nostro professore» è intervenuto l’Arcano. «La sua visione laica pone l’uomo al centro dell’evento apocalittico, di cui è l’unico vero responsabile. Non vedo un disegno provvidenziale positivo; piuttosto un disegno di una suprema entità maligna. Sono secoli che i malfattori governano e spadroneggiano; mutano i regimi politici, ma la sostanza resta la medesima».
«Non accapigliamoci, ragazzi; piuttosto l’Arcano del Giudizio ritiene che l’effetto farfalla possa spiegare l’avvento travolgente e repentino dell’Apocalissi?».
«Non so, professore. Potrebbe essere una spiegazione plausibile. Vedo che lei ha saputo investigare anche la genesi dell’Apocalissi… Piuttosto mi legga qualche verso del suo poemetto che mi riguarda».
«Il sobrio pennello intriso nei Numeri
descrive l’Apocalissi:
accostando il 2 allo zero
e riconducendo i dualismi all’abisso originario.
Il 20, scomponibile in un 5 ripetuto 4 volte,
mostra quando la quintessenza
non amalgama più i quattro principi
fondamentali della vita.
Se la Ruota del Divenire,
raffigurata dal Numero 10,
s’affida alla sapiente costruzione dell’Uno
e alle potenzialità infinite dello zero germinativo;
l’apocalittico 20 capovolge la rotazione
nel verso contrario e lo zero
svolge una funzione esattamente opposta,
riconducendo il tutto alle origini.
Senza Numeri non sarebbe possibile
descrivere il mondo e l’armonia
essenziale al suo dispiegamento.”
Questo il testamento spirituale,
affidato dall’Artefice
alla voce dei Trionfi».
«Esatto. Il due accostato allo zero dice tutto. Lo zero può svolgere una duplice funzione: germinativo e dissolutivo. Lei, professore, ha saputo riconoscere come il 20 ribalti esattamente il divenire, rappresentato dal numero 10».
«Più di tutti, l’Arcano del Giudizio dovrebbe avere dimestichezza con l’avvento dell’Apocalissi. Quale sarà il giorno della fine dei tempi?».
«Professore, sarò sincero, non so nemmeno io il perché e il quando. A intuizione, secondo i dettami e i percorsi della cabala, dico a partire dal 22 agosto del 2022 fino allo stesso giorno e mese del 2028».
«Quindi, per dirla in termini popolari, siamo alla frutta e stiamo raschiando il fondo del barile! E Lei cosa suggerisce, Monsignore?».
«Di pregare in attesa della fine dei tempi, come sempre ha fatto la Chiesa».
Abbiamo lasciato in silenzio la Cappella Sistina. Dopo esserci stretti la mano. Ho osservato la volta. Dava l’impressione di essere tenue, persino trasparente. Ho intravisto le Stelle.
Intervista alla Papessa
2 gennaio 2022
«Con il tuo prezioso contributo, vorrei approfondire una peculiarità finora trascurata da altri studiosi, il numero associato all’Arcano della Papessa: il Numero 2».
«Un buon inizio, professore! Il numero che contrassegna l’iconografia degli Arcani Maggiori è essenziale, non è un elemento casuale o un’astrazione decorativa».
«Sto dedicando a questa corrispondenza tra Arcano e Numero un trattato speciale: un Discorso sopra l’origine dei Tarocchi alla luce della filosofia dei Numeri. Sto cercando di dimostrare che il disegno dell’Artefice dei Tarocchi può essere analizzato razionalmente, andando a studiare l’essenza di ciascun Numero che descrive la natura dell’Arcano corrispondente».
«Con questo trattato, professore, finalmente indaghi un aspetto finora trascurato. Per questo ti sei guadagnato la mia fiducia e hai potuto realizzare quest’intervista!».
«Lieto d’essermi meritato il tuo rispetto, Papessa!».
«Sono a tua completa disposizione, professore. Con te non avrò segreti. In passato un’élite di saggi riteneva che il sapere dovesse essere condiviso con i soli iniziati. Oggi riviste autorevoli divulgano la ricerca scientifica. Le grandi enciclopedie sono on-line. Internet è uno strumento indispensabile alla crescita culturale delle masse».
«Temevo, da parte tua, una ritrosia ad elargire la sapienza che ti contraddistingue. Un poco, confesso, avevo condiviso il cliché che ti vuole riservata; invece constato con piacere che non fai valere la tua superiorità verso coloro che desiderano apprendere la via che conduce verso la verità».
«Professore, penso che sia comunque necessaria una buona dose di virtù per intraprendere il cammino arduo che porta al Tempio della conoscenza. Il sapere diviene patrimonio solamente dell’uomo sostanzialmente virtuoso».
«Sei molto esplicita… Il sapere e la virtù devono andare di pari passo, integrarsi, interagire. Sono due polarità apparentemente opposte, che il proprio il Numero 2 fa entrare in risonanza. Ogni tipo di dualismo non deve essere una statica contrapposizione, ma la premessa ad un rapporto dinamico, costruttivo. E qui mi ricollego all’antica filosofia cinese: il taoismo. Nel mio discorso cerco di spiegare come funzionano i due principi vitali dello yang e dello yin. Tu cosa puoi aggiungere di significativo al riguardo?».
«Luce e oscurità; caldo e freddo; positivo e negativo; uno e zero nel codice binario; maschile e femminile; sono le opposte polarità che stimolano l’evolversi del tutto. Il pragmatismo cinese descriveva la realtà quotidiana attraverso la teoria dei cinque elementi. I greci si focalizzarono sui famosi quattro elementi primordiali (fuoco, terra, aria, acqua) e poi Eraclito vi aggiunse il divenire. Tuttavia il pensiero occidentale, pur non trascurando i Numeri con Pitagora e le scoperte scientifiche con Archimede, non ha saputo dare altrettanta rilevanza alle cose e si è disperso in un’interminabile analisi che privilegiava la metafisica a scapito della fisica e l’idealismo a scapito del realismo. Pare che solo Leibniz, venuto a conoscenza degli aspetti salienti della cultura cinese attraverso i Padri Gesuiti, si sia appropriato dei concetti filosofici orientali e li abbia poi assimilati e sistemati nell’armonia prestabilita che mette in relazione le monadi e crea corrispondenze tra macro e microcosmo».
«Papessa, i seguaci di Platone e gli aristotelici hanno messo in un angolo il pensiero di Democrito, le riflessioni degli scettici, la teoria eliocentrica già enunciata dal greco Aristarco, e si sono decisamente preclusi ogni tipo di approccio critico al divenire. Questo immobilismo, questo sonno della ragione è durato fino a Galilei e all’avvento dell’illuminismo. Praticamente per duemila anni siamo stati fermi, imbalsamati dalle credenze religiose, imprigionati nell’idea della sante crociate contro infedeli, eretici, liberi pensatori, teatranti, giocolieri, maghi e streghe. E ancora le divisioni religiose tengono banco e paralizzano, penalizzano, procrastinando ogni reale progresso del pensiero. Gli stessi Tarocchi sono stati adulterati dai difensori della Santa Fede e dipinti secondo i criteri dettati dai controllori dell’Inquisizione che vigilavano attenti su giochi, bordelli e altre diavolerie. Il pensiero laico ancora tarda ad affermarsi nei paesi arabi dominati dall’integralismo islamico».
«Hai ragione professore. E penso che questo rigurgito d’intolleranza non troverà mai un freno. Ci sono interessi per tenere vivo questo regime del terrore, che giustifica gli interventi armati delle grandi potenze. Servono gli attentati che dei fanatici commettono in nome di Dio. E le guerre devono durare il più a lungo possibile, per potere vendere armamenti e tenere in vita l’industria bellica».
«Hai mai sentito come un peso scomodo il nome di Papessa, con cui l’Artefice dei Tarocchi ti ha designata?».
«No, anzi, mi va a pennello! Penso che mi abbia stimolato a darmi un contegno, a farmi immedesimare nel mio ruolo di custode del sapere. Ha accresciuto le mie responsabilità; ha dato una connotazione mistico-religiosa alle mie funzioni».
«Non pensi che il nome di Vestale, in quanto preposta al Tempio della conoscenza, sia più appropriato?».
«Sono stata battezzata con un nome decisamente polemico, stimolante, che è un marchio inconfondibile. L’Artefice ha saputo scegliere bene. Che poi io sia, di fatto, la Vestale che custodisce il Tempio, insieme alla Sfinge, questo è un altro discorso che non inficia sul mio nome; anzi, lo rende più plausibile, più marcante. In fondo il sapere travasato sui libri viene consacrato nel tempo, diventa immortale e l’insieme dei libri custodito nel Tempio della conoscenza struttura le basi della scienza universale che non incontra nessun tipo di barriera, soverchia i pregiudizi religiosi e razziali e viene accettata da tutti coloro che si rifanno a certi valori, a un certo modo di condurre la ricerca».
«E pensi che qualcuno dei libri si sia accostato alla verità?».
«Penso di sì; in ogni libro sta racchiusa una piccola porzione di vero e tutti i libri messi insieme possono dare la misura della verità. Altrimenti non varrebbe la pena trasmettere nulla. E per me un libro da leggere è anche una partitura musicale, una statua equestre… la facciata di una moschea».
«E non ti pare strano che nessuno libro finora abbia saputo rispondere agli eterni interrogativi che la Sfinge sottopone ai viandanti del sapere?».
«Certo, pare strano anche a me. E neppure io sono riuscita a scorgere una ragione plausibile di tanti misteri. Sembra quasi che un demone, o Dio, sovrasti anche la nostra coscienza di Arcani e sia impossibile attingere pienamente il vero che sfugge ad ogni tipo di approccio».
«E non ti pare strano che Dio, il supremo Artefice di tutte le cose, sia ineffabile, indefinibile?».
«Pare molto strano anche a me. Vuole tutti chini in atto di fede. E chi non si riconosce come figlio di Dio appare sempre come un ribelle, un miscredente, superbo e sprezzante, blasfemo e peccatore».
«Papessa, se l’Artefice ci ha fornito gli strumenti logici, perché limita poi l’uso della ragione e pretende un atto di piena dedizione? Può un essere perfetto e supremo, in possesso di tutti gli attributi possibili, sentirsi appagato dalla nostra totale e incondizionata sottomissione?».
«L’amore di tante creature dovrebbe appagare in maniera smisurata. Anche questo sentirmi emarginata, bandita dalla comunità dei fedeli e dei giusti, mi irrita e non placa la mia sete di conoscenza; anzi la stimola, la centuplica. Malgrado questo, debbo convenire che neppure io so nulla sulla vera natura del mondo in cui viviamo e sempre mi sfugge un particolare che non riesco a mettere a fuoco. E quando penso di avere trovato una risposta, ecco che altre domande, a cui non so rispondere, si accavallano sulle mie certezze e le dissolvono nel battito d’ali d’una farfalla».
«Io pensavo che la Papessa fosse al disopra dei misteri e possedesse le chiavi del Tempio necessarie per attingere la verità…».
«Non è come attingere l’acqua da un pozzo. Ogni volta che immergi il tuo recipiente si aprono improvvisamente dei fori e il prezioso liquido si disperde in mille gocce che non potrai mai più raccogliere».
«Pensi che l’albero della conoscenza sia diventato un frutto proibito, in seguito alla cacciata di Adamo dal Paradiso Terrestre?».
«Sì, può esserci una correlazione tra il peccato e la verità; nel senso che essa viene celata e questa esclusione è l’espressione della massima pena commisurata al peccato commesso. Se il peccato primordiale consistette nella superbia dell’uomo di volere essere come Dio e di volere dominare il mondo in maniera selvaggia e incontrastata, allora è chiaro che venne eretta una barriera artificiale che impedisce di essere nelle grazie di Dio e in comunione col resto delle altre creature che popolano la Terra. L’uomo fu isolato ed è ancor oggi terribilmente solo con i propri interrogativi, proprio per avere commesso il peccato originario».
«Dunque concordi che la verità sarebbe abbordabile, se non vi fosse stato il peccato originario?».
«Certo, concordo! L’uomo è solo. Unico essere intelligente in un cosmo infinito che non fa ascoltare nessuna voce. Parrebbe quasi una sorta di condanna questo silenzio cosmico».
«Eppure l’uomo si ritiene l’essere più perfetto e intelligente del creato, fatto a immagine e somiglianza di Dio, che ha predisposto un mondo con disparate risorse, agricole e minerarie, proprio per consentirgli un graduale progresso grazie alla tecnologia e alla scienza».
«Questo filone umanistico ha terribilmente bisogno dell’esistenza di Dio. Senza l’Artefice Supremo non vi sarebbe futuro, speranza; tutto si esaurirebbe nella morte finale di ogni uomo. Invece v’è Dio che gli garantisce il premio eterno, se è stato rispettoso dei comandamenti divini. E, secondo alcune religioni monoteistiche, vi sarà anche la resurrezione dei corpi».
«I buoni saranno belli, e i cattivi si ritroveranno brutti all’inverosimile?».
«Sono piuttosto scarsa in immaginazione, professore; tuttavia sono in perfetta sintonia con il tuo punto di vista».
«Quali libri consiglieresti ai nostri ascoltatori che abbiano voglia di confrontarsi con gli interrogativi esistenziali?».
«Il Diavolo e il Buon Dio di Jean Paul Sartre e le tue opere ispirate alle carte della divinazione».
«Sono lusingato da tanta attenzione. Accostarmi a scrittori autorevoli! Questa citazione eterodossa sarà considerata esagerata dai nostri ascoltatori».
«Sei, o non sei qui per farti della sfacciata pubblicità? E allora? Sono, o non sono una voce autorevole?».
«Papessa, dopo un naufragio esistenziale, quando mi sento stremato, mi aggrappo alle lettere dell’alfabeto».
«Ascolta la voce delle lettere dell’alfabeto: i suoni elementari sono puri, ancestrali, quasi immacolati. Mano, madre, materia, magma, mare, magia, mappa, matematica, mattina hanno in comune un suono ma, appartengono a una famiglia linguistica che attraversa il medesimo percorso genetico. Il magma originario diventa materia e la mano la plasma e la madre genera una creatura. Ed ogni essere vivente si è formato nel mare. Tra mare e madre v’è una d in mezzo: d come donna. La magia è affidata alla mano e si applica a tutta la materia. La mattina risplende sul mare. Grazie alla matematica posso raccontare la storia della materia e tracciare una mappa della terra. Intendo dire che una famiglia di parole presenta concetti e suoni affini. E le voci non sono casuali, ma denotano la cosa in sé; esprimono un concetto universale. Io ti affido questa mia intuizione sulla quale vale la pena speculare, soffermarsi per investigare sulla verità che instancabilmente viene inseguita e sistematicamente si nasconde alle analisi dei saggi, quasi ami giocare a mimetizzarsi nel labirinto infinito delle ipotesi».
«Papessa, illumina ancora quest’intervista con uno sprazzo di vera luce».
«Professore, mi sovviene del suono om, il mantra tantrico che aiuta a riscoprire l’essenza originaria perduta nella meditazione Yoga. Esso accosta la lettera m di mare alla lettera o di origini. In om il mare si distende sul globo, placido, e in parte lo sommerge e lo abbraccia. La parola è un’onda sonora, una particolare vibrazione con ben determinate caratteristiche. Il Verbo divino, secondo la Genesi, diviene forma e materia: prima luce, poi terra, poi acqua, poi aria, poi uomo. La genesi del cosmo passa attraverso la voce divina, che oggi la scienza chiama Big Bang».
«Tu in genere vieni rappresentata con a fianco la Sfinge che sottopone ai viandanti le tre fatidiche domande a cui nessuno é in grado di rispondere. Secondo il mito greco quella Sfinge li divorava tutti e rimase sorpresa dalla risposta del giovane Edipo, infatti si gettò dalla rupe per la disperazione. Se tu dovessi rispondere ai quesiti esistenziali, come te la caveresti?».
«Applichiamo le tre domande al contesto ludico proprio delle carte della divinazione. Noi Arcani siamo stati concepiti da un navigatore pisano che commerciava con gli Arabi. Fu grazie a loro che conobbe il primo mazzo di carte. Lo introdusse in Italia per quello che era: un gioco. Poi pensò di aggiungervi gli Arcani Maggiori, estrapolandoli dai valori della società dell’Alto Medio Evo. Questi Trionfi venivano usati come jolly e servivano per spezzare il gioco del seme che comandava. Il Folle, lo zero, si distingueva dagli altri, ne spezzava il dominio, ma non portava nessun vantaggio finale, in quanto valeva zero punti. L’Eremita computava 9 punti. Il Diavolo 15. Poi a qualche occultista venne in mente anche di usare gli Arcani Maggiori per fare delle previsioni sul futuro e risolvere i problemi quotidiani. Noi Trionfi, grazie alla costante energia che ci viene fornita dalla gente, col tempo abbiamo assunto una nostra personalità e talora accompagniamo la vita delle persone che più ci amano e hanno bisogno della nostra mediazione per meglio vivere in questo mondo fatto di simulazioni, astuzia, amori sfortunati, lavori incerti, fortune passeggere. Stiamo andando verso l’Apocalissi e il Mago, nei Tarocchi originari, aveva anche inciso sul tavolo, cosparso di farina, la fatidica data 2021, che poteva anche essere letta utilizzando le gambe del fratino che ospita gli strumenti magici, propri dell’Arcano Numero 1».
«Papessa, saprai che questo navigatore si chiamava Nicola Pisano e divulgò in Europa i numeri arabi scrivendo un trattato, un Liber abaci, portato a termine dal matematico nell’anno 1202, data che è palindroma di 2021».
«Un giorno, professore, è giunto sin qui l’Eremita, con un libro sotto il braccio: un poemetto dedicato alla genesi dei Trionfi. Prima di riporlo nella biblioteca annessa al Tempio della conoscenza, ho letto le tue liriche dedicate alle carte della divinazione. E ogni giorno, da allora, tengo quei versi accanto a me. Non me ne sono più separata. Ogni volta che li rileggo mi rivedo, mi riscopro….
Rammento professore la concisa risposta formulata da Edipo:
“Siamo voci silenti nella notte.
Veniamo dalle sfere di luce.
Risaliamo l’iridescente arcobaleno.”
Ti stavo aspettando per venire via, scendere a valle, nascosta nelle tue fibre, fino al giorno liberatore. Sento che è venuto il momento di abdicare dal ruolo secolare di custode del Tempio della conoscenza».
«Papessa, vorresti sottrarti al tuo ruolo proprio nel giorno in cui sono riuscito finalmente ad incontrarti?».
«Nei tuoi versi scorre la mia essenza. Tu mi hai segmentata, riposta in uno scrigno. Qui rimarrebbe solo un’effigie vuota, un’icona».
«Vuoi dire che sarei riuscito a dissolvere l’Arcano, a trovare la chiave dell’enigma?».
«Sì; tuttavia ti ritrovi smarrito nell’oblio. Ti aggiri nel labirinto delle ipotesi infinite. Devi confidare nei versi. Riscoprire le celesti doti... Vedo che taci, sorpreso... I tuoi occhi stanchi ancora si sentono colpevoli dell’ignoranza».
«Dunque ho avuto l’intuizione giusta?».
«Il censore in ascolto ti condanna a ripetere la medesima fatica: riproporre l’interrogativo esistenziale risolto. Assisa dinanzi al Tempio è rimasta l’icona sbiadita della Vestale. I fuochi illuminano i visi dei nostri nemici accampati fuori le mura».
«Dimentichi forse che la turrita città di Bezièrs è stata rasa al suolo? E i Catari, superstiti ai roghi, vengono ancora perseguitati dall’orda degli intolleranti?».
«Sarà sempre così, fino al giorno liberatore dell’Apocalissi. Il filosofo incespica sulle parole che un oscuro demone apparecchia».
«Dunque l’umanità è condannata?».
«Sì, condannata a non sapere da un censore in ascolto. Deve smarrirsi nel labirinto delle ipotesi e scontare il peccato originario».
«Allora proprio non risponderai più alle domande?».
«A cosa servirebbe rispondere, se le verità, talora faticosamente agguantate dai viandanti del sapere, poi si smarriscono nell’oblio risorgente che tutti confonde?».
«Ascolto le campane battere i rintocchi del Vespro, Papessa. Mi sono calato nel ruolo del vecchio occultista per leggere il destino nel ramificato intreccio della cabala».
«I tuoi occhi, fin troppo stanchi, si sentono colpevoli dell’ignoranza. Tuttavia hai saputo scalare l’inaccessibile santuario. Voglio rinvigorire le tue stanche membra. E instillare fiducia nei tuoi occhi bagnati di commozione».
«Come è stato possibile intendere la natura ambigua e sfuggente della presenza che, velata, aleggia, vigila e confonde fin dai primordi la nostra mente?».
«Pietosi versi rendono più degno il faticoso convivere e sublimano l’egoismo antico nella catarsi purificatrice. Dallo stato di natura affiorano vibrazioni per trovare le giuste corrispondenze. L’entità spuntata dall’indistinto stava nascosta nei labirinti della memoria».
«Quindi aveva ragione Socrate, quando diceva che per conoscere bisognava ricordare…».
«Ti sei lasciato cullare e rinfrescare dall’energia sprigionata dai Numeri sotterrati dai granelli di sabbia strappati al deserto, nella clessidra d’Arabia».
Intervista al Folle
20 gennaio 2022
Cazzarola! Mi è spuntato fuori da una carta e si è messo a correre, vispo come un ragazzo in festa. Poi mi ha sputato addosso, così per scherzo, non per disprezzo, tant’è che dopo mi ha baciato e abbracciato con simpatia ed affetto, come si fa con un vecchio amico quando ci si rivede a distanza di molti anni. E mi ha raccontato quella sul pepe.
«Amici, fratelli, correlegionari. Ascoltate! Quando ero ragazzo, il pepe era uno solo: quello nero classico. Poi è venuto il pepe bianco. Credo sia lo stesso pepe, solo un poco più giovane e fresco. Così lo vendono due volte. Mezzo raccolto bianco e mezzo nero. Poi c’è la varietà del pepe verde. Profumato. Leggero. Un pepe per palati sopraffini. Infine in vetrina ho ammirato anche quello rosa. Non so che sapore abbia. Mi sembra il più aristocratico di tutti. Ha scelto, del resto, il colore della rosa, non è mica scemo… questa volta sul pepe debbo riconoscere che i programmatori si sono veramente sbizzarriti! La multivarietà delle specie di piante è davvero sorprendente. Lascia allibiti! Non possiamo che inchinarci di fronte agli Dei, che hanno voluto dare sapore ai nostri cibi. Sapevano già che ci saremmo stancati della solita minestra riscaldata? Evidentemente sì: intuivano che avremmo avuto bisogno di svariato pepe ed altrettanti tipi di sale. E noi, per mostrarci riconoscenti, dovremmo ringraziarli con letterine a Natale. Invece diamo per scontato che il pepe sia nero e poi bianco e verde e rosa….
Gente, non rattristatevi. Con me oggi ho portato appresso un mazzo di carte e del pepe. Voi metterete il capretto allo spiedo e vedo che la polenta già bolle in pentola. Alea iacta est. E se, insieme al dado, Cesare avesse gettato via anche il pepe? Avrebbe mandato un pretoriano di guardia a prenderne altro. Certo, un poco rammaricato per lo spreco. E se il destino, parco con le sue Parche, l’avesse presa per un offesa? Allora si spiegherebbero le Idi, che videro il più nobile dei romani cadere vittima di una congiura laida e scellerata. Tirannicidio, in nome dei valori della tradizione e della repubblica. La storia insegna tutto….
I nostri Masaniello sapranno farla una buona volta la rivoluzione? O vogliono restare pescivendoli alla napoletana, con le sigarette di contrabbando sotto braccio? Tra di noi, oggi ci vorrebbe un vero condottiero, al pepe. Ecco l’ingediente giusto, amici, fratelli, correlegionari; uniamoci nel segno del pepe!..... Allora, non piace….. Avete ragione: il pepe vero, quello macinato dai forzati della Cayenna, aveva un altro sapore. Bei tempi, quelli sì».
«È tua? Fa parte del tuo repertorio?».
«No, l’ho presa in prestito da un leghista bergamasco. L’ha voluta leggere sul palco, in apertura, prima che il nuovo capopopolo prendesse la parola. Erano convenuti a Pontida, dal monte e dal piano, armati di fazzoletti verdi e bandiere della nuova nazione lombarda. Alle note del Va’ pensiero. Note da strapaese, strappate a Verdi».
«La butti in politica?».
«La butto a ridere. Avvolgo la politica nella carta igienica e reinvento la commedia plautina. Cazzeggio del sabato sera. Battute da coatti. Frico e polenta. Lambrusco romagnolo, ammesso con riserva. Scoregge doc padano. E fiati appestati di fumo».
«Vediamo se sai improvvisare. Dicono che ne inventi di belle e di sana pianta. Vediamo se ne racconti una sul caso, inedita».
«Dunque... Io e il Caso ci siamo incontrati, per caso, al giardino pubblico, esattamente davanti al chiosco delle bibite... Potrei fermarmi qui ed essere spernacchiato in pubblico? No di certo. Quindi vado avanti. Certo, il Caso merita altre considerazioni, ben più sublimi e dotte. Non a caso, mi ha rimbrottato: esige di essere trattato meglio, con più rispetto; come si conviene ad un aristocratico. Guarda caso, mi si è messo lì, di traverso, con i piedi sul tavolino, come nei film americani. Io non l’ho neppure considerato, mi sono servito una birra. E via. Rutto libero, come se fossi a vedere una partita di calcio. Non l’avessi mai fatto. La birra si è versata: solo metà, per fortuna, sul pavimento. Il Caso rideva. Si permetteva di ridermi in faccia! Come a dire che nulla accade a caso. E allora gli ho detto a brutto muso: “Per caso, sei venuto a rompermi le uova nel paniere?”. Non ci crederete. Ho sentito la sua voce nel fondo della mia alma: “Se io non percorressi questi sozzi lidi, saresti schiavo della necessità e non potresti neppure scegliere l’ora della tua cacca, quando più ti aggrada. E neppure avresti conosciuto quella donzella che è diventata tua moglie, anche se poi ti ha lasciato per uno con più soldi. Vedi, io, il Caso, distribuisco favori senza chiedere nulla in cambio. Io, paradossalmente, sono la vostra necessità. Senza di me neppure sareste l’unico pianeta in questo ammasso di corpi senza vita”.
Il Caso con me faceva anche il filosofo! E allora gli ho chiesto scusa e mi sono tolto tanto di cappello di fronte all’emozione dell’imprevisto. Sono andato via in punta di piedi, senza disturbare. Si era appisolato sul divano. È stato così che ho conosciuto personalmente il Caso. Semel in anno licet insanire, dicevano i nostri padri latini. Quella sera ero sobrio! E il Caso si è preso gioco di me, facendomi quasi ammattire. Quando l’ho raccontato (ero in relax sul divano dello psicanalista) mi sono quasi vergognato; poi ho avuto il coraggio di esplodere. Il terapeuta quel giorno non prendeva i soliti appunti; pareva casualmente estraneo, assente, assolutorio. Sorrideva. Si era versato anche un bicchiere di porto. Mi aveva passato, quasi sotto il naso, la bottiglia tondeggiante, ambrata, liquorosa. Sono disceso in gola, insieme al porto, e poi affogato nel nulla... Mi sentivo assente, senza peso. Leggero. Confuso insieme al Caso, ero forse trapassato. Etereo. Con la mia animula sottobraccio. Adesso faccio il portaborse del Caso. Non v’è altro da fare. Ho ripreso a sopravvivere insieme a lui. Nella calca del mondo. E a caso incontriamo insieme altri signori, signore, bambini. “Così è la vita; cosa ci vuoi fare?” mi ha detto placido un giorno. “È tutto?” gli ho risposto io.
Riservato, non parlava con nessuno. Con me doveva avere fatto un’eccezione. Persino ai grandi non dava confidenza. I potenti gli offrivano fortune e lui niente. Itinerante a caso, giocava con la vita di tutti. Senza volere fare mai veramente male a nessuno. Mi domanderete se siamo ancora insieme. Sì: soprattutto quando scrivo sul mio tavolino, dove sempre ci incontriamo, per uscire insieme a fare quattro passi. Ho scoperto così la necessità del Caso. Una sera, scegliendo parole a caso».
«Raccontacene una scelta a caso».
«Un giorno mi sono presentato all’Università di Roma, come esperto semiologo. Sono entrato direttamente nell’Aula Magna, dove vari docenti esaminavano l’etimo e facevano un excursus storico-culturale sul significato di alcune voci chiave. All’epoca veniva presentata la nuova Enciclopedia Einaudi, che voleva emulare e soverchiare il primo progetto enciclopedico degli illuministi francesi come Diderot e D’Alambert. Mi infilai d’improvviso, tra un intervento e un altro, approfittando del fatto che non esisteva una vera e propria scaletta. Alcuni interventi erano a braccio, frutto d’esperienza accademica maturata negli anni. Solo dopo sarebbe stato consegnata ai presenti la relazione scritta, che veniva presentata oralmente con qualche variante e dipendeva dall’umore e dall’interesse del pubblico. “Amici, vorrei accostare due parole che non sono per scrittura palindrome, ma sono forse l’una dirimpettaia dell’altra. A volte tubano; altre volte si guardano in cagnesco; talora si rincorrono, pur non ammettendolo; di nascosto si emulano; insieme concorrono a farci guadagnare il premio più ambito: la felicità terrena. Ad essa infatti si arriva, o mettendoci molto cuore, o esibendo un grande culo”. Ho scritto sulla lavagna le due parole, con a fianco la rispettiva lettura fonetica:
cuore [′kwɔre] culo [′kulo]
Parole dette col cuore, ho aggiunto. Avere un gran cuore. Non hai cuore. Ha cuore da vendere. Certo se dovessimo scegliere tra un cuore sano e forte e un bel culo, tutti sceglieremmo la prima opzione. Teniamo alla vita, che non ha prezzo. Il culo potremmo sempre farcelo rimodellare da un chirurgo plastico. Eppure se la classe non è acqua, e se al cuor non si comanda, dobbiamo ammettere che nella vita ci vuole culo. Non quello di ciccia, bensì quello che è imparentato con la dea bendata, con la fortuna. Quella squadra ha sempre culo. Quel Tizio ha un gran culo….».
«Ehi, ehi, ehi… calma! Calma!» l’ho interrotto. «Questa storiella già l’ho sentita, tale e quale, raccontata dal Mondo. Poi mi dirai che i grandi romanzi americani sono stati scritti col cuore e col culo… e tirerai fuori il cinema di periferia, dove rubacchiare le avance di qualche smandrappata… per non parlare di Dante e col cul ei fè trombetta eccetera eccetera. Uguale uguale al Mondo… chi dei due ha plagiato l’altro?».
«Secondo te, professore, io avrei l’aria di uno che ha bisogno di attingere acqua dal pozzo del vicino?!… A metà del mio intervento, un usciere è salito sul palco per togliermi di mano il microfono, ma io l’ho fulminato con lo sguardo ed è restato bloccato nel suo gesto blasfemo, con aria inebetita. Sono riuscito quindi a completare il mio discorso. I più spiritosi hanno riso alla goliardata e qualcuno pure applaudito al mio indirizzo, mentre due uscieri sopraggiunti, saliti sul palco, mi facevano fare la figura di Pinocchio quando viene trascinato in cella dalle due guardie».
«Non ti ci vedo proprio a fare la vittima. Comunque il Mondo…».
«Il Mondo non sa neppure indossare un abito dignitoso e campa d’inviti ai party! Frequenta anche i circoli dei bocciofili per farsi qualche partita con i babbioni...».
«Beh, lui l’ha spacciata per sua; se ricordo bene l’aveva anche scritta su un foglio e letta ad una festa paesana».
«Allora puoi crederci; per vincere qualche premio messo in palio sull’albero della cuccagna avrebbe venduto persino l’anima de li mortacci sua... È un mediocre, senza spina dorsale...».
«Sarà... se lo dici te...».
«Ti racconto quella storiella sui santi irlandesi... Un giorno stavo leggendo un libro di fiabe. Lo scrittore William Butler Yeats ha saputo raccogliere un’infinità di leggende sorprendenti tratte dalla sapienza e dalla superstizione popolare. La paternità è sua. Io l’ho arricchita, strada facendo. Bisogna premettere che i santi in Irlanda sono tanti, per via delle orazioni, e sono spiriti esigenti, dal carattere difficile. Nella contea più devota del paese vi era anticamente un borgo chiamato Fonte Pia, dove era sorto un cimitero riservato esclusivamente ai santi. Un tempo era sulla riva destra del fiume, quella più alberata e amena, ma un giorno, forse per sbaglio o per troppa fretta, alcuni stranieri e viaggiatori di passaggio decisero di seppellirvi un brigante che li aveva assaliti ed era stato ucciso dal postiglione. Di notte l’intero cimitero passò sulla sponda sinistra più paludosa del fiume, lasciando il malfattore da solo. Sarebbe stato più semplice rimuovere solo il furfante, ma quelli erano santi irlandesi e dovevano agire con determinazione e con stile».
«Splendida, davvero arguta! Adesso che l’atmosfera si è riscaldata, veniamo alle presentazioni ufficiali. Alcuni prendono per buono il tuo biglietto da visita e ti chiamano Folle. Tutti coloro che hanno illustrato i Tarocchi sono del resto concordi nell’affibbiarti questo nome. E poi, si sa, una volta battezzato, cambiare nome è sempre difficile. Solamente le persone che conoscono bene il sistema degli Arcani Maggiori ti chiamano Zero. Tu sapresti aggiungere qualche pettegolezzo?».
«Folli sono quei sedicenti saggi che per secoli, rispettando un’oscura tradizione, hanno riscaldato sempre la stessa minestra e acriticamente hanno riproposto il Folle distratto che avanza senza sapere dove mette i piedi. Quando i revisori dell’Inquisizione si sono appropriati dei Tarocchi, per veicolare determinate idee, hanno pensato bene di far dimenticare il mio nome originario: Zero, che era poi la chiave, la novità sostanziale del nuovo sistema numerico decimale, introdotto in Europa da Fibonacci, che lo aveva appreso dagli Arabi e ne era stato il divulgatore».
«Allora tu fosti battezzato, nel primo mazzo di Tarocchi, col nome di Zero?».
«Certo! Lo Zero è l’unico Arcano Maggiore senza numero. Se osservi con attenzione, lo Zero assomiglia non poco all’uovo originario da cui sono scaturite tutte le creature. E ricorda anche il cerchio, l’Abisso originario, che nella tradizione alchemica ritroviamo nel simbolo del sole ☉. Dunque lo Zero indica il principio, la potenzialità dell’atto, la potenza che si fa atto e si manifesta nei Numeri successivi, inglobandoli e descrivendoli con una scansione periodica. Nel mio bastone nodoso comparivano tutti i Numeri successivi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, incastonati da un cerchio dorato che simboleggiava appunto lo Zero, il quale idealmente descriveva, abbracciava tutti i Numeri e ne spiegava la genesi».
«Questa è una notizia rivoluzionaria! Dunque anche l’effigie dello Zero era diversa?».
«Nella tradizione medioevale il Folle aveva una sua rilevanza; simboleggiava uno stato mentale che rimandava alla ragione; poteva improvvisamente diventare lucido e aprire squarci sulla verità che neppure i saggi riescono a produrre dopo anni di costante ricerca. Il Folle scandalizzava, educava alla riflessione indirettamente, costituiva un baluardo in difesa dell’equilibrio. Era una figura rispettata, necessaria, doverosa. Non era bandito, ma accettato, e la sua diversità favellava. Dietro di me era raffigurato l’Abisso da cui ero spuntato con il mio bastone nodoso, incastonato con pietre preziose: dagli smeraldi ai rubini, alle acque marine, ai diamanti. Ed anche i Numeri cerchiati d’oro facevano la loro comparsa! Il disegno originario dell’Artefice dei Tarocchi era nitido, lampante, simboleggiato nello Zero che spalanca la grande sfilata dei Trionfi che sarebbero seguiti a ruota. Successivamente i revisori hanno lasciato il bastone vuoto e hanno spinto il Folle verso il baratro, irridendolo con abiti ridicoli. Una mossa astuta. Il Numero Zero venne cancellato e anche i Numeri Arabi furono riproposti nell’alveo della tradizione: ricomparvero i numeri latini scritti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X».
«Questa sì che è davvero una notizia da prima pagina! Finalmente fai chiarezza sul perché vennero riproposti i numeri latini e sulla vera natura del Numero Zero».
«Allora questa mia intervista me la devi pagare doppia!».
«Quanto avevamo convenuto, Zero?».
«22 euro simbolici, nuovi di zecca, presi in fabbrica, appena usciti dal conio, mai toccati da nessun altro. Me ne devi 44. La metà li tengo io: lo Zero; gli altri 22 li regalo al Folle».
«Hai qualche consiglio gratuito da dare ai nostri lettori?».
«Ai depressi consiglio d’ascoltare buona musica e di risparmiare d’intossicarsi con psicofarmaci, e soprattutto d’evitare di frequentare psicologi. Meglio ricordarsi che esiste ancora il sacramento gratuito della confessione».
«Vorrei donare allo Zero questo mia lirica, tratta dal poemetto che ho dedicato ai Trionfi analizzandone la genesi».
«L’accetto ben volentieri. A patto che sia tu a leggerla, adesso. Io vorrei chiosarla, se me lo permetti».
«Certo, con molto piacere! Arcano Numero Zero… Di solito mi limito a leggere appena alcuni versi simbolici. Tuttavia con te vorrei fare un’eccezione…
Viandante e girovago,
trasognato e assente,
con l’abito del giullare
e ’l pennacchio del cavaliere,
per divertire con lazzi
e intimorire, proferendo
improvvise e lucide profezie.
Fiero nei suoi logori e sudici panni,
arricchiti da una preziosa fibbia d’oro
e un bordone nodoso,
intarsiato da incomprensibili simboli.
Scandalizzati, abbiamo evitato
il confronto con il Folle,
ma, al suo passaggio, siamo stati scossi
nelle fondamenta delle nostre certezze.
Mentre disegnava zeri perfetti
e filosofeggiava sui punti della circonferenza,
spalancando voragini sul non-essere,
ci rammentava del nostro
originario senso di colpa
e sentivamo come rivelata
la ragione della nostra inquietudine.
In passato abbiamo anche elogiato
la forza innovativa della follia,
per entrare con la fiaccola del paradosso
nel meandro delle verità.
Poi ha prevalso il sonno della ragione
e sono riapparsi trionfanti
i mostri dell’intolleranza
e gli orrori del fanatismo
e della superstizione.
Deliberatamente, non inconsapevolmente,
il Folle va incontro all’abisso,
ma nessuno ha avuto il coraggio
di seguirlo nella sua coraggiosa rivolta
e scivolare nella voragine del nulla,
con la levità della sabbia
che marca il tempo
trattenuto nel fondo della clessidra.
Un incubo incomprensibile
per coloro che lo hanno visto
risalire sorridente
dalla solitudine bianca del vuoto,
con in mano l’ineffabile nulla,
condensato in uno zero:
simile ad un buco cosmico
pieno della forza del vento.
La follia degli uomini
palesa a tratti le verità
e il profeta sa riconoscere
i frammenti sparsi del futuro,
solo dopo avere sperimentato
l’estasi della stravaganza.
L’aedo sano di mente
non ha mai vergato versi
degni d’essere ascoltati.
I temerari compiono atti sconsiderati,
tuttavia possono scoprire isole inesplorate.
Il talento musicale sottrae le note
all’abituale solfeggio
e crea l’irresistibile trillo.
L’alchemica mistura rarefatta
condensa in oro
quando la materia, apparentemente
inerte e dormiente,
si lascia prendere
dalla frenesia del ditirambo.
L’occhio accecato dal fulmine
rammenta le origini
e la logica edifica sistemi filosofici
fragili come il più fino dei cristalli.
Queste verità abbiamo ascoltato
dalle voci dei folli perseguitati
e tramandato alle cure
sapienti dell’Artefice dei Trionfi.
Zero, ti ci riconosci?».
«Accipicchia, mi hai fatto un ritratto quasi perfetto! Possiedo una grande stanza con balocchi, oggetti rari catturati del corso delle mie scorribande per ogni dove. Desidero una dedica. Il tuo poemetto troverà posto nella mia “quasi biblioteca/ raccolta di non-libri”: così s’intitola il cantuccio dove mi vado a rilassare ogni tanto, per fuggire il mondo. Chiosar, non chioso. Il poeta ha detto già tutto. E ti saluto».
E lo Zero, ancora per sorprendermi, si è tuffato sparendo nella sua carta, dalla quale era spuntato all’improvviso nel giorno esatto in cui il guardasigilli del reame dei Tarocchi aveva programmato l’intervista. Poi è riapparso, solo a metà, facendomi marameo, come se stesse per uscire dal bordo di una piscina dopo una nuotata.
Intervista all’Imperatore
4 febbraio 2022
Il giorno 12 gennaio dell’anno 2021 l’Imperatore, mostrandosi magnanimo e disponibile, aveva concesso l’imprimatur che autorizzava la divulgazione orale e scritta delle interviste, indispensabile affinché potessi svolgere il mio lavoro senza il timore d’incappare in ostacoli burocratici. In cambio della sua benevolenza, aveva espresso il desiderio di sigillare la conclusione del ciclo delle interviste, anche per fare un bilancio simbolico. Ovviamente, io mi ero adeguato alle sua volontà.
Sono andato a incontrare l’Imperatore, assiso sul trono di marmo pario intarsiato con simboli alchemici. Mi sono presentato deferente in ginocchio, per tributargli rispetto. Lui si è alzato e mi è venuto incontro, poi mi ha invitato ad accomodarmi su una savonarola predisposta per ricevermi. Ho trovato il gesto, fatto per mettermi a mio agio, molto democratico. Confesso che ero alquanto agitato e avvertivo un poco di nervosismo incontrollato che si propagava per tutto il corpo e interessava vari muscoli.
«Sua Maestà imperiale, voglia gradire in omaggio questo mio poemetto che illustra la Genesi dei Trionfi».
A questo punto magicamente, proprio come nel poemetto, quattro fanciulle scalze sono spuntate all’improvviso e si sono mosse per salire i quattro gradini antistanti il trono dell’Imperatore. La prima, agile e scapigliata, dalle chiome rosse ed occhi brillanti, sembrava essere scaturita dal Fuoco. La seconda, figlia della Terra, muscolosa e forte, con trecce scure come la lava solidificata e le iridi ardenti simili a brace. La terza generata dall’Aria, diafana, quasi eterea, dai vaporosi capelli turchini e lo sguardo impreziosito da due gemme diamantine. La quarta uscita dall’Acqua, bagnata e pallida, con ciocche verdi e umide e le iridi perlacee.
L’Imperatore ha letto il suo carme in silenzio e poi si è limitato a scandire nitidamente i versi che più lo avevano colpito
«Il saggio coltiva l’arte del silenzio,
per non dissipare invano le proprie energie
e parla solo quando è indispensabile.
L’illuminato evita di fondare scuole di pensiero
non si affanna a cercare proseliti
per non essere frainteso
e interpretato arbitrariamente.
Capta i quattro elementi fondamentali
presenti in lui e riesce a farli scorrere,
come un rivo in piena, nella coscienza,
costruita giorno per giorno,
senza fretta e con infinita pazienza,
attingendo la sapienza sparsa
nelle magiche icone dei Trionfi».
«Complimenti, questa lirica coglie veramente l’essenza della mia natura di Arcano».
«Troppo buono Maestà. Nel Basso Medio Evo, al tempo della crociata contro gli Albigesi, un occultista eretico fu ospitato nella città di Beziérs, dove avevano trovato protezione i Catari, che criticavano il lusso degli ecclesiastici e la corruzione della Chiesa cattolica. Per questo il pontefice Innocenzo III decretò la santa crociata contro gli eretici nel 1208, la città ribelle venne distrutta e tutti i suoi abitanti inermi furono trucidati. Fu un massacro, un genocidio compiuto nel nome di Dio. I crociati benedetti ottennero l’indulgenza per i loro peccati e si divisero parte del bottino preso. I Tarocchi nacquero a ridosso di quel drammatico evento storico. L’artefice degli Arcani Maggiori pensò di travasare nelle icone il suo credo filosofico, nella speranza che le carte non subissero mutilazioni e non cadessero nelle mani della censura ecclesiastica. Tuttavia sappiamo che l’Inquisizione si appropriò del mazzo di Tarocchi e mutò effigi, simboli e numeri degli Arcani Maggiori con l’intento di veicolare i valori e le credenze della religione cattolica. Lei prese posizione a quei tempi o si lasciò travolgere dalla violenza dei crociati?».
«Io mi opposi con tutte le mie forze. Gli Imperatori all’epoca erano scomunicati uno dietro l’altro. Il Pontefice di Roma interferiva pesantemente nella vita sociale e politica del tempo e tutto praticamente veniva filtrato dalla religione, che permeava l’arte, la letteratura, la filosofia e l’insegnamento universitario. Anche gli Imperatori del Sacro Romano Impero dovevano ricevere un’investitura dal Pastore di tutte le anime. Erano tappe obbligate. Solo la Riforma seppe trovare la forza per edificare una Chiesa autonoma da Roma; tuttavia la religione restava sempre il perno centrale su cui ruotava la politica e la stessa scienza. La laicizzazione dello Stato nell’Europa è stato un processo faticoso, travagliato e difficile da fare accettare alla maggioranza della popolazione catechizzata e succube della propaganda clericale».
«È vero che il Gerofante mantiene fino ad oggi la sua scomunica contro l’Imperatore dal lontano 1350? E che parimenti furono a varie riprese scomunicati l’Innamorato, la Torre, l’Eremita e il Folle?».
«Dici il vero».
«E quella scomunica vi ha condizionato? Ha pesato sulla vostra coscienza?».
«Ha pesato sulla storia degli uomini. Io non ne sono stato scalfito minimamente, sono andato per la mia strada convinto, senza esitare».
«Maestà, avrei un argomento spinoso da affrontare adesso. Non vorrei irritarvi, ma sono costretto a toccare questo tasto».
«Parla pure liberamente, professore. Non avere remore di nessun tipo».
«Maestà, dovrei realizzare altre tre interviste...».
«Altre tre? Allora la mia non è l’ultima, come avevamo concordato?».
«No, Maestà, io rispetto la parola data. Non mi passa per la testa di mancarvi di rispetto. La vostra in sostanza è l’ultima intervista agli Arcani Maggiori dei Tarocchi. Tuttavia se ne prospettano altre supplementari, collaterali. Lasciate che vi spieghi meglio…».
«Bene, professore, allora favella!».
«Cupido avrebbe già fissato con un certo anticipo il giorno per la sua intervista. Sua Maestà ha qualcosa in contrario?».
«Trattandosi di Cupido non possiamo negargli nulla. I suoi strali d’amore ci tengono tutti sotto mira. Non me lo voglio certo inimicare».
«Dunque lo perdonate, Maestà. Anche per quella saetta maldestra che ha sviato il cuore dell’Imperatrice in passato?».
«Pensavo che avresti sorvolato su certi pettegolezzi...».
«Maestà, avrei steso un velo pietoso. Tuttavia l’Appeso ha spalancato il baratro e fatto luce sulle sue responsabilità. L’Imperatrice ha confermato la sua debolezza e complicità in quella vicenda sentimentale. Due amanti puniti severamente. L’Appeso ancora espia la sua condanna. L’Imperatrice di fatto è stata ripudiata, anche se non ufficialmente. Tutta la vicenda è venuta a galla nel corso delle due interviste e io non posso esimermi dal farglielo osservare. Maestà, non potete fingere di non sapere…».
«Hai ragione, professore. Credo abbiano sofferto abbastanza. E anche il mio egoismo ne ha sofferto. Oggi proclamerò ufficialmente che l’Appeso venga rilasciato e il suo patimento abbia fine. Alla mia amata consorte offrirò l’occasione per liberarsi del legame di nozze che ancora la vincola. Scelga pure il suo futuro lontano da me. Non avrà più nessun debito nei miei confronti».
«Maestà, oggi avete dimostrato di essere un vero sovrano, perché capite anche la complessità dei turbamenti d’amore».
«E le altre due interviste galeotte da dove spuntano fuori?».
«Un emissario della Sfinge si è presentato nel mio studio, alcuni giorni fa. Ed io, nel vederlo, sono cascato come dalle nuvole. Credevo di avere le traveggole».
«E chi era mai questo sedicente emissario?».
«Se ve lo dico… non ci crederete mai!».
«Se me lo dici, alla fine ci debbo credere! Fai il suo nome, perbacco, e non mi tenere sulle spine!».
«Lo dico sottovoce, Maestà! Se il pubblico viene a sapere il suo nome, rischiamo un sovvertimento generale, che potrebbe scuotere anche il vostro Reame». Così gli ho bisbigliato il nome, chiudendo anche gli occhi.
«Non ci credo; non è possibile!».
«Ve lo avevo detto che non ci avreste creduto!».
«E non ti sei sincerato sulla sua identità?».
«Certamente! Non mi sono fatto infinocchiare come un deficiente. Ha risposto a tutte le mie domande. E alla fine gli ho dovuto anche chiedere scusa».
«Diamo per buona l’identità dell’emissario. Dove vai a trovare la Sfinge? In Egitto? In Grecia? Al Museo egizio di Torino?».
«Mi verranno a prendere esattamente il 22 di questo mese».
«E tu cosa hai risposto?».
«Che avrei dovuto, prima di realizzare l’intervista, chiedere la vostra autorizzazione. Se aveste disapprovato, non sarei andato con loro da nessuna parte».
«Trattandosi della Sfinge non posso che autorizzare tale storico incontro. Supererà per eco la nostra intervista, occasione più unica che rara che ti sei conquistato con la tua testardaggine. Io non mi aspettavo nemmeno che riuscissi ad ottenere il consenso di tutti. Avevo messo in conto ragguardevoli defezioni: il Gerofante, il Giudizio… avrei giurato che non avrebbero concesso nessuna intervista, per nessun motivo; ma tu sei riuscito a coinvolgerli, meritando il loro rispetto. Buona fortuna professore. Anzi, gradirei ricevere un’anteprima dell’intervista alla Sfinge, senza tagli».
«Nessuna delle mie interviste, Maestà, è stata minimamente troncata in qualche parte. Sono tutte integrali e reali. Non ho inventato nulla».
«Io tuttavia sono perplesso, professore. Perché la Sfinge, che interroga da secoli, dovrebbe mai farsi intervistare? Non pensi che sia tutta una bischerata?».
«Potrebbe essere. Vediamo. Lo saprete in anteprima, maestà».
«E la terza intervista, come spunta fuori?».
«Un alto esponente, credibile, degli Arcani Minori, ha rivendicato una serie d’interviste ai vari reami delle carte. Io tuttavia mi sono detto disponibile ad intervistare solo l’Ambasciatore dei Minori, il Due di Coppe».
«Sei stato malleabile e astuto. Comunque voglio la tua parola d’onore che non effettuerai personalmente altre interviste oltre queste tre straordinarie, di cui oggi mi hai riferito. Non posso oppormi, mostrandomi ottusamente retrivo. Tuttavia anche tu non puoi dare fiato a cani e porci, senza sporcare la tua intelligente iniziativa. Questa vicenda delle interviste diverrebbe quasi interminabile, come una telenovela che si avvita su se stessa e nella propria stupidità».
«Avete perfettamente ragione Maestà. Anche io mi sono posto dei paletti, per non scadere di qualità ed essere sommerso da una valanga di banalità inevitabili».
«Dunque ragazzo, torniamo a noi. Abbiamo perso un poco il filo della matassa. Siamo partiti dalla sfida tra Impero e Teocrazia, passando per la scomunica».
«Maestà, non pensa che il simbolo dell’Imperatore non sia un poco appannato in questi anni di democrazia?».
«Tutt’altro, ragazzo. Un imperatore esiste ancora nel Giappone. Un tempo era considerato un sovrano celeste. Una nazione al mondo ha voluto conservare questa figura simbolica, che manterrà sempre un suo fascino».
«Maestà, vorrei potere intervistare l’anima del soldato François, morto nel corso della ritirata sul fiume Beresina. Forse Voi potreste mettere una buona parola, in tal senso».
«Non governo sul mondo delle anime, professore. Forse il guardasigilli del Reame conosce la via per accompagnare questa bislacca novità. E poi cosa avrebbe di tanto speciale, questo sfortunato soldato?».
«L’ho eletto a simbolo. Credeva nel suo Imperatore e obbediva. Non combatteva in Francia. Occupava il suolo russo saccheggiando quello che incontrava per rifornirsi, se trovava qualcosa da mangiare, perché i nemici si ritiravano e bruciavano tutto. Inevitabilmente l’invincibile armata di Napoleone s’impantanò nel grande gelo e dovette tornare indietro sconfitta. Se avesse avuto l’umiltà d’apprendere lezioni dalla storia, il generale avrebbe saputo che anche il re di Svezia Gustavo Adolfo aveva tentato l’impresa e i russi avevano usato la medesima strategia bellica vittoriosa. Partirono, secondo cifre accertate, 610.000 soldati e 180.000 cavalli. Ritornarono circa 1000 uomini e 60 animali. Una disfatta terribile».
«Non è questo l’Imperatore in cui mi riconosco, professore. I grandi fanno la storia con il sangue dei poveracci e degli innocenti; ma i libri di testo si guardano bene dal sottolinearlo adeguatamente. Del resto sono stati scritti per formare giovani pronti ad andare al macello per l’interesse dei guerrafondai e dei capitalisti che controllano l’industria, i mezzi di comunicazione e il parlamento. Anche se, dopo la seconda guerra mondiale, le cose sono cambiate e i conflitti si combattono a casa dei paesi sottosviluppati, nel Medio Oriente e in Africa…».
«Allora Maestà, ci parli meglio della sua maniera d’intendere il ruolo simbolo dell’Imperatore. Gradirei che lo facesse oggi, in quest’occasione credo unica, irripetibile. Vorrei che l’Imperatore dei Tarocchi ridesse una dignità al suo ruolo e difendesse la giustizia sociale e la dignità della persona umana».
«Nei secoli i disvalori hanno dominato le contee d’ogni nazione, creando i presupposti per una monarchia prevaricatrice e corrotta. Ho tentato di suggerire, di mediare, di conciliare, d’istruire, di proporre esempi di comportamento. Invano. Tutti gli imperatori e i monarchi, salvo qualche eccezione, si sono lasciati prendere dall’esibizionismo, dal personalismo, dal nepotismo. Sono stati accentratori, contornati da consiglieri infedeli e corrotti, incapaci d’ascoltare la voce interiore che avrebbe voluto moderarne l’ambizione».
«Dunque sono tramontati per sempre i tempi delle monarchie assolute e l’Imperatore dei Tarocchi vuole essere un simbolo d’unità nazionale, di buon governo, d’ordine e di giustizia sociale».
«Certamente, ragazzo! Io ho sempre cercato d’operare nella direzione da te auspicata, ma purtroppo non ci sono riuscito. Lo scrittore praghese Kafka, in una sua novella simbolica, incentrata sul messaggio dell’Imperatore, pone in luce l’incapacità, da parte di chiunque, di mettere in discussione le regole del gioco. Fallisce infatti persino chi, come l’Imperatore, detiene un enorme potere».
«Maestà, voglia illustrarla meglio ai nostri fedeli lettori».
«Un giorno l’Imperatore decide d’affidare un suo messaggio ad un messo, il quale deve attraversare diverse porte e altri tipi d’ostacoli. Alla fine, neppure il messaggio dell’Imperatore giunge a destinazione perché non ci sono le condizioni per ascoltare, per capire, per riflettere. Certamente Kafka intendeva dire che non esistono le condizioni per determinare un vero cambiamento. Il messaggio, per quanto autorevole e importante, non giunge a destinazione. Tutti sono ostili alla riflessione e preferiscono restare isolati nella loro torre d’avorio precludendosi ogni forma d’interazione col mondo esterno. Constatazione amara, fattaci per bocca di uno scrittore che ha messo in luce la difficoltà di scambiare vere informazioni che possano instaurare un dialogo costruttivo e proficuo tra le persone. Per via del nostro egoismo, non sappiamo capire, né amare, né interagire veramente con il prossimo».
«Maestà, perché non proviamo a sfatare il nichilismo kafkiano? Affidate un messaggio a quest’intervista! Forse l’umanità potrebbe trarne un ammaestramento importante».
«Professore, allora vorrei raccontare una vicenda occorsami alcuni anni or sono. Un giorno venne a farmi visita il Folle. Altre volte in passato era venuto per irridere le mie funzioni, ne inventava sempre una per mostrarmi quanto fossi obsoleto. Altri sovrani lo avrebbero già mandato in prigione a scontare pene esemplari. Tuttavia accettavo le sue critiche, proprio per dimostrargli quanto pregiudizio infondato vi fosse verso di me. Quel giorno, però anche dall’atteggiamento mi sembrava serio e riverente il che non era mai accaduto prima. Ho pensato stesse per chiedermi qualche favore e volesse ingraziarsi la mia persona. “Che ti frulla nella testa, ragazzo scavezzacollo?” gli ho detto. Lo avevo soprannominato così fin da quando ci eravamo incrociati per la prima volta. Con lui volevo usare un linguaggio semplice, proprio per farmelo amico, per capire quella sua scandalosa diversità. Lui non ci era mai cascato e non aveva rinunciato a punzecchiarmi, anche in maniera sfacciata e irriguardosa. Eravamo sempre rimasti contrapposti, immedesimati nel nostro ruolo, che i Tarocchi ci avevano trasmesso. “Vieni, ti porto al cinema” ha replicato, come si fa con un amico di vecchia data e volesse rinverdire comuni e spensierate goliardate. Io volevo starne fuori, non volevo sporcarmi in mezzo al popolino, in una sala cinematografica. Lui mi rispose che il cinema era uno dei più belli della Capitale, era ben frequentato e di lunedì, al primo spettacolo delle ore 15, la grande sala era pure semivuota. Non volevo proprio andare. Per convincermi mi disse: “Questo è il mio bastone nodoso, ricoperto con 22 cerchi dorati. Sarà tuo fin da ora. Me lo ridarai solamente se non ti sarai divertito”. Solo allora capii che faceva sul serio. Mi spiegò che il film raccontava in maniera bizzara gli ultimi anni di vita del Re dei Franchi, Dagoberto, un libertino caduto in disgrazia del Papa di Roma, in cerca di un’indulgenza per la sua anima. Non sapevo nulla di cinema, era la mia prima esperienza… Il film aveva anche un piacevole accompagnamento musicale ed era in fondo una parodia delle interferenze clericali sul potere temporale. Dunque il Folle aveva scelto un tema che poteva interessarmi. Mi divertii molto e volli assistere allo spettacolo una seconda volta. Ero rimasto colpito da una frase, pronunciata da Dagoberto* verso la fine, tanto che raccomandai al Folle di non farsela sfuggire. Ebbene, in quel film satirico gli sceneggiatori avevano avuto una grande intuizione; o meglio un’illuminazione. Il Re pronuncia una frase che quel ragazzo scavezzacollo annotò sul suo taccuino ed io ancora conservo. Ho fatto incorniciare quelle parole ed ogni giorno torno a rileggerle e a meditarle, come fossero tratte da un libro sacro. Ho capito lo spirito della foresta. Bisogna amare gli alberi: nostri fratelli. Professore, questo è il messaggio che ti affido».
«Maestà, tale messaggio può superare ogni barriera e ostacolo politico; tuttavia è assai complesso da accettare nel suo contenuto rivoluzionario. Gli uomini raramente mettono in discussione se stessi e la cultura in cui nascono. Ripetono acriticamente cose dette da altri. Preferiscono essere guidati, che assumersi l’iniziativa e l’onere di un cambiamento».
«Professore, vorrei essere io a farti alcune domande. Quest’idea delle interviste ai Tarocchi ha una sua precisa genesi, immagino. Sono curioso di saperne di più».
«Nasce durante una conversazione conviviale con alcuni amici. Stavo parlando dei miei libri ispirati alle carte della divinazione. Vivevo un momento d’esaltazione, d’esibizionismo… Ma, se è facile rivelare alcune circostante reali, di contorno alla genesi di questo progetto, forse più complesso è captare le ragioni vere che potrebbero essere mascherate. In realtà l’inconscio originario collettivo svolge il ruolo d’Inquisitore e quindi ha fatto di tutto per rendere impraticabile la meta che mi ero prefissato: dialogare con delle figure emblematiche che nel corso dei secoli, in virtù della manipolazione e delle interazioni con le persone, hanno strutturato una loro identità precisa, e sono gradualmente passate dalla carta passiva e silente al grado d’entità attiva e parlante. L’avere colto tale potenzialità negli Arcani Maggiori può essere definita un’intuizione del paranormale. Per altri potrebbe essere una velleità paranoica, ma se anche lo fosse, avrebbe comunque prodotto arte… Di solito, gli autori seri non si parlano addosso, sono più rispettabili. Io, come vedete Maestà, con una certa sofferenza indosso una giacca senza cravatta. Non sono affidabile e neppure vorrei essere preso troppo sul serio».
«Un’altra domanda professore… Ho letto tutte le tue interviste, rilette per l’esattezza, anche una seconda, una terza volta. Mi sfugge sempre qualcosa, particolari che trovano una loro forza solo ad una successiva lettura più attenta. Ne sono rimasto sorpreso. V’è, credi, una spiegazione, a questo fenomeno d’oscuramento della coscienza?».
«Sì, credo sia la censura costante operata dall’inconscio originario collettivo, che oscura i barlumi della verità prima che questi risveglino la coscienza».
«L’Apocalissi è un tema familiare nelle interviste. Ne parli con sicurezza, come se l’avessi vista e vissuta…».
«Una volta ho avuto una chiara visione apocalittica, che ancora non riesco a spiegare. Talora sento d’incarnare l’ultimo dei viaggianti che, un secondo prima della fine dei tempi, ha riacciuffato la luce e si è lasciato trasportare in un mondo che tra breve non esisterà più».
«Quindi ti senti un poco come un alieno venuto sulla Terra per visitare un mondo a cui non appartieni completamente…».
«Diciamo di sì. Sulla base delle mie visioni ne sono sicuro. Da un punto di vista umano, dubito spesso…».
L’Imperatore allora mi ha abbracciato e mi sono congedato, discendendo i quattro gradini istoriati di simboli alchemici che consentivano di accedere al maestoso trono cubico, posto al centro della sala delle udienze.
Taro: il suo nome. Orat: la sua parola. Rota: la sua possanza. Ator: la sua statura.
*Le bon roi Dagobert è un film del 1984, diretto dal regista Dino Risi e interpretato dall’attore francese Coluche.
Intervista alla Sfinge
22 febbraio 2022
Una grande stella di Davide dorata, contornata da un cerchio argentato, spiccava al centro del pavimento della grande sala ottagonale. Accanto a ciascuna delle cinque punte della stella era accostata una sfinge assisa su due esili colonne che fanno da supporto. I cinque animali tetramorfi (realizzati in cinque materiali differenti provenienti dai cinque continenti) pare fossero stati scolpiti da cinque artisti rinomati. L’omaggio alla quintessenza, nelle intenzioni dei progettisti, era piuttosto esplicito; tuttavia anche un profano restava impressionato dall’energia emanata dalle forme scultoree: placide e vitali, silenti e vocianti.
Mi trovavo sull’antica via Appia, non lontano dalla tomba di Cecilia Metella, all’interno di un vecchio casale ristrutturato e trasformato in villa da un ricco cinese che ha sposato una nota cartomante romana ed è rimasto affascinato dai Tarocchi. Lei lo ha iniziato alle vie occulte della divinazione, lui le ha insegnato i principi della filosofia taoista e le corrispondenze basiche, corollario della teoria dei cinque elementi, caposaldo del pensiero cinese. A Roma, lo straniero ha trasferito parte dei suoi capitali e ha anche fondato una setta pseudo-religiosa per iniziati, che gli ha permesso non solo di recuperare i soldi spesi, ma anche di guadagnarne altri.
Un suo autista mi è venuto a prendere e mi ha condotto all’appuntamento con uno degli uomini più facoltosi della Cina; in virtù della professione di sua moglie, costui si è interessato alle mie interviste, al punto da rendere fattibile un progetto che coinvolge anche un paese straniero. Io ho portato appresso il famoso mazzo di carte quantiche, che dovrebbero spalancare le porte della leggenda; spero, in tal modo, di captare la voce della Sfinge.
La cartomante ha fatto sistemare al centro della grande stella di Davide un antico tavolo ottagonale in legno massiccio, sul quale spicca una pietra un tempo facente parte della Sfinge di Giza, custodita entro una piramide di cristallo. Il reperto archeologico, grazie all’autorizzazione concessa dal Museo del Cairo, era stato spostato dalla sua sede naturale e trasferito nella Capitale per agevolare e rendere fattibile lo svolgimento della mia intervista.
Ad evocare la Sfinge era stata chiamata la stessa medium che mi ha supportato in occasione dell’incontro con l’Arcano della Morte; del resto, a ridosso del paranormale frequenti le stesse facce, che offrono una certa garanzia e si sono conquistate la tua fiducia. A comporre la catena, per rispetto della cabala, all’insegna dell’equilibrio e delle corrispondenze, erano presenti otto persone: io e la medium; la cartomante e suo marito; il direttore del Museo egizio coadiuvato da una dipendente di nome Samira; Mario Felicioni e una giornalista che frequenta Rete Destino: in tutto quattro uomini e quattro donne, alternati nella catena medianica per distribuire i dualismi. Solo otto candelabri a sette braccia, sistemati ai lati della stanza ottagonale, rischiaravano l’ambiente. Quatto fotocamere, poste su quattro angolazioni, dovevano riprendere l’evento e registrare le voci dei presenti.
Ad apparecchiare i Tarocchi è stata la cartomante, che ha mescolato i soli Arcani Maggiori. La Papessa è uscita alla fine del ciclo di sette carte, segno che l’incontro con il paranormale nasceva sotto buoni auspici. Di norma la catena, approntata grazie al contatto fisico delle palme, avrebbe dovuto far cadere in trance la medium che mi stava di fronte, tuttavia la donna sembrava ancora lucida. Anche le altre persone presenti apparivano vigili. Le nostre mani, col passare dei minuti, diventavano sempre più calde. Ne eravamo tutti consapevoli e i nostri sguardi lo testimoniavano.
Il frammento di Sfinge sistemato di fronte a noi stava diventando gradualmente luminescente e trasmetteva una strana energia che ci sommergeva. Io istintivamente ho chiuso gli occhi, e presumo anche gli altri, come se avessimo assistito al levare del sole. La nostra reazione si traduceva quasi in un simbolico atto di sottomissione all’entità captata e confluita nella grande sala ottagonale, che la sposa del cinese aveva appositamente ideato per costosissime letture dei Tarocchi, riservate a vip dello spettacolo, della comunicazione e dello sport.
Solamente allora ho cominciato a parlare con voce determinata. Non volevo denotare soggezione o timori reverenziali, anche se stentavo a tenere a bada una certa ansia.
«Osiamo, vogliamo, crediamo. Siamo qui riuniti per evocare la Sfinge, custode del Tempio della conoscenza da tempo immemorabile».
In risposta ho udito le parole di Samira, la funzionaria del Museo del Cairo che aveva accompagnato il suo capo. Parlava in arabo, assai lentamente, e ogni tanto faceva delle lunghe pause, come se dovesse riprendere fiato. In quegli intervalli tutti noi potevamo ascoltare la voce della medium, che, caduta in una vigile trance, ci forniva una sorprendente traduzione.
«Sto attraversando i cuniculi del tempo, avvolta entro una piramide cristalllina. Un frammento di me prende coscienza. Per secoli sono stata muta, silente. Spettatrice passiva di leggende che mi si addicevano. Altre voci mi infastidivano, tuttavia non sapevo come smentirle. Ed ora finalmente posso disvelare la mia natura, intrisa di miti ed impastata di storia. Sono l’alimento della poesia degli aedi e le mie lacrime intridono le trame della tragedia».
Ho continuato la mia intervista, immerso in un’aura irreale sempre più iridescente.
«Tutti noi siamo idealmente prostrati dinanzi al portento della luce che inonda i nostri cuori attoniti. Sei tu, dunque, la Sfinge che abbiamo evocato?».
«Certo; puoi chiamarmi con il nome greco di Sfigx, senza paura di sbagliare».
«Esiste dunque una correlazione tra la Sfinge egizia, il mausoleo, e la Sfinge greca che sottoponeva ai passanti i tre quesiti esistenziali?».
«In una remota alba, nell’ampia oasi della piana di Giza, mia madre di pietra, allora con la faccia dipinta di rosso, vegliava sul quieto eterno levar del sole. Rivolta verso est, poteva osservare la luce inondare il lontano scorrere del Nilo, navigato da bianche vele gonfie dal vento».
«Fosti tu partorita da una divinità?».
«Ero un prodigio alato, nato tra l’incanto delle verdi oasi, dove i faraoni avevano fatto erigere tre piramidi. Credevano che quei possenti simboli potessero combattere la morte sul piano magico, in virtù del fatto che le quattro facce triangolari ascendenti, costruite sulla base quadrata della piramide, si uniscono in un punto ideale: il vertice, sintesi alchemica dei quattro elementi fondamentali della vita, che fisicamente tornano a fondersi per l’eternità».
«Oggi questo concetto è abbastanza diffuso. A quei tempi erano nozioni riservate a pochi iniziati e solo i più ricchi potevano predisporre il proprio viaggio nell’aldilà costruendo un manufatto così portentoso».
«Io e mia madre abitavano oasi nascoste dal deserto ancora lontano, che circondava quel paradiso quasi preservandolo alla vista dei profani. Adesso, nella necropoli silenziosa, non vi sono più i guardiani armati a difenderla. Periodicamente passava qualche carovana di predoni che cercavano un varco per profanare le tombe e privarle dei tesori custoditi. La cupidigia degli umani non risparmiava neppure i morti».
«Secondo leggenda, la Sfinge, maestoso gigante di pietra a ridosso del deserto, avrebbe dovuto atterrire e quindi impedire l’accesso alle piramidi. Era stato messo proprio lì, per vegliare dove veniva predisposto per il viaggio il corpo dei faraoni defunti».
«Allora ero una giovane e portentosa creatura del deserto, ancora impotente. Soffrivo per l’incapacità d’impedire quei periodici saccheggi. Il più delle volte terminavano tragicamente: trappole e labirinti erano sparsi dappertutto. Pochi profanatori tornavano indietro per raccontare quello che avevano visto».
«Non ti celare. Parlaci ancora di tua madre. Palesa le tue origini!».
«Neppure io allora conoscevo la verità. Credevo che mia madre per punizione fosse stata pietrificata in una sola notte dagli dei, proprio per non avere saputo preservare le tombe dei faraoni. Un tempo doveva essere stata di carne viva e i sacerdoti, spettatori dal nulla della colossale Sfinge, per giustificare il prodigio avevano messo in giro la voce che era stata costruita da migliaia di schiavi ed era il frutto d’innumerevoli sacrifici. Gli Egizi aspiravano ad essere gli unici uomini capaci di costruire simili colossi. Nessuno dei posteri doveva sapere quello che era accaduto. Io, Sfigx, ancora giovane, ero cresciuta con questa tenera convinzione. Amavo troppo mia madre per pensare che fosse davvero di pietra».
«Vorresti dire che la Sfinge egizia di pietra era stata capace di generare una creatura di carne?».
«A dispetto dell’apparente, ottusa staticità, la Sfinge egiziana di Giza aveva una sua memoria. Al suo interno, miliardi di cristalli di silicio costituivano una grande rete di consapevolezza. Io, portentosa creatura, ne avevo ereditata l’impronta originaria ed ero stata generata da una proiezione delle linee di forza distribuite in una catena di cristalli pensanti. Io, figlia del deserto, ignoravo ancora le potenzialità dell’infinitamente piccolo!».
A questo punto la luce emanata dal reperto archeologico si è attenuata e ho cominciato ad aprire gli occhi per sbirciare verso la piramide di cristallo, trasferita temporaneamente a Roma, con il permesso delle autorità del Cairo. Al suo interno ho visto comparire forse l’ologramma di una piccola Sfinge svolazzante. Abbiamo udito ancora la voce del portento, filtrata dalla donna araba.
«Quella condanna eterna al silenzio faceva piangere mia madre di lacrime vere, che trasudavano dagli occhi di pietra e sembravano due rivoli sgorgati dalla zolla. Ne avevo ereditato la natura tetramorfa e lentamente ero diventata un mostro alato con artigli e occhi d’aquila che sapevano scorgere i movimenti più nascosti delle creature del deserto. Possedevo la forza del toro e l’agilità del leone. Perfida e bella, come sa essere una donna».
«Quando hai lasciato il deserto?».
«Lasciai la piana di Giza e mia madre, quando aveva smesso completamente di piangere e il volto rosso di pietra era stato reso meno delicato dal vento del deserto. La sabbia nel tempo aveva creato dei piccoli fori e delle fessure e la sofferenza si era accumulata fino a sfinire anche la pietra, che era diventata secca e asciutta per il calore».
«Lasciasti l’Egitto e ti trasferisti direttamente verso la Grecia?».
«Io, Sfinge vivente, stanca di quella plaga deserta, un giorno spiccai il volo per andare a spadroneggiare in un’altra regione lontana, separata dall’Egitto dal mare. Mi posai nelle vicinanze di Tebe, edificata in fondo ad una valle e circondata dai monti Citerone ed Elicona. Proponevo indovinelli ai viandanti e divoravo gli sventurati che ovviamente non sapevano rispondere. Prodigio intriso d’umano e d’animalesco».
«Edipo seppe rispondere ai tre quesiti esistenziali, che tu sottoponevi ai passanti?».
«Direi di sì. Io, Sfigx, sospinta da un irrefrenabile moto di rabbia, infatti mi gettai nella gola sottostante, ma poi ne risalii con la forza delle ali spiegate. Neppure la disperazione mi avrebbe mai spinta al suicidio. Nessun eroe sarebbe stato in grado d’uccidermi!».
«Eppure consolidate leggende raccontano esattamente il contrario…».
«Ripeto, non accadde nulla di tragico e irreparabile, come invece qualcuno raccontò in giro. Semplicemente smisi di martoriare quella terra riconoscendo a un greco coraggio e sapere. Edipo si prese tutto il merito e fu acclamato re dai Tebani. Librata nell’aria fresca, al levar del sole, vidi allontanarsi per i sentieri sassosi quel temerario».
«Si racconta che Edipo andava calpestando le strette vie sassose della Beozia. Non era neppure un valoroso eroe, o un re. Soltanto un anonimo giovane, salvato da due anziani pastori che lo avevano allevato. Da poco aveva ucciso suo padre Laio, senza saperlo, e poi, ignaro, avrebbe sposato la regina dei Tebani, Giocasta, sua madre».
«Avrei potuto confonderlo e mandarlo verso un altro sentiero in maniera perentoria. Invece ero diventata indifferente al dolore delle creature e ad Edipo non volli risparmiare le sofferenze. Tuttavia quel povero figlio, adottato da pastori, pareva un inviato dagli Dei e si fece notare, per la sua arditezza e prontezza, con una risposta concisa ed inequivocabile. “Siamo qui per ricordare da dove siamo venuti e stiamo ritornando alle riviere di luce”. Con quest’unica risposta Edipo unificò e risolse l’enigma esistenziale che io proponevo agli incauti viandanti».
«Narraci ancora le vicende di Edipo, se le accompagnasti…».
«Risolto l’enigma, Edipo si mise in cammino con un manipolo di fidati soldati. Tebe lo incoronò re della città liberata dal fardello dell’odioso mostro che imperversava da anni in quelle contrade maledette dagli Dei animosi. Ancora non sapeva Edipo d’avere sposato sua madre… Quantunque non fosse più giovane, la donna possedeva del fascino, seducente per un ragazzo abbandonato sui monti ancora in fasce e poi adottato da una coppia di pastori sterili. Secondo la volontà del re Laio, l’indesiderato nascituro avrebbe dovuto essere soppresso, come si faceva abitualmente con i figli deformi o malati che non potevano essere adeguatamente curati. Il neonato Edipo non era affetto da nessuna malformazione, ma un vaticinio aveva predetto a Laio la morte per mano di un figlio. Giocasta, madre amorevole, invece aveva predisposto la salvazione del predestinato. Così il fato si era compiuto; perché a nulla sono mai valsi i fiacchi tentativi di frenare il corso segnato degli eventi. Laio, padre di Edipo, e sua madre Giocasta: illustri vittime della grande Ruota del Divenire che stritola le creature impotenti. Gli eroi valorosi lo sanno, ma lottano egualmente con tutte le forze. E la loro grandezza sta proprio nella consapevolezza di partecipare a scontri impari che eternano i deboli e rendono imperiture le gesta. Gli antichi Greci sapevano affrontare la morte con dignità e solo così, agli occhi degli Dei, potevano guadagnare un posto nell’iperuranio».
«Come seppe Edipo della relazione incestuosa?».
«Con la donna che gli stava accanto consumava un inconsapevole incesto, vittima ignara del diletto carnale, mentre il fato lo aspettava per strappargli tutto quanto aveva conquistato con tanta capacità e buona sorte. “Perché stai andando verso il monte Olimpo, amatissimo giovane sposo? Perché non rimani nella sicura Tebe ad approfittare degli agi della tua nuova condizione?”. “Ricordi incancellabili scuotono il mio petto e mi agitano il sonno: gli uomini che, mio malgrado, ho dovuto uccidere e quel prodigio alato che, volteggiando, ha risalito la scarpata. Li vedo di notte. Ne ascolto le Voci e ne inseguo le ombre. Tu, dolce sposa, rendi i miei sonni meno inquieti e tanto più gradevoli. Se non avessi questi rei fantasmi nella testa, rimarrei volentieri accanto a te, a gustare le delizie dell’ambrosia che scende dalle tue labbra”. Giocasta, la regina, insisté per accompagnare il valoroso eroe nel viaggio verso le pendici del monte Olimpo, dove i Greci avevano collocato la dimora dei numi sempiterni. Lasciata la scorta più a valle, Edipo da solo risalì le pendici sacre dell’Olimpo, dove nessuno osava andare e s’incontravano solo capre e cervi che si lasciavano avvicinare perché non conoscevano la paura dell’uomo. Il Tempio si materializzò all’improvviso, mentre il sole tramontava inondando di rosa il muschio adagiato sulle pietraie. Edipo depose a terra la spada e lo scudo, e tolse via l’elmo. Si spogliò volutamente d’ogni attributo potenzialmente offensivo e s’inginocchiò per purificarsi. Svolazzandogli attorno, quasi a dare un segno rassicurante, un alato dagli occhi vivi e vigili lo precedette fino alla porta del Tempio, che si era magicamente spalancata. Al posto dei Libri del sapere custoditi gelosamente, scoprì una biblioteca con scaffali vuoti e una sola pergamena, dove non si riusciva a leggere nulla, perché senza scrittura. Poi lo sparviero gli parlò e dette corpo alla sacra voce degli Dei, svelando l’incesto. Edipo si mise subito a piangere e a urlare e si strappò le vesti mentre scendeva da quelle balze scoscese e fatali. Sua madre Giocasta ancora non sapeva. L’impasto incestuoso di carezze e baci mai sarebbe stato cancellato e un altro fantasma si era incollato sulle carni dell’eroe greco. E a peregrinare verso quel Tempio poi tornò ancora, con tenacia e ostinazione, il vecchio Edipo, quasi del tutto cieco e mendico, forte di un diritto acquisito per sempre. E la porta, riconoscendolo, si spalancò di nuovo, al volo dello sparviero che era rimasto rispettosamente muto. Io, custode del Tempio, furtivamente alle spalle lo seguii mentre si aggirava in quel labirinto del sapere, dove Edipo finalmente scoperse e prese a sfogliare gli occulti libri, che non avrebbe mai potuto leggere e per la vecchiezza e per l’incombente cecità. Sentendosi spiato, per la grande sensibilità sviluppata, Edipo si girò e parlò con la voce tremolante dalla fatica e dalla disperazione. “Chiunque voi siate, o demoni, o Dei, mi avete ingannato! Avevo risposto ai grandi interrogativi e avevo tutto il diritto di sapere!”. E io, apostrofandolo e spingendolo con rabbia a terra, mi chinai sopra lui per raccoglierne gli ultimi sospiri. “Ai trasgressori delle leggi divine è concesso solo di entrare, ma non di leggere i sacri libri”. “Tenuto all’oscuro dal fato, non sapevo che Giocasta fosse mia madre! Uno dei miei figli mi vendicherà e il fuoco sommergerà i vostri libri e il vostro Tempio. Che siate maledetti, demoni e Dei spietati che non avete avuto pietà di un vecchio afflitto e solo!”. Poi Edipo, lentamente, fu pervaso da una metamorfosi. Il corpo si irrigidì e la sua parola esalante si fece più scarnificata, anche se la voce ferma e sicura aveva assunto i toni di un terribile vaticinio. Quella voce, impressa nella mia eterna memoria, superò ogni barriera temporale e giunse intatta e vitale alla coscienza della Papessa, la quale ancora teme che la maledizione si possa avverare da un momento all’altro, perché le visioni del futuro passano sempre attraverso un dolore e nascono dal coraggio, dall’energia non comune sprigionata da chi sa imprimere alla grande Ruota del Divenire un andamento nuovo e imprevedibile».
«Spiegaci come diventasti guardiana del Tempio della conoscenza!».
«Gli abitatori dell’Olimpo mi vollero presso di loro, accolta come figlia dei numi. Non potevano lasciare un prodigio vivente imperversare sulle altre città della Grecia. Il flagello doveva essere assimilato e ricondotto alla ragionevolezza. Poi un giorno, su quelle pendici, sopraggiunse una donna che diceva d’essere la Papessa dei Tarocchi e ne scaturì un inatteso sodalizio. Fraternizzai con quell’Arcano dai natali incerti. Accolta nel gruppo dei ventidue prodigi, ne divenni l’antesignano, per essere figlia della pietra del deserto. Eros trovò un padre adottivo nell’Innamorato e così i sodalizi furono due, perché alla legge del dualismo universale si deve rispetto».
«E gli Dei? Svanirono in una notte, lasciando solo Eros?».
«I sacri Libri ripetevano che gli abitatori dell’Olimpo erano falsi e bugiardi e cercavano di farne dimenticare agli uomini il ricordo, alimentando il fuoco ieratico delle fedi monoteiste. L’inconscio originario collettivo, nascosto e mimetizzato, tornava incessantemente ad oscurare la memoria del mondo originario di cui tutti siamo figli. Tra gli Dei, solamente Eros, unico Dio legato intimamente agli umani, rimase. Sperava che le sue frecce potessero indurre l’auspicata palingenesi».
«Mostraci i segreti del Tempio della conoscenza: il distillato della saggezza, prodotta in ogni tempo e in ogni paese, travasata su papiri, pergamene, carta finemente rilegata, opuscoli, appunti, incomprensibili scarabocchi, diari anonimi…».
«Il Popolo degli Scriventi ha trasmesso soltanto quello che non serve a capire. Il Popolo dei Parlanti deve restare per sempre all’oscuro. I nostri progenitori non hanno raccontato tutta la verità, anche se sapevano bene come erano andate le cose. Per questo dovevano infittire le origini di misteri, inventare speculazioni e credenze».
«Allora rispondi! Chi siamo?».
«L’ampolla originaria ha le dimensioni del nulla, quando è vista dalla nostra prospettiva, ma è infinitamente grande come lo spazio cosmico che ci circonda, quando si è dentro. L’energia primordiale si propaga attraverso l’infinitesimo e si trasforma nella miriade di biosferoidi che costellano l’universo. Attraverso il tempo viaggiano i bioni, che introducono cambiamenti evolutivi nel programma».
«Da dove veniamo?».
«Eravate parte di un progetto collettivo, a cui hanno partecipato numerose essenze. Eravate ingegneri in un laboratorio di un’altra dimensione esistenziale. Adesso siete smarriti per la vostra stoltezza e avete dimenticato le origini. Venite dal mondo delle essenze: Dei e programmatori di questo e altri progetti di vita, dissimili dal nostro, contrassegnato dalla presenza fondamentale di acqua e carbonio».
«Dove stiamo andando?».
«L’Apocalissi non sarà frutto del caso, né scaturirà per volontà degli dei. Saranno gli umani con la loro stoltezza a provocare il collasso della materia. Hanno con migliaia d’esplosioni nucleari indebolito gli equilibri alchemici e innescato un processo irreversibile. L’effetto farfalla a breve sconvolgerà il Mondo. Altrimenti, secondo le regole della natura, dovremmo ritornare al punto di partenza, perché il percorso ciclico è parte integrante del disegno originario».
«Questa sera, in questa sala ottagonale, siamo dentro un libro di fantascienza. Le mie parole giungono nitide alla Sfinge egizia, il cui simbolo risale a più di 10.000 anni fa. La voce proveniente da un prodigio dimostra che la materia cosiddetta inorganica è organizzata, pensante e cosciente. Ciò sarà oggetto di dibattito per scienziati, filosofi, teologi. Non siamo più i soli esseri intelligenti del pianeta. Forse oggi sta per iniziare una nuova era».
«Professore, noi essenze originarie siamo artefici del Mondo. Ne hai parlato nei tuoi libri, frutto sì del tuo ingegno narrativo, ma anche ispirati, scaturiti da un percorso iniziatico. Non era facile ascoltare la voce degli Dei. Hai messo in discussione credenze millenarie fittizie, surrogate da entità egemoni».
«Sfigx, i poeti vati portano pesanti fardelli. Sono consapevole che non è realistico ritagliarsi un cantuccio dove raccogliersi in meditazione. Sono debitore ai miei interlocutori della fruizione di tante poderose energie, senza le quali non sarei mai giunto sino al ventre della Sfinge».
«Professore, io sono la voce dell’elemento silicio, il cui simbolo chimico è Si. Ho ideato, creato, attraverso linee di forza generate da una catena cristallina pensante di silicio, il simbolo della Sfinge che si erge possente a difesa delle tombe dei faraoni».
«Quindi la nostra interlocutrice non è propriamente la Sfinge, bensì l’energia che l’ha generata».
«Professore, hai ora espresso un concetto complesso. Tuttavia conosco i sentimenti degli umani. Mi sono passati accanto per secoli come tante formiche… Intuisco emozioni, anche contrastanti, di perplessità, diffidenza, preoccupazione, paura. In questo momento già sarai sotto l’occhio vigile dell’Inquisitore, propenso più ad occultare che a divulgare».
«Come debbo chiamarti?».
«Continua a chiamami Sfigx. Alessandro, l’autore delle interviste ai Tarocchi, porta un nome egocentrico, creativo, immaginifico. Uomo di temperamento e ambizione. Generoso e orgoglioso. Colore prediletto il verde. Metallo affine l’oro degli alchimisti. Ti rivedi in questo quadretto?».
«Abbastanza. Vedo molte affinità. Una volta i nomi erano scelti per dare un imprinting alla persona. La via da percorrere era già marcata dal nome ed avveniva come un incantesimo occulto».
«Sarebbe stato folle, fino a ieri, pensare d’intervistare la Sfinge: un mito, un simbolo, una creatura di pietra. Eppure oggi è possibile, professore. Non è solo immaginazione. È un dato concreto, incontrovertibile. Stai ascoltando la voce della Sfinge. Stai parlando con linee di forza generate da una catena cristallina pensante di silicio. Per secoli siete stati esclusi, banditi, isolati in un universo silenzioso e questa sera, per sua volontà, Sfigx si svela, si manifesta».
«Io domando: perché questa sera, dopo tanto ostinato silenzio degli Dei, la Sfinge si rivela? Questa sera… perché non ieri, perché non domani?».
«Ieri non eravate maturi. Domani non avrete più tempo per capire».
«Questa sera cosa è successo di tanto rilevante?».
«Un uomo oscuro ci è venuto a trovare nel Tempio della conoscenza e ha saputo rispondere ai quesiti esistenziali che la Sfinge sottopone a tutti i viandanti del sapere. E soprattutto ha intuito l’esistenza dei cristalli di silicio pensanti. Il quarzo, biossido di silicio, se sottoposto a pressione, emette una corrente elettrica. Le memorie dei computer sono realizzate con cristalli di silicio purissimo che in natura non esiste e vengono prodotti in laboratori specializzati. Il silicio, numero atomico 14, è quell’elemento che, insieme all’ossigeno, compone il 95 per cento della litosfera. In sintesi potremmo identificare la Terra con l’elemento silicio. Se mi vedi da una prospettiva macroscopica, tu, in questo momento, stai ricevendo informazioni da Gea, o Gaia che nella mitologia greca indica la dea primordiale, quindi la potenza divina, della Terra».
«Dunque aveva ragione il filosofo Giordano Bruno, quando attribuiva un’anima ai pianeti, in virtù della sua visione panteista…».
«Anche la tua mente, come la Sfinge, è un prodotto dei cristalli pensanti di silicio. Gli uomini hanno peccato venerando idoli, innalzando cattedrali e moschee all’unico Dio invisibile, che si è camuffato e ha confuso le nostre voci. Tu, o fratello, hai avuto l’ardire di spodestare convincimenti secolari radicati in miliardi di persone, cementati dal monoteismo, avallati da costituzioni e Libri sacri. La tua intuizione, la curiosità, la volontà, il coraggio ti sono valsi quest’intervista che i mortali contesteranno come apocrifa, eretica, millantata».
«Sfigx, pensi che questa chiacchierata, registrata da sofisticati apparecchi elettronici, sarà divulgata al Popolo dei Parlanti?».
«Professore, molto probabilmente sarà sigillata in un’urna, perché diranno che il popolo non è pronto. E quando sentiranno tuonare le trombe dell’Apocalissi, capiranno che non avevo mentito».
«Sfigx, non penso sia giusto che l’uomo, dopo secoli di tormenti esistenziali, svanisca senza sapere. Ci siamo arrovellati per millenni attorno ad un fuoco, spiando le stelle col cannocchiale, inventando altri congegni, su cosa eravamo, su quello che siamo e dove stiamo andando, ed ora, quando finalmente abbiamo la risposta, ci facciamo sorprendere impreparati dalla fine dei tempi. È giusto che altri sappiano che uno dei figli d’Edipo, un’eccezione tra i miliardi di persone comparse, ha avuto un lampo ed è riuscito a strappare, a pochi anni dalla fine, quella risposta che i Libri sacri hanno contribuito ad occultare».
«Alessandro, finalmente, dopo tanto silenzio, oggi abbiamo riascoltato la voce di uno dei nostri fratelli che avevamo inviato sul pianeta terra, quattrocentomila anni fa. Dopo avere perso i contatti, erano caduti nella barbarie e ci avevano dimenticato. Presto andremo a riprendere i Catari: i puri di spirito meritevoli della salvazione etern
Intervista a Cupido
6 giugno 2022

Con ragguardevole anticipo, Cupido aveva fissato per la sua intervista la data del 6 giugno dell’anno 2022. I sei del giorno, del mese e dell’anno (2+2+2) coincidono una sola volta nel calendario, e bisogna dargli atto d’avere apparecchiato un incontro da vero devoto della cabala.
Sei giorni prima della data fatidica, mi è spuntato davanti, quasi dal nulla, nella sua veste ordinaria, con tanto di faretra e dardi destinati ai futuri innamorati. Con garbo, facendo una piccola riverenza, il bamboccio paffutello mi ha presentato il nullaosta firmato dal guardasigilli, il Cavaliere di Spade, la cui C maestosa accorpava le due “e” di Cavaliere e si snodava fino alla “e” di Spade come un vero e proprio anello nuziale.
«Cupido ha domandato la mia benevolenza alla concessione di un’intervista, che gli era stata promessa insieme all’Innamorato. Non ho motivi validi per oppormi ad un evento che ha coinvolto l’intera nobile famiglia degli Arcani Maggiori».
Ho sempre guardato con ammirazione quella C che incuteva soggezione in molti e doveva apparire esagerata a pochi. Avrei voluto chiedere all’alto funzionario del reame dove era andato a pescare una C così girovaga, fin troppo ondivaga, comunque indimenticabile, come se il guardasigilli volesse lasciare una traccia significante del suo passaggio nell’esistente ordinario eternandosi in un tratto finissimo e inconfondibile. Sembrava un segno d’antica nobiltà, deposto in uno scrigno come uno stemma araldico di famiglia; disteso entro il sigillo imperiale, impresso nella ceralacca rossa; profumato dell’essenza di sandalo che esalava ogni volta che il guardasigilli apponeva il suo fresco imprimatur.
«Pensavi d’avermi messo da parte, professore?» ha trillato con la sua voce tinnula che tenue s’insinuava negli antri della psiche.
«Affatto! Perché non ti sei fatto vivo nel giorno dell’intervista all’Innamorato? Volentieri ti avrei coinvolto nella nostra chiacchierata!». Intendeva sorprendermi; mi voleva già ai suoi piedini cicciotti, che avrei tanto a lungo vezzeggiato. Così l’ho abbracciato spontaneamente e me lo sono un poco cullato e rimirato. E lui, gioviale, si è lasciato spupazzare e lieto mi sorrideva, sereno.
Aveva lasciato in terra il suo ingombrante armamentario erotico: faretra, frecce ed arco. E sulle sue gote rosate deponevo bacetti e pizzicotti, quasi alternandoli come si fa con i coriandoli e le stelle filanti nei giorni festosi del carnevale. Ho udito ancora la sua voce e mi sono sorpreso, quasi strappato a forza da coltri oniriche.
«Avevo una serie d’appuntamenti indifferibili, professore!».
Gli ho risposto per le rime, perché non volevo farmi infinocchiare dalla sua parlantina accattivante. «Non lo credo affatto Cupido. Questa è una scusa!».
«Confesso, lo è, professore. L’Innamorato non voleva misurarsi con me, con le mie frecce. È sempre stato geloso. Ha i suoi complessi e li nasconde».
Sapevo che mai avrebbe mentito. Se talora, in rare circostanze, solca i sentieri aspri della menzogna, diventa paonazzo dalla vergogna e poi si mette a ridere per primo. E questa sua congenita sincerità gli è valsa una fama che ha percorso in lungo e in largo il Reame dei Tarocchi, dove invece tutto è artefatto, calcolato, minuziosamente studiato per tessere orditi, trame, complotti, intrighi e persino gli scherzi si traducono in metafore d’inganni futuri.
Ho preso a rimbrottarlo, come un bambino, per il piacere di colpire lievemente e per scherzo le sue natichette pallide.
«Cupido, penso non sia bene parlare male degli assenti».
«Non sto svelando nulla. Lo sanno tutti!».
Era sempre sincero, anche nella calunnia. Vezzeggiavo quel corpicino nudo, da cui non mi sarei mai separato. Ah! se avessi potuto trascorrere altre liete ore, con lui per sempre, accanto a quel paradiso d’innocenza!
«Bene Cupido, approfondiremo meglio l’argomento nel giorno dell’intervista. Dove vuoi incontrarmi?». Ero suo, con lui sarei andato ovunque.
«Ovviamente dove hai incrociato l’Innamorato, al giardino del lago di Villa Borghese. Il 6 giugno del 2022, come stabilito. Alle ore due di notte. Sono le piccole ore della complicità erotica».
«Non è possibile, carino» ho dovuto contrariarlo mio malgrado, e farlo scivolare a forza nella realtà severa che volentieri gli avrei risparmiato, per non ferirlo mai, con nulla.
«E perché?». Ingenuamente e con meraviglia esponeva le sue ragioni.
«Il giardino resta chiuso di notte per ragioni di sicurezza…».
Non conosceva regole, ostacoli, difficoltà. «Chiedi i permessi e fallo restare aperto, per uno storico evento!». Alla stupidità dei regolamenti contrapponeva il buon senso. Se il mondo lo seguisse, si ritroverebbe trasfigurato da un’aura di scambi di favori e sorrisi, senza alcuna complicità.
«Non inseguiremo una chimera. La giunta capitolina è complicata. Ti dicono di sì oggi e cambiano idea l’indomani». L’ho messo con le spalle al muro, dinanzi all’evidenza degli intrighi burocratici che a Roma sono sempre in agguato, pompati da cosche e congiure di palazzo antiche come l’Impero. Una città eterna nel dividersi su tutto, gloriosa nel passato da esibire sulle cartoline, incapace di darsi un futuro degno di tanta storia.
«E allora, in quale degna cornice possiamo andare?».
«La scelta già l’hai fatta tu. Basta solo anticipare un poco: alle ore sei del pomeriggio al giardino del lago di Villa Borghese».
Smentendosi, ha avuto il barlume di un’altra folgorante idea. «Ma allora andiamo a Villa d’Este, professore! Durante l’estate ci sono delle serate speciali, per fare ammirare ai turisti i giochi d’acqua esaltati dalle fontane illuminate. Certamente Mario Felicioni troverà la strada giusta. Voglio un palco speciale, con ripresa televisiva in mondovisione».
Ogni tanto esplode in bizze esibizioniste, prese in prestito dal suo abituale compare di merenda, l’Innamorato, che non è riuscito a farlo naufragare con i suoi difetti, e neppure è uscito mai mondato dalla marmaglia che ha frequentato nei secoli.
«Non ti sembra d’essere un poco megalomane di un Cupido?».
«Assolutamente no, professore. Io sono veramente speciale. Merito questo ed altro!».
«Cupido, vedremo… Faremo il possibile, ma poi non ti lamentare, non dipende da me. Ci vorranno autorizzazioni, permessi e via dicendo. Bisognerà oliare bene l’ingranaggio». Sapevo di mentire, ma era per tacitarlo; mi avrebbe tenuto bloccato per ore con rinnovate impossibili richieste da soddisfare, eternamente capriccioso come un bambino incontentabile.
«Allora ciao, ci vediamo!». Si era defilato felice, l’alato puttino dal carnato rosa. Un suo bacio sul mio viso mi aveva messo anche di buonumore e suggerito un certo ottimismo sullo spettacolo futuro.
Anche se non ci avrei scommesso, il direttore della rete televisiva privata Rete Destino, Mario Felicioni, è riuscito ad approntare a tempo di record un degno palcoscenico, adeguato alla straordinarietà dell’evento. Ha venduto alla RAI l’esclusiva delle riprese televisive in alta definizione. Entro un cuore di cartone, trafitto dalle frecce d’amore, è stato allestito il salottino riservato all’intervista. A scopo di beneficenza, sono stati venduti duemila posti a sedere, al prezzo record di cinquemila euro.
Io non ho voluto essere affiancato sul palcoscenico da professionisti a fare da comprimari, né prima, né dopo l’intervista. La coreografia prevede l’ingresso di svolazzanti vallette danzanti che spalancano la nicchia lignea riproducente una famosa grottesca presente nella splendida Villa d’Este che ci ospita. Una spettacolare messe di fuochi d’artificio, accompagnati dalle musiche di Händel, ha benedetto l’ingresso dal cielo dell’alato puttino.
In questa cornice hollywoodiana mi sento un poco a disagio. Preferirei non vivere un’esperienza così spettacolare, che potrebbe distogliere Cupido dall’intimità del momento. Tuttavia il sentimento deve cedere agli effetti speciali, e così abbiamo potuto vendere un prodotto che la gente ha comprato anche se artefatto, contraffatto, camuffato, privato del suo candore.
Deformando alcuni versi del vate Carducci ho recitato un introibo, irrorato di rima: «Fiore d’amore, tramontano le stelle in mezzo al mare e si elevano i canti entro il mio core. Signore e signori, buonasera. Cupido non ha bisogno di presentazioni. Da sempre trascina il cuore degli innamorati e regala loro le emozioni più intense».
Siamo stati sommersi da una valanga d’applausi. Appena sono scemati ho ripreso la parola.
«Cupido, vorrei ti presentassi a questa gentile platea, che già si è innamorata di te, nell’attesa spasmodica di vedere da vicino un prodigio, un mito. Assomigli ad un bambino. Le tue fattezze mentono sulla tua vera età».
«Eternamente giovane; eternamente innamorato! Sono un’entità dotata di poteri, generata da Afrodite. Il mio nome greco, Eros, rimanda agli istinti primordiali, esprime meglio l’erotismo carnale in tutte le sue forme più strane, senza limitazioni».
«Poi hai cambiato nome: da Eros a Cupido...».
«È stata semplicemnte un’attualizzazione linguistica; di fatto ero sempre io che mi muovevo in contesti storici e geografici differenti».
«Cominciamo con l’insinuarci nei rapporti esistenti tra Cupido e l’Innamorato dei Tarocchi. Questa lunga simbiosi, come tutti i matrimoni, presenterà i suoi inconvenienti».
«Me ne sono andato di casa perché non sopporto più le scenate di gelosia dell’Innamorato, che mi vorrebbe eternamente al suo fianco come uno schiavetto. Quel saputone poi mi riempie d’insulti e pretende anche d’avere ragione!».
«Bene, Cupido: vediamo insieme d’analizzare dove nasce questa gelosia. Visto che esiste, forse è meglio parlarne che far finta di niente».
«Lui ha un complesso d’inferiorità atavico. Non è mai sicuro di nulla. Un giorno un’idea, il giorno dopo la cambia. Poi se la ciurla. E così abbozza una mezza idea: un poco della prima, un poco della seconda».
«Diciamo che ha un carattere piuttosto difficile. Teme che tu sia caduto nelle grinfie di Belzebù. Con me l’Innamorato si è mostrato molto preoccupato. Dimostra di volerti bene…».
«Non sono affatto in stato di soggezione! Accompagnare quel malandrino di Belzebù mi diverte. E poi le sue frequentazioni sono alquanto piacevoli, dimostra sempre buon gusto, anche se gli hanno creato un’aureola di ridondante malvagità. Le donne se le sa scegliere. Io lo aiuto con le mie frecce ad essere più vispo e pimpante. Cosa c’è di male? Nulla. Ti vuoi mettere a fare il moralista, professore?».
«La dea Venere ce ne scampi e liberi, mio buon Cupido! Forse l’Innamorato eccede in premura. Comunque ti rivuole accanto, perché ti vuole bene».
«Lo conosco il suo amore! Mi ha sempre voluto pronto a fare quello che mi chiede. Devo essere il suo esecutore, non posso lanciare sagitte galeotte di mia iniziativa. È stato sempre geloso, noioso, vanitoso».
«Vuoi che quest’intervista sancisca un vostro divorzio? Non è stato forse lui, l’Innamorato, ad adottarti quando eri solo? Non è forse lui che ti soccorre, quando ti prendono le tue crisi ricorrenti di pianto? Non è forse lui che ti dedica un’ora del suo tempo, per ascoltare le tue lamentale, per darti soddisfazione in qualche controversia?».
«Sì, a modo suo, mi vuole bene!».
«Questo conta, Cupido. Il resto sono chiacchiere!».
«Hai ragione, professore».
«Bene, visto che per il momento abbiamo riportato un poco di pace in famiglia, possiamo procedere con l’intervista vera e propria…».
«Ti prepari le domande a casa, professore?».
«Sei davvero bricconcello. E se anche fosse?».
«Volevo solo provocarti! A te la parola!».
«I tuoi dardi inducono veramente amore, o sono una bufala?».
«Lo sai bene che funzionano professore. Senza le mie frecce la storia umana avrebbe un cammino diverso».
«Cupido, vorrei ci svelassi i segreti di questi dardi d’amore tanto particolari. Pare che al supermercato ancora non se ne trovino. E neppure in internet: ho fatto un’attenta ricerca».
«Prima i dardi provenivano direttamente dalla fucina di Efesto, per poi passare alle mani di Afrodite che immergeva le punte in una mistura erotica, magica e misteriosa. Me li consegnava Ermes, che è un poco il nostro distinto postino, anche se lui ama essere sempre ricordato come il messaggero degli Dei».
«Peccato, Cupido, che la mitologia greca non si sia sbizzarrita su certi particolari intriganti. Il gossip ancora non era di moda. E il pubblico non esisteva. La gente era occupata a sgobbare e magari stava più dietro alla casa e alla famiglia».
«E aveva anche più tempo per dedicarsi a trombare, aggiungo io, professore!».
«Questa produzione eccellente di dardi divini fino a quando è durata, Cupido?».
«Fino a quando l’imperatore Costantino ha proclamato il cristianesimo religione dell’Impero. Gli Dei si sono sentiti messi da parte e sono cominciate le prime fughe dall’Olimpo. Avevano ragione di lamentarsi. Non potevo dar loro torto. Poi un giorno sono rimasto solo, unico abitante della divina dimora e i dardi ho preso a farli io, con l’ausilio di qualche fattucchiera che leggeva il futuro».
«I tuoi colleghi se ne andarono via dall’Olimpo? Tu fosti l’unico a sopravvivere alla loro estinzione?»
«Estinzione! Non esageriamo, professore. Gli dei se ne tornarono là da dove erano venuti: nella loro dimensione originaria. Gli uomini non ascoltavano più i loro messaggi. Venivano vilipesi. Il monoteismo si estendeva a macchia d’olio. Era una forza inarrestabile, aveva la forza della religione di Stato, e al politeismo subentrò l’intolleranza. I cristiani perseguitati divennero a loro volta persecutori. La storia della Chiesa la conosci meglio di me».
«Certo, capisco. Piuttosto, dicci, sei dunque rimasto solo nell’antica dimora degli Dei?».
«Stanco della solitudine, temporaneamente mi trasferii a Roma assumendo il nome latino di Cupido».
«L’aggettivo cupido denota desiderio, brama, lascivia, concupiscenza. L’amore, a Roma, era diventato più mercenario e meno spontaneo?».
«Era più ‘sorvegliato’ e poi, col diffondersi del cristianesimo, è stato sempre più relegato ai margini. Tollerato nell’ambito del matrimonio e finalizzato alla riproduzione della prole».
«Hai detto d’esserti trasferito solo temporaneamente a Roma; dunque ogni tanto tornavi a vedere come andavano le cose nell’antica dimora greca?».
«Soffrivo di nostalgia, un poco. E poi speravo in qualche ritorno eccellente di un nume. Poi un giorno decisi di non mettere più piede sull’Olimpo e mi stabilii definitivamente a Roma; bazzicavo i quartieri popolari a ridosso dell’isola Tiberina».
«In quei paraggi incontrasti l’Innamorato?».
«I Tarocchi sono saltati fuori da un mascherone di pietra che il popolino chiamava Bocca della Verità. Io stavo accanto alla fattucchiera che dette vita al prodigio. Voleva farsi pubblicità. Sapeva leggere le carte della divinazione e così le mise tutte in mano al solito marito geloso che voleva sentirsi dire se sua moglie gli metteva le corna. Il ventriloquo, pagato dall’adultera per dire di no, quasi svenne quando vide il mazzo di carte comparire dal pertugio di pietra. Io me la ridevo sulla stupidità dei grulli. Feci subito amicizia proprio con l’Innamorato, che era un poco di buono, ma anche divertente».
«Affinità elettive… e dunque ti accasasti con l’Innamorato».
«All’inizio fu un sodalizio spontaneo, naturale. Lui mi faceva da spalla con le cartomanti e io lanciavo i miei strali, e via... Allora era sempre una festa, mai una lite, una discussione».
«Lo sappiamo Cupido: all’inizio c’è più entusiasmo, curiosità, complicità. Poi col tempo subentrano la routine e la noia».
«Noi a dire il vero cambiavamo sempre innamorata, o innamorato. Comunque gli screzi e i dissapori nacquero per i soliti motivi: egocentrismo, rivalità, invidia, esibizionismo. Siamo stati contagiati, lentamente e progressivamente, dai difetti umani, come se questi fossero una malattia venerea».
«Dunque, se ho ben capito, cominciasti a frequentare i tavoli della cartomanzia».
«Il meccanismo, col passare del tempo, è diventato sempre più affidabile e collaudato. Le richieste sono aumentate. I cartomanti fanno affari d’oro (tutti aspettano sempre l’uscita della carta dell’Innamorato). Io capto la chiamata ed elargisco i miei favori; ma non sempre…».
«Da cosa dipende?».
«Ovvio, dipende dal caso, dal momento, dalla situazione, dalla persona, dall’oggetto del desiderio. E anche dai miei capricci».
«Ma come fai ad accorrere a tutte le chiamate che riceverai in un giorno?».
«Mi sono clonato, professore».
«Clonato? E come hai fatto?».
«Tutti gli Dei dell’Olimpo sapevano riprodursi in copia identica. Non lo racconta la mitologia?».
«Questa è una vera primizia, Cupido! Però, in effetti, per rispondere a tante preci gli Dei dovevano per forza avere il dono dell’ubiquità... Dunque, a quanto pare, anche i miti sono stati adattati, rivisitati; certamente hanno tramandato quello che faceva più comodo».
«Non dimenticare le mie origini, professore. Sono un’entità dotata di poteri, generata da Afrodite».
«Tuttavia questa platea, a tal riguardo, potrebbe nutrire qualche dubbio. E poi clonare se stessi non deve essere facile…».
«Io sono in grado di farlo. O pensi che stia vantando poteri che non possiedo?».
«Dico la verità: tutti vorremmo una dimostrazione dei tuoi poteri!».
Allora Cupido è zittito e si è messo a levitare in aria, davanti alla platea estasiata. E davanti a noi sono spuntati altri sei Cupidi, come funghi in un bosco dopo la pioggia. Ho rassicurato la platea rumoreggiante che non si trattava di un trucco preparato prima e giurato che tutto era rigorosamente vero. Alcune persone sono anche svenute (fortunatamente poche) e prontamente sono state soccorse dalla numerosa vigilanza. Ai sei Cupidi, il nostro eroe ha ordinato di scagliare una freccia alle sei persone più interessate e vogliose di sottoporsi all’esperimento. I dardi, una volta centrato il cuore, sparivano come magicamente e di lì a breve avrebbero prodotto i loro effetti. L’ondata oceanica di evviva ed applausi non aveva mai fine. Sono dovuto intervenire più volte a raccomandare la calma, perché lo spettacolo programmato potesse continuare.
«Bene Cupido, fin qui è stato un trionfo inatteso. Questa è l’intervista più clamorosa del mio repertorio. Sono basito. Tuttavia ora vorrei dare la possibilità a sei persone diverse di farti una domanda. Alla nostra redazione sono pervenute forse un migliaio di lettere; noi ne abbiamo scelte a caso 66 e, come vedi, le abbiamo messe in quest’urna di vetro. Ora vorrei che fossi tu a pescare le sei fortunate a cui risponderai».
«Professore, vorrei conservare tutte le lettere come ricordo e poi vorrei anche leggere in privato le altre che non sono state estratte».
«Certo Cupido, le avrai tutte. Sono tue!... Le domande le leggerò io. Sono qui per questo…. Dunque ti fanno subito i complimenti…O te beato Cupido, che vedi tante belle donne, mentre io debbo sopportare una femmina gretta e meschina che mi comanda a bacchetta! Perché non vieni a trovarci e grazie alla tue frecce la fai innamorare veramente di un altro uomo e me ne liberi per sempre? Con tanto di indirizzo completo, che ometto. A questo signore cosa diciamo?».
«Che certe donne sono refrattarie alle frecce e forse l’amico dovrebbe avere più temperamento. Mi dispiace, in certi casi sono impotente.».
«Questo Tizio scrive: Rammento una frase celebre, che ho ascoltato in un film, Riccardo III. ‘Datemi un cavallo; un cavallo per il mio regno.’ Cupido, dammi una freccia per conquistare il cuore della mia amata, insensibile al mio corteggiamento. Andrò da una cartomante nel giorno di San Valentino a farmi leggere le carte. Questo signore possiamo accontentarlo?».
«Esaudito. Prometto che sarà corrisposto.».
«Questa sembra una domanda più dotta delle precedenti. Cupido, vorrei che tu dessi una tua definizione di cosa è l’amore».
«Il poeta latino Ovidio ha colto alcune delle sfumature d’amore. Anche il narcisismo è una forma d’amore. Anche il mistico, a suo modo, ama. Forse per amare veramente, bisogna essere in sintonia con una persona. La corrispondenza d’amorosi sensi, di foscoliana memoria, paradossalmente introduce un concetto di vita, proprio nel carme dei Sepolcri, dove si celebra il culto dei morti. Per amare bisogna corrispondersi, aprirsi all’altro come in una sorta d’osmosi erotica».
«Questo anonimo insolente invece mi pare contrariato e scandalizzato per la tua venuta. Dice: La vostra pagliacciata edonistica suscita il mio sdegno. Dovreste essere puniti per avere allestito uno spettacolo indecoroso sia dal punto di vista intellettuale, che dal punto di vista morale. Che siate tutti spazzati via, figli di Satana!».
«Professore, questo signore non ha capito nulla della vita! Mi sembra si sia ispirato alle prediche del frate Girolamo Savonarola. Già i Piagnoni nella Florentia medicea facevano sorridere e indispettire».
«Una domanda culinaria: Cupido. Consigliaci un menù veramente afrodisiaco, adatto per una cena romantica!».
«Non ho mai mangiato in prima persona, non so quale effetto possa fare il cibo».
«Bene Cupido, questo lo sappiamo! Ma la domanda mi sembra sfiziosa, questa platea raffinata non può essere disillusa. Possibile che tu non sappia nulla, per sentito dire, sui cibi afrodisiaci?».
«So bene, professore, che esistono alimenti in fama d’essere coadiuvanti nei rapporti erotici».
«Ce ne vuoi parlare? Esiste un nesso tra il cibo e la sessualità. Viene riconosciuto persino dall’autorità scientifica».
«Allora darò qualche indicazione per un menù afrodisiaco. Tuttavia non dirò nulla di nuovo, rispetto a quanto già si sappia in giro. Dunque, per cominciare un antipasto di sei ostriche. Hanno fama d’essere afrodisiache sin dall’antichità. A seguire un tortino di scampi, guarnito con avogado, un frutto tropicale che già per la sua stessa forma richiama l’immaginario sessuale femminile. Per verdura degli asparagi affogati in due uova lesse, conditi con peperoncino. Gli asparagi con la loro azione depurativa aiutano a smaltire le tossine. Si tratta di un alimento che stimola il desiderio sessuale. La vitamina E favorisce la virilità, il peperoncino è leggermente afrodisiaco: essendo un vasodilatatore, agisce sugli organi sessuali, maschili e femminili. Potrebbe essere equiparato ad un viagra naturale. Inoltre cura il cuore e le arterie. Per finire, un dolce con del buon cioccolato extra-fondente, con un contenuto non inferiore al 70% di cacao. Per bevanda consiglio un tè alla menta fresca e allo zenzero che cura l’impotenza e stimola direttamente la circolazione del sangue nell’organo maschile».
«Cupido, v’è una ragione particolare per cui non hai consigliato del vino, dello champagne? Oppure te ne sei dimenticato?».
«No! Ho consigliato del tè alla menta che contiene uno stimolante naturale: la caffeina. L’alcool in questa cena provocherebbe sonnolenza, mancanza di concentrazione e anche fermentazione nello stomaco, specialmente lo champagne».
«Ottimo suggerimento Cupido... E volevi tenere nascoste le tue competenze! Signore e signori, un applauso straordinario al nostro Cupido!».
L’invito è stato accolto calorosamente e lo scroscio si è protratto tra ovazioni e fischi. Il parterre internazionale, composto di vip e ricchi privilegiati, quasi si è scomposto e ha perso un poco del proprio decoro aristocratico.
«Quest’ultima domanda mi sembra alquanto indiscreta, tuttavia non la posso censurare, sarebbe sciocco. Cupido, dicci: sei un guardone? Ti ecciti nello spiare la nudità e le pratiche sessuali altrui?».
«In taluni casi, non vedo cosa ci sia di male. Comunque, ogni perversione sessuale dovrebbe essere presa come un gioco, un’esperienza, e non divenire mai un vizio. L’eros è vario e va assaporato nella sua interezza».
«Le prossime, ultime sei domande, scaturiranno direttamente dalla voce del pubblico. Abbiamo sorteggiato sei numeri tra i duemila biglietti che abbiamo venduto. Se lo desiderano, i fortunati potranno lasciare il loro posto e salire sul palco. Se timidi, potranno consegnare una scheda dove scriveranno il quesito che vogliono porre a Cupido. Abbiamo sorteggiato nell’ordine i numeri 58, 1268, 194, 766, 1451 e 1923. Prego i signori di farsi avanti uno alla volta, provvisti del tagliando numerato acquistato per questo spettacolo».
A farsi viva per prima è stata una ragazza molto elegante, vanitosa, consapevole d’essere bella e che quella poteva essere la grande occasione della sua vita. Sarebbe passata per così dire alla storia, e tutto sarebbe dipeso dalla domanda che avrebbe rivolto a Cupido, dal modo in cui l’avrebbe formulata, dai gesti che avrebbe fatto, dalla sua postura, dal suo sorriso. Un palcoscenico per un attimo e poi forse l’anonimato per sempre. Sapeva di non avere molto tempo per pensare. Avevamo voluto riservare questa sorpresa al pubblico perché fosse più schietto e originale possibile. Dovevamo inventare uno spettacolo, la gente aveva pagato per questo e non potevamo deludere le attese che noi stessi avevamo creato. La giovane donna, con un leggero accento straniero, ha domandato se poteva rivolgersi a Cupido sottovoce; si trattava di una vicenda intima che non voleva assolutamente mettere in piazza.
«Signorina, non vi sono regolamenti in tal senso. Non ho nulla da eccepire».
Ho pensato che il suo comunque fosse un gioco sofisticato per accalappiare un’intervista futura, magari con qualche rivista prestigiosa che l’avrebbe lanciata nel mondo del cinema, o in quello dell’alta moda. Certamente la carta stampata sarebbe entrata nel suo privato, raccontando una storia che poi avrebbe fatto il giro del mondo.
Poco dopo è salito sul palco un signore attempato e malfermo nelle gambe, che ho fatto accomodare al mio posto. Prima di parlare si è messo a riflettere, per scegliere le parole giuste. «L’amore attinge anche maschi della mia età. Non è giusto, quando mancano le forze non ci si dovrebbe innamorare! Lamento questa mancanza di riguardo».
«Io non c’entro, caro signore!» ha risposto Cupido. «Non ho mai lanciato strali intenzionalmente velenosi. Inoltre ci sono innamoramenti, vagheggiamenti, attrazioni fisiche che io non determino, non guido, non controllo. A volte i flussi temporali s’intrecciano, mescolano sensazioni, esperienze, ricordi. Io accendo solo passioni autenticamente sane. Non tutti gli innamoramenti sono figli delle mie frecce. E poi i miei cloni, in giro per il mondo, sono un numero considerevole, ma pur sempre limitato. Spesso un amore scaturisce da una situazione reale, da un rapporto personale e noi amorini neppure siamo spettatori. Una freccia di Cupido, caro signore, è una rarità: un poco come vincere un terno al lotto. Onore e fortuna riescono, insieme, a fare spuntare una sola freccia nella vita».
Il vecchio ha sorriso ed ha applaudito all’indirizzo di Cupido, dimostrandosi soddisfatto della risposta.
Subito dopo, sul palco, è giunta una donna incinta. «Io posso testimoniare che questa creatura scaturisce da un amore. Poi l’idillio romantico si è bruscamente interrotto. Può un amore dissiparsi, dissolversi, confondersi? Anche un amore un tempo solido può diventare labile, passeggero, effimero e sfumare rapido nel nulla… Una tua freccia, adesso, potrebbe compiere il miracolo, o sarebbe inutile e tardiva?».
«Rari sono i fluidi scaturiti da Cupido, tanti gli innamoramenti; incontrollati forse, se i cloni si dilettano in giochi erotici che spuntano improvvisi... Mutare i flussi delle corrispondenze d’amorosi sensi non mi s’addice, donna, e la tua beltà trarrà altri maschi in ginocchio da te».
La signora sopraggiunta era piuttosto nervosa. «Mio marito non ha avuto il coraggio di comparire in pubblico e ha scribacchiato la domanda su questa scheda, ma è così scema che non voglio neppure leggerla!».
«Allora la taccia, signora; spero che suo marito le risparmi una lunga e dispendiosa causa di separazione legale... Per carità, sto scherzando! Non vorrei che nascesse un vero screzio in famiglia» ho subito puntualizzato io.
«Che se ne vada pure; ma non sa fare nulla da solo! Non so se ne avrà il coraggio. Sarebbe una liberazione» ha replicato la signora.
A questo punto, a sorpresa, Cupido ha insistito per ascoltare la sciocca domanda del marito, aggiungendo che non avrebbe risposto ad altro.
«Anche una domanda sciocca avrà una sua dignità…» ho aggiunto io, per evitare quella che poteva diventare uno spiacevole contrarietà.
«Mi regali una freccia? Se la merito… Eccola la domanda di mio marito.».
«Se la meriti, sì» ha subito sentenziato Cupido.
Allora lo sconosciuto, chiamato in causa per la sua stupidità, incapacità e mancanza di coraggio, ha avuto un sussulto d’orgoglio ed ha attraversato lentamente la platea per andare incontro al suo indifferibile destino. Cupido lo ho guardato in faccia e gli ha consegnato una sagitta senza pretendere nulla in cambio. L’uomo l’ha presa e l’ha contemplata. Era piccola, lunga forse poco più di una ventina di centimetri. Sembrava un balocco. Non splendeva, la punta era di legno, l’asta pure. Di fattura artigianale, terminava con una piccola piuma. Era decorata da una sottile venatura dorata, a forma di spirale, che l’attraversava tutta e la faceva apparire più lunga e forte di quanto fosse in realtà. Cupido ha fatto anche comparire un astuccio e lo ha offerto all’uomo che vi ha riposto il suo prezioso trofeo. Sempre senza proferire parola, con un inchino, l’uomo ha preso sottobraccio la sua consorte ed è tornato al suo posto, invidiato e accompagnato da generosi applausi.
Poi è stata la volta di un’adolescente. «Mio padre mi ha autorizzato a fare la domanda. Questo il suo fortunato biglietto estratto». Un signore nel mezzo della platea si è sbracciato per farsi notare e la figliola ha fatto altrettanto al suo indirizzo. «Io vorrei conoscere il segreto di questo manufatto» ha azzardato. «Non so, forse da grande… magari apro una piccola fabbrica».
Cupido ha voluto blandirla e in un orecchio le ha sussurrato qualcosa. Parte del pubblico ha fischiato, come per dissentire da quella confidenza che avrebbe voluto condividere. Il solito cretino si è messo anche ad urlare che aveva pagato il biglietto e aveva diritto d’ascoltare. Al suo indirizzo la giovinetta ha fatto una linguaccia e gli ha gridato: «Tu sei l’ultimo che merita di sapere!». Io ho cercato di riportare la calma, invitando i presenti a rispettare le volontà di Cupido.
«L’ultima domanda di questa serata meravigliosa giunge a noi su questa scheda» ho infine pronunciato. «La persona, che l’ha formulata ha preferito non comparire sul palco. Ricca e fortunata non mi sono mai innamorata veramente. Le tue frecce potrebbero guarirmi e farmi scoprire il vero amore?».
«Neppure le frecce fanno miracoli!» è stata la risposta di Cupido. «Non tutte le persone reagiscono nel medesimo modo. Vi sono persone allergiche a certi farmaci. Siamo tutti un poco differenti. Anche le frecce non sono tutte eguali. I materiali non sono gli stessi. Le forgiature diverse. L’ambrosia degli Dei va assaporata con temperanza».
«Cupido, vuoi dire ancora qualcosa di significativo al pubblico convenuto a questa notte veramente speciale?».
«Ringrazio soprattutto il professore, che mi ha offerto quest’occasione storica di mettere le cose a posto. Si sono raccontate troppe fandonie sul mio conto. Poi ringrazio il pubblico per la passione e la partecipazione dimostrata. E mi sia permesso d’invitare tutti ad amare, a prediligere il piacere e il culto del bello».
Siamo stati sommersi da una vera valanga di fragorosi applausi. A Cupido, mentre ci abbracciavamo, mi sono limitato a dire “grazie”.
Lui era visibilmente emozionato. euforico e felice.
Intervista al Due di Coppe
2 agosto 2022
In diretta, proprio mentre stavo leggendo una delle mie interviste (che riproponevo settimanalmente, una di seguito all’altra, senza soluzione di continuità, avvalendomi dello spazio concessomi dalla televisione privata Rete Destino) un giorno un ascoltatore mi ha rivolto la seguente domanda: «Non ritiene professore d’avere fatto un torto agli Arcani Minori? Non pensa d’averli trascurati, come spesso accade nella storia, a tutto vantaggio dei Maggiori?».
«Forse sì» ho risposto io «vedremo di fare qualcosa in tal senso, l’anno prossimo».
L’osservazione (e il suggerimento) non sono sfuggiti al quel perfezionista di Mario Felicioni, che mi ha rimproverato di non sfruttare adeguatamente il momento. Io gli ho ricordato che avevo preso degli impegni e non avrei avuto materialmente il tempo di dedicarmi ad intervistare ben 56 Arcani Minori. E poi avrei finito con il ripetermi e scadere nel banale. Comunque in parte ero disposto ad andare incontro ai desiderata del pubblico e avrei intervistato il Due di Coppe, che era stato nominato Ambasciatore dei Minori e quindi li rappresentava degnamente.
Il guardasigilli non ha fatto storie. Come nel suo stile è stato limpido, ma categorico. «Questo sarà l’ultimo nullaosta. Non possiamo far passare alla storia l’Imperatore e il Cinque di Bastoni mettendoli sullo stesso piano. Si era concordato perché fossero intervistati tutti gli Arcani Maggiori, poi a ruota si è insinuato Cupido. Poi è sopraggiunta la Sfinge. Parenti a cui non si può sbarrare la strada. Il percorso finirà irrimediabilmente con il Due di Coppe, che simbolicamente rappresenta tutti i Minori, verso i quali non voglio fare una palese discriminazione. Lascia che sia un esordiente, un emulo senza fantasia, a dare seguito alle tue interviste strappando chiacchiere e pettegolezzi di comare ai Minori. Comunque si sappia fin d’adesso che sarò sempre io ad autorizzare, o meno, le future improbabili interviste. Informa il tuo Direttore che da parte mia non ci saranno aperture e concessioni gratuite».
Ad accompagnare il Due di Coppe sono venuti nientedimeno che i quattro Re dei rispettivi semi: Bastoni, Spade, Coppe e Danari, con le Regine a braccetto, per ostentare un’unione benedetta dagli Dei. Non so se volevano intimidirmi, o sottintendere un’intervista futura. Io ho salutato tutti con deferenza, ma senza eccessiva sottomissione. Anzi, li ho pregati d’astenersi dall’intervenire e ho mostrato loro il nullaosta del Cavaliere di Spade, il quale non aveva previsto eccezioni nemmeno per il Re di Spade, che ha proferito un’espressione pesante nei suoi confronti.
Io ho replicato: «Il guardasigilli merita rispetto. Io e lui abbiamo sottoscritto un patto che intendo rispettare. Questa è la mia ultima intervista nel benamato Reame dei Tarocchi che mi ha ospitato, talora mostrandosi anche onorato della mia attenzione e delle mie chiacchierate conviviali».
Ho intravisto ghigni, smorfie, altri segni inconfondibili di disappunto. Ma il Due di Coppe ha ribadito che bisognava rispettare la mia volontà e le disposizioni del guardasigilli.
«Quali sono stati i retroscena occulti della vostra nomina ad Ambasciatore dei Minori?».
«Con questa nomina abbiamo inteso mostrare ai Maggiori di possedere una comune volontà di far valere i nostri diritti, calpestati da secoli».
«Scusate Ambasciatore, non vi sembra di esagerare un poco?».
«Il Reame dei Tarocchi è da sempre sotto il tallone dell’Imperatore. Chiediamo che il potere sia affidato ciclicamente, ogni anno, anche ai vari Re che sono venuti ad assistere a quest’intervista».
«Vorrei che elencaste alcuni dei soprusi patiti in questi anni. L’Imperatore mi è parso disponibile ad essere considerato semplicemente un simbolo, un primus inter pares. Non mi è sembrato avere la mentalità del sovrano assoluto!».
«Conosciamo bene le sue dichiarazioni ufficiali, di facciata, per eludere ogni vero controllo sul potere che esercita a suo piacimento, senza rispettare quelle leggi che devono essere eguali per tutti!».
«Ambasciatore, fate per favore degli esempi concreti, affinché i nostri ascoltatori capiscano».
«I Cavalieri hanno dovuto prestare fedeltà all’Imperatore. Ogni loro azione viene filtrata e controllata. Il Fante deve al Cavaliere obbedienza assoluta. Quello che era un tempo l’esercito di ogni regno di fatto è stato sciolto. Sono proibite riunioni pubbliche di oltre tre carte. Sono proibite associazioni sindacali e persino ricreative…».
«I Regni avevano anche un esercito? Per fare guerra a chi?».
«Un esercito di dieci soldati regolarmente stipendiati dal Re: l’uno, il due, il tre... il dieci. Dovevano mantenere l’ordine. Adesso sono disoccupati. Il disordine interno è aumentato, l’anarchia dilaga, la corruzione pure. Sono state abolite le frontiere interne tra i vari Stati, non ci sono più controlli doganali. Gli antichi privilegi del Re e della Regina sono stati soppressi. Non si possono più imporre tributi ai sudditi».
«Mi sembra, a sentirvi, che il signor Ambasciatore non abbia inteso la volontà dell’Imperatore di creare un Reame unito senza barriere interne e privilegi. Dalle vostre parole deduco che vogliate ancora mantenere certe barriere feudali, obsolete in uno Stato moderno».
«Io lo so bene, professore. Tuttavia i sovrani qui presenti non sono dello stesso avviso. Propendono per conservare le antiche prerogative dei vari Regni, che di fatto sono stati sciolti. Sono attraversati da un clima di perenne restaurazione».
A questo punto la truppa dei sovrani, Re e Regine, per dare un segno forte dissenso, si sono allontanati senza neppure dire una parola di commiato.
Io e l’Ambasciatore ci siamo guardati e non abbiamo fatto un commento. L’intervista è proseguita regolarmente.
«Ambasciatore, gli Arcani, tra Maggiori e Minori, sono solo 78, o in questi secoli ci sono stati dei figli? Parlate come se nel Reame dei Tarocchi vi sia una sovrappopolazione d’anime inquiete».
«Fortunatamente, dico io, siamo rimasti sempre in 78; tuttavia ognuno di noi vorrebbe leggi ad personam e imporre la propria volontà egemone. L’individualismo più esasperato e becero ci acceca tutti, o quasi. Non siamo mai stati un vero Reame. Mancano l’autocontrollo e il rispetto, senza l’Imperatore a mettere un freno a tutti sarebbe una giungla! È questo che cerco di fare digerire ai Minori, tuttavia non ne vogliono sapere».
«V’è una ragione che li ha spinti a scegliere Voi come Ambasciatore?».
«Avevo accumulato punti qualità: per onestà, moralità, cultura. Non sono un vanaglorioso, non ho cercato questo incarico; avrei preferito il mio orticello e la mia semplice casa. Avrei rinunciato al mio incarico volentieri, l’ho accettato per il bene comune e sto cercando di risolvere i problemi del Reame dei Tarocchi».
«Il Due di Coppe ha qualcosa in più rispetto agli altri Due di spade, di bastoni, di danaro?».
«Le coppe simboleggiano l’elemento primordiale dell’acqua, il più favorevole alla vita, che ha consentito alle macromolecole di aggregarsi in organismi viventi superiori. L’acqua poi si adatta facilmente a qualunque recipiente. Non danneggia nessuno, anzi permea profondamente tutte le creature, indistintamente, senza negarsi, senza pretendere omaggi».
«A quale Arcano Maggiore vi sentite più affine?».
«Ovviamente alla Papessa, la custode del Tempio della conoscenza, insieme alla Sfinge da tempo primordiale. Benché la veda troppo distante dai travagli quotidiani (e ne capisco anche le ragioni…). Dobbiamo sporcarci le mani per la gestione di un potere giusto ed equilibrato. Dobbiamo tenere conto delle esigenze di molti e conciliarle, mentre l’aristocratica Papessa è avara nel condividere il sapere con altri».
«Durante una lettura dei Tarocchi, ammettiamo che esca come prima carta il Due di Coppe e che in un’altra consultazione delle carte invece esca per ultimo. Come legge questa differenza: Due di Coppe sulla prima casa, e Due di Coppe sull’ultima casa?».
«Il Due sulla prima casa evidenzia che esiste un dualismo che deve essere composto, risolto. Il Due sull’ultima casa indica invece che ogni forma di contrasto è stata sanata e si può arrivare a una soluzione propizia dei conflitti».
«Una lettura ideale dei Tarocchi prevede anche i Minori? So che alcuni cartomanti si limitano a leggere solo i Maggiori».
«Non mi sentirei estromesso, o griderei allo scandalo, se dovessi essere messo da parte nel corso di una lettura delle carte. È un problema che non mi sono mai posto. Compete ai cartomanti tale scelta. Avranno le loro ragioni, le loro tecniche».
«Prima di diventare Ambasciatore quali erano le sue mansioni, i suoi hobby?».
«Molta lettura. Meditazione. Informazione. Ero un libero pensatore, senza ambizioni, autonomo».
«Capisco, Ambasciatore, capisco... Ma in genere quali sono i passatempi preferiti dalla maggioranza dei Minori?».
«Rompere le scatole al prossimo. Non farsi i fatti propri. Trovare un motivo di dissapore, di screzio, di tensione».
«Potete frequentare un tavolo qualsiasi dove si leggono le carte?».
«Abbiamo una carta dei diritti inalienabili anche noi che nessuno può toglierci! Basta informarsi!».
«Corre voce che più volte abbiate manifestato l’intenzione di rinunciare alle vostre mansioni pubbliche. Perché non l’avete ancora fatto concretamente?».
«Opportunità politica. Senza di me si profilerebbe un altro diluvio!».
«Sì, è vero. Ma avete un vero amico con cui parlare, ridere, scherzare?».
«Diversi. Siamo litigiosi e boriosi, però sappiamo anche divertirci».
«Avete infine un piccolo, o un grande desiderio?».
«La fine delle ostilità intestine: il grande. I piccoli desideri, anche se li realizzi, ti lasciano poi insoddisfatto».
«Pensate che sia veramente prossima la fine dei tempi?».
«Ogni giorno un idiota si alza e fa una previsione sulla fine dei tempi. È diventata una moda, un vezzo. Ci sono stati autorevoli pensatori che in passato facevano dei calcoli sulla fine dei tempi. Isaac Newton è stato uno di questi».
«Voi li avete mai fatti questi calcoli?».
«Per carità, me ne guardo bene! Non ho questa vocazione apocalittica per la testa, per fortuna».
«Essendo voi, per quanto Ambasciatore, in primis una delle tante carte della divinazione, pensate che davvero si possa prevedere il futuro?».
«Non lo credo».
«Strano, detto dal Due di Coppe».
«No. Sarebbe poco credibile se dicessi il contrario. Posso mai prevedere il successo o l’insuccesso delle tue interviste? Assolutamente no. Dipende da diversi fattori: una casualità, un editore che ama i Tarocchi, la conoscenza di una persona influente, altri fattori che non posso controllare e immaginare».
«E voi, Signor Ambasciatore, volete farmi una domanda?».
«Ti vorrei dare un consiglio».
«Lo accetto volentieri».
«Non hai pensato di fare a corollario di queste interviste una bella chiacchierata col Cavaliere di Spade: l’attento guardasigilli di questo Reame?».
«Veramente non l’ho mai pensato… tuttavia potrebbe essere una scusa per cavargli qualche sassolino dalla scarpa».
«Vedo che hai intuito perfettamente dove voglio arrivare: una chiaccierata diventa poi nel suo corso facilmente un’intervista… ».
«E l’Imperatore a vostro avviso non metterà i bastoni tra le ruote? ».
«Lo prevedo provato, impegnato. Dovrà mantenere le sue promesse: condonare la pena all’Appeso; ufficializzare il suo divorzio dall’Imperatrice; trovarsi una sposa per le cerimonie ufficiali; badare a chi lo vuole spodestare».
«Impegni non di poco conto, certo… ».
«E poi voglio farti una confidenza riservata, professore: avverti l’Arcano Numero **».
«**(E mi è venuto a spifferare quel Numero proprio nell’orecchio, per non farsi sentire da nessuno)».
«Qui nel Reame dei Tarocchi ci sono varie spie in circolazione, camuffate nei modi più strani. Non lo immagini neppure, professore».
«Si profila qualche complotto ai suoi danni? ».
«Peggio. Una congiura. Ho udito voci poco rassicuranti. Sta dando fastidio a molti. Si impiccia dei fatti che non lo riguardano».
«E posso fare il vostro nome, Signor Ambasciatore? ».
«Cero che puoi, professore. E digli di stare attento… che lo vogliono morto!».
«Morto? Si può uccidere un Arcano? In tanti anni non è mai successo».
«I tempi cambiano. Si mescola la cabala con la scienza. Si pesca nel torbido… ».
«Allora gli raccomanderò di stare veramente attento!».
«Digli, chiaro e tondo, che non deve fidarsi di nessuno».
«Certo. Sarà fatto Signor Ambasciatore».
«Addio, professore. E buona fortuna».
Alessandro Scalzaferri, nato a Roma, laureato in Filosofia, poeta, studioso dei Tarocchi.
- Genesi dei Trionfi, poemetto
Email di contatto: ledoslerris@gmail.com
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