Una combriccola di Arcani lestofanti ha messo a soqquadro il dolce paese - novella di Alessandro Scalzaferri

 Alessandro Scalzaferri
 
 
 
Una combriccola di Arcani lestofanti ha messo a soqquadro il dolce paese
 

 
novella







 
 
“Dolce paese, onde portai conforme

l’abito fiero e lo sdegnoso canto

e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, 
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.” 
 
Giosuè Carducci

Traversando la Maremma toscana (1)
  
 
Breve presentazione 
 
I Tarocchi, gioco di carte tra i più antichi, contengono una grande varietà di simboli, che nel corso dei secoli furono adattati alle esigenze dei vari interpreti. Molto probabilmente il mazzo originario, concepito dagli occultisti nel XIII secolo, fu contaminato dagli inquisitori e dai fedeli sudditi della Controriforma.
Quantunque le origini dei Tarocchi siano fatte risalire alla prima decade del Quattrocento, tuttavia gli Arcani Maggiori, detti anche Trionfi, sembrano essere stati concepiti secondo la logica dell’iconografia medioevale che s’incarna soprattutto in alcune figure particolari: Folle, Ruota della Fortuna, Papa, Imperatore, Imperatrice, Eremita e Giudizio.
Gli Arcani Minori simboleggiano i quattro elementi fondamentali della vita, che il Trionfo Numero 1, il Mago, mostra di sapere padroneggiare, grazie ai poteri della sua bacchetta lignea.
Il Bastone accende il Fuoco della vita. Il Denaro, coniato in oro, esprime la luce primordiale discesa nel fondo della Terra. La Spada, a forma di croce, riunisce i due principi: il maschile al femminile, e col suo movimento attraversa l’Aria, scaturita dal calore originario del fuoco che si raffredda. Infine la Coppa raccoglie l’Acqua fecondatrice che cade dal cielo.
Di solito, nei trattati sui Tarocchi, gli Arcani Minori spesso sono sacrificati a scapito dei Maggiori, più sviscerati e chiosati da fiumi d’inchiostro.
Noi, artigiani della scrittura: affabulatori che non dobbiamo lavorare ai ritmi frenetici dell’industria editoriale, possiamo spendere il nostro tempo per ascoltare le voci dei Tarocchi. Per trasmettere ai posteri una delle loro oscure gesta, abbiamo scelto un genere letterario in voga nel Duecento, usato per educare e dilettare lo spirito: la novella, termine che indica una notizia recente e la novità del fatto narrato.
Come faceva anticamente la voce dei banditori nei borghi medioevali, con questa novella auspichiamo di risvegliare, dall’indifferenza e dal torpore, le genti italiche cloroformizzate dai messaggi soporiferi, profusi dai mass-media.
Vorremmo essere rinvigoriti da una schiera di probi Minori, volti a riaccendere le antiche virtù sopite e il coraggio degli avi nostri.
 
Prologo scenico
 
Al passeggero, che voglia distrarsi lungo i viali alberati di villa Borghese, consigliamo una sosta nella sommità del Pincio. Potrà ammirare il panorama della Capitale e soffermarsi dinanzi ad un piccolo teatrino ambulante, sospeso in aria sopra un baldacchino, dove i burattini favoleggiano storie che incantano la fantasia dei bambini.
Secondo una leggenda, gelosamente custodita negli ambienti dei cartomanti, alle prime ore dell’alba, nel giorno ventidue del quinto mese dell’anno, dal palcoscenico vuoto, si ascoltano sussurri che poi si tramutano in voci dei Tarocchi........ (2)
 
 
CAPITOLO 1 
 
Una coppa, a tratti prodigiosa
 
Once upon a time... 
Se dovessi raccontare una novella in lingua inglese, sicuramente prediligerei questa formula iniziale dal suono soave; ma se usassi l’analoga espressione italiana, c’era una volta..., mi sembrerebbe banale, giacché rievoca il sapore delle favole moralistiche che i nonni raccontavano ai bambini per educarli e farli addormentare. Certe storielle di un tempo, oggi, che siamo più scaltri, sinceramente farebbero sorridere anche le creature più semplici e non riuscirebbero a produrre l’auspicata catarsi purificatrice. 
Stando alle chiacchiere della gente che frequenta la litigiosa famiglia dei Tarocchi, Io sarei stato concepito dalla fervida immaginazione di un occultista medioevale, imparentato con i Catari, che fin dal secolo XIII proliferavano attorno alla città di Albì, nella Francia meridionale. Su tale ascendenza eretica nessuno potrebbe giurarci, ma, fino ad oggi, Io non sono riuscito a trovare un progenitore più degno. 
Non vorrei essere bacchettato da un immacolato purista, che potrebbe storcere il naso in faccia al mio Ego, ingigantito dalla lettera maiuscola. A difesa dirò che, in tale maniera, ho inteso attestare la mia personalità: arguta, sottile e poco incline alla modestia. 
Gli invidiosi potrebbero insinuare che sono stato allevato in mezzo alle carte sudicie e logore, sui tavoli dei cartomanti, che, interpretando gli Arcani, sanno regalare alla gente sogni e illusioni. Categoricamente smentisco tale diceria; in passato le mie sorti si sono intrecciate con i magnati, che potevano permettersi di commissionare a un provetto miniaturista un mazzo di carte artigianali molto costoso. Adesso i tempi sono cambiati e tutti possono comprare uno dei tanti cofanetti con dentro i Tarocchi, messi in vendita presso le comuni tabaccherie. 
Ultimamente, confesso, ho smesso però di frequentare la gente ricca, senza un briciolo di nobiltà alle spalle. Se le icone dei Trionfi riescono a catturare le attenzioni e a suscitare le meraviglie delle moltitudini; nessuna persona verso di me oggi mostrerebbe la benché minima considerazione, giacché la maggioranza pensa d’avere in mano il mondo, mentre conosce appena una minuzia della complessità che la circonda. 
Nei tempi antichi, quando ero ragazzo, i monarchi ricavavano dagli introiti derivanti dalle carte da gioco una vera fortuna a cui non avrebbero potuto rinunciare, giacché dovevano alimentare le casse sempre asciutte, per finanziare logoranti guerre di prestigio e di espansione. 
Fino a pochi anni fa, nel dolce paese i mazzi di carte ancora erano tassati e la marca da bollo faceva la sua figura accanto all’Asso di Denari, raffigurato con una vanesia moneta, agghindata con motivi floreali. 
Nel mio habitat naturale, da tempi immemorabili, mi accompagno con tutti gli Arcani, i Maggiori e i Minori, senza fare distinzioni di classe e di merito. Non ho preferenze, mi affido alla sorte: madre imparziale verso i tanti figli. 
Prima che cominciasse questa storia, Io vivevo in un ovattato anonimato, dove giungevano attenuati gli echi delle nostre dispute, da cui ero sempre rimasto fuori, con distacco e con stile. Se avessi dovuto perseguire qualche traguardo, mi sarei ritrovato confuso in quella perenne sfida per il primato che vede protagonisti tutti i Tarocchi, frequentatori assidui di Stravaganza: un pianeta coperto per due terzi d’acqua; dimora fissa di diverse creature, tra cui i chiromanti, i quali con tanta sicumera leggono i segni della mano e cominciano a predire il futuro alla speranzosa gente che cerca di strapparlo alle stringhe del tempo, dove vorrebbe restare senza essere incomodato. 
Di solito, i nostri incontri con il popolo fanatico di cartomanzia finiscono nello spazio breve della consultazione e quando il cliente torna in strada, inevitabilmente ripiomba nella sonnolenta e grigia quotidianità. 
Io, ogni tanto, approfittando del clima confidenziale, m’intrufolo nella vita di qualcuno e mi piazzo alle costole del predestinato come un cane segugio.  
Il giovane Alvaro, nato nelle terre circostanti il comune di Lanuvio, settimanalmente consegnava alle vecchie osterie della Capitale il vinello prodotto dai vigneti disseminati sui colli ubertosi che la circondavano. 
Quando il vignaiolo aveva scelto di frequentare una cartomante si era affidato al passa parola e chiesto all’oste, dove era di casa, se conoscesse una persona del quartiere Trastevere competente nel sapere leggere i Tarocchi. L’oste aveva risposto che lui non credeva per niente a certe pratiche divinatorie; tuttavia la moglie di suo fratello andava in giro dicendo un gran bene di una certa Melissa, che a suo dire possedeva doti sovrumane. 
Così Alvaro regolarmente, a cadenze fisse, ogni sette settimane, secondo quando gli aveva insegnato sua nonna, che maneggiava le carte da quando era nata e gli aveva inculcato il rispetto per i responsi degli dei, era diventato un cliente assiduo della donna, a cui si era pure affezionato perché era un gran bravo ragazzo. 
Per entrare dove la cartomante interpretava gli Arcani, si passava per una saletta d’aspetto, piuttosto angusta. Qui sonnecchiava un banchetto con delle riviste e della pubblicità: massaggi rilassanti, terapia dei colori, meditazione trascendentale. Quasi a volerlo risvegliare, gli stava accanto, in piedi, dietro una sottile colonnina con capitello dorico, una strana figura, somigliante a una comparsa di un film in costume, con una mascherina che le nascondeva i lineamenti del viso. Sembrava l’innamorata di Pulcinella che approntava il classico gioco d’azzardo delle tre carte, da indovinare per vincere quattro soldi, in cambio dei molti che uno sprovveduto scommettitore sicuramente avrebbe perso. 
Sul momento Alvaro, che si era formato culturalmente alle reti televisive e non aveva terminato gli studi per dedicarsi esclusivamente alla lavorazione delle vigne paterne, aveva pensato dovesse trattarsi di una trovata pubblicitaria della cartomante, per stupire i suoi clienti e farsi una buona fama in giro. 
Il giovane, incrociando la figura mascherata, si era fatto sotto con l’occhio del contadino, abituato però a guardare in bocca al cavallo prima di comprarlo. 
Altre volte, gli era capitato di smarrirsi dietro all’Asso di Denari, che stava sempre nel posto sbagliato, dove mai ti saresti aspettato che fosse. E se aveva guadagnato qualche soldo, poi subito l’aveva riperso e sempre ci aveva rimesso e mai aveva avuto la soddisfazione di poter gridare agli amici: ‘Ho vinto!’ 
E per questo tornava a sfidare la sorte, ma con moderazione. L’educazione al risparmio del padre, proprietario di alcuni poderi, gli aveva impedito di rovinarsi al gioco d’azzardo e in tasca metteva sempre una posta prestabilita e quando i soldi erano esauriti, se ne andava via sacramentando, come un villano morigerato, la solita imprecazione: ‘Maremma maiala!’ 
Così metteva la parola fine alla trasgressione che ogni tanto si concedeva, quando tornava nel borgo natio a frequentare la bisca che l’aveva sempre affascinato fin da ragazzo.  
Il sabato pomeriggio, al circolo dei bocciofili, potevi sempre incontrare appassionati giocatori d’ogni tipo, anche se la pratica ludica d’azzardo lì era proibita con un cartello fin troppo appariscente, per non capire che era un avvertimento solo formale. Tutti sapevano che potevano scommettere al gioco delle tre carte, dopo il tramonto e fino alla mezzanotte. Il frastuono degli avventori contornava due biliardi e altri quattro tavolini sempre al completo, dove, durante il fine settimana, si organizzava il torneo di tressette. 
In quel locale Alvaro era amato e stimato, perché pagava sempre puntualmente la sua posta quando perdeva e non aveva mai litigato con nessuno. 
“Vuoi tentare una puntata sulle tre carte, amico? Se indovini, guadagni una lettura gratuita dei Tarocchi.” 
“Perbacco! Trovo simpatica questa trovata.” 
“E quanto costa?” 
“Due euro!” 
“Correte un bel rischio: qualcuno potrebbe denunciarvi per gioco clandestino.” 
“Tutte le puntate sono destinate a un fondo di beneficenza; per una persona del quartiere che abbisogna di cure costose. La cartomante non incassa un soldo; anzi ci rimette, perché i vincitori potranno farsi leggere le carte gratis et amore Dei.”  
Alvaro scelse la carta sbagliata: il Fante di Denari; e lasciò due euro sul tavolo. 
Poi, rispettando rigorosamente il cerimoniale, si lavò le mani e lasciò le scarpe su un tappetino, prima d’entrare nella sala stravagante dove la cartomante dava un significato agli Arcani della sorte. 
In quell’ambiente che conosceva a memoria, notò subito qualcosa di differente dal solito: un piccolo fratino tarlato, dove stavano ben allineati, come dei soldatini, una coppa di rame; una moneta forse dorata; una sottile bacchetta di legno da prestigiatore e una durlindana che avrebbe fatto la gioia di un collezionista d’armi antiche. 
“Che fanno, qui, gli oggetti caratteristici della carta del Mago?” 
“Allora li hai adocchiati subito?”

“Certo, sono inconfondibili.”

“Li ho comprati da un antiquario e aspettano un vincitore.” 
“E devo rispondere a una domanda difficile?”

“No! Devi affidarti solamente all’intuito e alla buona sorte.” 
“Allora partecipo al gioco.” 
“Però prima compra il biglietto. Questi sono i numeri, legati alla ruota di Roma, validi per l’estrazione prevista sabato prossimo.”  
“Costo del biglietto?” 
“Dieci euro.” 
“Accipicchia! E’ tanto!” 
“Lo sai quanto ho pagato la sola coppa, da Mastro Checchino: l’antiquario?” 
“Non so, non sono mai stato da un’antiquario.” 
“Quattrocento euro. E’ antica; non è mica una patacca.” 
“Beh si vede che è bella. Vorrei essere anche fortunato in amore, Melissa.” 
“Se sarai meno timido e diventerai più intraprendente... Vediamo oggi cosa dicono le carte, in fatto d’amore... E’ uscito per primo l’Innamorato: nel tuo destino c’è una bella donna, morigerata e timorata di Dio: come piacciono a te.” 
“Non me lo dire! E dove la trovo una così?” 
“Sarà lei a trovare te.” 
“Vedi a ruota c’è il Due di Coppe; che è diciamo la controfigura della Papessa, in chiave meno riservata.” 
“Oggi allora le carte sembrano proprio favorevoli!” 
“Diamine lo sono! Approfitta della sorte propizia.” 
Solo a chi non lo conosceva, il giovane, nell’intento di mascherare la timidezza, poteva apparire, per certi modi scontrosi e bruschi, piuttosto burbero, ma in realtà celava un’innata bontà e gentilezza d'animo, che non mostrava per gli atteggiamenti difensivi assunti nei confronti delle altre persone. La cartomante lo aveva anche invitato a essere più espansivo e sorridente, se voleva trovarsi una ragazza da condurre all’altare. 
“Incontrerai presto l’angelo della tua vita, ma dovrai spalancarle il tuo cuore.” 
Fu dunque in quella circostanza, (l’Innamorato era sgusciato avanti per primo; Io gli stavo incollato di un nonnulla e giunsi secondo, ma non dovevo vincere nessuna gara e soprattutto volevo essere discreto) che feci la conoscenza con Alvaro, quasi trenta anni, ma ancora signorino. 
Quando il giovane si ricordò di controllare i numeri del lotto, era già trascorsa una settimana. In un primo momento la vincita non l’entusiasmò in maniera esagerata; in fondo li considerava premi modesti (ottenuti proprio col numero 22: tanti quanti sono gli Arcani Maggiori dei Tarocchi) che non gli avrebbero cambiato l’esistenza, o almeno così pensava. 
“Melissa, per la durlindana trova un posto adeguato: accanto alle tante cianfrusaglie che ami collezionare ed esibire, per meravigliare i clienti.” 
Alvaro infilò subito la bacchetta del Mago nella cartella degli ordini del vino, nella speranza che potessero aumentare nel tempo; poi mise nel portafoglio la moneta aurea, potenzialmente in grado di calamitare altri soldi.
La cartomante avrebbe voluto fargli notare che non doveva smembrare così, inopportunamente, gli elementi caratteristici del Mago dei Tarocchi e che solo uniti avrebbero conservato il loro potere. 
Alvaro, però, da solo, cambiò subito idea, quando ammirò più da vicino la coppa di rame, perché possedeva un’energia capace di captare l’attenzione e forse doveva anche valere più degli altri tre oggetti messi assieme. 
Disse alla cartomante che alla prossima visita avrebbe portato via anche la durlindana saracena, che però doveva essere resa meno pericolosa. Le chiese la cortesia di trovare una custodia adeguata, da quel suo antiquario e che era disposto anche a pagarla: un prezzo ragionevole, naturalmente. 
Infine abbracciò la coppa, come se avesse vinto una finale di un importante torneo, la mise sotto il braccio e andò diritto in strada; né gli venne in mente di farsela incartare, perché ne era fiero e voleva ostentarla, per fare morire tutti dall’invidia e dire alla gente che anche lui finalmente era stato baciato dalla sorte. 
Mentre cenava e ascoltava alla televisione le solite novelle manipolate, volle la coppa accanto, per gustarla un poco con lo sguardo. Poi pensò di fare un brindisi. Lavò per bene la parte cava, lasciando scorrere l’acqua corrente e aprì una bottiglia numerata che teneva in serbo per le occasioni importanti.  
Quasi di nascosto, sentendosi anche in colpa nei confronti della famiglia, versò un poco di nettare per fare il primo assaggio e vedere se veramente valeva quello che l’aveva pagato. 
Per nessun motivo, i suoi genitori avrebbero comprato un vino straniero all’enoteca, perché il loro prodotto era fatto rigorosamente secondo i vecchi canoni artigianali. 
Con sorpresa constatò che la coppa era asciutta come fosse stata bucata, o avesse versato il vino fuori, sul tavolo. Volle ripetere la mescita con accuratezza e seguire l’operazione con attenzione e si accorse con meraviglia che il vino toccava il fondo e spariva. Siccome la base della coppa, tornita e tondeggiante, era piuttosto grande, cominciò ad agitarla, per sentire se, per caso, il liquido fosse svanito dentro un foro segreto, anche se la foggia del manufatto suggeriva che non poteva esservi nulla di simile. Così rimase ad osservare con una certa apprensione quel capolavoro amato e, con rabbia, vide sparire a mescite il suo Nebbiolo, senza poterne gustare il sapore. 
Lasciò di tracannare le ultime quattro dita di vino direttamente dalla bottiglia, per sincerarsi che c’era davvero e poter raccontare agli amici che era veramente speciale. 
Poco dopo, scoprì che l’acqua, versata nella coppa, si tramutava in vino, e, senza accorgersene, si bevve l’intera bottiglia di Nebbiolo, che gli fu restituita con gli interessi. 
Euforico per gli effetti dell’alcool, sperò che il suo trofeo avrebbe prodotto altri miracoli. In cuor suo si augurava che, forse, come la sorprendente lampada d’Aladino, avrebbe esternato altri poteri nascosti, che l’avrebbero reso ricco e famoso. E già sognava di essere il centro dell’attenzione, al prossimo show televisivo di cui sarebbe stato l’indiscusso protagonista. 
Il giorno seguente, il prodigio di trasformare l’acqua in vino non si era più ripetuto e la coppa sorprendente era tornata alla normalità e perso ogni potere d’incantare. 
Ripercorrendo gli eventi, il nostro eroe (non so se tal etichetta risponda proprio alla sua fisionomia, tuttavia impreziosisce alquanto la narrazione) fu assalito da un dubbio: forse la dea bendata e, unitamente, il Mago, si erano divertiti a fargli uno scherzo che non avrebbe potuto raccontare a nessuno. 
Così Alvaro, ricalcando i rituali ancestrali dei contadini, aveva approntato quasi un altarino di devozione, con la carta del Mago incorniciata, a fianco della coppa prodigiosa che avrebbe dispensato salute e serenità. E ogni sera rispettosamente volgeva lo sguardo alle icone pagane, compiendo un rituale superstizioso e scaramantico. 
Sopra l’altarino campeggiava, appesa al soffitto, la spavalda durlindana, come una spada di Damocle: simbolo di quello che ci può essere strappato via, all’improvviso, da un destino beffardo e cinico. 
Per tutto il resto della vita, il giovane sarebbe rimasto legato indissolubilmente alle supposte presenze straordinarie che avevano lasciato un segno del loro passaggio. Come stelle in cielo, il Mago e quella coppa l’avrebbero protetto dalle malattie, sbarrato le cattiverie della gente, rintuzzato l’invidia dei vicini, allontanato le donne perverse e profittatrici e fugato gli spiriti maligni che si appropriano della tua persona e ti fanno schiavo della loro volontà. 
Su consiglio della nonna, un’autentica fattucchiera, anche se, essendo consanguineo, non l’avrebbe mai ammesso apertamente, infine Alvaro aveva recuperato la bacchetta e la moneta e le aveva disposte sulla mensola di legno, al fine restituire al Mago tutti i suoi pieni poteri. 
Nel gran calderone delle credenze popolari, secondo il mio pupillo stava la sostanza delle cose, e, forse, anche se un poco somarello, aveva per così dire azzeccato gli arcani e dimostrato di possedere buon senno, più dei tanti moderni soloni e opinionisti che abitualmente pontificano dai pulpiti dei salotti mondani per accumulare punti di notorietà. 
Mi ero tanto affezionato a quell’ingenuo ma onesto vignaiolo, che volli stargli accanto per un certo periodo. Tanta integrità mi aveva incantato e non era facile, nell’Anno del Signore 2010, imbattersi in una persona come lui, che sarebbe stato degno di figurare sull’altarino a fianco della portentosa carta del Mago. 
 
 
CAPITOLO 2 
 
La metamorfosi del Diavolo (dei Tarocchi) 
 
Questa precisazione, in parentesi, mi pare doverosa, perché non vorrei che il lettore confondesse il Diavolo dei Tarocchi con Lucifero: il capo degli angeli ribelli, alimento di tutte le malefatte possibili, insediato, fin dagli albori, nella stravagante sfera cosmica che ospita creature mirabili e tanto diverse. 
Quando, nel regno quantico di Taro, si seppe in giro che al Mago era stato consacrato un altarino (anche se a mezzo servizio con la dea bendata), gli Arcani cominciarono a fare congetture sulla natura di quella coppa a tratti prodigiosa. Ovviamente la maggioranza attribuì proprio al Mago, la paternità dei prodigi, che, a quanto pare, non si erano più ripetuti; senza pensare che un portento possiede una sua logica e deve conservare una sua unicità per essere considerato irripetibile e indurre i posteri a non dimenticarsene. 
Noi Arcani, i Maggiori e i Minori, con la nostra proverbiale vocazione alle dispute, confezioniamo, a ritmo vertiginoso e vergognoso, screzi e scontri verbali, e sempre rincorriamo una supremazia che non riusciamo a conquistare e a condividere con altri, a causa di un innato individualismo che caratterizza la nostra bizzarra e belluina natura. 
Quando alle orecchie pelose del Diavolo dei Tarocchi giunse la nuova che il Mago era riuscito a intrugliare imbrogli con incantamenti, fu tutto un fremere d’invidia e rabbia, a mala pena velate da un commento laconico volto a sminuire l’evento eccezionale. 
“I suoi sortilegi non sono durevoli. Siamo abituati alle sue magie ridicole.” Così rispondeva ai provocatori che lo stuzzicavano a bella posta per farlo imbestialire; tuttavia già meditava di intrufolarsi per conoscere da vicino la coppa a tratti prodigiosa e vedere se c’era modo di metterci del guasto dentro, perché era sempre una festa rovinare l’intingolo del vicino. 
Il satanasso avrebbe preferito presentarsi in casa di Alvaro assumendo le vesti della donna fatale, a cui i maschi generalmente non sanno resistere e cadono subito in soggezione, ma conoscendo la sua natura di misogino temprato e indifferente, preferì indossare i panni ruvidi e spartani di una fervente credente che percorreva, in lungo e in largo, la zona dei Castelli romani per scovare anime smarrite da convertire alla vera fede. 
In genere queste persone dedite al proselitismo lavorano sempre in due, per sicurezza e per ricevere sostegno morale e mentale. 
Nella sua modesta casa, costruita proprio all’interno del podere con i risparmi del padre, Alvaro accolse le inattese visitatrici con poca disponibilità alla conversazione; tuttavia non seppe resistere a una voce suadente che evocava volte celesti e messaggi evangelici per la salvezza eterna. 
La ragazza più giovane, alle prime armi e di natura introversa, piuttosto imbarazzata quando si sentiva osservata, si limitava a fare presenza. Talora sorrideva e spesso annuiva, perché proprio non riusciva a trovare le parole. Timida al punto che lasciò pure il suo nome in sospeso, tanto che non lo ricordo. 
La donna più matura e spigliata, Letizia, possedeva non comuni doti oratorie e, grazie alle sue abilità, vantava centinaia di conversioni. Battezzata con un nome che sembrava calzarle a pennello e aveva già descritto tutto il suo radioso cammino, indossava un abito castigato, con i capelli raccolti indietro per non accentuare nulla di una femminilità eterea e sobria. Qualsiasi occasionale interlocutore, rapito da un’estasi contagiosa, non avrebbe voluto mai staccarsi dal vellutato candore della sua parola intrisa di misticismo. 
Tuttavia quell’angelo incarnato era anche incantevole e avrebbe meritato tutti gli aggettivi possibili per descrivere la bellezza muliebre. 
La fervente puritana, grazie al proprio fascino, riuscì ad attrarre anche il rude misogino, qual era Alvaro, strappandolo all’abituale indifferenza del non praticante, più propenso ai rituali superstiziosi che a frequentare le Chiese vere, dove si celebrano le lodi del Signore.  
Letizia, nonostante la corazza della fede, fu calamitata dalla coppa a tratti prodigiosa, sistemata in quell’altarino, che faceva più sorridere che indispettire, anche il meno benevolo dei visitatori. 
Stava seduta composta, come una pia donna, con la forza di una donzella indomabile, e non lasciava trasparire dal viso nessuna emozione. Con naturalezza, quasi senza avvertire imbarazzo per la digressione, sviò dal tema religioso della salvezza, per additare l’oggetto venerato agli occhi già estasiati di Alvaro. 
Lui, dopo quattro chiacchiere, già si sentiva disposto a percorrere i futuri passi della conversione, per non perdere di vista quello splendore di donna, che era anche un gladiolo purissimo. 
Lei avrebbe ricevuto certamente la benedizione dei genitori, che sempre lo avevano messo sull’avviso di tenersi lontano sia dalle donne svergognate dai costumi facili, sia da quelle propense a perdere di vista la famiglia, per dedicarsi alla carriera. 
Così Alvaro, un poco tremante dall’emozione, andò a prendere la coppa per mostrarla più da vicino a Letizia. 
Solo allora la sua compagna, sorprendendo se stessa, riuscì a proferire la parola bella, ma senza passione, più per educazione e far sentire che era presente anche lei. 
Osservando quello strano altarino di devozione, la candida donzella maldestramente gli affidò le cure della timidezza che, come un nodo, implacabilmente, le attanagliava la gola. Senza rendersi conto d’essersi fatta abbacinare da icone pagane, aveva confidato ciecamente nell’aiuto della provvidenza, anche quando questa non veniva dalla parte certa. 
Se non fosse stato per il Mago, pensava Alvaro, Letizia neppure si sarebbe fermata alla sua porta, e sarebbe passata via per sempre. Ecco dunque un altro miracolo da attribuire alla coppa, che ora riluceva in quelle mani sottili e delicate. E forse il contatto avrebbe prodotto un altro prodigio, magari più sensazionale del precedente. La coppa, uscita da un letargo centenario, avrebbe indicato anche il cammino per giungere fino al perduto Santo Graal, di cui tanto aveva sentito parlare in televisione, come se ancora ci fosse in circolazione un cavaliere dei Templari sulle sue tracce. 
E Letizia, nel sollevare in aria la reliquia, per andare a vedere sotto, se vi fosse qualche indizio del fabbricante, sembrava Ginevra che respingeva gli assalti amorosi di Lancillotto. 
Reminiscenze di film famosi si accavallavano nella fantasia di Alvaro, che vedeva la vita filtrata attraverso la pellicola di celluloide e quasi non distingueva più la storia dalla leggenda, il mito dalla realtà. 
“Questo capolavoro sicuramente è stato cesellato da manifatture arabe. Lo svela questo marchio, inconfondibile e inimitabile. Non può che essere antico.” 
“Dai l’aria di esserne sicura. Come sai tutto ciò?”  
“Per lavoro vado a scovare mobili e oggetti antichi. Osserva come la coppa sia stata sbalzata con maestria. E’ forse un cimelio di famiglia?”
“Sì... No, Letizia, le cose non stanno così.” 
Si corresse subito Alvaro, abbassando lo sguardo. Non voleva macchiare quel piacevole incontro con una bugia e puntualizzò: “A dire il vero ne sono venuto in possesso da poco tempo, in una circostanza particolare. Non ne vado fiero e mi vergogno a raccontare tutta la verità.” 
“Suvvia, confessa, fratello. Non l’avrai mica rubata, immagino!”
“Certo che no. Ero andato da una cartomante e ne sono uscito con un premio: questa coppa!” 
“Inaudito! Un uomo confondersi con le superstizioni delle donnette, che rincorrono amori impossibili e inseguono le fortune del Diavolo!”
Nel sentirsi chiamato in causa, l’interessato volle entrare in scena da protagonista e oscurò la coscienza di Letizia, ora che Alvaro confidava ciecamente nella pulzella e non avrebbe frapposto alcuna resistenza nei suoi confronti. 
“Certe debolezze comunque sono comprensibili. Non devi sentirti in colpa per un peccato in fondo veniale, che ti sarà rimesso per la sincerità dimostrata.” 
“Allora, se è di valore, potrei anche venderla e i soldi guadagnati gradirei spenderli per preparare un matrimonio sfarzoso con una bella ragazza.”
Letizia non fece finta di nulla e arrossì, per essere stata chiamata in causa apertamente e senza inganno. 
“Allora me la porto a casa, per esaminarla meglio e farla vedere a un antiquario; se vuoi e naturalmente lo faccio come favore personale, a un amico che non mi dovrà nulla.” 
La compagna di Letizia, adesso pienamente consapevole della natura blasfema dell’altarino, avrebbe voluto trovare le parole adatte e tutta la forza per farla desistere dal proposito di confondersi con un pagano esempio di perizia artigianale che nel tempo era stato contaminato da mani infedeli e per questo sarebbe dovuto restare al suo posto. 
Incoraggiata dalle circostanze, trovò gli stimoli giusti per parlare, ma si limitò appena a sussurrare in tono dimesso: “Forse il signor Alvaro non vuole privarsi di un simile capolavoro e non desidera affidarlo a un’estranea!” 
“Non sono mica scemo. Approfitto di quest’opportunità: perizia e favore nel medesimo tempo. Te l’affido volentieri.” 
Dopo parlarono della parola di Dio e della sola, unica, vera fede.
La fervente predicatrice lasciò in dono il solito materiale che illustrava i principi fondamentali della setta e ricevette anche una generosa offerta di cinquanta euro. Alvaro volle esagerare un poco e mostrarsi munifico agli occhi della donna amata da cui sperava di essere ripagato. 
Nel congedarsi, Letizia abbracciò un fratello che di lì a poco sarebbe entrato a far parte della Chiesa dei Riformati e uscì mettendo la coppa nella tracolla dell’amica, dove tenevano i libriccini di propaganda religiosa. 
Ancora un miagolato arrivederci fratello uscì infine dalle labbra della povera ragazza, che doveva sobbarcarsi il peso degli opuscoli di devozione e faceva da spalla a Letizia. 
Il Diavolo dei Tarocchi aveva raggiunto il suo scopo: si era impossessato della coppa, sottraendola al suo legittimo proprietario. Aveva già fatto un passo avanti nel suo disegno di discredito del Mago. 
Dispetti, dispute, danni sono il nostro pane quotidiano. Senza la nostra sciagurata presenza, il dolce paese che frequento sarebbe un’oasi di pace e bontà. Vorrei dirlo in tutta franchezza, una volta per sempre, perché fin troppo fango è stato gettato addosso a un popolo di poeti, di santi, di navigatori, e via dicendo; come rammenta l’epigrafe scolpita sul marmo immacolato del Palazzo della Civiltà italiana, a Roma: edificio simbolo della nuova era, voluto dal Duce: un maestro di scuola elementare che, vittima del megalomane Re a Bastoni, seppe abbindolare il paese Italia trascinandolo nella dittatura. 
Intendevo restare alle costole della coppa e non feci nulla per fermare Alvaro, quando rapito, in ginocchio, gliela pose in grembo, come se le affidasse il proprio pargoletto. 
Sarò sincero, lo ammetto, se anche non ci fosse stata quella meraviglia di mezzo, sarei corso dietro alla donzella, che mi aveva affascinato. 
Letizia, appena giunta in casa, subito cominciò a pulire e lucidare la coppa: un rituale di purificazione indispensabile, vista la sua natura pagana. 
Nel corso della meticolosa operazione inavvertitamente si produsse uno squarcio al pollice, con una lamina di rame che sporgeva subdolamente nella parte inferiore e non aveva scorto nel corso della precedente ispezione. 
La vista del sangue non l’allarmò più di tanto e la considerò quasi una punizione per avere interagito con un oggetto impuro. Aspettò qualche minuto che la linfa vitale uscisse via naturalmente, per lavare bene la ferita e si mise a pregare. 
Poi, soggiogata dal malefico Diavolo dei Tarocchi, invece di stringere forte il dito con un fazzoletto, o un laccio, come avrebbe dovuto fare, restò inerte, tenendo la mano sotto l’acqua corrente, a vedere scorrere il prezioso fluido, aspettando un segno della volontà divina. 
Proprio il Diavolo dei Tarocchi, invece, molto più prossimo del suo Dio, la tratteneva nell’inazione con una subdola malia, attendendo la morte per dissanguamento.  
Io, poco dopo, per l’emozione svenni e fui risvegliato dai bagliori emanati dalla provvidenziale lanterna dell’Eremita. 
La sua preziosa lampada a forma di tetraedro, provvista di uno stoppino inesauribile, non ha bisogno di combustibile e irradia una luce che l’Arcano riesce a dosare nelle diverse situazioni. 
Devo a quel magico chiarore, se ripresi i sensi, dopo lo spavento per il rivolo rosso che non voleva fermarsi e inesorabile trascinava in un vortice fatale la vita della candida Letizia, caduta sotto l’influenza del Diavolo dei Tarocchi, che non rispetta nessuno, sghignazza e fa altre cose che non posso permettermi di riferire. 
Quale sia l’obiettivo di tanto irrequieto andare, nessuno lo sa bene con certezza. Forse la peregrinazione dell’Eremita è una missione della coscienza; forse invece obbedisce a un oscuro co- mandamento, o si è calato nella maschera del filosofo Diogene itinerante, per rispondere agli inquietanti interrogativi esistenziali. 
Ai viandanti che incontra occasionalmente, stornella un monito e una predizione. Certo non fa le cose semplici; tuttavia nessuno finora ha sentito la necessità di approfondire il frutto della sua saggezza. 
“Viviamo come imprigionati; accecati da bagliori d’immagini subliminali; asserviti a sacri libri, confezionati ad arte da sedicenti profeti. Un censore originario, un meccanismo inconscio oscura la coscienza collettiva, svia la ricerca della verità, ottunde l’ingegno e la memoria.
Va approssimandosi la fine dei tempi: l’Apocalissi: un evento procurato non per volontà di un dio, ma per la stoltezza degli uomini che hanno violato sistematicamente gli equilibri della natura, facendo esplodere gli atomi, mille e mille volte, e liberando un’energia incontrollata.” 
Deluso dall’indifferenza generale, ma non rassegnato, l’Eremita sperava d’incontrare un giusto da salvare ed era approdato alla comunità dei Riformati, eleggendo Letizia come prediletta. 
Quel pomeriggio, proprio tornando presso di lei, casualmente, grazie alla sua preziosa lanterna, riuscì a scuoterla dal profondo torpore in cui era sprofondata e le intimò di chiamare il 118, per ottenere il soccorso medico in casi d’emergenza. 
Già prima di svenire, Io mi ero abilmente mimetizzato, e, turbato per l’estrema concitazione, l’Eremita non percepì nemmeno vagamente la mia presenza. 
Prima che sopraggiungesse l’Arcano della peregrinazione, Io ero già entrato nella mente della dolce donzella, ma non ero riuscito che a tratti a fare sentire la mia voce, affinché desistesse dall’insana rassegnazione. Forse i miei ripetuti appelli erano stati scambiati per parole di Satana e non c’era stato verso dal farla reagire. 
L’Eremita, invece, per la sua autorevolezza, aveva già guadagnato i favori e la stima inconscia della protetta, che seguì i suoi consigli leali e sinceri e invocò quel soccorso necessario che Io non ero riuscito a instillarle.  
Candidamente lo devo ammettere, il sopraggiunto salvatore, anche grazie alle conoscenze accumulate nel suo girovagare, in certe faccende, aveva già dimostrato di essere molto più bravo di me. E così la vita di Letizia fu salva ed Io, come un bambino, mi misi a piangere. 
 
CAPITOLO 3 
 
Gli influssi delle Stelle 
 
Letizia abitava nella cittadella di Lanuvio, non lontano dal famoso anello di Enea. Secondo una leggenda popolare, chiunque avesse toccato quel cerchio di ferro, conficcato in una torre delle mura medioevali, avrebbe sposato un giovane nato entro l’antico borgo. Nella credenza indubbiamente confidava il superstizioso Alvaro, che, la domenica successiva, insistette con l’amata, proprio perché scattasse una foto e lo immortalasse con la sciarpa giallorossa della sua squadra del cuore, là dove sarebbe approdata la nave dei profughi troiani. 
Forse l’Arcano delle Stelle fiuta le tresche amorose alimentate dalle leggende e, qualche giorno dopo il mio fortuito incontro con Alvaro, sopraggiunse di sera presso la modesta abitazione di Letizia, alla quale già avevo augurato la buonanotte e rimboccato le coperte. 
Inondò di luce bluastra il pavimento di pietra e prese forma come un angelo del Paradiso. Io rimasi basito e lo riconobbi per quel suo mantello intriso di firmamento. Dall’emozione non riuscivo a proferire una sola parola e, a un suo cenno, lo seguii, dove avrebbe voluto condurmi nel cuore della notte limpida. La luna nuova era appena visibile con un piccolo tratto argentino disegnato in cielo. Gli astri silenti palesavano la finitezza dei nostri futili intenti. 
L’Arcano delle Stelle m’incuteva un riguardo timoroso, un rispetto misto a imbarazzo; quindi Io stavo zitto, anche per non infrangere quel momento, per me eccezionale. Perentorio mi risvegliò bruscamente con una frase che ancora mi rimbomba in petto, al solo pensarci. Le mie ginocchia quasi si piegarono e lui, tenendomi per un braccio, evitò di farmi cadere. Benché sia trascorso del tempo da quel momento fatale e tragico, ancora non mi capacito di cotante parole. Una voce dura e stonata squarciò la mia quiete e per poco non urlai, travolto dalla rabbia. 
“Nelle vesti d’indiscusso sovrano, penso di meritare l’ossequio del firmamento. Ti voglio al fianco, come segretario.” 
La mia reazione, istintiva e immediata, sorprese anche me, che non avrei mai creduto di trovare la forza di replicare. 
“Io? Non conto nulla; non ho titoli, proprietà. E soprattutto non ho ambizione. ‘Parva, sed apta mihi’(3), potrebbe essere il mio motto.” 
“Per questo sei il più adatto; di te posso fidarmi ciecamente.” 
Così, assai malvolentieri, dovetti abbandonare la mia diletta; anche se avevo cercato di farmi da parte, per non essere coinvolto in una bega troppo grande. L’Arcano della Stelle era tanto arrogante che neppure avrebbe preso in considerazione un mio diniego; e nella sua infinita presunzione già mi considerava al suo servizio. 
Manifestò le sue intenzioni alla stella più vicina alla Terra, per vedere come accettava le sue richieste. 
Elios se ne stava spaparanzato a leggere i pettegolezzi sui quotidiani. Quel diversivo rendeva meno monotone le sue giornate. Appena percepì l’ombra del sopraggiunto guastafeste, quasi l’incenerì con lo sguardo. 
L’intruso non si sentì per nulla delegittimato, anzi finì per oscurare il giornale, fino a renderlo del tutto illeggibile. 
Elios, se veramente corrucciato, avrebbe risposto per le rime e il suo altolà sarebbe stato d’esempio anche alle altre stelle più lontane, che non avrebbero accettato nessun estraneo a dettare le regole. 
Io, detto in tutta franchezza, speravo che l’odiosa impresa dell’Arcano delle Stelle andasse in frantumi già al primo scoglio, e quindi confidavo che Elios appunto smorzasse tutta quella velleità di comando sul nascere; tuttavia mi sbagliavo. 
Forse, vedendomi così spaesato e imbarazzato, fu attraversato da una tenue ilarità. Dalla mia espressione dolente, capì che avrei preferito essere altrove. Intenerito, mi vellicò con lo sguardo. 
“Tu, qui; a fare cosa?” 
“Il segretario.”  
In mia vece rispose l’Arcano delle Stelle che, con la sua monumentale stazza, cancellò del tutto la mia presenza. 
Elios non aspettava visite e si limitava a illuminare la sfera cosmica, ribattezzata da noi Tarocchi con il nome di Stravaganza, dove i parlanti di quelle terre, prima hanno inventato la scrittura per raccontare la storia e immortalare le imprese di re e condottieri, e poi si sono cimentati in diversi generi letterari. Dopo gli accadimenti narrati, Io, per emulare gli scriventi, sono andato poi a ispirare una di queste creature che raccontano storie su tutto, mentre su di noi nessuno racconta gli intrighi e i misfatti da anni; anche se ci sono pochi illustri autori che ci hanno dedicato un racconto, come lo scrittore brasiliano Machado de Assis con la sua ‘Cartomante’. Tuttavia in passato, con questi defunti signori non ho avuto nulla a che spartire e mi sono ben guardato dal rovinare la loro carriera già affermata, mentre con gli esordienti posso permettermi anche qualche licenza, perché nessuno verrà mai a mettermi in croce per suggerimenti a dir poco illetterati. 
“Le Stelle dovranno riconoscere la mia autorità! Io le rappresenterò tutte.” Sentenziò l’Arcano, tralasciando sgarbatamente i convenevoli e andando diritto all’assunto. 
Elios, senza dilungarsi in schermaglie oratorie, in maniera concisa, esternò il suo punto di vista. 
“Figurati!”  
Quell’unica espressione avrebbe congelato per sempre ogni discorso, ma il mio ardito e presuntuoso compagno ebbe la prosopopea d’insistere. 
“Io esigo il rispetto, dovuto al rango di Arcano che rappresenta tutte le stelle.” 
“Se pensi di possedere i giusti titoli per rappresentarci tutti, accomodati pure. Nessuno finora ci aveva pensato; c’è sempre chi deve portare sulle spalle il fardello della storia.” 
All’Arcano delle Stelle il tono ironico del Sole non piacque, ma finse di non capire e continuò la sua filippica di condottiero. 
“Farò un proclama e incaricherò il segretario di diffonderlo attraverso il firmamento! Chi avrà qualcosa da ridire, dovrà fare i conti con me!” 
“Allora manda il tuo messo anche da queste parti; una cosa è fare quattro chiacchiere, un'altra mettere nero su bianco. Apprezzo gli incarichi di prestigio. Vediamo: l’Imperatore già lo abbiamo. (4) Tu hai un’idea di un titolo adeguato?” 
“Poderoso Signore.”

“P.S. Suona come un post scriptum!” 
“Poderoso Signore Cosmico.”

“Ora è perfetto! Buona fortuna!” 
Anche se mi giudicava assai poco rappresentativo, l’ambizioso Arcano delle Stelle dovette accontentarsi dei servigi non offertigli spontaneamente da un modesto Minore quale Io sono, che tutti hanno sempre sottovalutato, anche se per questo non soffro del complesso d’inferiorità. In molti però giurerebbero il contrario, giacché ancora balbetto come un bambino, quando sono un poco nervoso. 
Intendo ricamare ora sulla mia identità, che avrei volentieri lasciato in ombra. Nei volgari mazzi in circolazione, mi rappresentano con due coppe ordinarie, messe una sopra l’altra e uguali come due gocce d’acqua. Tutti i disegnatori hanno ignorato il dualismo dinamico che solo la profondità del pensiero cinese ha saputo cogliere nella sua pienezza. 
L’aurea coppa Yang s’integra perfettamente con l’argentea coppa Yin, disposta sulla stessa linea: questo lo stemma, cucito sull’abito impeccabile che mi sono confezionato, proprio per volere distinguermi dagli altri Minori, trasandati e inclini ai bagordi e ai baccanali. 
Nel corso della stesura del proclama da recapitare, Io vi misi del mio, attenuando a bella posta espressioni che avrebbero indispettito le stelle più suscettibili. 
Per ovviare al problema della distanza da coprire e per raggiungere tutti gli astri del firmamento, ebbi l’idea di servirmi del cocchio in disuso, appartenente al messaggero degli Dei e guidato da un destriero mitologico a due teste, il quale bighellonava e ruminava in una fitta radura, in attesa di essere chiamato ai suoi compiti. 
Da molto tempo Hermes non intraprendeva più la sua funzione, poiché non vi erano oracoli da recapitare e nessuno era disposto a riceverli e tantomeno a capirli. 
Per non dovere chiedere favori e correre il rischio di sentirmi rispondere con un rifiuto dal legittimo padrone, comunicai all’equina creatura che finalmente era ora di sgranchirsi le gambe e cominciare una salutare corsa in cielo. 
Il bicefalo nitrì con soddisfazione e mi venne incontro con entusiasmo, strizzandomi l’occhio; come a dire che non aveva bevuto la scusa, tuttavia non vedeva l’ora di trovarsi un nuovo padrone. Di solito era stato istruito a non dare passaggi e confidenza agli altri Arcani, specialmente a quelli di rango inferiore e con gli estranei era piuttosto bizzarro e indomabile. 
Quando il Poderoso Signore Cosmico mi vide partire impettito verso il vasto cielo, si rammentò che, a volte, gli inferiori rivelano, quasi per reazione, delle qualità insospettate e possono prendersi una bella rivincita e soddisfazione verso tutti i denigratori. 
Così Io, che non ero mai stato preso in considerazione neppure dai miei pari, i Minori, improvvisamente, da meno di zero, balzai al ruolo di Segretario del Poderoso Signore Cosmico ed ebbi un’importanza superiore a ogni altro Arcano, attirandomi per questo l’invidia di Fanti, Cavalli, Regine e Re. Costoro pensarono d’investirmi anche di altre responsabilità e mi nominarono, quasi subito (quando qualcuno spifferò in giro i contorni della mia missione riservata) Ambasciatore degli Arcani Minori, sia per sottrarmi all’influenza diretta del Poderoso Signore Cosmico e secondariamente per contare su un’amicizia fidata, nella prossima disputa che sarebbe scoppiata nel Regno di Taro, dove contano solo le polemiche e i contrasti e non passa giorno senza una lite di una certa entità. 
Nessuno tra gli Arcani osò mettere in discussione il mio ruolo d’Ambasciatore che avrebbe stilato la sua brava relazione, rendendo pubblico il comportamento del Poderoso Signore Cosmico, che non poteva essere lasciato solo ai suoi capricci. 
In seguito tutti, indistintamente, vollero rendermi omaggio con una visita non occasionale, per sapere se stavo dalla loro parte, i Minori, o se mi sarei appiattito sulle volontà dei Maggiori. 
Io, in appena otto ore, sfruttando le pieghe dimensionali, sul Cocchio d’oro guidato dal bicefalo, riuscii a percorrere distanze siderali, che si misurano in termini di anni luce. E presto tornai indietro con un sostanziale consenso di tutte le stelle, tranne una. 
Gli astri non hanno mai abbandonato l’antica funzione, intuita dal sommo alchimista di tutti i tempi, Merlino, capace di condensare in una massima la sua sapienza. 
“A ogni particella in Basso, ne corrisponde una in Alto ed ogni creatura sulla Terra ha una sua guida tra le Stelle.” 
“Non riesco ad accettare l’idea che ci sia un solo dissenziente”.
Così sbraitò verso di me, il Poderoso Signore Cosmico. Poi, subito dopo, aggiunse perentorio: “Esigo l’obbedienza incondizionata di tutti!”  
“Poderoso, non mi sembra il caso di esagerare. Si tratta di un’insignificante eccezione. L’obiettivo è stato raggiunto.” Osservai con pragmatica moderazione. 
“Vorrei conoscere il nome della stella ribelle.” 
“NB22, Poderoso.” 
“Enne bi ventidue?” 
“Sì, Nana Bianca numero ventidue, Poderoso.” 
“Una stella nana? Potrebbe anche collassare da un momento all’altro!”
“Allora ne convenite Poderoso. Si tratta di una stella che non conta quasi più niente. Fosse, diciamo, la Stella Polare, ci sarebbe da preoccuparsi. Non vale crucciarsi per una Nana Bianca.” 
“No, provetto Ambasciatore.” 
L’Arcano delle Stelle pronunciò il mio nuovo titolo con un pizzico di sarcasmo. Non aveva digerito che in un battibaleno Io fossi riuscito a ricoprire l’incarico di Ambasciatore, a cui non avrebbe potuto opporsi. Sempre ha prediletto l’espressione  mio caro segretario, che suona meglio e sa di possesso. 
“NB22 potrebbe diventare un simbolo. Tutti potrebbero mettersi a considerare la questione. Una stella qualunque potrebbe argomentare: - Se il Poderoso Signore Cosmico non riesce a farsi ri- spettare da una Nana Bianca, non ha la stoffa del condottiero.- Potrei essere spodestato da una fronda, futura e improvvisa. Non mi sento sicuro. Tu hai capito il perché del suo dissenso?”  
“Stanca degli Arcani, non ne sopporta più l’ingerenza. Non è riuscita a tenere lontano l’Eremita, che ha interferito sui destini della sua antica protetta; NB22 la seguiva con dedizione e amore, da quando era nata. L’invadente lanterna ha rotto il fragile equilibrio di Letizia, che teme di avere perso l’anima, dannandosi in eterno. Se la donna fosse stata pienamente cosciente, mai avrebbe accettato una trasfusione e piuttosto si sarebbe lasciata morire, dopo essersi ferita fortuitamente con quella perfida coppa.” 
“Tu le hai fatto osservare che i Maggiori unitamente ai Minori sono settantotto entità e gli umani sono svariati miliardi? Un’esigua schiera in un mare magnum!” 
“Certamente Poderoso. Tuttavia ne fa una questione di principio. Vi sono Arcani ingerenti che usurpano funzioni riservate alle stelle. Riconoscerà la Vostra autorità solamente quando questa interferenza sugli umani cesserà. Si sente esautorata dal suo ruolo. Una sconfitta così cocente potrebbe anche indurre depressione. Presto tutto potrebbe finire con un’esplosione cosmica e il cordoglio di tutti. Capitolo chiuso.” 
“Ne convengo. E’ una questione di principio delicata. La funzione delle stelle verso le creature è sacra.” 
“Poderoso, esprima solidarietà con un messaggio rivolto alla NB22. Stigmatizzi il comportamento irresponsabile di certi Arcani, ma restando nel generico, senza menzionarli espressamente. Perché un vero Signore deve sapere ascoltare le lamentele dei sudditi e farle proprie. Chiuda la disputa difendendo il ruolo insostituibile delle stelle.” 
Quella sera, forse rabbonito dai miei modi e convinto dai miei argomenti, l’Arcano delle Stelle dovette inchinarsi di fronte alla mia abilità diplomatica. 
E cominciai a riguadagnare la mia indipendenza ed ebbi anche il tempo per tornare a occuparmi dei casi che avevo lasciato in sospeso. 
Nelle mie nuove vesti d’Ambasciatore dei Minori, andai subito a chiarire presso il Re di coppe su certe dicerie messe in circolazione da calunniosi venticelli. Senza titoli ufficiali, mi avrebbe persino fatto imprigionare, accusandomi di collusione con gli attizza fuoco. Invece mi ricevette subito e giurò, in privato, che quel prodigioso manufatto non era stato concepito nelle sue fabbriche. Esse non avevano mai prodotto oggetti tanto raffinati, nemmeno agli albori e le sue coppe non ubriacavano, né contenevano sottili veleni; né mai avrebbero prodotto incantamenti. Solamente le lingue malevole e i veri autori dei complotti gli avevano, nel corso degli anni, attribuito mascalzonate che non collimavano con la sua proverbiale generosità. 
Credetti solo alla parte che mi riguardava e dovetti anche accettare in regalo una coppa aurea con la quale non avrei mai festeggiato neppure una scampagnata. 
Le dicerie purtroppo, anche senza fondamento, creano pregiudizi che nessuno riesce a togliersi dalla testa. Lo sanno bene i potenti che della menzogna sistematica hanno fatto una vera arte e mettono in circolazione notizie solo per infamare e indebolire gli avversari. 
 
 CAPITOLO 4 
 
La dimora della Giustizia
 
Il vocabolario italiano registra l’espressione contare come il due di coppe, evidenziando lo scarso valore della carta. Io potrei andare comunque fiero dei miei successi, meno dei titoli ottenuti, che non avevo cercato e già cominciavano a pesarmi. 
Caparbiamente intendevo indagare sull’origine e la natura del trofeo che aveva marcato così profondamente la vita di Letizia e Alvaro. 
Canticchiando l’aria, libiam ne' lieti calici, che la bellezza infiora (5); non sopportavo l’idea che una coppa ingannevole avesse potuto ferire le candide mani della mia diletta. 
Decisi allora di fare quattro chiacchiere con l’Eremita, per approfittare della sua saggezza e lungimiranza. 
Letizia frattanto, per voleri luciferini, avventatamente aveva affidato la coppa a un sedicente antiquario che aveva promesso di comprarla per ottomila euro e aveva smesso di frequentare la Chiesa dei Riformati, dove non si era fatto più vivo e aveva bazzicato solo pochi giorni, con l’obiettivo di approfittare delle brave persone che cantano le lodi del Signore.  
L’Eremita aggiunse che, se i tempi della sua missione glielo avessero concesso, avrebbe volentieri inseguito le tracce della coppa, finita nelle mani di quell’astuto imbroglione, che aveva carpito la buona fede di Letizia e approfittato della situazione. 
La donna era disperata e non sapeva in quale maniera raccontare ad Alvaro come si erano svolti i fatti. 
Con ostinazione pungolai l’Eremita e lo invitai a seguirmi, per accompagnare l’investigazione, anche se sapevo che difficilmente avrebbe abbandonato la protetta e mai l’avrebbe lasciata in balia del periglioso fato. 
“Purtroppo non posso muovermi. Devo assolutamente vegliare sull’anima della dolce donzella.” 
Decisi d’elevare il tono della conversazione, per cercare di strappare al mio interlocutore un poco della sua sapienza nascosta. 
“Dimmi, dotto Eremita, svelare misteri è la tua professione. Non so come riesci a trovare il tempo, e soprattutto la costanza, di corteggiare le animule vaganti. Lo sai che alla fine, inspiegabilmente, si disperdono tutte, senza lasciare una traccia di quel- l’energia che non riesce più a manifestarsi.” 
“Caro il mio novello Ambasciatore, confido molto nell’innata bontà di questa ragazza e spero che la mia guida possa accompagnarla nella crescita spirituale. La sua coscienza deve evolversi ogni giorno, faticosamente, ed io non posso certo garantire per la sua anima che dovrà meritarsi e conquistarsi, lei stessa, con le sue capacità.” 
“Dotto Eremita, osserva la natura: la sua armonia ci svela che è mossa da un’intelligenza superiore. Tuttavia Io non credo che l’uomo possegga un’anima innata, solo perché parla, scrive, fa conti e inventa congegni. Se già esistessero le anime belle e fatte, perché dovrebbero incarnarsi e perdersi tra mille perigli?” 
“Per purificarsi: almeno così sostengono i fautori della metempsicosi.”
“Allora, dotto Eremita, gli Dei avrebbero progettato un Mondo in armonia per ospitare una valanga di spiriti imperfetti, condannati a una ciclica peregrinazione. Tutto ciò mi sembra confuso e improbabile. Anche tu stenti a crederlo. In questo stravagante pianeta certo avrai incontrato moltitudini di devoti fedeli, schiere di fanatici intolleranti, manipoli di sacerdoti benedicenti, diversi profeti ciarlatani e rare anime smarrite in circolazione.” 
“Lo ammetto, è così, tuttavia dovrà esserci un’anima pia degna di salvazione, in questo stravagante pianeta.” 
Gli risposi che mi sarei messo sulle tracce del birbante che aveva approfittato della buona fede di Letizia, ingannandola. 
“Addio, caro Eremita. Andrò in fondo a questa faccenda, fino a scomodare l’Arcano della Giustizia.” 
“Dio ce ne scampi e liberi. Ti devi mettere in fila. Aspettare mesi, forse anni.”  
“A me hanno detto che gli Arcani hanno la precedenza e sono accolti all’istante.” 
“Sarà come dici tu, amico. Quando mi sono presentato, forse non mi volevano tra le scatole. Dicono che m’impiccio troppo. Detesto le file e me ne sono andato via. Comunque a te auguro migliore sorte della mia.” 
Ci salutammo e lasciai l’Eremita a fare la guardia del corpo all’adorata donzella, che pare avesse già iniziato una storia con Alvaro e fosse prossima a farsi condurre all’altare. 
Indefessamente, Temide passava il tempo a ricevere le lamentele e le suppliche dei vari Regni che chiedevano la sua benevola intercessione. Sospesa, fluttuava nell’aria, sopra una sottile colonna con capitello corinzio, immersa in un’ampia radura verde. 
La fila interminabile dei postulanti era alimentata dalle voci querule dei cartomanti e soprattutto dalle cause in sospeso nel dolce paese. 
I meno fortunati erano mescolati ai più ricchi e tutti dovevano aspettare il loro turno. Secondo la consuetudine, i Maggiori e poi i Minori erano ammessi con priorità rispetto agli umani, anche se i poveretti languivano, in attesa di soddisfazione, chissà da quanto tempo. 
Io, quale Ambasciatore dei Minori, fui condotto al cospetto della Giustizia come si conviene a un ospite di riguardo, annunciato dal soave volo di otto creature alate che introducevano, come da protocollo, ogni questionante. 
“Ero titubante, se importunarvi per una faccenda piuttosto strana. Ancora non esiste un colpevole da giudicare e nessuno sa bene come si sono svolti i fatti.” 
Il mio esordio forse non era stato abbastanza convincente, perché l’Arcano rimase muto nella sua posa. Si limitò ad ascoltare i dettagli della vicenda e con la mano centellinò la sua sentenza, come se stesse dirigendo un’orchestra distratta e lontana. 
Una delle gazze interpretò la mimica sottile e mi trasmise le volontà della Giustizia, condensate in poche ermetiche parole che chiudevano il caso per sempre. La risposta sibillina non faceva compiere all’inchiesta il benché minimo progresso, anzi ag- giungeva ulteriori interrogativi. Non erano possibili altre suppliche, o appelli di sorta per nessuno, indistintamente. 
Tuttavia Io non ero ingenuo e al mio attivo avevo esperienza e fiuto da vendere. Fui investito da un atroce dubbio. Molto probabilmente l’oracolo partorito dalla Giustizia era un’astuta messinscena di quel santone librato in aria, somigliante a uno specchietto per le allodole. 
Nel congedarmi, esibii anche un inchino di fronte a quella vuota icona, ma poi feci un cenno eloquente alla gazza cinerina, che mi stette dietro, fino a quando non sostai su uno sperone di roccia per assicurarmi ai piedi i lacci degli stivali. 
“Allora, Cinerina, non ti sei stancata di recitare la parte!” Esclamai improvvisamente in faccia alla gazza, che aveva quasi conficcato il naso nella morbida pelle delle mie scarpe. 
L’uccello fece finta di non capire e si mise a fischiettare una mezza filastrocca. 
“Ai tanti babbei in fila sulla terra, la giustizia risponde involandosi in cielo.” 
Poi sorrise, starnazzando e sculettando, e la seguii fino alla sua modesta casa, in cima a un albero antico e forte, millenario, con tanti rami attorcigliati e avvinti su se stessi, da sembrare una cattedrale sempiterna della natura. 
“Bel posto.” Sussurrai, accoccolandomi sopra un ramo. “Sicuro e discreto. Suvvia! Sputa il rospo, Cinerina! Con me ora puoi anche sbottonarti. Adesso sono diventato influente. Ho bisogno di un uccello fidato, dai trascorsi nobili. Vorrei sottrarti al ruolo di messaggera che prende per i fondelli i gonzi. Potresti trasmettere le volontà del Poderoso Signore Cosmico e fare morire d’invidia quelle impertinenti delle colleghe, che sparlano di tutto e ti rovinano la reputazione.” 
Volevo ad ogni costo alleggerirmi dal peso delle responsabilità pubbliche, che avevo dovuto subire e potere riprendere la mia vita indipendente.
“Che cosa vuoi sapere di preciso, amico?” 
“Solo sapere dove posso trovare il vero Arcano della Giustizia, perché non converso con le ombre! Ti ci posso trascinare Io, magari prendendoti per la collottola e far supporre al tuo signore che sei stata costretta con la forza a condurmi fino a lui!” 
“Abbiamo delle regole precise nel nostro lavoro. Chi si accontenta dell’oracolo lo manda a memoria, o se lo scrive su di un pezzo di carta. E’ la stessa solfa che appioppiamo a tutti. Se mangiano sempre la stessa minestra riscaldata, cosa possiamo farci. Significa che scoppiano di salute! Chi è più esigente, va accontentato lo stesso. Allora lo conduciamo dal nostro signore, non per tradirlo, ma per servirlo meglio. Qui ho tutto e non mi manca nulla. Spalanco il cammino, ma dimmi quando sei stanco, perché c’è tanta strada da fare e infine bisogna scalare una montagna.” 
Io andavo senza fretta e a tratti mi fermavo per prendere fiato, perché sapevo che, se avessi voluto tenere il passo della gazza cinerina, sarei svenuto e morto dalla fatica. 
Ogni tanto, attraversando vari sentieri, incontravamo una carcassa di qualche incauto visitante, che si era fatto tradire dalla sua stessa ansia e non aveva mai potuto raccontare di aver visto in faccia il vero volto della Giustizia.
Giunsi in vetta sfinito, e mi lasciai scivolare al suolo per baciare il becco giallastro della Cinerina, che mi aveva incoraggiato a non farmi prendere dalla smania dell’ascesa e di procedere al passo delle mie forze senza strafare. 
Quando fu annunciata la mia presenza, la vera Temide fece una smorfia di disappunto, perché non aspettava visite e non ne aveva messe in conto. 
“Sono qui in veste d’Ambasciatore dei Minori.” 
“E da quando i Minori hanno un Ambasciatore?”  
“Solamente da qualche settimana.” 
“Incredibile! Hanno scelto bene però, hai fiuto! Non ricevo visite di Minori dai tempi del Diluvio. Con qualche piccola eccezione, ma sono stata io, sempre, a condurli sin qui. Non ci sono venuti certo per meriti personali.”
“Devo pure guadagnarmi il pane e dare il meglio. Altrimenti ti ritrovi a fare l’accattone.” 
“Di che si tratta?” 
“Un astuto ladruncolo, con l’inganno, ha sottratto una coppa a un’ingenua ragazza, candida come la neve. ” 
“Perdindirindina! Ci sono state guerre, dittature, orrori indicibili e nessuno, finora, è venuto a scomodarmi per una bazzecola!” 
“Segno che i tempi stanno cambiando. Forse una svolta.” 
“Ah! Sono d’accordo. E’ semplice trovarla. Lapalissiano!” 
Quest’ultima espressione, uscita dalla bocca del Folle, era piaciuta e divenuta quasi proverbiale. Nel Regno di Taro tutti la usavano all’occasione, come si fa con gli inni nazionali, suonati dalle bande musicali nelle competizioni sportive, per ricordarsi di essere una nazione e non un’espressione geografica. 
“Chi vuole ottenere giustizia, deve comprarla in moneta sonante. Nel tuo caso basta mettere un annuncio su qualche giornale, promettendo una lauta ricompensa! Goditi la giornata!” 
Dopo aver coniugato cinismo e praticità ed elargito, dall’alto della sua infinita esperienza, un consiglio gratuito, all’improvviso svanì Temide, senza darmi il tempo neppure di ringraziare, o controbattere con una mia affermazione ponderata. 
Decisi di tornarmene a casa, per avere il tempo di fare una tranquilla riflessione, in linea col proverbio latino, secondo cui post prandium, lento pede deambulare decet.(6) 
Dovevo trovare ad ogni costo un modo per togliermi dalle scatole quell’incarico pubblico che avevo subito per mancanza di carattere e scarsa fermezza. Non intendevo più sottostare ai capricci di nessuno, ma non sapevo come togliermi dai grovigli della politica, che non mi si addicevano. Volevo farmi i fatti miei e amavo vivere liberamente; non avevo le doti del diplomatico e non sapevo scendere a compromessi con nessuno. 
Poco dopo, svolazzandomi attorno, Cinerina mi chiese se avessi voglia d’accompagnarmi con lei, sulla via del ritorno verso casa. Io risposi che non avevo nulla in contrario e le offrii di accomodarsi sul mio braccio sinistro, come fanno i cacciatori con il falco ammaestrato. 
“Sei molto pensieroso, amico.” 
“E’ vero. Forse puoi darmi un consiglio spassionato per venirne fuori.” 
“Di cosa si tratta?” 
“Non voglio più svolgere mansioni ufficiali, per cui non sono tagliato.” 
“Dimettiti!”  
“Non basta! Dovrei essere persuasivo e soprattutto determinato.”
“Minaccia di dire tutto quello che hai scoperto; anche se non sai niente. Persino il più integerrimo funzionario ha sempre qualcosa da nascondere.” 
“Non ho la faccia per bleffare; nessuno mi darebbe credito.” 
“Un giorno d’estate, nel periodo delle mie ferie, la città era quasi vuota e trovavo svago svolazzando sopra i rami degli alberi. Sotto l’ombra di un pino, per proteggersi dalla calura e dalla luce, un ragazzo stava leggendo un fumetto. Mi sono incuriosita alquanto e così ho cominciato ad accompagnare la storia che denotava un intreccio interessante, per nulla banale. 
Dentro alcune nuvolette, disegnate sopra la testa di un personaggio, erano stampate queste parole indimenticabili: ‘Le società e il potere si fondano su determinati schemi, consolidati da rituali, religioni, credenze. Se qualcuno li sconvolgesse, ribalterebbe i ruoli e l’ordine costituito. Se si scoprisse, anzi si dimostrasse che esiste un’altra forma di vita intelligente, qualcuno comincerebbe a pensare. Il potere vacillerebbe e noi non possiamo permettercelo! La nostra funzione di controllori è necessaria. Noi esistiamo da sempre. Da sempre eliminiamo tutto ciò che può turbare l’ordine che ci permette di spadroneggiare ed è impossibile distruggerci perché siamo ovunque; ma anche nella testa della gente, nel suo inconscio e possiamo ascoltare tutti i pensieri. Una voce ci avverte, ci comunica, se ciò che deve rimanere segreto, sta per essere divulgato!’(7)  
Possibile che nessuno, oltre a me, si sia lasciato toccare da queste considerazioni e non abbia dato loro la giusta importanza? Eppure sembra che i numerosi lettori, o non le abbiano capite, o dimenticate. 
Gli autori del fumetto hanno dimostrato coraggio e avuto una formidabile intuizione. Nulla però è cambiato, perché i controllori sono proprio dentro la coscienza degli uomini, come va dicendo l’Eremita da secoli. Chi lo ascolta? In molti, ma poi uno strano oblio li confonde. 
Vai dal Poderoso Signore Cosmico con quest’argomento e gioca la tua partita: il silenzio, in cambio della libertà. Sarà una proposta che non potrà rifiutare, perché, ripeto, nulla deve cambiare e il popolo è destinato a restare all’oscuro. 
Se ti senti in soggezione di fronte al tuo Signore, ci vado io, nelle vesti di confidente e gli parlo. Neppure dovrai esporti e, in un battibaleno, ti assicuro, guadagnerai l’aurea serenità: patrimonio degli Dei che abitavano il mitico Olimpo.” 
Le risposi che poteva pure farsi avanti con il suo astuto piano e che l’avrei benedetta per l’eternità. 
Da allora, nessuno più è venuto a importunarmi per ottenere favori, o procurare inganni. 
Lode sia alla nobile creatura, che, con i suoi consigli, mi ha permesso di riconquistare l’indipendenza, perduta per la smisurata voglia di comando del Poderoso Signore Cosmico. 
 
 
CAPITOLO 5 
 
Rubamazzo
 
Tornai a frequentare i due innamorati, anche per cercare di dipanare il filo di una matassa assai intricata. Mai sarei riuscito ad accumulare un gruzzolo sufficiente per permettermi di pagare una lauta ricompensa; inoltre i miei onesti amici non navigavano nell’oro. 
Frattanto, sul più importante quotidiano della Capitale, spuntò un piccolo articolo che metteva in risalto la sparizione di una coppa da uno stand della Fiera del Libro. Il giovane Alvaro invero neppure pensava più il suo trofeo, tutto preso dai preparativi per il matrimonio imminente, che la sua amata non si sognava di ricusare, perché lo considerava quasi un gesto riparatore. Tuttavia il suo pensiero corse alla coppa, sottratta con l’inganno alla sua adorata Letizia, che ingenuamente l’aveva affidata nelle mani di un sedicente antiquario, svanito nel nulla. 
Mi meravigliai sul momento che un fatto di cronaca, in fondo marginale, fosse comparso in prima pagina, ma poi, mentre Alvaro leggeva la notizia, vi riconobbi presto le caratteristiche di uno spazio pubblicitario, pagato da una persona ricca che poteva permetterselo.  
Rimasi anche stupito dal fatto che quanto suggerito dall’Arcano della Giustizia si fosse materialmente realizzato sotto i miei occhi, senza che dovessi più fare nulla. 
E’ proprio vero che il destino ci mette lo zampino quanto meno te l’aspetti, specialmente quando a beneficiarne non é la povera gente: quella che sgobba e suda e paga regolarmente le tasse. Sembra quasi che per i furfanti vi sia uno stuolo di arcidiavoli al loro servizio, che apparecchiano la tavola e raccolgono le molliche. 
Sceicco promette lauta ricompensa
‘Recentemente è stata sottratta dallo stand espositivo di uno stato arabo, presente alla Fiera del Libro, una coppa di rame, dove era esposta una copia de Il nettare del deserto: opera in versi e fotografie di una giovane scrittrice. La trovata pubblicitaria aveva colpito il pubblico, incuriosito dalla coppa entro cui era adagiato il piccolo volume. Quasi sicuramente il furto è avvenuto durante le ore di chiusura della Fiera e non quando il pubblico era presente, perché molte persone si fermavano per curiosare e scattavano fotografie. 
Sono passati diversi giorni e finora le ricerche degli inquirenti non hanno dato esito, né tantomeno le fotocamere hanno fornito indizi utili. 
Noi speriamo che la persona, venuta in possesso della preziosa coppa finemente lavorata, restituisca il cimelio di famiglia allo sceicco, che promette una lauta ricompensa. 
Le identità degli interessati coinvolti nel fatto saranno tenute segrete. Chiunque sappia fornire informazioni concrete, prenda contatto con questo quotidiano.’ 
Allertato, decisi di frequentare a tempo pieno la redazione del giornale e, la mattina seguente, conobbi il ladro gentiluomo. 
Berto, ultimo malandrino d’altri tempi in circolazione, possedeva l’arte d’arrangiarsi e sapeva trarre profitto da ogni situazione. Le truffe benevole, i raggiri, i furti con destrezza erano il suo pane quotidiano.
Sfogliando il quotidiano, da cui si possono sempre trarre spunti e buone opportunità per un colpo, aveva scoperto che forse la coppa in suo possesso poteva valere improvvisamente una fortuna. Dopo essersene appropriato, non aveva avuto l’intenzione di venderla a uno dei tanti ricettatori presenti in città, ma aveva deciso di tenerla per sé, per istinto. Con l’inganno l’aveva sottratta alla sua amica Letizia, che aveva frequentato nella Chiesa dove la comunità dei Riformati si riuniva periodicamente. 
Appena letto l’articolo sul quotidiano, Berto, letteralmente basito, per un poco era rimasto taciturno e poi improvvisamente aveva urlato dalla felicità: “Ho fatto Bingo!” 
Al telefono si era vantato, mentendo, di avere ideato il furto, dopo aver visto per caso la coppa alla Fiera del Libro, dove era entrato solo per stare dietro a una bella donna. 
Quale esperto ladro e rubacuori, volle prima conoscere l’ammontare della ricompensa e sincerarsi della sua reale consistenza. Quando Berto seppe che avrebbe ricevuto un assegno di cinquecentomila euro firmato dallo sceicco; con delle fotografie provò d’essere veramente in possesso del cimelio arabo, poi concordò che avrebbe affidato e restituito il mal tolto nelle mani di un notaio, solamente dopo avere intascato la ricompensa. 
Quel balordo si ripresentò poi al matrimonio di Letizia, nel Santuario della Madonna delle Grazie, a Lanuvio, con un mazzetto di roselline un poco sbiadite, accompagnate da una busta che recapitò personalmente nell’atto di baciare la sposa, che in paese era molto conosciuta ed era stata sommersa da una valanga di presenti, non tutti amici di famiglia. 
Le disse che per lei c’era un assegno di ottomila euro: quanto aveva promesso di pagare la coppa. 
Gli sposi, felici e sorpresi, in quel clima festoso, abbracciarono anche il malandrino e lo aggiunsero alla lista dei quasi cento invitati che li avrebbero seguiti al ristorante dopo la cerimonia religiosa. 
Assistetti solo all’atteso ingresso degli innamorati e, quando l’organo terminò la marcia nuziale di Mendelssohn, lasciai la Chiesa gremita per risparmiarmi la cerimonia e neppure m’intrufolai al rinfresco, perché la folla e la confusione mi hanno sempre dato un grande fastidio.  
Solo in parte ero soddisfatto; ancora ignoravo l’identità del vero lestofante che aveva materialmente rubato la coppa finita nelle mani di Mastro Checchino: l’antiquario di Trastevere, da cui la cartomante l’aveva acquistato per quattrocento euro, come aveva raccontato ad Alvaro; e non vi era motivo per dubitare delle sue parole. 
Allora, un giorno, ispirato, sono andato a frequentare la bottega artigiana, dove la gente passava per curiosare e scoprire qualche oggetto raro. Lì, qualche tempo dopo, mi sono imbattuto nel solito ladruncolo frettoloso, col pacchetto rozzo e stropicciato. Solo allora ho fiutato la presenza camuffata del Mago, che se la ridacchiava sul luogo del delitto, a quattro passi da Melissa: la cartomante del quartiere Trastevere, dove Alvaro era diventato un abitudinario, per inseguire i numeri al lotto, le fortune, le donne, le pieghe oscure del futuro, sempre incerto e imprevedibile. 
Proprio quel giorno, Io ho intuito che solo il Mago poteva avere rubato la coppa, per costringere tutti a correre dietro a una marachella. 
Così, senza informare nessuno dei miei sospetti, a sorpresa, mi sono presentato nella sua dimora, dove ama collezionare passatempi e giochi e coltiva i suoi trastulli d’eterno ragazzo. 
Chi va a trovarlo, sa già che non può sottrarsi al rituale  ludico che il Mago impone all’ospite.  
Lui, cordiale e felice d’incontrare un compagno con cui divertirsi, subito mi ha sollecitato a intraprendere la consueta sfida. 
“Scegli pure il tuo gioco preferito.” 
“Rubamazzo.” 
Allora mi ha guardato sorpreso, per avergli proposto un gioco facile, dove conta soprattutto la fortuna e assai poco l’abilità, anche se bisogna ricordarsi tutte le prese e tenere, per ultima, la carta capace d’arraffare l’intero mazzo. 
Con calma ha sottoposto alla mia attenzione una sfilza di carte: dalle francesi, alle napoletane; ma io le ho ricusate tutte e chiesto di giocare con i Tarocchi. 
Si è messo a ridere, ma senza volere essere offensivo. Molto meravigliato, mi ha risposto che i Tarocchi appartengono all’arte della divinazione e che non potevano essere impelagati in un gioco elementare, che lui, in cuor suo, giudicava plebeo, anche se, per rispetto, non ha esternato questo suo sentimento. 
“Ascolta Mago: il mio passatempo preferito è la lettura. Ho divorato un saggio molto istruttivo di un logico matematico inglese, ma anche collezionista e studioso autorevole di Tarocchi. (8) In tempi poco inclini a valorizzare il vero, ha documentato che originariamente il mazzo di settantotto carte serviva per apparecchiare un tressette atipico, con ventidue trionfi, o jolly: un gioco insuperabile e ingegnoso, partorito nel paese che ci ha dato i natali e che bazzichiamo più volentieri, dove abbiamo provocato più danni che benefici.” 
“Confesso amico: solo per gioco apparecchio qualche scherzo ogni tanto.” 
“Sono venuto a sapere di una certa coppa, che stava in vetrina con quel libro piccino dentro. Tu l’hai messa sul tavolo della cartomante, servendoti di qualche larva accondiscendente. Poi è finita tra le mani di un ingenuo, a cui hai fatto venire le traveggole e la tremarella.” 
“Certo ho voluto montare una minchiata cosmica, per maravigliare tutti.” 
Allora gli ho sorriso benevolmente e in modo assolutorio. 
“Almeno così potrebbe vociferarsi in giro. Tuttavia non desidero assolutamente alimentare dei sospetti e anzi voglio spezzarli sul nascere. La coppa, carpita da un ladro gentiluomo, è stata riconsegnata al legittimo possessore. Il furfante è stato premiato con una ricompensa sproporzionata, che ne farà per sempre un altro fortunato con pochi meriti.” 
Dopo la mia ramanzina, il Mago comunque ha accettato la sfida col mazzo di Tarocchi fuori ordinanza, restio a una tenzone non programmata che l’ha messo in apprensione, anche se non voleva esternarla e si mostrava abbastanza tranquillo ma rassegnato. 
Ed Io, il Due a Coppe, mi sono tolto la soddisfazione di celebrare la mia prima vittoria, che per il Mago è stata la prima sconfitta, nella sua lunga carriera di giocatore incallito. 
Credeva di spuntarla, tuttavia durante la partita mi è parso anche alquanto demotivato e demoralizzato, per avergli rimproverato la sua malefatta. L’ho visto giocare quasi preoccupato, distratto da una situazione sfuggita al suo proverbiale controllo. 
Forse, stanco del suo lungo e invidiabile primato, ha voluto dare un segno di tangibile resa e si è lasciato battere in una sfida piuttosto elementare per le sue grandi abilità dimostrate finora. 
Nel salutarmi, nell’atto di toglierlo via, ha movimentato l’ampio cappello di velluto rosso, bordato di zibellino bianco, e ha disegnato nell’aria il simbolo dell’infinito matematico. 
Voleva forse così dileguarsi nei Numeri e sentirsi più aereo, quasi assolto. 
E l’ho visto sparire alla mia vista, per confondersi proprio con la carta del Mago, l’ultima che aveva giocato. 
La mattina era dorata, quasi splendente. 
Gli uccelli non cinguettavano, quasi cantavano. 
Se raffrontato al giorno prima, il Mondo sembrava un poco migliore. 
Scampato alla gogna del Poderoso Signore Cosmico, presto potrò tornare, in volontario esilio, a calpestare quei lidi sereni dove mi sono rincantucciato. 
Nel congedarmi dalla diletta Letizia, voglio dedicarle una mia lirica, per dimostrarle tutto il mio amore. 
 
L’esile lillà del tuo giardino
riposa

nel profumo buono del mio diario
ed ogni giorno mi sospinge

tra le braccia della tua giovinezza,
così posso dire d’averti accanto,
sempre.
 
 CAPITOLO 6 
 
Postfazione 
 
In cauda venenum, o dulcis in fundo
 
Scelga il lettore, quale espressione si addice meglio per sigillare la nostra storia. Entrambe le locuzioni, anche se apparentemente diverse e contraddittorie, esprimono la medesima sostanza. Secondo i latini, al termine d’ogni discorso, o situazione, emerge tutto il peggio, che prima restava mascherato dalle belle parole iniziali. Anche dulcis in fundo, in modo sottile e ambiguo, annuncia sgradite sorprese. Comunque sia, alla fine viene sempre il bello! 
Fantomatici Arcani lestofanti bazzicano il dolce paese, ma anche la nostra coscienza. Una censura inconscia impedisce di rispondere ai grandi quesiti esistenziali. Il popolo deve restare per sempre all’oscuro della verità. I mezzi di comunicazione di massa distraggono e annichiliscono la coscienza ogni volta che essa risorge e s’interroga. 
Alla fine d’ogni ricerca filosofica, l’oblio tutti confonde. 
 
 CAPITOLO 7  
 
Noticine 
 
(1) Mentre attraversa in treno la Maremma Toscana, il vate Carducci riabbraccia i dolci luoghi e rievoca i dolci ricordi dell’infanzia. L’eroico furore del poeta risorgimentale trova una sua quiete interiore nella poetica del fanciullino candido e innocente. 
Dolce è uno dei vocaboli più antichi della letteratura italiana, risale al 1250, deriva dal provenzale dulz e dal latino dulcis. L’ha usato Dante nell’Inferno, chiamando Virgilio, ’l dolce duca. Foscolo l’ha immortalato nei ‘Sepolcri’: ‘né da te, dolce amico, udrò più il verso/ né la mesta armonia che lo governa’. Il Petrarca reiteratamente l’ha adoperato, in forma avverbiale, nei versi ‘chi non sa come dolce ella sospira / e come dolce parla, e dolce ride’. Laura nel Canzoniere fu appellata dal poeta di Arquà ‘dolce nemica’. Carducci, in linea con la grande tradizione letteraria, ha pensato di accostarlo a paese nella lirica Traversando la Maremma toscana
Il vocabolo attualmente ha perso alquanto il suo fascino originario. Spesso lo incontriamo in espressioni d’ambito gastronomico: sapore dolce; un buon dolce; dolce di frutta.  
Dolce possiede un suono ricco e soave, dalle sfumature intensissime che trasmettono piacevolezza festosa al palato, alla mente, al cuore. 
 
(2) Il 22 maggio è il giorno in cui l’energia sprigionata dagli Arcani maggiori è massima, per via della cabala e del quinto mese, considerato come l’elemento dinamico dell’intero sistema dei Tarocchi, giacché il numero 5 mette in movimento i 4 elementi fondamentali della vita, visualizzati nella loro interazione di segno contrario, proprio dal numero 22 .
 
(3) Parva sed apta mihi. Queste le parole fatte incidere dall’Ariosto sulla sua abitazione. Piccola ma adatta a me. 
 
(4) Nei Tarocchi, la carta dell’Imperatore è il Trionfo contrassegnato dal Numero quattro. 
 
(5) Libretto di Franco Maria Piave. Opera lirica: La Traviatadi Giuseppe Verdi. 
 
(6) Post prandium, lento pede deambulare decet. Dopo pranzo, è abitudine preferibile camminare piano. Norma salutare, che sarebbe sempre bene rispettare, per digerire senza problemi.  
 
(7) Per questa battuta, rielaborata e riadattata alle esigenze della storia, in parte ci siamo ispirati ad un fumetto reale, pubblicato in cartaceo nel 1982 ed oggi visibile gratuitamente in formato digitale: Martin Mistère n°1 della Sergio Bonelli Editore 2012, pagine 88-89. 
 
(8) Il riferimento al filosofo matematico non è mero frutto dell’immaginazione dell’autore. Il lettore curioso può leggere il saggio di Michael Dummett, Il Mondo e l’Angelo, I Tarocchi e la loro storia, pubblicato dalla casa editrice Bibliopolis. 
 
 
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Le foto digitali del testo e della copertina sono state realizzate dall’autore.
 

Biografia e opere
Alessandro Scalzaferri, nato a Roma, 
laureato in Filosofia, poeta, studioso dei Tarocchi. 
Scrittore artigiano indipendente. 
Autore di un ciclo di opere ispirate alle carte della divinazione:
 
-      Genesi dei Trionfi, poemetto
-      Una combriccola di Arcani lestofanti ha messo a soqquadro il dolce paese, novella
-      Discorso sopra la natura e l’origine dei Tarocchi 
alla luce della filosofia dei numeri, trattato
-      L’Uomo dei Tarocchi - ANNO DOMINI MCCXXI TARO FECIT, romanzo
-      Le voci dei Tarocchi, romanzo teatrale
-      Interviste ai Tarocchi,  racconto


Email di contatto: ledoslerris@gmail.com



 

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