L’Uomo dei Tarocchi A.D. MCCXXI TARO FECIT - romanzo di Alessandro Scalzaferri


 
 

Alessandro Scalzaferri

 

 

 

 

L’Uomo dei Tarocchi

 

A.D. MCCXXI TARO FECIT

 

 

 

 

 

  

 

 

‘L’anima nasce vecchia ma ringiovanisce:

questo fa della vita una commedia.

Il corpo nasce giovane ma invecchia:

questo fa della vita una tragedia.’

Oscar Wilde

 

 

 

 

 

 

Presentazione

    

Un antico tavolo ottagonale, in possesso di una famosa cartomante, catalizza l’attenzione e la meraviglia di tutti, sprigiona  poteri magici e costituisce il simbolo chiave che segna l’intero percorso narrativo. Alla luce del perfetto equilibrio sintetizzato nell’ottagono, la cartomante non solo interpreta le varie combinazioni di carte, ma riesce anche ad ascoltare le voci dei Tarocchi che di tanto in tanto si affacciano per curiosare. I frequentatori abituali, attoniti, non incontrano solamente delle risposte, ma vengono catapultati nella dimensione degli Arcani Maggiori. Il Folle, l’Eremita, la Papessa, il Diavolo, l’Imperatore e il Gerofante giocheranno un ruolo fondamentale nella vicenda che ruota attorno all’artefice dei Tarocchi, venuti alla luce nell’A.D. MCCXXI, a Roma, in circostanze misteriose.

 

 

 

 

Prefazione e tabelle

 

Al lettore rammentiamo che il mazzo di Tarocchi si compone di 78 carte: 22 sono numerate e dette Arcani maggiori, o Trionfi; 56 sono gli Arcani minori: suddivisi in 4 semi, ciascuno con 14 carte: bastoni, danari, spade e coppe. I Trionfi, ancor oggi, sono contrassegnati con i numeri romani che compaiono nella tabella. Nel racconto, per praticità, abbiamo usato la numerazione araba. Il termine più noto e popolare, Tarocchi, dal suono familiare e quasi plebeo, indica genericamente l’insieme delle carte con le quali normalmente si predice il futuro e si leggono gli intrecci del cuore umano. I Trionfi, le ventidue figure numerate dai tratti aristocratici, rappresentano degli archetipi, dei simboli, riconducibili a un sistema d’idee particolarmente complesso, con un suo contenuto cabalistico e filosofico. Il vocabolo Arcano nella narrazione viene usato per indicare il prodigio di entità, dai contorni misteriosi e magici, che prendono vita e interagiscono con gli altri personaggi. Al quinto Trionfo di solito viene attribuito il nome di Papa. Si è preferito usare il termine gerofante: il sommo sacerdote che interloquiva con il sacro, secondo la liturgia degli antichi Greci. Per facilitare il lettore che non ha dimestichezza con i Tarocchi, mostriamo la prima tabella dei Trionfi e dei numeri corrispondenti. La seconda tabella (stilata dalla cartomante) indica le possibili corrispondenze tra lettere dell’alfabeto, Numeri e Trionfi.

 

 

 

 

 

Prima tabella: 

Trionfi                      numeri

 

Folle                                   0

Mago                                  I

Papessa                             II

Imperatrice                     III

Imperatore                      IV

Gerofante                         V

Innamorato                     VI

Carro                              VII

Giustizia                         VIII

Eremita                            IX

Ruota della Fortuna        X

Forza                                XI

Appeso                             XII

Morte                              XIII

Temperanza                    XIV

Diavolo                            XV

Torre                               XVI

Stelle                               XVII

Luna                              XVIII

Sole                                  XIX

Giudizio                           XX

Mondo                            XXI

 

 

Seconda tabella: 

lettere        numeri           Trionfi

 

a                     1                     Mago

b                     2                   Papessa

c                     3                Imperatrice

d                     4                 Imperatore

e                      5                 Gerofante

f                      6               Innamorato

g, j                  7                  Carro

h, k                 8                 Giustizia

i, y                  9                  Eremita

l                    10           Ruota Fortuna

m                  11                   Forza

n                   12                 Appeso

o                   13                  Morte

p                   14             Temperanza

q                   15                Diavolo

r                    16                 Torre

s                    17                 Stelle

t                    18                  Luna

u, w              19                   Sole

v                   20                Giudizio

z, x               21                  Mondo

 

1

Il tavolo ottagonale della cartomante

 

Per i romani, e per coloro che vivono a Roma da un certo tempo e ne hanno subito il fascino, l’Urbe è una città unica con un fascino particolare. Alcuni dicono che una sorta d’inspiegabile corrente sotterranea si sprigiona dal suolo capitolino e avvolge un poco tutti, anche gli stranieri in visita per la prima volta. Nei vicoli stretti e sempre freschi, esalanti muffa e strani olezzi di decomposizione, la gente passa e si riconosce nelle arie degli stornelli romani ascoltati nelle osterie; guarda con nostalgia le ultime carrozzelle a cavalli che stanno sparendo. Se il mondo cambia, nella Città Eterna qualcosa resta imperituto, indistruttibile: forse l’appartenza, o la supposta diversità. 

Roma si vanta ancor oggi d’essere chiamata Caput Mundi, peccando forse d’eccessiva presunzione agli occhi del resto della nazione; anche se bisogna ammettere che lo spirito fazioso e il vanto delle trascorse glorie appartengono al patrimonio genetico delle genti italiche, tuttora protese a primeggiare più per il passato che per una virtù del presente. Forse è il retaggio d’arte e di storia a rendere gli abitanti di Roma fieri della loro città e talora tracotanti verso lo straniero, che in genere è accolto con una certa freddezza e indifferenza. Forse è una miscela d’atavica presunzione. 

Se poi non fossero i ricordi esageratamente belli e la memoria degli antichi fasti a dare un senso d’appartenenza e un pizzico di originalità alla vita; già tutti saremmo smarriti nell’ordinario e nell’inevitabile ripetizione di gesti e abitudini. Confortati dal calpestio degli antichi selciati, detti sampietrini, i romani resistono imperturbati allo smog e ai cattivi odori e ostentano quarti di nobiltà già tramontata. 

Più o meno queste erano le riflessioni di un uomo ancora giovane, rasato, ben vestito, seduto e pensoso in un autobus di linea. Durante il tragitto, nel guardarsi attorno, si era accorto di essere l’unico romano presente. Dai lineamenti e dal linguaggio, tutti i passeggeri dimostravano di provenire da altri paesi: arabi, popoli dell’est europeo, africani, orientali e qualche turista che aveva in mano la guida di Roma. Questa sua unicità un poco lo sorprendeva e lo immalinconiva alquanto; Antonio, a tratti e da tempo, provava la sensazione di sentirsi uno straniero nella città dove era nato. 

Sotto il flusso costante e inarrestabile di genti provenienti da ogni angolo del pianeta, il volto della Città Eterna é profondamente cambiato. Non tutti gli immigrati vengono accolti con indulgenza e benevolenza, ma piuttosto sono visti come intrusi, come portatori di caos e di degrado. Nonostante tutto, Roma resiste a ogni trasformazione e rimane un incomparabile crocevia di capolavori, un simbolo imperituro e inossidabile alle trasformazioni del tempo. 

Il nostalgico passeggero non spiccava per particolari qualità, piuttosto esprimeva la mentalità comune diffusa tra la gente, osservava gli eventi da spettatore, spesso taceva e ogni tanto aveva qualche felice intuizione. Per risparmiare comprava libri in strada, alla bancarella, scontati dell’ottanta per cento. Neppure gli sarebbe venuto in mente un giorno di tentare un’avventura, per uscire dalle regole stabilite e sottoscritte sempre, senza discutere. 

Antonio si alza per prenotare con il campanello la fermata di fronte all’Isola Tiberina, la cui forma leggermente a nave costringeva il fiume Tevere a dividersi in due corsi d’acqua e creava un’ansa molto caratteristica. Attraversa la piccola isola, passando per due ponti antichi e stretti. Nella mano sinistra, sudata per la tensione, stringeva un biglietto stropicciato su cui la sua unica cugina aveva annotato l’appuntamento con una famosa cartomante, che gli avrebbe letto le carte e cambiato, a suo dire, la vita.

Giunto nella stradina ubicata nel quartiere Trastevere, che nasceva proprio oltre il fiume, Antonio comincia ad andare nervosamente avanti e indietro per individuare il numero civico dove riceveva la cartomante. Pensa di avere trovato una buona ragione per desistere, ma una targa pubblicitaria su un portone richiama la sua attenzione. Si meraviglia di non averla subito notata, mentre il suo sguardo era intento a decifrare i numeri scolpiti sulle piccole lastre di marmo ferite, spaccate o rese irriconoscibili dai vandali. 

In quel vecchio e popolare rione, rinomato per la festa de’ noantri, solamente la statua del poeta dialettale Gioacchino Belli, era stata finora risparmiata dai graffiti multicolori, disseminati a tappezzare oramai quasi tutti gli angoli della città di Roma, come una specie di marchio indelebile che i nuovi barbari rinnovavano periodicamente contro ogni fresca e inutile opera di pulizia. Adesso che il suo destino è segnato, Antonio sente di non poter tornare più indietro. In barba all’italica indulgenza, accentua la propria avversione per gli anonimi untori che contrapponevano alle regole della convivenza civile un’oltraggiosa babele di disegni. Rassegnato lancia un sorriso verso la targa e varca il portone. 

Sospinto da nostalgia, in quel preciso momento, vorrebbe essere altrove, magari nella Roma ritratta da Bartolomeo Pinelli, lungi da vie degradate da sporcizia, inquinamento puzzolente e graffiti di cattivo gusto. Una moto, corazzata con altoparlanti, battenti suoni assordanti assai poco somiglianti a una musica, imbocca la viuzza e lo riporta alla realtà. 

Antonio, preda dell’ansia, temeva di non arrivare puntuale. Sua cugina Elena gli aveva preso l’appuntamento e si era raccomandata di presentarsi in anticipo. La puntualità era richiesta espressamente dalla segretaria che ogni volta pretendeva un singolare cerimoniale, a cui bisognava assoggettarsi per essere ammessi alla presenza della cartomante. A commento la diletta cugina aveva anche formulato una mezza sentenza, seguita da una raccomandazione. “I Tarocchi sono una forma di religione pagana. Per questo vanno rispettati. Dovrai lavarti le mani e toglierti anche le scarpe, in segno di rispetto.”

“Quando m’insapono chiederò d’indossare la tunica. Farò il bravo ragazzo.” Lui aveva enfatizzato e battuto le mani e lei le aveva accarezzate; e poi gli aveva affidato il biglietto, ove erano riportati tutti gli estremi dell’appuntamento, con i caratteri a stampatello per non essere fraintesi, per via della sua calligrafia così appuntita e illeggibile.

Antonio, di bell’aspetto ma dal carattere piuttosto timido, sale lentamente le scale fino al quinto piano, verso l’interno numero quindici, dove era ubicato lo studio della cartomante. Tre per pianerottolo erano gli appartamenti in quel palazzo, ristrutturato e provvisto anche d’ascensore. Il predestinato preferisce salire a piedi e fermarsi di tanto in tanto, non per riprendere fiato, ma per ripercorrere le circostanze che lo avevano portato a prendere quella decisione tormentata. Ad ogni gradino, i tentennamenti e i dubbi aumentano. Al secondo piano, pensa che forse sarebbe meglio tornare indietro. Al terzo, risolve di presentarsi per conoscere il suo futuro. Al quarto piano, vuole telefonare dal cellulare per dare una disdetta. Giunto davanti alla grande targa in ottone della cartomante improvvisamente avverte come una forza estranea che lo sospingeva e gli dava coraggio. Ogni tanto riascoltava le ferme parole di sua cugina; per abitudine dava sempre consigli gratuiti a tutti e aveva molto insistito nell’affidarsi all’intuito e all’esperienza di quella donna famosa, che con le carte faceva miracoli e aveva risolto casi a non  finire.

Nel salire le scale l’uomo decide al momento di giocare al lotto, sulla ruota di Roma, il numero 22 e il numero 15: rispettivamente il civico e l’interno. Nella discesa si propone d’annotare tutti i gradini saliti fino al piano della cartomante, per ricavarne un terzo numero e tentare di coronare quella giornata con un bel terno, che avrebbe potuto cambiare la sua vita anche economicamente.

Una giovane segretaria, piuttosto sgraziata, dal naso aquilino e i capelli in disordine, accompagnava personalmente ogni cliente: prima al lavabo per la purificazione delle mani e poi alla sala preposta alla consultazione dei Tarocchi. Antonio, tentennante e silenzioso, quasi preso per meno dalla sua guida, si toglie le scarpe e le lascia sull’apposito tappetino\. Il cerimoniale rimandava alla mente l’accesso dei fedeli in una moschea e poteva apparire esagerato, invece voleva marcare la sacralità del luogo che doveva essere calpestato con rispetto. Chi si recava da quella cartomante sapeva già in anticipo del rituale e poteva rifiutarlo, scegliendosi un altro esperto del variegato mondo divinatorio che non pretendeva nessuna formalità. 

Numerosi annunci sui piccoli quotidiani della capitale erano il segno di una professione ben remunerata. L’esoterico faceva ancora cassa; resisteva tenacemente alla moda dei cellulari, alle voci condivise dei social che avanzavano e col tempo avrebbero omologato la massa. La divinazione, la speranza di conoscere un frammento del futuro, sarebbe sopravvissuta sempre; e una nicchia di persone si sarebbe frapposta paradossalmente con la sua superstizione all’estinzione del pensiero critico. Questo era il punto di vista condiviso da molti cultori dell’esoterismo, accomunati da ipersensibilità e indifferenza verso la modernità.  

Le pareti della sala, lunga e rettangolare, dove venivano interpretati i Tarocchi, erano addobbate con pannelli che riproducevano celebri affreschi pompeiani. Un’abbondanza di colonne sparse, di diversa altezza, dimensione e materiale e dai capitelli di varia foggia, accentuava l’atmosfera classicheggiante che si respirava nell’ambiente. Tutte, tranne una, non sorreggevano nulla. Un libro, rilegato in pelle, forse simbolo del sapere inaccessibile ai profani, era poggiato sulla sola colonna di peperino con capitello dorico che ospitava un corpo fisico, somigliante a un grande attore intento a recitare in un palcoscenico vuoto. 

Le persone, entrando, avvertivano una strana sensazione di attrazione mista a smarrimento. Istintivamente erano portate a guardare in alto, ma trovavano la fuga prospettica sbarrata da un soffitto, ribassato in gesso, con motivi floreali accentuati da tenui colori pastello. Dal cielo costellato di petali, ricadevano nel soffice abbraccio dei tappeti persiani, intrisi d’aromi d’incenso, penetranti e leggermente invadenti, che ricoprivano l’intero pavimento e trasmettevano una mistura d’antico ed esotico. I più sensibili si lasciavano catturare lo sguardo dall’intrecciarsi labirintico creato dagli arabeschi, ma correvano il rischio di disperdersi in un magico caleidoscopio dove le figure mutavano di continuo. 

A un tratto, si udiva una voce invitante, prima distante e poi più prossima, alla quale non si poteva che affidare il destino. L’avventore, alquanto stordito e spaesato in quella sala singolare, istintivamente, quasi accelerando il passo, attratto dai paramenti della cartomante, dalla sua bellezza e dal suo enigmatico sorriso, cercava protezione ai piedi della dea pagana che lo attendeva tranquilla e immobile, senza dire nulla. 

Lei, di gentile aspetto, in fondo alla sala, era seduta su un’antica savonarola interamente di legno, provvista di una spalliera intagliata a mano. Di fronte le stava un tavolo d’antica fattura, ottagonale dal ripiano fino alla base, geometricamente modellato similmente a un panciuto candelabro che sorreggeva il fuoco della sapienza dei numeri. La cartomante, per darsi ancor più un tono eccentrico, assumeva vagamente la stessa postura della Papessa, presa a modello e trasfigurata da un accattivante sorriso, marcato da carnose labbra sensuali. La donna aveva scelto un nome prezioso d’origine greca e d’ispirazione mitica: Leda, composto di quattro lettere, ammaliatrici come il canto delle Sirene.

A cadenze intervallate, quasi tratta da un vento invisibile, si udiva leggera una musica rilassante. Sgorgava dal fondo della risacca del mare e si dissolveva nelle voci della natura che mescolavano sapientemente l’armonioso canto degli uccelli, lo scrosciare della pioggia e il vento tra gli alberi. La cartomante voleva al contempo fiaccare la volontà, stordire l’immaginario e predisporre al ritorno verso i primordi della natura amica. L’atmosfera aiutava non poco a ritrovare se stessi e la serenità, inoltre era di moda e piaceva a tutti, specialmente a coloro che si presentavano per la prima volta e avevano bisogno d’essere avvolti da suoni noti e rassicuranti. 

Leda disponeva le carte sopra la stella di Davide, incisa sopra un antico tavolo ottagonale, fatto adeguatamente restaurare e incontrato da un rigattiere che non aspirava e non aveva la faccia tosta di farsi passare per un antiquario. Quando era ancora in vita, il signor Peppino era considerato uno dei monumenti viventi del quartiere Trastevere e raccoglieva la roba vecchia che la gente non amava più, perché non era in grado d’apprezzarla. Il manufatto ligneo aveva completato l’arredo stravagante, ideato e ampliato nel corso degli anni, quasi parallelamente alla fama crescente che aveva accompagnato la cartomante. 

Nel sistemare le carte, la donna seguiva un criterio ben preciso, fin da quando aveva maturato la convinzione che quello era il modo ideale per leggere i Tarocchi a chi pretendeva di conoscere il proprio futuro amoroso e professionale. La prima e la sesta carta si corrispondevano su di una medesima linea, così come la seconda con la quinta e pure la terza con la quarta; mentre la settima carta era posta al centro di queste tre linee ideali, passanti attraverso la stella di Davide a sei punte. I Trionfi erano adagiati con delicato rispetto senza proferire parola, per non turbare quella che pareva una deposizione di dèmoni, in una mangiatoia, dove stava per nascere la voce dell’oracolo, scaturito dalle interazioni dei numeri.

Di solito la cartomante ascoltava le domande e le richieste più disparate. L’amore era il più questionato, subito dopo seguivano la fortuna, il futuro e il denaro. Tutti i casi presentavano un elemento in comune: spuntava sempre un nemico assai pericoloso e prossimo da sconfiggere, un odiato antagonista che si trascinava dietro tutte le energie negative possibili e propagava gli influssi nefasti attorno a sé. La gente, che si affidava all’esperienza di Leda, non si aspettava risposte complicate ma parole e indicazioni semplici.

Antonio giungeva all’appuntamento soprattutto per la pressione e lo spirito di convincimento della cugina che abitualmente si rivolgeva alla cartomante, sia perché aveva molti soldi da spendere, sia perché era molto superstiziosa e intrigante. L’uomo, mentre si avvicinava, sentiva acuirsi timidezza e imbarazzo, anche per la delicatezza dell’argomento che avrebbe affrontato. Vestiva in maniera dignitosa ma ordinaria. Le sue mani, abbastanza curate, sembravano quelle di un impiegato. 

Abituata a inquadrare il soggetto interpretando sguardo, portamento e abito, la cartomante riusciva, utilizzando altri dettagli, come il tono della voce, a vagliare la personalità nel suo complesso. Leda partiva da una posizione di vantaggio: il cliente aveva bisogno del suo aiuto ed era disposto a spendere danaro per ricevere un consiglio, un orientamento per affrontare meglio i problemi.

I Tarocchi, attesi e amati protagonisti, spalancavano squarci di vita sempre diversi. Ascoltate da Leda le voci dei Trionfi erano ricche di speranze e di suggerimenti per il futuro. Le carte parlavano per bocca della cartomante, che s’ispirava alle innumerevoli combinazioni per pronunziare oracoli e talora confezionare anche talismani su misura. La sala preposta all’interpretazione dei Tarocchi stranamente non aveva finestre, pareva un universo chiuso, enigmatico, da cui non potevi più uscire. Un lampo paglierino a tratti evidenziava una chiave d’oro, simbolo del sapere che pendeva come gemma dal collo lungo della cartomante e le dava un’aria di divinità pagana e sapiente. Leda ignorava i convenevoli abituali e salutava tutti con la medesima formula. “Diamoci del tu. E’ buona regola; aiuta a parlare. Esponi il tuo caso brevemente, senza fare tanti preamboli.”

Antonio, indifferente di fronte all’arredamento in genere, non si risparmia d’accarezzare il bordo del tavolo antico, tutto tirato a lucido. “Io non m’intendo di antiquariato. Però questa sagoma inconsueta ha una forza d’attrazione sorprendente.”

La cartomante sorride e invita l’uomo a non tergiversare sul vero problema che lo aveva spinto a prenotare quella lettura dei Tarocchi. “Ottavino diventa subito il centro dell’attenzione di tutti.” 

Ottavino?”

“Ti parrà strano, ma dopo averlo fatto restaurare, ho chiamato un prete per farlo benedire... L’abbiamo battezzato Ottavino: nome che denota anche un piccolo flauto. Gli va a pennello. Da allora sprigiona poteri che ancora mi sorprendono… Adesso con fiducia, come dinanzi ad un vero amico, cerca d’andare diritto al sodo.” 

“Ho sposato una donna possessiva. Mi soffoca, non mi lascia decidere nulla. Se almeno avessimo avuto un figlio.”

“La tua compagna è forse sterile?”

“E’ così! Abbiamo fatto tutte le indagini e tentato tutte le vie possibili. Solamente ora ci siamo messi l’animo in pace e rinunciato alla prole.”

“Allora qual’è il vero problema?”

“La sterilità purtroppo l’ha resa indifferente al rapporto sessuale. Non mi cerca mai. E’ sempre poco disponibile. Per non dire che è passiva, senza fantasia.” Antonio si blocca impacciato, per riprendere fiato e darsi coraggio ad andare avanti. “Io ardo a volte, ma lei non mi corrisponde.”

“Non essere troppo rude. Cerca dei preliminari piacevoli, che alla donna eccitano di più. Sbandierate una virilità che poi viene giù al primo intoppo.”

“Insomma il mio rapporto si è complicato. Non mi sento sicuro, non riesco a eccitarmi più, pensando alle sconfitte trascorse.”

‘Perché poi devo raccontare le mie debolezze a una sconosciuta, proprio non lo so, ma, secondo mia cugina, questa donna sa fare miracoli. Riesce a risolvere tutti i problemi sentimentali.’ 

Mentre parlava, il cuore gli batteva forte e il viso arrossiva per la vergogna.  

‘Adesso comincio anche a sudare. Finirà per accorgersi che sono nervoso’.

“Soggezione. Paura e conseguente impotenza. Si può curare.”

“Come?”

“Ho risolto dozzine di casi come il tuo e non sono rari, anzi sono più frequenti di quello che tu possa pensare.” La frase di circostanza, adatta per queste situazioni delicate, ottiene naturalmente l’effetto previsto e Antonio comincia a sentirsi a suo agio. 

“Ti manda qualcuno in particolare?”

“Oh! Dimenticavo di dirlo. Mia cugina.”

“Tua cugina?” Sorridendo un poco, la cartomante chiede lumi. “Se mi dici il suo nome, sarò in grado di ricordarmela.”

“Lei è venuta da te diverse volte, si chiama Elena. L’avrai presente, immagino”

“Certo! E’ un nome importante che non si dimentica: ha segnato la storia di un popolo ed è pieno di passione….Vediamo: il tuo nome è Antonio. Uomo esitante, dal temperamento leggermente fiacco, forse troppo abitudinario. Vedi il nome spesso condiziona la vita di una persona. E’ come un segno che la marca.”

Il cliente timidamente si limita appena a una considerazione. “Non so, forse è così.”

“Adesso ricordo. Tua cugina Elena mi ha già parlato di te e di quanto ti vuole bene.” La cartomante stava facendo domande ovvie, già sapeva come doveva affrontare il caso, proprio grazie alle confidenze ricevute.

‘L’unico uomo che non sono riuscita a portarmi a letto, è mio cugino. Si è sposato con un’intellettuale isterica e fredda. Lui è un timido. A scuola i preti l’hanno castrato.’  Elena lo aveva svelato alla cartomante, per averla come complice e Leda le aveva promesso un aiuto, nel caso suo cugino avesse deciso di affidarsi ai Tarocchi.

“Vedi Antonio, la carta che si trova sopra la prima casa, sei te, nelle vesti dell’Appeso.” L’uomo accenna una piccola smorfia, forse un segno di perplessità. “Quest’uomo, capovolto con la testa in giù, sei proprio te. Stai sacrificandoti per una donna che non ti ama più.  La carta che incontriamo invece nella seconda casa è la Temperanza: personifica tua moglie. La sua freddezza costituisce un ostacolo al raggiungimento della tua felicità. Nella terza casa sta la Papessa: ti viene in aiuto e, con la sua sapienza, t’indica la via che devi seguire.”

Nella città di Roma, dove secondo una leggenda, particolarmente accreditata negli ambienti degli occultisti, i Tarocchi prodigiosamente avevano visto la luce, la Papessa, inseguendo una fatidica premonizione, si sarebbe imbattuta in un uomo che avrebbe poi condotto al Tempio della conoscenza, per rispondere agli eterni interrogativi che la Sfinge sottopone a tutti i viandanti del sapere. Quel giorno la custode del Tempio si era concessa una vacanza e stava proprio nei pressi di Ponte Fabricio, in occasione delle sue visite periodiche nella Città Eterna. L’antico ponte portava direttamente all’Isola Tiberina e qui transitavano sempre molte persone e in quella fiumana umana poteva scattare la giusta empatia. 

Un passante anonimo stringeva un appunto, vergato dalle mani sottili della cugina che avrebbe voluto abbracciarlo e farlo suo. Stava andando da una cartomante per farsi leggere il futuro e raccontarle delle sue debolezze amorose. Non era ancora carnalmente compromesso, ma agiva come se già lo fosse. Gli oscuri intrecci degli innamoramenti incestuosi erano sempre i cammini prediletti che la Papessa inseguiva per incontrare finalmente un epigono d’Edipo, proprio là dove erano nate le carte della divinazione. 

Osservato con più attenzione, Antonio, piuttosto in stato di soggezione di fronte alla cartomante, però rivela i propri limiti. ‘Non ha sufficiente profondità intellettuale. Troppo fragile perché incarni la tempra d’Edipo e ne ripeta le imprese egregie.’ La sentenza della Papessa è lapidaria e categorica. 

Aveva prestato una certa attenzione per Antonio, quando ne aveva percepiti i lacci incestuosi che stavano per avvincerlo, ma rimane ora indifferente alle pulsioni di un uomo comune e preferisce confonderlo tra gli impietosi granelli di sabbia, racchiusi nella clessidra che scandiva il tempo stabilito per la consultazione. A un tratto, potendo sembrare anche lunatica a uno spettatore disattento, non prova più attrazione verso quella consultazione dei Tarocchi che vede per protagonista una persona timida e impacciata. Si trattiene un poco nell’ambiente dove la cartomante aveva messo in scena una pantomima che ricalcava i tratti essenziali del Trionfo Numero 2. Un grande libro rilegato in pelle, simbolo sapienziale, adagiato su un leggio con irriverente provocazione, e la chiave d’oro che spalanca le porte del Tempio della conoscenza, in bella mostra sul collo di Leda, irritano ancor di più la suscettibilità della Papessa, che lascia la sala con il fermo proposito di non mettervi più piede, mentre la cartomante si apprestava a completare la lettura delle carte.

 

2

Il Trionfo numero Zero

  

Di tanto in tanto, in quella sala forse unica nel suo genere, si manifestavano, forse per magia, alcuni dei Trionfi evocati, come se fossero il segno tangibile di un sopramondo benevolo e attento verso le umane sorti. Questa almeno era l’impressione della cartomante. Aveva fatto l’abitudine alle loro visite e non si meravigliava più, ma semplicemente si era uniformata ai fatti sorprendenti che una professione divinatoria attirava su di sé, un poco come i fulmini durante un temporale estivo.

Leda, mentre stava analizzando la carta della terza casa, avverte la presenza discreta della custode del Tempio della conoscenza. Sbalordita, vorrebbe darle modo di manifestarsi più apertamente, ma non riesce ad ascoltare nessuna nitida voce.  

“Nella quarta casa ci imbattiamo nella Luna. L’astro amplifica le paure quotidiane, ascolta la coscienza insicura e incerta di fronte agli ostacoli che potrai incontrare. Devi essere più forte e imparare a resisterle.  Nella quinta casa il Mago personifica la sapienza primordiale, sa come manipolare le carte, come fare incantamenti.” Leda a questo punto, faceva una pausa naturale più lunga del solito. Abitualmente, dopo la quinta carta, osservava con una certa attenzione le prevedibili reazioni del cliente che spesso guardava i Tarocchi con sorpresa e curiosità. 

Antonio, tutto immerso nella lettura delle carte, dimostrava dall’atteggiamento di dipendere molto dalle parole della cartomante verso la quale adesso nutriva più fiducia, nonostante lo scetticismo dimostrato all’inizio. Era di carattere debole e facilmente influenzabile e Leda sapeva che ne poteva approfittare per orientarlo verso le morbose attenzioni della cugina, alle quali si era sempre sottratto, in nome di rigidi comandamenti morali introiettati dalla sua educazione religiosa.

“L’Innamorato sta nella sua posizione naturale: la sesta. Denota imbarazzo, il difficile cammino nella scelta dell’amore. Tu non ami veramente la donna che ti sta accanto. Sei più attratto da un'altra figura femminile, amorevole e familiare, anche se non lo vuoi ammettere.  Nella settima casa ti viene incontro il Folle: lo Zero, scandalo vivente che atterrisce solo chi si lascia intimorire.”

Queste ultime parole riecheggiano nella mente di Antonio più volte, quasi fossero ripetute dalla cartomante, come una specie di nenia suadente per farlo rilassare. Il Folle: lo Zero, scandalo vivente che atterrisce solo chi si lascia intimorire. L’eco cresce a dismisura, forse perché sorretto da un potere magico, al punto da alterare la percezione sensoriale di Antonio che vedeva le carte per la prima volta nella sua vita e ne stava subendo tutto il fascino di cui erano cariche. 

Sì: l’Uomo appeso all’albero era proprio lui.  E la Temperanza, così fredda e indifferente, era sua moglie. E le parole della cartomante sembravano quelle della Papessa. E in una delle Donzelle poste di fronte all’Innamorato quasi intravedeva il viso di Elena, di cui sempre aveva subito il fascino e che, senza volerlo ammettere, amava più di ogni altra donna. Tuttavia Antonio questo sentimento l’aveva sempre rigettato e sospinto nel fondo della coscienza, riportandolo all’affetto tra consanguinei, anche se era molto di più. Stranamente adesso è deciso a cambiare. Sente che ora saprebbe affrontare le malie e i sortilegi della Luna, forse appropriandosi dei poteri del Mago. Quelle carte sembravano fatte su misura per lui. La cartomante le aveva mescolate otto volte e lui stesso aveva diviso il mazzo a metà. L’ultima carta, quella del Folle, fin dall’inizio però l’aveva colpito più delle altre. Al punto che aveva domandato cosa stesse facendo, ma poi si era smarrito e non era stato più dietro alle spiegazioni della donna.  

A un certo momento gli sembra che la carta prenda vita. Si vede accanto al cane che tentava di mordere la caviglia del Folle. E’ in grado di percepire i suoi movimenti e riesce quasi a toccarlo. L’atmosfera della stanza frattanto era alquanto cambiata, forse il profumo dell’incenso aveva contribuito a stordire Antonio, trascinandolo nella dimensione degli Arcani. 

Il Folle dava l’impressione di non sapere dove fosse diretto. Procedeva alla cieca senza curarsi degli ostacoli. Avanzava verso un precipizio, ma non guardava innanzi a sé, bensì volgeva lo sguardo indietro. Vestito in maniera appariscente, con un abito logoro e colorito, assomigliava a un pagliaccio di corte, o a quei giullari canterini che, nel medioevo, allietavano le piazze e spezzavano la monotonia delle giornate con lazzi divertenti, incantando i bambini con imitazioni e acrobazie. Un cane, forse randagio, o forse il suo abituale compagno di viaggio, gli stava mordicchiando il polpaccio che un poco sanguinava. L’animale aveva fiutato l’esistenza del baratro e intuito l’insidia nascosta. Certamente voleva avvertire il Folle del pericolo imminente che aveva dinanzi e di cui non pareva rendersi conto, perché dava la netta sensazione d’essere fuori dalla realtà. Allucinato e perso chissà dietro a quale ricordo, o a quale improvvisa visione, il Folle non si curava del suo cane, né cercava d’allontanarlo da sé col nodoso bastone, su cui aveva appeso un fagotto che doveva contenere tutti i suoi averi. Per cercare di disturbare almeno un poco l’animale, non sfruttava neppure il lungo e più fino bastone, nell’altra mano e del tutto inutile, giacché non costituiva un punto d’appoggio e non serviva per sondare il terreno che stava calpestando. Forse un tempo era stato ricco, o era appartenuto al ceto nobiliare. Indossava una cintura d’oro che contraddiceva quella sua aria di stravagante vagabondo, allontanato dal convivere civile per il suo portamento insano. 

Antonio, per tentare di fermarlo nel suo cieco andare verso il pericolo, gli balza dinanzi con un improvviso scatto. Chiunque avrebbe avuto un sussulto di spavento per la sorpresa, ma, al contrario il Folle, non pare per nulla meravigliato. Prende a ridere in faccia ad Antonio e, dimostrando di possedere prontezza di riflessi, ed anche una sottile ironia, comincia a roteare il suo fagotto, quasi a volere difendersi dalla presenza inattesa che gli sbarrava il cammino. Poi, sempre ridendo, gli si accosta per evidenziare i dettagli del suo nodoso bastone: fatto apposta per scimmiottare la bacchetta del Mago, al posto dei numeri d’oro, era marchiato da alcuni cerchi di varia grandezza che assomigliavano allo zero ripetuto dieci volte ed erano poggiati sui nodi del legno, come i cerchi sulla ruota di un carro. 

Divertito il Folle, mostra gli zeri ad Antonio, quasi fossero pietre preziose incastonate nel più puro dei metalli. “Di solito nessuno li osserva, ma ci sono: reali come dei veri numeri. Si chiamano come me. Sono il mio biglietto da visita.” Poi mette il suo bastone irregolare in mano ad Antonio, che lo prende con una certa riluttanza, perché, dalla faccia fatta dal Folle, si aspettava di ricevere delle sonore randellate, come ricompensa per avergli salvato la vita, bloccandolo prima di cadere nel precipizio. “Nessuno riesce mai a valutare le mie reazioni imprevedibili. Per questo sono tenuto lontano da tutti. Osservano precise regole di vita. E si trovano bene solo con quelli come loro. Qualcuno mi chiama idiota; qualche altro folle; altri usano termini più dotti: come alienato o paranoico. Alla fine sono parole diverse che esprimono il medesimo concetto: un essere scandaloso per la loro esistenza monotona e programmata. In compenso possiedo molta più libertà di tutti: posso permettermi il lusso di ridere in faccia a chiunque e fare le affermazioni più assurde che nessuno potrebbe sostenere.” Detto questo, con un dito nella polvere, traccia un cerchio perfetto che pareva disegnato dalla mano ferma di un provetto architetto, abituato a tale pratica in virtù della sua nobile professione. “Questo è il segno che più ci rappresenta. Il cerchio è l’unico tratto geometrico che riflette la forma del sole e pertanto non è un prodotto della cultura. Il cerchio delimita uno spazio chiuso, all’interno del quale sta il nulla: l’origine misteriosa del tutto che ci circonda.  Il nulla è l’inizio e la fine, dove tutto ritorna. Se ben osservi, ogni punto della circonferenza ha la medesima distanza dal centro ideale, il quale non si vede, perché deve essere immaginato. Lo stesso accade a tutto ciò che esiste. Proviene dal medesimo centro-origine e dunque è strutturato nel medesimo modo. Noi siamo tanti punti, uguali e differenti, disegnati sopra una circonferenza. Attorno a noi c’è uno spazio immenso: lo stesso racchiuso qui dentro, che solo apparentemente è delimitato, perché, nel percorrerlo veramente tutto, ci si smarrisce.”

Il Folle parlava seduto in terra, osservando il cerchio. Poi si alza e continua ad andare verso il precipizio che gli stava di fronte. “Avevi paura, amico, che perdessi la vita cadendo nell’abisso. E’ solo un lato apparente della questione. L’abisso anche ha paura che qualcuno possa entrarvi e capire com’è fatto veramente. Non ci possiamo fermare, neppure di fronte all’abisso, anche se paralizzati dalla paura. Bisogna continuare a osare, a fare nuove esperienze, senza tentennamenti di sorta; addio.” Dopo il saluto, il Folle fa da parte Antonio e punta, come se niente fosse, verso il precipizio. Poi, con il suo fedele cane, stretto con i denti ai suoi polpacci insanguinati, precipita senza lanciare nemmeno un grido.

Non ci possiamo fermare, neppure di fronte all’abisso, anche se paralizzati dalla paura. Queste particolari parole del Folle hanno il potere d’attrarre Antonio verso il pericolo incombente sotto di lui. Non esita di fronte al baratro che gli stava davanti e scivola nel vuoto, con la levità della sabbia quando cade sul fondo della clessidra.

Di fronte alla cartomante in quel momento Antonio sviene e immediatamente riceve il soccorso dalla donna che teme sia morto di crepacuore. La caduta non pareva avere mai fine. Antonio pensava d’andare verso l’abisso dimostrando di possedere un grande coraggio. Poi si sente accolto tra le braccia amorevoli di sua cugina, in un grande letto. La sensazione rassicurante presto svanisce e scopre la presenza della cartomante, vicina e visibilmente preoccupata. “Vedo che ti stai riprendendo. Mi sono presa uno spavento!”

“Sto bene. Devo essermi lasciato coinvolgere troppo. Sono uno stupido. Mi dispiace.”

“A volte le carte fanno brutti scherzi, spesso trasmettono sensazioni strane e imprevedibili. Sono preoccupata per te. Forse è meglio chiamare un dottore. O forse un’ambulanza.”

“No, basta un poco d’acqua. Adesso già mi sento meglio. E’ stata solo l’emozione di vedere il Folle. Forse ho avuto un’allucinazione, ma è andata bene anche così.”

“Allora pensi che questa consultazione troppo coinvolgente sia servita a qualcosa?”

“Certamente è servita a darmi consapevolezza. A trasmettermi quel coraggio che mi mancava e ho scoperto di avere.”

“Spero vorrai tornare a trovarmi un'altra volta e parleremo ancora: te ed io. Sono sicura che i tuoi rapporti amorosi diverranno più soddisfacenti. L’unica persona in grado d’aiutarti completamente è proprio Elena. Questo lo hai già capito da solo.”

Antonio si solleva lentamente dal letto su cui era stato adagiato, dopo si siede e si alza. Stava cercando di capire se l’incubo fosse veramente finito. Aveva ancora dentro quella sensazione di cadere verso l’abisso, in modo soave, indolore. Prima di prendere congedo dalla cartomante, vorrebbe porle una domanda abbastanza ovvia, perché sentiva il bisogno di dare una spiegazione a quello che era successo. ‘Ho avuto un contatto ravvicinato con il Folle. Mi ha parlato. Mi ha sfidato a conoscere l’abisso. Tutto ciò ha un senso, è credibile?’ Invece non domanda nulla, per vergogna e per non essere deriso. 

Leda comunque intende il suo disagio; pare sapesse ascoltare i pensieri e gli imbarazzi delle persone. La cartomante aveva divorato centinaia di libri d’alchimia, magia, spiritismo, psicologia comportamentale. Voleva fare colpo sul nuovo cliente e sfoggiare le sue competenze che riservava per i clienti più colti e sensibili. “Un noto principio alchemico insegna che il simile cura il simile; per estensione possiamo anche supporre che il simile ascolta il simile. Il fenomeno psicologico della simpatia scaturisce dal fatto che due persone avvertono d’avere elementi in comune, anche se non si sono mai parlate e non si conoscono a fondo. Vi sono dei flussi energetici che attraversano le persone; essi possono essere assimilati a una specie di magnetismo. Sostanzialmente il meccanismo di evocazione di un Arcano è basato su una specie di flusso magico che investe l’icona, attivata e caricata di significato dal cartomante che la maneggia e dal cliente che la osserva. Oggi insieme abbiamo avuto la capacità di richiamare l’attenzione del Folle il quale, incuriosito, ti ha risposto nella sua maniera. Quando gli Arcani vengono così, non è mai un caso fortuito. Essi intendono comunicarci qualcosa d’importante e spesso riescono a cambiare la nostra vita.”

Antonio ascoltava le spiegazioni rassicuranti della cartomante, però non riusciva ad afferrarle pienamente. Esse davano l’impressione di scivolare via, lentamente, nell’abisso. Si ritrova sull’uscio quasi senza accorgersene e qui prende congedo dalla cartomante, baciandola in segno di riconoscenza. Neppure avverte d’essere osservato da occhi femminili e di risvegliare con il suo sudore gli ormoni della concupiscenza di un’abituale cliente che aspettava d’essere ricevuta. Non gli importava d’investigare se l’incredibile avventura era stata opera della magia sprigionata da alcune carte, o se invece era stata determinata dalla presenza singolare del Folle, o immaginata dalla sua fantasia, alterata in quella fatale circostanza.

Dopo la consultazione dei Tarocchi, Antonio si sente rigenerato, più sicuro di sé, svincolato dalla presenza soffocante della moglie, incuriosito e disposto ad assecondare la passione incestuosa della cugina. Nel discendere, percorre due rampe di scale distrattamente e non pensa di contare i gradini, come si era prefissato, ma poi scatta la memoria e torna di nuovo sul pianerottolo della cartomante, per annotarli tutti: dal primo all’ultimo. Erano dieci per ogni rampa. Dieci anche erano stati gli zeri che il Folle gli aveva mostrato da vicino.

Alla fine decide di giocare al lotto il terno: 22, 15 e 10. Su una bancarella del centro aveva da pochi giorni comprato un libricino a buon mercato che insegnava alla gente come ricavare dal quotidiano numeri per vincere. Stava mettendo a frutto quelle lezioni di sorte, messe in vendita per cinque euro. 

Antonio si ferma alla prima tabaccheria dietro l’angolo per puntare dieci euro sulla ruota di Roma. Ripete la stessa giocata dieci volte e ciò sorprende molto l’anziana concessionaria del banco del lotto che tra sé sorride. “Ventidue: secondo la smorfia napoletana è o pazzo, quindici o guaglione e dieci e fasule. O guaglione pazzariello tira in aria fagioli e l’ingozza, uno dietro l’altro. Una esibizione ricorrente, almeno racconta la gente.” Ricamava i numeri quella donna da anni ed osservava nel viso della gente la stessa speranza di una giocata fortunata.

“Non lo sapevo. Il mio caso è diverso. Una cartomante ha evocato il Folle. Lui mostrava e accarezzava dieci zeri, che poi, a pensarci bene, assomigliano tanto a dei fagioli, quando riesci a farli stare diritti in piedi.”

“Allora, figlio mio, se si tratta di carte, tentare la sorte è d’obbligo!” Cesarina quel viso onesto del giovane uomo avrebbe voluto rivederlo (sicura che l’avrebbe benedetta e ripagata generosamente) e potere dire che il suo banco lotto aveva ospitato una giocata straordinaria: la più cospicua da quando era stata aperta la ricevitoria che risaliva addirittura al 1850; quando ancora esisteva lo Stato della Chiesa. 

Sapeva Antonio che, in caso di vittoria, grazie a quattrocentoventicinquemila euro, avrebbe eternato quella strana giornata. Sentiva in sé tanto ottimismo sconosciuto; rivitalizzato forse dalla forza misteriosa che l’aveva sospinto e convinto a superare i tentennamenti, a decidersi a entrare nello studio della cartomante e lasciarsi andare verso l’abisso. Poteva essere quella la svolta improvvisa della sua esistenza, monotona, programmata, povera d’emozioni e senza molte attrattive.

 

3

Dissolve …….. coagula

 

Praticando la cartomanzia, Leda aveva sviluppato la capacità di cogliere al volo lo stato d’animo delle persone che ricorrevano al conforto della sua parola. Osservava la postura, il modo di presentarsi e studiava il timbro della voce. Da questi fattori, oltre ai lineamenti, riusciva a capire se si trattava di un soggetto nervoso e particolarmente irritabile, o al contrario di un carattere introverso e melanconico; se aveva a che fare con uno sprovveduto, o con un individuo di carattere che sapeva il fatto suo e non era disposto ad accettare tanto facilmente la solita solfa di luoghi comuni. 

L’arredamento della sala, la musica, i tappeti e gli aromi d’incenso facevano parte della messa in scena che era la stessa per tutti, ma determinava su ciascuno un effetto particolare, in base all’emotività e alla sensibilità. Alcuni restavano basiti, altri inizialmente erano alquanto diffidenti; ma tutti, prima o poi, si sentivano coinvolti e avvertivano d’essere in un punto speciale del globo, dove non erano solamente le carte e l’esperienza a parlare. In modo sottile, indolore, le voci occulte dei Tarocchi si manifestavano nell’inconscio degli avventori che trasfigurati si sentivano trasportati nella dimensione dell’impossibile e diventavano protagonisti di un momento eccezionale, che forse non si sarebbe mai ripetuto, che nessuno avrebbe osato raccontare nemmeno in confessione, anzi quegli attimi sarebbero rimasti impressi nella memoria per sempre: come un segno ricevuto, o per la benevolenza di misericordiosi angeli di passaggio, o trasmessi da dèmoni per fare trionfare la malvagità.

La cartomante collezionava, in bella mostra, in una teca sistemata accanto al tavolo, diverse versioni dei Tarocchi, da quelle classiche, a quelle più recenti, tutte esibite nel loro cofanetto. L’originale esposizione dava un tocco di classe al suo prestigio di giorno in giorno più vivo e fiorente. Nell’era del computer, con uno strumento di comunicazione globale come internet, le persone erano rimaste quella di una volta: avevano bisogno di una guida, di un punto di riferimento a cui affidarsi e soprattutto credere, perché il male d’esistere è reso più acuto dall’indifferenza della gente e dall’isolamento crescente nelle grandi città. L’insicurezza e la superstizione contribuivano inoltre a fare proliferare gli affari della cartomante, pertanto la sua agenda era sempre più fitta d’appuntamenti ravvicinati. La seduta ordinaria durava trenta minuti, scanditi da una splendida clessidra. L’onorario di cinquanta euro, né particolarmente economico, né troppo esagerato, fungeva da barriera e selezionava il flusso dei clienti. Ogni consultazione, infatti, richiedeva un impegno mentale, un’attenzione al caso in esame, una forma di coinvolgimento a volte anche intenso, che comportava un dispendio d’energie psichiche.

La maggioranza delle persone dipendeva totalmente dai pareri e consigli della cartomante; molte ne rimanevano attratte; alcune s’invaghivano di lei ed erano le più bisognose di cure e d’attenzioni. Proprio le sedute dei più intimi dovevano essere protratte e il loro costo era fissato di volta in volta. D’abitudine inseriva gli spasimanti nella seduta finale della giornata, per avere uno scampolo di tempo extra da dedicare loro senza l’assillo della successiva consultazione. Assecondava sempre l’innamoramento che lei stessa faceva sbocciare, esibendo sapienza e seduzione, abilmente dosate secondo le circostanze. Per regola evitava di lasciarsi coinvolgere troppo, anche se preferiva il corteggiamento femminile, perché più intenso e meno volubile dei maschi.

Quando riceveva un cliente, Leda aveva già di fronte la scheda compilata dalla segretaria al momento di prendere l’appuntamento, ove erano trascritti i dati più significativi: il nome, il giorno, il mese e l’anno di nascita. Questi elementi, fatti di lettere e numeri, identificavano ogni persona ed erano associati ai Trionfi corrispondenti, seguendo una tabella che la stessa cartomante aveva redatto, in virtù di letture esoteriche di cui poteva vantarsi. (1)

(1) Riprodotta nella premessa iniziale, unitamente alla prima tabella dei Trionfi e dei relativi numeri, la seconda tabella mostra le lettere dell’alfabeto e i numeri corrispondenti a cui vanno associati i Trionfi.  

Secondo l’antica cabala giudaica, a ogni lettera dell’alfabeto  corrispondeva un numero e tale procedimento serviva per ricondurre il nome di una persona a una sequenza numerica che ne esprimeva la personalità. Mentre cambiava il mazzo di carte, tra un oracolo e un altro, la cartomante leggeva sempre la scheda personale che ogni mattina la segretaria collocava nell’agenda, rispettando l’ordine d’arrivo. Antonio era stato segnalato alla cartomante dalla fedelissima Elena: donna danarosa e dipendente dalle carte. Leda, sull’agenda, aveva annotato ed evidenziato il suo caso.    

Nome: Antonio

Presentato dalla cugina Elena, cliente affezionata 

Data di nascita: 2 giugno 1970

Trionfi dominanti*: Papessa, Innamorato, Carro, Folle, Stelle 

Trionfi associati al nome**: Mago, l’Appeso, Luna, la Morte, Eremita

* La data di nascita 2/6/1970 evidenzia i numeri 2, 6, 7, 0, 17 (1+9+7=17) corrispondenti ai Trionfi, detti dominanti.

** Nella premessa iniziale consultare la seconda tabella: lettere dell’alfabeto, Numeri, Trionfi.

La cartomante mentre riceveva il penultimo cliente del giovedì, già pregustava la visita successiva: quella di Veronica, una femmina attraente, avvinta da lacci erotici che non era riuscita più a sciogliere. Leda, anche se molto scrupolosa e mai lettrice delle carte in maniera scontata, non prevedeva una seduta particolarmente coinvolgente, ma un oracolo di normale amministrazione, senza tante incognite. Quel giorno però si sbagliava. Il suo fiuto era alquanto appannato dalle distrazioni saffiche, che sempre più stava assecondando. 

Le rimane facile orientare un uomo abbastanza sensibile ma prevedibile nella direzione voluta. Il mancamento improvviso però mette la cartomante alquanto in agitazione. Se Antonio, per caso, fosse morto di crepacuore, sarebbe iniziata tutta una sfilza di grattacapi e la pubblicità negativa sui quotidiani avrebbe allontanato molti clienti. 

Istintivamente la cartomante cerca la protezione dell’Arcano  guida che invocava al suo fianco, quando si trovava in stato di necessità. Con una fresca brezza sul viso, il demone annunciava alla sua creatura l’inconfondibile presenza. Leda avvertiva un’energia possente che la invadeva e si sentiva trasfigurata, fino a diventare una bionica, una femmina più forte e determinata, con sorprendenti poteri. Da sola, la cartomante ha la forza di trascinare Antonio nella  stanza da letto attigua. 

Dopo aver annusato un infuso di cannella e ginepro macerato nell’aceto, l’uomo rinviene quasi subito. Poi Leda informa Veronica dello spiacevole ritardo, torna al capezzale del malfermo, aspetta che si riprenda completamente, si rassicura del suo stato di salute, lo rincuora, gli parla e lo congeda accompagnandolo alla porta.

“Finalmente me ne sono liberata, ma quanto mi ha fatto sudare!” La cartomante abbraccia l’irrequieta Veronica, eternamente a caccia di una sensazione forte. Con fare esperto e malizia, Leda l’aveva sospinta e iniziata nell’eden dei piaceri saffici, che puntualmente tornavano a sperimentare dopo la rituale consultazione dei Tarocchi. In fondo con quelle sedute settimanali Veronica pagava anche la sua voluttà, ma non se ne rendeva conto completamente, o forse, anche sapendolo, preferiva così. 

La cliente quel giorno aveva dovuto aspettare venti minuti per l’incidente occorso ad Antonio, di cui aveva incrociato lo sguardo, quando era uscito accompagnato sottobraccio dalla cartomante, preoccupata per il suo stato di salute. Attirata dal suo viso regolare e trasparente di persona perbene, si era lasciata trasportare dagli oscuri meccanismi della chimica delle emozioni. Lo aveva visto così provato e vulnerabile. L’odore acre e forte del sudore di maschio, che esalava dal petto villoso, lasciato scoperto dalla camicia ancora sbottonata, l’aveva eccitata. “Chi è?”

“Solamente un uomo troppo sensibile. Come pochi. E’ persino svenuto dall’emozione per la seduta! Per fortuna che non sono tutti così!”

“Cara Leda, dovrai ammettere che era un bel tipo.”

“A me non ha fatto questo effetto. L’ho trovato molle, senza carattere.”

“Sai qual è la novità? Forse ne sono invaghita.”

“Allora hai bisogno veramente di conoscere la risposta delle carte.”

“Sì, vediamo cosa dicono le carte.”

“La prima carta, l’Imperatore, riflette la tua personalità e le tue inclinazioni. E’ un segno di per sé positivo, indica che vuoi l’uomo appena incontrato ai tuoi piedi. La seconda carta, la Torre, sta vacillando sotto i colpi di un fulmine celeste. Potrebbe indicare le forze a te contrarie. La conquista dello sconosciuto potrebbe fallire. La terza carta è il Carro: un segno vittorioso viene in tuo soccorso e trae con sé un messaggio che riceverai dalla tua cartomante prediletta. La quarta carta condensa la tua passione, mostra, infatti, l’Innamorato. Sembra deciso, sa perfettamente quello che vuole, non si lascerà distrarre da nient’altro.”

L’irrequieta Veronica interrompe la cartomante con un’osservazione, perché conosceva abbastanza la fisionomia di ciascun Trionfo. “L’Innamorato solitamente è incerto. Sbaglio?” “Hai ragione, ora l’Innamorato sta nella casa numero quattro, che spetta di diritto all’Imperatore. E lui sa sempre quello che vuole…. La quinta carta, la Ruota della Fortuna, potrebbe indicare un cambiamento importante. Se è così, rischio una perdita inconsolabile, ma potrebbe anche significare che si tratta di un incontro fortuito e non destinato a cambiare le tua vita in una maniera radicale. La sesta carta è l’Appeso: presenza che comporta sofferenza e dedizione. Per un capriccio, sei disposta a sacrificare la parte migliore di te. La settima e ultima carta è la sintesi dell’intero percorso. Il Diavolo dà alimento alle tue pulsioni. Lo sento qui vicino. Oggi vuole accoglierti al suo seguito. Sei destinata a dedicargli la tua esistenza, a coronamento di ogni innamoramento presente e futuro.”

Quando il Trionfo Numero 15 cadeva nella settima casa era un chiaro segno che non ammetteva altro esito. C’era una preda destinata all’assimilazione e Leda ovviamente era ben lieta di predisporre il malcapitato al trattamento. In questo caso particolare, la sua amante Veronica aveva dato i segni di un vago innamoramento per un maschio e la cartomante, gelosa e inflessibile, si appresta a punirla; in quel frangente destina la sua prediletta alle grinfie del Diavolo, dal quale mai sarebbe riuscita a sottrarsi. Il loro vincolo stava per trasformarsi. Veronica sarebbe entrata a far parte dell’ampia schiera delle creature bioniche, che vivono in simbiosi con una forza maligna d’ordine superiore. 

La vittima predestinata un poco aveva paura. Avrebbe voluto sottrarsi alle perverse tentazioni della sua amante, ma si rendeva conto che oramai era troppo tardi per dire di no. E la voce della cartomante era tentatrice e persuasiva. “Oggi ti prometto l’orgasmo eterno. Riuscirai a trovare appagamento in ogni tipo d’innamoramento, ma dovrai inginocchiarti in segno di devozione dinanzi al Trionfo per antonomasia: il Diavolo. E diventarne serva fedele.” 

Veronica pensava che anche quel giorno non avrebbe potuto fare a meno dell’amplesso della cartomante, quando sente una mano carezzevole stringersi attorno alla sua vita, per condurla nella stanza da letto. Da diverso tempo, ma invano, cercava di sottrarsi a quel tocco ammaliatore: delicato e insieme vigoroso. Dapprima aveva voluto soddisfare la sua curiosità e provare anche le carezze e i baci di una donna, ma poi si era sentita sempre più avvolgere da una relazione che non era riuscita a interrompere, perché dominata dalla ferma e perversa volontà della sua amante. Ora doveva anche accettare un esplicito invito di diventare una creatura del Diavolo e il gioco erotico stava diventando sempre più eccitante, ma anche pericoloso. Comunque non si sarebbe sottratta proprio ora all’abbraccio di una donna che serviva il male con tanta naturalezza. Perché non assecondare colei che le avrebbe permesso di rivedere lo sconosciuto? Perché non credere alla promessa paradisiaca di spasmi di voluttà eternamente ricorrenti? Doveva solo consegnare la sua persona a una forza maligna, come accadeva nelle opere letterarie più celebri. Sarebbe stato possibile salire al ruolo delle grandi eroine e poi sprofondare dolcemente agli Inferi, in compagnia di famose peccatrici dannate. Quanto al Diavolo non aveva dimestichezza con i suoi camuffamenti, ma, se fosse stato per il raggiungimento del proprio piacere, non avrebbe esitato a servirlo. L’anima poi era una vaga entità di cui aveva sentito parlare e che vedeva con indifferenza. Fin dall’adolescenza aveva smesso di credere e aveva deciso di non frequentare più le chiese e i confessionali. Del resto Veronica non riusciva propriamente a percepire una presenza demoniaca, giacché erano cominciati i preliminari all’amplesso saffico.

In maniera invitante e perentoria, Leda si offre all’amante per essere baciata. “Inginocchiati! Bevi questo sangue! La tua prima comunione con le forze del male sia benedetta. Recita insieme con me la formula: dissolve, coagula.” Veronica stregata si sente avvinta da una forza estranea che la pervadeva. Una penetrazione sottile, indolore. Travolta dalla sensazione d’appagamento, non oppone nessuna resistenza. Insieme, in omaggio all’Arcano, scandiscono e intonano la magica litania dissolve, coagula per quindici volte. Possedute entrambe da una notte improvvisa che le avvolgeva e le trasfigurava.

Oscurato da ombre perenni, il dèmone si mostrava a tratti: la testa rossa avvinazzata, del capro dagli occhi di Fuoco; le ali violacee e fluttuanti nell’Aria pronte a spiccare il volo; le mammelle profumate di latte; le gambe ricoperte da squame verdi bagnate d’Acqua; gli zoccoli del capro, neri come il carbone della Terra. Un’escrescenza carnosa, a forma di pentagramma, sporgente dalla fronte, si animava e si spalancava come una bocca e lasciava fuoriuscire soporiferi fumi. Stava lì il centro propulsore che assimilava i sussurri spasmodici della lussuria delle due femmine.

L’Arcano del Diavolo era il più potente, s’ispirava alle proibizioni sessuali e alle naturali pulsioni e dagli umani riceveva costante alimento. Fin dalla prima evocazione, tra Leda e l’Arcano era nata una specie di patto, stilato col sangue e maturata una volontà di perseverare in progetti e alchimie criminali, nel possesso anche carnale di creature inermi e dipendenti, che affidavano loro il corpo e la mente.

Leda conosceva perfettamente l’effigie del Diavolo descritta da Oswald Wirth, proprio quando l’occultista si accinge a tratteggiare il Trionfo e disegna sulle braccia dell’idolo rispettivamente, a modo di tatuaggio, le parole  solve  e  coagula. La formula rituale dissolve, coagula, con la quale Leda tributava la propria devozione, scaturiva da una considerazione cabalistica sulla natura del Diavolo, criptato in un comune denominatore magico di quindici lettere: otto più sette. Dissolve*, ridotto in cifre, richiamava il Trionfo 14: la Temperanza. Coagula**, ridotto in cifre, equivaleva al Trionfo 9: l’Eremita. I due Trionfi sommati davano esattamente 23***, riducibile a 5: il Gerofante, che, a sua volta, riconduceva al Trionfo 15. Il Diavolo sintetizzava i poteri della Temperanza, dell’Eremita e del Gerofante. 

Secondo la cartomante le energie che alimentano il Diavolo derivano dalla natura stessa della copula sessuale. L’energia fluisce dal maschio alla femmina, quando lo zampillo spermatico feconda l’ovulo femminile. Il maschio, nel fare scorrere il fluido accumulato, a poco a poco si esaurisce: dissolve; mentre la femmina capta, solidifica tale corrente vitale nel suo ventre: coagula. E’ evidente che il Maligno sovrintende, guida e rinforza gli appetiti sessuali, al punto che nessuno dei due amanti ne esce mai soddisfatto. L’impulso è di rincorrere il piacere sessuale indefinitamente. La schiavitù agli appetiti sessuali d’altronde è eloquentemente riscontrabile nel satiro e nella ninfa, incatenati nudi a un grande anello d’oro, che sporge dall’altare dell’idolo raffigurato da Wirth. Dissolve, coagula: tale formula inoltre richiamava l’operazione energetica cara agli alchimisti che prima dissolvevano gli elementi attraverso la distillazione e poi approdavano alla sintesi definitiva della coagulazione.

Il dèmone aveva scelto il sangue della sua ospite come ostello, così poteva scorrerle dentro e provarne tutte le emozioni. Nel dare ospitalità a quel potente genio malefico, Leda aveva raggiunto gli obiettivi che da sempre si era data: lui le assicurava denaro, amori, rispetto; lei gli garantiva contatti con i soggetti più disparati. In tal modo la genia maligna poteva colpire chiunque ed espandersi a dismisura, in maniera incontrollata e senza suscitare sospetti, grazie al filtro della cartomanzia, mescolata con la sensualità. 

Solamente la presenza del Folle, sempre più frequente, metteva in crisi i rapporti tra Leda e il suo signore, che lamentava di non avere marchiato, prima e con un proprio segno inconfondibile, il tavolo della cartomante, per riservarlo tutto per sé. Abituato ad avvalersi del diritto inalienabile concesso a ogni Arcano: assistere a un oracolo, quando era presente la propria icona corrispondente; il Diavolo era abituato a sorprendere tutti con apparizioni repentine e fugaci, a frequentare i migliori cartomanti; salutando e scoreggiando di fronte ad ogni simile che incontrava nel suo forsennato e frenetico giro di caccia, in cerca di una preda da sottomettere al proprio zoccolo di capro.

*DISSOLVE: 

 d < 4 / i < 9  / s < 17 / s < 17 / 0 < 13 /l < 10 / v < 20 / e < 5 // 4 + 9 + 17 + 17 + 13 + 10 + 20 + 5 = 95 = 9 + 5 = 14

 14 / Trionfo della Temperanza

  ** COAGULA : 

c < 3 / o < 13 / a < 1 / g < 7 / u < 19 /  l < 10 / a < 1 

3 + 13 + 1 + 7 + 19 + 10 + 1 = 54 = 5 + 4 = 9

9 / Trionfo dell’Eremita

  ***  14 + 9 = 23 = 2 + 3 = 5 / Trionfo del Gerofante

5  = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 = 15 / Trionfo del  Diavolo

 

4

‘Satanasso, satanasso, vieni retro sul mio passo’

 

Da un certo tempo e con regolare frequenza, l’Arcano del Folle, ogni giovedì, secondo il calendario gregoriano in voga nella Città Eterna, si recava a fare una visita alla sua adorata cartomante. Arrivava presto, insieme ai fiori. Un bel giovane commesso arabo li consegnava puntualmente nelle mani della segretaria, Melissa, la cui mansione primaria era quella di sottoporre le ventidue rose rosse al medesimo trattamento giornaliero: un rituale che eseguiva con sadica perfidia, come se le piacesse accanirsi su quelle innocenti creature floreali, i cui petali erano strappati a uno a uno per essere adagiati in una coppa di cristallo.

Lo Zero aveva sempre assecondato la sua innata curiosità di esplorare gli intricati meandri del cuore umano. Gli oracoli in genere lo eccitavano molto, li trovava divertenti e intriganti. Rigeneravano le persone tristi e malinconiche, trasmettevano nuove energie agli insicuri e ai pavidi, risvegliavano sopite speranze nei più rassegnati, creavano legittime aspirazioni nei più dotati. Nel corso della lettura delle carte, l’Arcano complice si lasciava attrarre e si ritrovava a tu per tu con la propria icona che muta cominciava a sorridergli. Il Folle rispondeva sempre con uno sberleffo e uno strabuzzare d’occhi, ispirati ai fumetti del suo disegnatore prediletto per le venature surreali e paranoiche. Quando Jacovitti era ancora in vita, gli aveva suggerito invano d’istoriare e rappresentare la grande epopea dei Tarocchi, stimoli che la sua matita caricaturale non aveva mai preso in seria considerazione, per stare dietro al culto dei salami affettati, per incantare con le donne cannone, per ironizzare su quella variegata umanità, amplificata nei vizi e nelle virtù, che faceva tanto divertire il Folle durante le rivisitazioni delle strisce preferite. 

Lo Zero conosceva lo stivale alla perfezione. Non v’era angolo della cultura che non avesse esplorato. Non v’era evento importante a cui non avesse assistito: dai funerali dei più illustri personaggi, alle nozze di grandi e stelle dello spettacolo; dai concorsi di bellezza ai Festival della canzone. L’Italia era il luogo prediletto delle sue scampagnate, passeggiate e percorsi culturali. Nei Tarocchi, infatti, a dispetto delle misteriose origini, scorreva un indubbio sangue italiano nel quale il Folle si riconosceva. Tra le varie regioni dello stivale prediligeva la Toscana, per via della favella pungente parlata nelle contrade del bel paese là dove il sì suona. Snobbava le altre culture e le altre nazioni. Le trovava fredde, pedanti, senza fantasia, senza quel gusto e quella voglia d’inventare tipica dell’italianità, talora spocchiosa, arrogante ma inquieta e viva, al confronto dei più compassati vicini. 

Quest’affetto profondo per l’ingegnosità italica spiegava il cordone che lo legava alla prediletta cartomante. La magica Leda regnava sovrana nella dimensione del Folle, esercitava una forza attrattiva che sembrava scaturire dalla quintessenza e aveva l’autorevolezza della mitica Sfinge che interroga i viandanti, simili a piccoli fantocci, se commisurati alla gigantesca e possente Ruota della Fortuna. 

Lo Zero se ne stava stravaccato sopra il divano stile Luigi XV ad ascoltare una splendida Leda mascherata da Papessa. La donna emanava un odore inconfondibile di femmina eccitata da quella professione che le consentiva d’entrare in contatto con persone che in un modo o nell’altro dipendevano da lei. Se la rimirava il Folle con l’occhio languido dell’innamorato e, volendola fare sua, aspettava con frenesia il momento in cui Leda si concedeva qualche svago erotico, al quale assisteva e partecipava in prima persona compenetrandosi con le reazioni e i piaceri del partner di turno.

Per una frazione di tempo infinitesimale, il Folle, quel giovedì, 7 aprile dell’anno 2005, intravede una fugace apparizione della Papessa con la sua espressione arcigna e compassata e strabuzza gli occhi per le traveggole, o un’allucinazione da psicofarmaci. Non tollera quella pedante presenza che può togliere in anticipo tutto il piacere che verrà. Per fortuna l’odioso miraggio svanisce dalla sua vista e il Folle sospira di sollievo per lo scampato pericolo. Sofferma l’attenzione sulla prediletta di cui apprezzava non soltanto l’avvenenza, ma anche la competenza. In passato aveva già avuto modo di verificare la sensibilità con cui Leda interpretava le carte e valutava ogni Trionfo, di cui riusciva persino a sentire la presenza e a cui sorrideva sempre con il dovuto rispetto. La cartomante a suo giudizio esercitava la sua professione con un talento non comune ed era in grado di scandagliare il cuore delle creature con cui veniva a contatto con una lucidità e precisione, che il Folle quasi le invidiava. Per questo motivo, ogni giovedì, tornava volentieri ad ascoltare gli oracoli di Leda, non solo quando era chiamato in causa dalla propria icona, ma per il gusto di esserle accanto e di conoscere la variegata umanità che le gironzolava attorno.

Il Signor Antonio era un uomo timido e fragile e lo Zero vuole divertirsi alle sue spalle e approfittare delle sue debolezze; tuttavia gli risparmia la vita, perché i diversi gli erano simpatici ed entravano a far parte della sua personalità multiforme. Se avesse voluto, avrebbe potuto trattenerlo con sé nell’abisso, senza farlo più risalire alla vita. Anche se insicuro, l’uomo aveva avuto il coraggio d’affrontare la discesa, al contrario della stragrande maggioranza, che invece avrebbe opposto la più strenua resistenza. 

Leda, dopo aver adagiato il corpo svenuto di Antonio sul proprio letto e averlo rianimato un poco, prontamente avverte Veronica di un ritardo inatteso. “Cara, vieni qui. Un bacio delizioso. Resta e pazienta ancora un poco. Saprò farmi perdonare. Con una seduta lunga quanto vuoi. Senza dare mai un’occhiata alla clessidra.” Veronica, strofinando con frenesia la sua lingua con quella di Leda, ricambia quel bacio in bocca e sussurra un languido e sillabato “per - do- na - ta”. Il Folle, in quella circostanza erotica, riesce a sentire la lascivia trasmessa delle due amanti; sbircia i loro sguardi invitanti, la complicità delle labbra; condivide saliva e odori impercettibili, emanati dagli ormoni attivi delle due femmine, che già pregustavano ben altre e più abbondanti condivisioni d’umori e d’effluvi. Così il Folle accompagna con una certa trepidazione la ripresa di Antonio e, in vista dell’imminente copula saffica, é già tutto eccitato perché pregusta di spiare le due lesbiche fin dentro l’alcova della cartomante. 

Non sapeva ancora il Folle dei rapporti profondi che intercorrevano tra Leda e il Diavolo. Finora la cartomante non li aveva spifferati così apertamente. A Veronica però stava svelando il malefico connubio, per legarla a sé ancora più fortemente e per riuscire a strappare alla sua innamorata la promessa di un amore eterno che l’avrebbe resa schiava del Trionfo più poderoso di tutti. Secondo la prospettiva del Folle possedere un individuo era del tutto naturale e sostanziale per la sua esistenza alquanto monotona, se non avesse interagito con la concretezza del mondo degli umani. Il contatto era indispensabile e doveva essere quotidiano.  In quel frangente lo stuzzica l’idea d’assistere alla genesi portentosa del Diavolo. Non aveva mai assistito dal vivo a una manifestazione di un suo simile che si appresta a possedere una creatura umana, a farla sua nel modo che crede più opportuno. Il Folle per natura era curioso e non voleva perdere l’evento. Poco prima aveva preso e trasportato Antonio nella propria dimensione per trattenerlo e poi lasciarlo risalire lentamente dall’abisso. Questa era l’occasione per immischiarsi negli affari di un Arcano che non aveva rivali e lasciava il proprio marchio inconfondibile ovunque passasse.

Il Folle, con il dito del direttore d’orchestra, intendeva cadenzare l’avvento del prodigio diabolico, intonando il suo satanasso, satanasso, vieni retro sul mio passo. Investito dalle ombre e dalle luci del Malefico, esclama un diamine! Una fusione linguistica del genio toscano che anteponeva la parola Diavolo riducendola a dia e posponeva la parola Domine, signore Iddio, esemplificandola a mine.

Una sola regola fondamentale contrassegnava i rapporti tra gli Arcani: mai entrare in competizione con un simile, o restare passivo, o trasferirsi altrove. Per fortuna i tavoli erano migliaia e i Trionfi solamente ventidue, quindi le probabilità d’incontrarsi non erano poi molte. Ognuno aveva il suo spazio vitale, le sue influenze e in genere rispettava un tavolo, se già un altro Arcano era presente. Dato che il Diavolo era stato evocato, aveva tutto il diritto di manifestarsi e fare quello che più gli aggradava. Il Folle, non invitato a quella consultazione, sarebbe dovuto andare via, ma aveva già marcato quel territorio come proprio ed esclusivo con una specie di piccolo segnaposto vivente, che sventolava l’icona Numero Zero, a modo di bandierina, ma l’intruso la ignora, quasi non vi fosse. 

Il Folle non era uno stinco di santo, anche lui amava ogni tanto giocare con i malcapitati incontrati sul suo cammino, amplificandone le debolezze fino a straziarli, perché non esistevano comandamenti da rispettare. Comunque in maniera repentina e irrazionale, l’umore del Folle, dopo l’incontro con Antonio, era cambiato profondamente. Sentiva dentro di sé che non era giusto disporre a proprio piacimento di una creatura con una sua dignità che non poteva difendersi.

Sulle famose tavole erano stati scolpiti i comandamenti trasmessi a Mosè, ma il Folle non sempre ne aveva tenuto conto, poiché nelle sue scorribande, pur avendo sentito parlare molte volte di Dio da profeti e fedeli, non l’aveva mai visto e incontrato in nessun tavolo, o in altri luoghi che aveva frequentato. Il Folle considerava la religione il vero oppio dei popoli e il fervore dei credenti lo faceva sorridere. Teneva a debita distanza gli Arcani pervasi da aneliti e valenze religiose e li derideva con sberleffi e gesti osceni, ogni volta che invocavano le ire celesti, quando lo incontravano casualmente. Troncava sempre ogni schermaglia con una risata e un peto irriverente, suono che imitava perfettamente. Era stato il Folle a suggerire a Dante quel verso osceno ed elli avea del cul fatto trombetta, ma i critici letterari, così colti e soprattutto così razionali, mai e poi mai l’avrebbero creduto.

Per diversi motivi, per l’atmosfera lasciva che si respirava accanto alla cartomante e per la sua indubbia esperienza, il Folle, nel corso di quella straordinaria giornata in cui aveva incontrato Antonio e poi Veronica, decide di marchiare la sala con un segno inequivocabile della sua presenza, poiché l’ironico segnaposto non aveva sortito nessun effetto. Per l’occasione realizza, a velocità sorprendente, grazie alle sue capacità, un proprio bizzarro ritratto parlante, visibile solo agli Arcani, per avvertirli, con voce cantilenante e ferma, che quello era il suo tavolo prediletto e quindi di starsene alla larga, se non espressamente invitati. 

E soprattutto il Folle, il giorno 7, nell’aprile dell’anno 2005, colpito anche lui dalla valenza cabalistica* di quella giornata, per la prima volta s’impone un codice morale. La sua coscienza d’Arcano aveva attinto un gradino più alto e si era evoluta in un ambiente non pio, senza dovere ascoltare le prediche dei frati, semplicemente sospingendo un uomo timido e pavido verso l’abisso e respirando a piene narici tra le cosce di due lesbiche in amore. Spesso le trasformazioni importanti sono improvvise e non sempre sono legate a una specifica situazione in maniera diretta; ce ne accorgiamo solo dopo, quando sono già cominciate, ma erano in noi tacite, in gestazione, perché i tempi diversi della mente non sono come i battiti scanditi dal cuore: tanti in un minuto.

*  7 aprile 2005 > 7, 4, 2 + 5 = 7, 4, 7 

7 + 4 + 7  = 18  La data va associata ai Trionfi dell’Imperatore (4), del Carro (7) e della Luna (18). La Luna esercita particolari influssi. Il Carro è un segno positivo, di vittoria e di cambiamento. L’Imperatore con i suoi poteri rimanda alle energie primordiali: Fuoco, Terra, Aria ed Acqua.

 

5

Giovedì 5 maggio dell’anno 2005: una strana consultazione dei Tarocchi

 

Quel cinque di maggio, un’alta pressione d’origine africana lambiva gran parte della penisola; l’anticipo dell’estate elargiva temperature più da paese tropicale che mediterraneo; l’evento indubbiamente costituiva una prova tangibile dei cambiamenti climatici in atto. Le vie della capitale anche all’ora di pranzo, nonostante il  caldo, non erano meno frequentate. Frotte di turisti gironzolavano per le vie del centro con i cappelli colorati, i piccoli ombrellini e l’acqua minerale che gli ambulanti vendevano dappertutto. Qualche turista si dissetava alle varie fontanelle e i soliti esibizionisti facevano un pediluvio, o un bagno nelle fontane per farsi scattare una foto digitale che immortalasse l’evento. Le guardie municipali sorridevano e tolleravano, sempre che qualche ragazza non offendesse il pudore con la propria indecente nudità. Il conformismo puritano ancora dettava legge, tuttavia qualche spogliarello, prontamente interrotto dalle forze dell’ordine, ogni tanto creava sempre scandalo e quindi notizia.

Leandro aveva fissato un appuntamento con la cartomante Leda con molta antecedenza, per avere la certezza d’essere ricevuto proprio quel particolare giorno dell’anno, nel pieno rispetto della cabala, attivata dal numero cinque, ripetuto ben tre volte: 5/5/2005. Quando attraversa ponte Fabricio, avverte sulle tempie alcune fitte improvvise. Sembrava che diverse animule vaganti, in cerca di un traghettatore disponibile, lo stessero ad aspettare. Nel corso degli anni, grazie alla pratica costante del Qi Gong, Leandro aveva sviluppato delle buone tecniche di difesa e attiva una solida barriera per non farsi penetrare. Se non fosse stato esperto, sarebbe caduto in balia di presenze aliene. Sette Arcani stavano aspettandolo al varco, seduti sul parapetto del ponte: tre a sinistra e quattro a destra. Erano stati istruiti sull’Uomo e lo riconoscono subito per l’aura inconfondibile che si portava dietro. Gli si attaccano ai capelli e si lasciano trasportare verso lo studio della cartomante. 

L’asfalto dei marciapiedi era quasi bollente. Nel breve tratto di strada sotto il sole, l’effetto benefico del fresco dell’autobus si dissipa in un baleno. Leandro accelera il passo e cerca ogni spazio ombreggiato per proteggersi dalla calura. Una targa chiara d’ottone ben lucidato campeggiava al centro della porta. 

LA CARTOMANTE LEDA

RICEVE PER APPUNTAMENTO

TUTTI I GIORNI ANCHE I FESTIVI

ECCETTO IL VENERDI’

DALLE ORE 10 ALLE ORE 13

DALLE ORE 15 ALLE ORE 19

L’uomo si presenta con cronometrica puntualità anglosassone, giovedì 5 maggio dell’anno 2005, dieci minuti prima delle ore quindici. A tutti i clienti, la segretaria raccomandava d’arrivare con un certo anticipo rispetto all’orario fissato, per non attardare le sedute successive. “Buongiorno. Sono Leandro. Ho preso appuntamento.”

“Bene, si accomodi Signor Leandro.” Dopo averlo fatto entrare, Melissa diffonde una musica discreta di sottofondo che mescolava Debussy con vari suoni della natura e proseguiva ininterrottamente negli altri ambienti della casa. Subito, in maniera cortese, Leandro è accompagnato in un angolo della saletta d’aspetto, dove era stato sistemato un lavabo di travertino. “Raccomandiamo a tutti di lavarsi le mani. Non per motivi igienici, ma perché Leda vuole che le dita che tagliano il mazzo di carte siano pure, senza traccia d’energie estranee con cui la persona viene a contatto. Inoltre prega di non porgerle la mano: sia quando vi presentate e anche al momento del congedo. Non vuole influssi estranei mentre mescola i Tarocchi.” Dopo la purificazione, forse per sottolineare meglio l’assunto, la segretaria avvertiva tutti i clienti: “Ribadisco signore: deve evitare di maneggiare i Tarocchi. Se dovesse farlo, per slancio, o affetto, dovrà portare via il mazzo, dopo averlo pagato. Sono tutti molto costosi.” Perfettamente istruita, Melissa parlava a memoria e forniva sempre le medesime formule di spiegazioni doverose. 

Sebbene fossero stati informati prima, alcuni rari clienti non accettavano gli inviti ed erano cortesemente allontanati con tante inutili scuse, tra le proteste stizzite del ribelle che si appellava alla dignità personale. Qualche testardo, all’ultimo istante, si era rifiutato di togliersi le scarpe ed era andato via, sbattendo la porta. Un personaggio influente aveva anche citato in tribunale la cartomante, utilizzando articoli e cavilli del codice civile, ma aveva speso solamente e inutilmente dei soldi. 

Leandro completa tutto il cerimoniale. “Bisogna sempre rispettare i rituali scaramantici. Hanno un fondamento misterioso che la ragione non può comprendere.” La schiuma profumava delicatamente di mughetto e si lasciava apprezzare dalla sensibilità olfattiva alquanto sviluppata dell’Uomo, che non tollerava l’intrusione degli aromi artificiali, estranei e penetranti. La fragranza certo era stata scelta dalla cartomante. Questo dettaglio era per Leandro importante, perché pensava che attraverso i profumi potessero essere trasmesse svariate sensazioni di natura più complessa, non riconducibili a meri messaggi di piacere.

Sul lavabo chiaro, fatto eseguire su misura da un artigiano di Fiuggi, specializzato nella lavorazione del travertino, stava una coppa di cristallo, dove erano adagiati alcuni petali di rosa, ancora freschi e profumati. Ogni mattina la segretaria riceveva ventidue rose, una per ciascuno dei Trionfi e cominciava a sfogliarle, con gusto perverso, come se invece di cadere un petalo, dovesse essere strappata la verginità di una giovinetta. Le parti molli del fiore sembravano parlare della loro sofferenza e invitavano a essere toccate, accarezzate.

Dopo essersi lavato a lungo le mani sotto l’acqua corrente, Leandro vuole che sparisca l’aroma del mughetto ma, ancora odorandole, ve ne era traccia. Intende eliminarlo, anche se tenue. Allora prende otto petali di rosa. Li strofina delicatamente nelle palme, fino a sminuzzarli affinché sprigionino il loro delicato profumo. Intuiva il senso di quel rituale di purificazione, per allontanare le energie negative e impregnarsi del più puro e ancora vitale aroma dei fiori.

La cartomante si complimenta con l’uomo appena entrato. “Sento un tenue odore di rosa; hai perfezionato di tua iniziativa la purificazione delle mani. Di solito pochi lo fanno. I più temono di profanare i petali. Non ne sanno captare l’essenza. Così so già, prima di cominciare, chi ho di fronte.”

Leandro accetta il complimento senza aggiungere nulla e si presenta: “Buongiorno Leda.”

“Buongiorno Leandro. Nome virile, di carattere. Una persona combattente, che non si lascia spaventare dalle avversità. Il nome fotografa la persona. E’ un poco il suono che ci svela qualcosa sulla sua vita.”

Leandro si limita ad annuire con un cenno del capo. Qualche volta aveva letto l’oroscopo per curiosità e con grande scetticismo e non si sarebbe affidato mai al parere delle carte per risolvere i suoi problemi personali. Per avere studiato i Tarocchi e averli interpretati a suo modo, aveva deciso di confrontarsi con un esperto e di consultare una cartomante abbastanza conosciuta. A suo avviso, i Trionfi erano stati alterati e modificati ad arte, da parte del meccanismo repressivo dell’Inquisizione. I preti avevano unto, col carisma della fede, icone che appartenevano quasi sicuramente a una comunità di eretici medioevali concentrati attorno alla città di Albì, nella Francia meridionale. 

La cartomante lo guarda con la stessa attenzione di sempre, investigando quel suo fare riservato di persona attenta. Non commetteva mai l’errore di sottovalutare il cliente e di disattendere le sue attese, non giudicava mai nessuno dalle apparenze, che spesso sono ingannevoli. L’uomo vestiva in modo sobrio e le mani erano curate. Esse, unitamente allo sguardo, raccontavano in sintesi la storia di una persona: trascuratezza, manie, punti deboli. La valutazione complessiva avveniva in venti, trenta secondi: il tempo dei convenevoli. Leandro, secondo la cartomante, si era volutamente presentato con l’aria dimessa del venditore, abituato a rifilare libri a chi non ama leggere, prospettandogli magari la vincita di un premio sostanzioso, estratto tra tutti gli appassionati che, approfittando del mese della promozione, hanno voglia di possedere un’enciclopedia degli animali: creature di Dio che si possono sempre ammirare anche attraverso le sole foto.

Apparentemente Leandro non voleva farsi distrarre dall’originalità della sala e muoveva gli occhi qua e là. Poi si avvicina alla sedia vuota che lo aspettava per farsi leggere le carte; quindi, dimostrando di trovarsi a suo agio, continua a guardarsi attorno, quasi per contare le colonne da cui era circondato. “Quante sono? Immagino ci sia una ragione nel loro numero.” Domanda toccandone una.

“Sono ventidue.” Leda si mostra disposta a svelare la ragione di tante colonne. Lo fa per entrare in sintonia con il nuovo cliente. Vuole stabilire subito una certa empatia. 

“Lo avevo supposto.”

“Una colonna per ciascuno dei Trionfi. Per accoglierli nel migliore dei modi e ricevere gli influssi benefici. Sopra ogni capitello c’è un incavo, dove è scolpito il numero romano che li contraddistingue.” Leda aggiunge preziosi dettagli che il cliente si era meritato di sapere. 

Leandro si alza e va verso la colonna più prossima per andare a sincerarsi dell’esistenza del numero. Vuole capire quale forza della cabala è in gioco. “Il quindici è il più prossimo.” Lo tocca. “Atmosfera perfetta. Palcoscenico speciale. Questo massiccio tavolo ottagonale è unico. Oggi ci vorrebbero troppe ore di lavoro e un artigiano non potrebbe più permettersi di dedicarsi a un’opera simile. Complimenti!”

L’Arcano del Folle era già presente. La frequentazione di quel tavolo stava diventando oramai una piacevole abitudine, un passatempo irrinunciabile del giovedì. Subito, nel sentire il commento di Leandro, va a curiosare tra le colonne per vedere qual era la sua e sincerarsi se veramente c’era sopra il suo amato Zero. Finora le aveva considerate una delle tante stravaganze della sala. Si meraviglia e invidia quell’uomo che invece aveva scoperto istintivamente gli altarini.

“A tutt’oggi, nessuno dei miei clienti aveva rimarcato la natura cabalistica delle colonne. Sono io a farti i complimenti.” Il Folle concorda con le parole della donna, ne apprezzava la perspicacia e la lungimiranza. Leandro dimostrava curiosità e attenzione non comuni, ma secondo l’istinto della cartomante stava nascondendo qualcosa di sé, in maniera sottile. Parlava quel tanto indispensabile, ma si controllava e cercava di mascherare un certo imbarazzo nell’essere costretto a mostrare un volto non veritiero.

Leandro voleva mettere alla prova le effettive competenze divinatorie della donna. “Di solito la gente vuole farsi leggere i Tarocchi per essere orientata nei labirinti dell’amore. Anch’io vorrei essere consigliato nella mia vita sentimentale. Non riesco a trovare la donna giusta. L’anima gemella esiste?”

“Dobbiamo credere nella forza dell’amore, altrimenti.”

“Sì, ma poi l’attrazione scema, forse perché affiorano i difetti e allora si cerca un’altra anima gemella.”

“Sei qui soltanto per dei consigli sentimentali?”

“Non solo, ovviamente vorrei sapere anche cosa mi riserva il futuro. Poi c’è un altro motivo, diciamo collaterale.”

“Io caro Leandro ascolto ogni tipo di richiesta. Su, affronta l’argomento senza timore.”

“Ho scritto un trattato sui Tarocchi e poi l’ho pubblicato in internet.”

“E’ molto interessante. Non capita tutti i giorni di ricevere uno scrittore. Sono lieta di fare la tua conoscenza.”

“Vorrei che questa lettura delle carte costituisse per me una sorta di viatico, di legittimazione. Per sapere se posso aspirare a una pubblicazione cartacea. Se ho i numeri per farlo.” Nel suo intimo Leandro desiderava conoscere la risposta delle carte in merito alle sue tesi alquanto rivoluzionarie, ma preferisce non toccare esplicitamente quel tasto e girargli attorno per farlo venire a galla spontaneamente. ‘Se la mia intuizione è assurda, uno dei Trionfi si risentirà e in qualche modo farà sentire la voce del suo disappunto.’ 

“Vediamo subito cosa dicono i Tarocchi. A volte sono abbastanza enigmatici. A volte svelano molto di più di quello che ci si aspetti.” La cartomante a questo punto, prima di cominciare a mescolare una parte del mazzo, osserva che le carte siano disposte nel loro ordine naturale. “Di solito uso soltanto i Trionfi, disposti sempre in ordine: dalla prima carta, il Mago, alla ventiduesima, il Mondo. Sei già stato ad ascoltare altri oracoli, Leandro?”

“No, mai prima d’ora. Sinceramente è la prima volta. Leda, prima d’iniziare, toglimi una curiosità: perché usi solamente gli Arcani maggiori e lasci fuori dal mazzo gli Arcani minori?”

“Ci sono tanti modi per leggere le carte. Con il mazzo intero gli archetipi da 1 a 14 vengono quintuplicati, infatti abbiamo 14 danari e poi altrettante coppe, spade e bastoni. Si crea a mio avviso una sproporzione rispetto agli archetipi dal 15 al 22. Poi sono quasi sicura che il mazzo anticamente avesse una duplice funzione. Le figure dei Trionfi servivano per la divinazione; mentre le restanti cinquantasei carte con i vari semi servivano per giocare.”

“Leda concordo su tutto e mi sento rinfrancato dalle tue competenze. Ho fatto certamente la scelta migliore nel venire qui.”

“Grazie per i complimenti. Fanno sempre piacere e aiutano a lavorare meglio.”

Leandro afferra la parte restante del mazzo dei Tarocchi e comincia a giocherellare con i visi piuttosto spenti delle restanti figure. Sceglie il Fante di bastoni e lo mostra alla cartomante che mischiava il resto. “Questo Fante, Leda, mi sembra alquanto triste. Non sorride, si sente quasi un escluso. Prima, o poi, reclamerà i suoi diritti.”

“Ti rammento Leandro che il cliente, se tocca il mazzo, se ne dovrà accollare il costo e portarselo a casa come ricordo. Non so se Melissa ti ha informato di questo costoso dettaglio.”

“Certo. Ha sottolineato la necessità di eliminare le energie negative dalle mani e il divieto di toccare i Tarocchi.  La ritualità mi è parsa fondata. Comunque pagherò il mazzo. Non ti preoccupare.”

“Allora tu non sei il tipo che spera d’incontrare una donna bella, ricca e sensuale.” La cartomante sorride un poco; con ironia utilizza uno stereotipo per provocare l’uomo.

Leandro accetta la sfida verbale. “Cerco una donna spontanea, non costruita. Dovrebbe esserne rimasta almeno una, in giro.”

La cartomante risentita replica. “Tutte le donne sono autentiche. Conservano per sé uno spazio intimo, che non mostrano mai. Istinto di conservazione, credo.”

Il professore argomenta con opinioni condivise e consolidate, di facile diffusione tra la gente. “Forse oggi molte donne sono affascinate dalla carriera, assorbite dal lavoro, per questo non riescono a essere se stesse. Sono costrette ad indossare una maschera che le rende impenetrabili e talora sembrano troppo aspre, al punto che incutono soggezione. Il maschio si sente insicuro e il rapporto neppure nasce.”

La cartomante abbandona l’atteggiamento difensivo del gentil sesso e si mostra comprensiva, solo per accattivarsi il cliente. “V’è però un fondo di verità in quello che dici. Oggi le relazioni sentimentali sono rese più complicate dal nuovo ruolo assunto dalla donna nella vita sociale. Autentiche femmine vengono qui con lo stesso problema, speculare al tuo. Non so proprio perché prendete sempre cammini diversi, fino a quando nel segno dei Tarocchi avviene il miracolo. Il beffardo destino si diverte così con la gente. Vi piacete. Vi aspettate. Pensate di tornare, per rivedervi.”

“E tu fissi gli appuntamenti?” Interrompe ironico Leandro.

“Qui potresti sempre incontrare qualche mia cliente in un’occasione speciale. La cartomante deve saper essere anche ruffiana, con tatto e moderazione, ma tu vieni qui per fini più nobili: aspirazioni letterarie. Sono più brava nel favorire incontri. Non conosco gli oscuri intrecci della carta stampata.”

“Sarei appagato da una pubblicazione.”

“Vedi Leandro io per principio cerco sempre di mettermi in sintonia con i miei clienti. Qualche giorno fa, ho finito di leggere un romanzo di un esordiente di talento. Un’amica me lo ha regalato per il mio compleanno. Vediamo, dove l’ho messo.”

Leandro intuisce che la cartomante voleva mettersi a sua completa disposizione e farsi carico in prima persona dei suoi problemi. La donna si alza per togliersi la mantellina della Papessa e la va a poggiare sul divano stile Luigi XV; non come avrebbe fatto meccanicamente chiunque, ma la piega con cura, per chinarsi poi a terra a raccogliere un nonnulla, sapendo d’essere osservata nella sua mossa volutamente provocante. Con l’indice puntato va a scorrere una fila di volumi, allineati a caso in una piccola libreria a giorno. Torna poi lentamente verso Leandro, dopo avere fatto un ampio giro, con l’andamento cadenzato di una sfilata di moda, per andare a sfogliare le pagine del libro citato. “In vita mia non avevo letto mai un romanzo oltre la parola fine. L’autore, proprio in fondo, alla pagina seicentotrentasei, pubblica dei ringraziamenti. ‘Grazie al mio agente letterario, che ha creduto a un aspirante scrittore.’ Sono le testuali parole. Adesso proprio me ne sono ricordata, perché non sapevo neppure che esistessero gli agenti letterari. Ebbene questo è l’indizio giusto. Posso anche stracciare la pagina che a me non serve. E’ tua.”

Andando per la stanza, la cartomante emanava l’odore del corpo leggermente sudato. Leandro lo percepisce distintamente e nota che la donna non faceva uso d’alcun profumo per coprire quello traspirato dai suoi pori attivi. Un’oscura e indecifrabile presenza ne stava guidando lo strano comportamento; anche se Leda voleva limitarsi a calamitare la sua attenzione ed eccitare la sua fantasia di maschio. 

Lo studioso dei Tarocchi in realtà non si era rivolto all’esperta cartomante per motivi amorosi e adesso deve stare al gioco per essere credibile. “Certo mi farebbe piacere anche conoscere una  persona speculare a me, che mi possa completare. Non mi tiro indietro, se m’inviti.”

“Ne riparleremo dopo la consultazione delle carte. Il tempo passa inesorabile. Sei fortunato. Il prossimo cliente delle ore quindici e trenta ha disdetto l’appuntamento proprio oggi, per un contrattempo. Posso dedicarti più minuti di quelli scanditi da questa clessidra.”

“Allora questo è il mio giorno, Leda. Credo che ritornerò presto da te.”

“In molti ritornano: per ascoltare altri oracoli e per ringraziarmi. Quei pochi che non sono tornati, o hanno avuto qualche problema, oppure un incidente glielo ha impedito.”

Quest’ultima considerazione sorprende alquanto Leandro e vuole rimarcarlo. “La racconti a tutti, la storiella degli incidenti?”

“Lo dice la statistica, mio caro. Lo dicono i numeri. Ed io lo so. Lo vedo negli occhi del cliente. Torna, perché lo vuole, perché ha bisogno di me. Forse qualcuno si lascia condizionare e torna anche qualche volta di troppo. Allora, vediamo cosa dicono le carte.”

“Veramente Leda, io sarei venuto per farmi leggere una certa sequenza di Trionfi ben precisa. Penso che per te non faccia alcuna differenza.”

“Allora perché mi hai fatto mischiare le carte?”

“Per imparare tutto da te.”

“Ne hai il diritto: hai pagato! Comunque ogni situazione è differente da un'altra, caro Leandro. Questa particolare combinazione a quale situazione si riferisce?”

“Al giorno in cui ho ufficialmente inaugurato il mio sito dei Tarocchi in internet. Sono usciti nell’ordine: l’Eremita, la Papessa, il Diavolo, l’Imperatore, il Gerofante, l’Innamorato e infine il Mondo. Si tratta, ovviamente per me, di un giorno significativo. Ed io su quella situazione sono venuto proprio per approfondire.”

“In tal caso Leandro mi sembra che la tua richiesta sia legittima e fondata. Sai, a volte, la gente ha esigenze strane, del tutto sciocche e vane. Questo mazzo di Tarocchi è tuo. Lo hai comprato. Apparecchia sul tavolo le carte, rispettando l’ordine delle case che io t’indicherò sulla stella di Davide. Comunque voglio essere io a scandire i nomi dei  Trionfi. La mia voce è indispensabile per evocare i loro influssi e, se benevoli, la loro presenza.”

“Certamente. Del resto questa è la sala che i Tarocchi frequentano abitualmente. Tra te e loro, penso si sia instaurata una sorta di corrispondenza d’amorosi sensi. Non ho nessuna intenzione d’infrangere l’atmosfera magica di questa sala, dove mi sento quasi un intruso. Quindi penso che la tua voce sia essenziale per decifrare al meglio la mia sequenza di Trionfi.”

 

6
Il ritratto parlante del Folle 
 
Come un bambino, mentre spia la nonna alle spalle, durante la pesca delle tessere nella sacca della tombola, e aspetta con agitazione che l’ultimo numero rimasto sulla sua cartella faccia la comparsa; il Folle accompagnava l’uscita delle carte e scandiva i nomi dei Trionfi: “Eremita….Papessa….Diavolo….Imperatore….Gerofante....Innamorato….Mondo…” Poco dopo, d’un tratto, come se evocati in maniera del tutto naturale, nella sala della cartomante entrano, in perfetto ordine, i Trionfi chiamati in causa. Il Folle, già presente, per diritto acquisito, sorpreso, indica più volte agli intrusi il suo ritratto che ammoniva a voce alta: “Questo tavolo è riservato esclusivamente allo Zero. Tutti, ad eccezione del Mondo, gli rispondono col gesto volgare del dito. Indispettito lo Zero, prendendo di sorpresa gli arrivati, soffia con forza straordinaria sulle carte che Leandro, su indicazione della cartomante, aveva già collocato nella casa, rispettando l’ordine d’uscita.
Leda, istintivamente fa per prendere al volo la Papessa che stava piroettando su se stessa, inseguita dall’Innamorato, meravigliato di correre dietro ad una pulzella stagionata che mai e poi mai l’avrebbe spinto a tanto. Non riesce la cartomante nella sua vana impresa e si sente ridicola e impotente, sommersa dalle risa sbellicate del Folle.  L’Imperatore prende un’altra direzione e cade proprio sulla mano benedicente del Gerofante, coperto di ridicolo e di scuse. L’Eremita e il Mondo finiscono anch’essi in terra, capovolti sotto il tavolo, insieme al loro grande prestigio messo alla berlina in una frazione di secondo da un vento impossibile e spirato da non so quale finestra aperta, giacché l’ambiente era climatizzato. 
Più strabiliato di tutti, Leandro vede il Trionfo del Diavolo librarsi in aria e ricadere, in barba alle leggi di gravità e di probabilità, sulla medesima casa che gli era stata assegnata per sorte. Gli viene da pensare, come suona l’adagio di un noto proverbio, che il Diavolo in persona in qualche modo doveva averci messo lo zampino. Secondo i cinesi quel fluttuare sarebbe stato, già di per sé, un segno eloquente che andava interpretato. In sostanza il sito di Leandro non era passato inosservato, altrimenti la lettura dei Tarocchi sarebbe filata via liscia, senza un’increspatura.
Leda, per riportare il seguito della seduta nell’alveo della regolarità, sa trovare prontamente una scusa plausibile imputando quello Zefiro sconsiderato agli scherzi della ventilazione dell’aria condizionata. “Sto aspettando da giorni il tecnico per una riparazione. Un difetto a tratti inspiegabile. Qualcuno sembra divertirsi sul telecomando e mettere al massimo la velocità dell’aria.”
L’incidente occorso, provocato dall’ira del Folle, avrebbe presto fatto scaturire una sfilza d’offese e di reciproci improperi e persino una zuffa da muratori, se non fosse intervenuta una voce tempestiva e imperiosa, accorsa per sedare gli animi e invitare gli Arcani ad assistere alla lettura delle carte senza litigare. “Tutti i presenti sono stati chiamati per vagliare il responso della cartomante. Rispettatevi senza entrare in dispute infinite. L’uomo ha scritto un trattato sui Tarocchi e ha osato sfidare l’occulto, oltraggiando tradizioni consolidate e svelando chiavi di lettura riservate a pochi iniziati.” Il Folle non crede alle sue orecchie, quando il suo ritratto parlante cambia musica per mettersi a scandire la volontà delle Voci, come uscito dalla loro fabbrica, fresco di giornata. Si mette a guardare d’istinto dietro, sul muro, se per caso ci  fosse nascosto un suggeritore e gira persino il ritratto al contrario per confondere l’intruso, ma sente ancora la stessa filastrocca. “Tutti i presenti sono stati chiamati per vagliare il responso della cartomante. Rispettatevi senza entrare in dispute infinite. L’uomo ha scritto un trattato sui Tarocchi e ha osato sfidare l’occulto, oltraggiando tradizioni consolidate e svelando chiavi di lettura riservate a pochi iniziati.”
Le Voci delle enigmatiche entità si udivano solo in casi eccezionali. Esse abitavano un’impenetrabile Fortezza che nessuno nei secoli era riuscito a violare e presentava un solo accesso nel fortificato portone, dove sostavano perennemente quattro cerberi infernali, così soprannominati dal Folle, in onore del mostro mitologico che vigilava l’entrata dell’Ade, luogo di villeggiatura riservato ai defunti. Di solito le Voci, per comunicare con gli Arcani, usavano dei messaggeri alquanto singolari, presi in prestito dai miti degli uomini, o dalle loro credenze religiose. Questi esseri mitologici, angelici, anche dai tratti animaleschi, erano più simili ad androidi programmati minuziosamente, senza una precisa personalità e una propria volontà d’agire, consapevoli d’essere strumenti e servitori fedeli.
Tutti gli Arcani ascoltavano le Voci con rispetto e ritenevano che esse occupassero un gradino superiore alla natura e alle creature umane. Così era sempre stato e così tutto sarebbe continuato ancora per altrettanti secoli, se non fosse capitata una casuale coincidenza: l’imprevista presenza del Folle, che si era tanto affezionato alla cartomante Leda da eleggere quel tavolo ottagonale a propria esclusiva pertinenza, con tanto di avvertenza per tutti quelli che vi capitavano. 
Mentre le Voci stavano monitorando lo svolgersi della vicenda, poste di fronte alla variabile impazzita del Folle, decidono d’intervenire tempestivamente per impedire sul nascere un inevitabile bisticcio e per tacitare un’interminabile discussione sul diritto acquisito dal Folle, che deve vedersela con l’inattesa presenza di sgraditi invitati. Non potevano, infatti, permettere che l’oracolo pronunciato da Leda fosse vanificato da un volgare alterco e che la cabala entrasse in conflitto con il Folle, la cui imprevedibilità poteva contaminare tutti i presenti. Il caso sovrano aveva chiamato lo Zero a sgattaiolare tra le carte, già volate in aria e uscite fuori dalla posizione a cui erano destinate; sarebbe stato inutile e controproducente allontanarlo.
Il ritratto parlante, che avrebbe dovuto tenere a bada gli intrusi, frattanto continuava a esigere una tregua e l’opportunità di ascoltare insieme l’oracolo, per decifrare l’autore di un trattato blasfemo sulle origini dei Tarocchi. Gli guardi meravigliati degli Arcani interdetti s’incrociavano e dicevano molto più delle parole. Paradossalmente il Folle rimane più sorpreso d’altri, perché non riusciva a intendere come le Voci avessero fatto ad azzeccare con tanto anticipo una sequenza di sette Trionfi e ad avere il tempo anche di fare gli inviti personalizzati per tutti. Lì per lì è sul punto d’esprimere un contrito mea culpa e gli viene la voglia di fare una genuflessione in segno di rispetto, perché si sentiva smarrito di fronte a tanta onniscienza, ma poi pensa di mettersi in riga, di fare il bravo ragazzo e di rispettare le Voci, senza assumere atteggiamenti che potevano essere interpretati come sarcastici e provocatori. Tanto a comportarsi ragionevolmente non aveva niente da perdere e poi al momento era in minoranza e avrebbero potuto sbatterlo fuori da un momento all’altro e tenerlo all’oscuro di garbugli tutti da chiarire. Secondo il Folle, quell’intrecciarsi di coincidenze dai connotati indecifrabili sarebbe certo passato alla storia e, per seguirlo adeguatamente, doveva modellare il proprio comportamento sulle regole dettate dalla maggioranza.
 
7
La Papessa 
 
Al tempo della genesi dei Tarocchi, l’unzione battesimale del secondo Trionfo aveva suggerito all’ispirato artefice poche sillabe rarefatte: Papessa. Il nome vagamente blasfemo voleva sottolineare la funzione sacrale della custode delle chiavi del sapere, forgiate a tutela dei Libri, affidati al Tempio della conoscenza. L’Arcano, dall’espressione severa, dai lineamenti duri e poco femminili, non era solito frequentare e comunicare molto con i suoi simili e guardava con estrema diffidenza tutti i cartomanti. L’atteggiamento di sprezzo verso il volgo ignorante, culminato in un aristocratico isolamento, rendevano la Papessa inaccessibile ai più, perché la sapienza era una meta riservata a pochi eletti. 
Gli Arcani Maggiori in definitiva erano solo ventidue; essendo così pochi raramente venivano a contatto diretto a disputarsi le attenzioni profuse dai numerosi tavoli che li vedevano protagonisti di vicende sempre nuove. Veramente, nel corso della consultazione, diversi Tarocchi erano evocati nello stesso momento, ma sarebbe stato ben sciocco e ridicolo litigare, per primeggiare in un tavolo, quando ce ne erano nello stesso tempo molti altri liberi, dove essere protagonisti senza andare a cercarsi grattacapi e cominciare dispute che non avrebbero avuto mai fine.
Nel passato c’erano stati contrasti a non finire, sfociati in vere e proprie guerriglie, perché i Tarocchi si erano fatti contagiare dal vezzo della supremazia degli umani e, per imitarli, in tutto e per tutto, si erano messi in testa che uno di loro sarebbe stato il Re incontrastato di quel mondo; così si erano lasciati alle spalle una sequela di roghi e d’orrori, terminati molto più tardi, solamente nell’età dei lumi, con una sorta di patto di non belligeranza che vedeva ciascun Arcano signore del proprio incontrastato territorio, delimitato dal marchio caratteristico lasciato sul tavolo d’ogni cartomante professionista. Se s’incontravano, era per allearsi in qualche caso complicato, ma non cercavano per istinto la compagnia, perché tutti erano individualisti fin dalla nascita. Per le sue prerogative la Papessa non sarebbe mai andata a fraternizzare con altri, neppure in casi di necessità. Rifuggiva persino dai più elementari saluti, detestava i convenevoli e se ne stava lontano da chi avrebbe potuto importunarla con domande stupide e inopportune. Tanto più per nessuna ragione al mondo avrebbe accettato d’essere coinvolta in qualche scherzo. 
Gli alati, come l’aquila, o il nibbio, arrivavano fin sulle alture dell’Olimpo e volteggiavano sul Tempio della conoscenza custodito dalla Sfinge. I loro occhi indagatori vedevano e passavano con discrezione e si posavano in quello spazio montano sempiterno, solo quando la Papessa voleva approfittarne per scendere a valle. Comunque lei, chiedeva sempre, prima di salire, se la sua presenza disturbava. Un giorno, accovacciata tra le piume di un uccello, una creatura inaspettatamente spunta, l’avvicina senza tante cerimonie e le affida un compito a cui non può, in alcun modo, sottrarsi. “Sto riferendo un messaggio delle Voci. Un uomo va in giro dicendo di conoscere le vostre origini e sostiene, con presunzione, che saprebbe anche rispondere alle tre fatidiche domande, da sempre rimaste senza risposta. La Papessa deve carpirgli quello che sa veramente, o scoprire se vanta conoscenze che non possiede e ci sta solamente ingannando. Le Voci t’invitano senza indugi a presenziare la lettura delle carte. Farò da guida ora stesso.” L’invito perentorio è scandito da una creatura che assomigliava alla simpatica fatina buona del libro Peter Pan: una sorta di camuffamento consueto a quelli della dimensione celeste che per abitudine si servivano di folletti, fate, elfi, mitici personaggi più o meno noti, per presentarsi agli Arcani che frequentavano il Mondo di Sotto.
I rapporti tra le Voci e la Papessa erano da sempre stati abbastanza buoni, anche se strettamente necessarie erano state le frequentazioni. La custode del Tempio della conoscenza certamente rappresentava il puntello e il fondamento dello stesso sistema di controllo che le Voci avevano messo in piedi per impedire a chiunque di uscire dalle regole e dal seminato. Nessuno, infatti, doveva porsi strani interrogativi e aprire spiragli di verità, di cui la Papessa era la più gelosa custode insieme alla Sfinge, da tempi immemorabili. Consapevole della sua funzione e del suo ruolo, mai avrebbe pensato d’infrangere quelle regole a cui lei stessa si sentiva sottoposta. Espressione dei vari dualismi, l’Arcano costituiva l’essenza del sistema di controllo, perché ogni tipo di opposizione tra principi irriducibili non faceva altro che confondere le idee e rendere ogni ipotesi possibile e dunque ripresentava sempre altri insolubili interrogativi.
Quando, a rivendicare il diritto esclusivo di frequentare quel caratteristico tavolo ottagonale, la Papessa incrocia l’inconfondibile marchio del Folle, subito viene attraversata da una fugace irritazione, frenata subito dalla sua consueta flemma. Più sorpresa e indignata di tutti, subito riconosce i tratti inconfondibili della cartomante e l’ambiente dal quale si era allontanata per mancanza d’empatia e forse in maniera affrettata, poiché il caso l’aveva di nuovo chiamata a quello stesso tavolo nello spazio di qualche settimana, quasi a volerla costringere a guardare quello che i suoi occhi si erano rifiutati di vedere prima.
Anche gli altri mostravano impazienza e sorpresa, perché erano giunti a quella consultazione dopo avere ricevuto un invito per conto delle Voci e avevano avuto l’avventura d’imbattersi in un ritratto parlante del Folle che li ammoniva a farsi da parte, perché non erano i benvenuti. Già si stava profilando aria di gazzarra e una lite (confacente a ospiti di un’osteria, ma indecorosa per un rispettabile convegno di maturi Arcani in uno studio di una cartomante professionista) quando improvvisamente una Voce, spuntata dal nulla, prende possesso del ritratto parlante del Folle e costringe i Tarocchi presenti a rivedere le proprie intenzioni belluine e ad assumere toni e atteggiamenti più tolleranti e rispettosi del ruolo e delle funzioni di ciascuno.
Messo alle strette, il Folle va a prendere il suo ritratto appeso alla parete e fa l’atto di girarlo con la faccia verso il muro. “Per ora vai in castigo ragazzaccio. Per oggi rinuncio a ogni diritto acquisito su questo tavolo. Anche per rispetto alla suprema volontà della blue dimension.” Blue dimension: così aveva soprannominato il Folle, la dimora delle Voci, per sfoggiare la sua vocazione poliglotta e per ironizzare sulle ferree leggi della globalizzazione imposte anche al linguaggio. Pronuncia queste ultime parole con dubbio spirito di sottomissione, quasi rimproverando le Voci che avevano chiamato a raccolta, a sua insaputa e violando ogni regola nel tempo consolidata, quella combriccola di Arcani. 
Il Folle per salutare i convenuti, improvvisa di sana pianta un mezzo benvenuto a rima intrugliata: 
“Come primo avente diritto, in questa casa, 
porgo il ben arrivati a tutta la brigata. 
Al caro vecchio amico Eremita, 
stringo fortemente le dita. 
Al volo, al subdolo Arcidiavolo,  
sussurro di non fare un bel cavolo.
Alla Papessa imploro, una volta, 
di non essere se stessa.  
All’infedele compagno di tante birichinate, 
Innamorato qui a lato, 
raccomando di non fare porcate. 
Vado incontro ad Arcimondo,  
e faccio un bel girotondo. 
Al Gerofante, orante e sempre distante, 
suono l’arpa e bacio la scarpa. 
Per il nostro supremo e venerato Imperatore, 
sprofondiamo in amore 
e mettiamo in soffitta il rancore.”
 
8
I poteri di Arcidiavolo
 
Importunare direttamente l’Arcano del Diavolo, per gli amici Arcidiavolo, senza aver preso delle elementari precauzioni, era una leggerezza che nessuno poteva permettersi, perché chiunque rischiava d’essere assimilato e ridotto in sua schiavitù. Le Voci quindi avevano deciso di servirsi della mediazione d’una larva senza una propria volontà, divenuta il ricettacolo delle animule vaganti, sempre in cerca d’una facile preda da possedere, per il gusto d’assaporarne le emozioni e potersi calare nuovamente nella dimensione biologica. Era costei una ragazza già debole e depressa; si alimentava male da tempo e sospirava per il principe azzurro che mai veniva a prenderla sul suo destriero bianco e selvaggio.
Verso sera, la giovane svagata si presenta da Leda e le consegna una busta chiusa con un sigillo di ceralacca, dove era stata impressa la stella capovolta a cinque punte che permetteva agli iniziati di riconoscervi l’inconfondibile simbolo del Diavolo. “E’ per me?” La cartomante sorride alla vittima designata.
“No, per il tuo diletto Signore.”
“Entra, carina. Sei venuta nelle vesti di servizievole messaggera?”
“Sono qui anche per incontrare una bella cartomante.”
“Sei esile ma gustosa. Assaporiamoci.”
“Ho le mie cose.”
“Meglio, ho voglia di bere. La sera ho sempre sete.”
Alle sette di mattina, la giovinetta smunta sviene in una piazza movimentata e affollata di gente che si recava al posto di lavoro. Cinque minuti dopo, viene trasportata da un’autoambulanza al Fatebenefratelli: l’ospedale vicino, ubicato sull’Isola Tiberina, ove giunge già morta.
 Leda si limita a violare il sigillo della missiva destinata all’Arcano del Diavolo e subito dopo la dispone all’interno del libro sapienziale, posto a bella mostra su un leggio per suscitare  meraviglia tra i clienti. I più curiosi e sensibili ne erano sempre calamitati e vagheggiavano, attraverso le parole della cartomante, d’assimilarne un poco nei minuti preziosi che stavano comprando. Talvolta, facendo una pausa durante la lettura delle carte, Leda apriva quel libro e lo sfogliava lentamente con una certa soddisfazione. Quelle pagine le trasmettevano una sensazione d’infinita potenza e ogni tanto vi attingeva un poco di linfa, condensata in alcune massime di perfida sapienza. 
La cartomante si concentra per chiamare il suo padrone, a cui l’epiteto di Trionfo si addiceva alla perfezione, perché sempre riusciva a realizzare i suoi progetti e nessuno era in grado di contrastarne l’azione smisurata. Quando percepisce un soffio fresco sul viso, comincia a sfogliare le pagine del libro fino ad incontrare l’epistola scritta di pugno dalla giovane larva, sotto l’influsso dell’entità che ne aveva preso il pieno possesso mentale. Gli occhi di Leda come ipnotizzati fissano il messaggio e un sorriso beato le illumina il viso.
Durante la lettura delle carte, Arcidiavolo era rimasto accanto a Leda, mimetizzato, per avere modo d’assistere indisturbato alla seduta riservata all’Uomo dei Tarocchi. Gli Arcani abitualmente non si riferivano mai a nessuna creatura umana per nome, ma preferivano conferirle un appellativo, che fosse un indiscutibile segno di riconoscimento, adatto a marcarla per sempre. Nessuno si era meravigliato per l’apparente assenza di Arcidiavolo. Data l’importanza del momento, non era certo rimasto fuori. Quella vicenda lo riguardava, al punto di mimetizzarsi per non confondersi con gli altri.  
L’Arcano del Diavolo, nucleo centrale d’ogni possibile malizia, era ineguagliabile per sapere tessere inganni e faceva della sorpresa una delle sue armi più temibili, pertanto ideava sempre stratagemmi, volti a oscurare il più possibile la sua presenza. In questo caso voleva, attraverso le fibre della cartomante, potere osservare l’Uomo dei Tarocchi e provare le stesse sensazioni della donna che, seduta di fronte, gli leggeva le carte guardandolo in faccia.
Arcidiavolo era abituato a fiutare gli umani dall’inconfondibile aroma e a riconoscerli dalla caratteristica aura che si portavano dietro. Le larve, già possedute e ridotte in stato di schiavitù, emanavano un odore di aglio rancido ed erano contornate da un’aura grigia azzurra, alquanto malaticcia e decadente. In sostanza non avevano più una personalità propria, ma solo riflessa e potevano essere considerate come degli automi biologici a disposizione di chiunque. I corpi dei bionici erano contornati da un’aura color lampone opaco e la pelle dolciastra lasciava una scia attraente. Ospitavano un’unica presenza che ne condizionava l’esistenza, ma conservavano una coscienza autonoma, offrivano il corpo come dimora abituale e in cambio ricevevano dei poteri che l’intruso trasmetteva e variavano molto, da individuo a individuo. Gli indipendenti ancora possedevano una propria volontà, ma da un momento all’altro potevano essere trasformati in larva, o bionico. La loro aura era color terra verde, esalavano un odore di muschio e i loro pori traspiravano abbondante salinità. 
Il processo di trasformazione in larve passive, o bionici attivi era legato alla disposizione nei confronti del bene e del male. Una persona di sentimenti elevati sarebbe diventata una larva passiva e servizievole. Un individuo malvagio e privo di scrupoli sarebbe stato tramutato in bionico, per potere trasmettere il seme di cui era portatore consapevole. Arcidiavolo sul momento non riesce a decifrare la disposizione d’animo dell’Uomo dei Tarocchi, così impenetrabile da lasciare interdetto anche un osservatore attento.  Nel corso dell’oracolo, l’Arcano cerca di capire verso quale sponda morale propendesse il professore, se fosse intriso di malizia, o pregno di bontà, ma non riesce a catalogarlo, quantunque si sforzasse di captare i suoi pensieri. E di ciò rimane alquanto meravigliato, perché non gli era mai successo d’imbattersi in un individuo con le sue caratteristiche. Allora gli sorge il dubbio che l’Uomo dei Tarocchi non poteva essere altro che un tipo di bionico particolare, il cui ospite era in grado di mimetizzarsi in maniera magistrale e non voleva dare a intendere a nessuno chi fosse.
Tuttavia, prima della lettura delle carte, avviene un fatto inatteso. D’improvviso, attratto dalla clessidra, Leandro posa lo sguardo sui granelli di sabbia, quasi ne fosse ipnotizzato e una forza oscura fosse capace di sospingerlo in quello spazio angusto. La cartomante anche se ne accorge, perché rimane in attesa che accada qualcosa, forse che si addormenti. La stranezza non sfugge agli altri Arcani presenti, che si guardano l’uno con l’altro, come per interrogarsi se qualcuno di loro stesse facendo un incantamento non previsto.
Anche l’Eremita, vigile, coglie quella debolezza improvvisa del professore e gli viene in soccorso con la sua lanterna, per impedirgli d’essere assimilato da una presenza misteriosa, estranea agli Arcani ed anche alle stesse Voci, le quali volevano, innanzi tutto, inquadrare meglio l’autore di un sito creato per ricostruire le origini dei Tarocchi.
Arcidiavolo capta nell’Uomo una presenza inconscia che l’individuo ospitava, come un fardello ingombrante, di cui però non avrebbe voluto, né saputo sbarazzarsi. Essa stava affiorando proprio in quel frangente per rafforzare le barriere difensive del professore. Allora la sua smania maligna istintivamente lo spinge a oscurare, con l’ombra delle sue tenebre, la benefica luce della lanterna dell’Eremita. Sperava di sospingere l’Uomo verso le riviere di Acheronte, dove sembrava essere destinato.Tuttavia si trattiene, perché perentorio affiora il ricordo del messaggio ricevuto, che l’ha condotto appunto a presentarsi a quel crocevia di carte per lui tanto abituale, dove una sua creatura proferiva oracoli così poderosi da sembrare soprannaturali. Desiste così dal suo impulso nefasto e decide d’aspettare tempi più propizi, per dare piena soddisfazione e alimento alla sua vocazione criminale.

9
Una pergamena infiocchettata
 
L’Eremita passava gran parte del suo tempo in meditazione e, alla frequentazione dei Tarocchi, spesso premessa di beghe personali, preferiva distillare gocce di solitudine nell’alambicco della sua coscienza. Nessuno nel passato l’aveva mai fatto partecipe delle decisioni importanti, salvo poi informarlo a cose avvenute. Con il Folle e l’Appeso invece vi erano maggiori affinità, perché anche loro erano tenuti a debita distanza e ripagati della stessa moneta. Negli ultimi tempi l’Eremita aveva deciso di tracciare una mappa del cielo visibile, per investigare la posizione degli astri e ogni sera s’inerpicava lungo un pendio che portava alla cima di un colle, dove sedendo, poteva compenetrarsi con l’immenso. 
A ridosso di un tronco d’albero, dove era solito meditare e accostare gli oggetti abituali della sua peregrinazione, scorge una creatura dei boschi che conosceva le sue abitudini e l’aspettava sorridente per porgergli una pergamena arrotolata e infiocchettata.  “Sono qui in veste di messaggero delle Voci.” L’Eremita avrebbe volentieri scambiato quattro parole e, mentre apriva il messaggio, vede il timido gnomo sgattaiolare giù a valle. Si era limitato a compiere la sua missione alla lettera ed evidentemente non voleva conversare e rispondere a domande imbarazzanti circa i suoi compiti, eseguiti più per dovere che per piacere.
L’Arcano prende la pergamena e la srotola accostandola alla luce della sua lanterna magica, per leggere il contenuto di quella missiva. Lo strano invito di recarsi da una cartomante, un poco lo sorprende, perché mai si sarebbe aspettato un simile onore, o quantomeno una dimostrazione di considerazione da parte d’entità enigmatiche con la vocazione al dominio incontrastato. Per saperne di più sulla natura di quel messaggio, poggia la pergamena direttamente sul vetro della lanterna. Dopo un poco, le lettere lentamente cominciano a svanire e la carta diviene sempre più trasparente, fino a tramutarsi in un velo attraverso il quale si poteva intravedere nitidamente uno gnomo, all’interno della sua casa ricavata entro un tronco d’albero, mentre scriveva di proprio pugno, intingendo la penna d’oca nell’inchiostro. Ogni tanto si girava indietro e ripeteva la medesima tiritera. “Ripetere prego. Va troppo in fretta per me.”
L’Eremita aumenta sensibilmente la debole luce emanata dalla sua lanterna per vedere la fisionomia di chi stava alle spalle dello gnomo, ma riesce solamente a udire una voce che ansimava come quella di un vecchio stanco e affaticato e biascicava parole che non si capivano bene. E lo gnomo, nel suo linguaggio essenziale, si limitava alla sua cantilena. “Ripetere prego. Va troppo in fretta per me.” Produce più luce, per vedere attraverso gli occhi dello gnomo se per caso riusciva a scorgere qualche altro particolare, ma la voce informe non svelava un’identità precisa. 
Quella sera l’Eremita accantona la sua passione per l’astronomia e depone la pergamena per custodirla nella fenditura della quercia che conosceva a menadito. A suo avviso, forse quel documento avrebbe aiutato a capire meglio le intenzioni delle enigmatiche Voci.
Prima di recarsi all’appuntamento, passa presso la sua dimora che stava più a valle. Ripone via l’abito tradizionale di tutti i giorni: un mantello logoro e spartano, per nulla adatto a un rispettabile convegno di Arcani. Sceglie nel suo guardaroba, un poco datato e fuori moda, un abito impeccabile e dignitoso che avrebbe fatto la sua figura. L’Eremita, infatti, aveva intuito, anche se nel messaggio non era detto esplicitamente, che avrebbe incontrato altri Tarocchi. Non voleva farsi criticare alle spalle e ripetere, come in altre occasioni, che andava sempre vestito come uno straccione e, per apparire diverso, alla fine mancava di rispetto a tutti. Così, anche se un poco impacciato di sentirsi senza la sua amata uniforme, si dirige anzitempo verso la meta indicata, per non perdere proprio nulla di quello che sarebbe accaduto. Si sentiva curioso e attratto da un non so che. Ascoltare l’oracolo pronunciato da una rinomata cartomante e fare la conoscenza di uno studioso di Tarocchi: sembrava quasi una barzelletta, o una burla del Folle. 
Felice dunque d’avere messo nel suo forziere rupestre la pergamena, l’Eremita lesto va verso l’appuntamento. Una volta giunti a ponte Fabricio, tutti e sette gli Arcani della sorte si limitavano appena a un cenno, per dire che si erano adeguati alla volontà delle Voci. Neppure si scambiavano un amichevole sorriso, perché tra loro esistevano rancori e rivalità antiche. Era preferibile poi mantenere una certa diffidenza, perché l’evento era abbastanza inconsueto e nessuno di loro aveva digerito l’invito perentorio che aveva ricevuto. Pertanto stavano tutti lì, ponendosi mille interrogativi e sospettavano anche dell’esistenza di un complotto, perché l’inimicizia e la sopraffazione facevano parte del mondo che li ospitava. Aggrappati alla sua folta capigliatura, tutti seguono l’Uomo fin dentro lo studio della cartomante e aspettano il momento di essere evocati dalla viva voce di Leda. 
Appena la donna ne scandisce i nomi, l’Eremita, ben contento d’essere il primo, fa la sua apparizione trionfale, ma l’entusiasmo gli si smorza in petto quando vede il Folle, già presente, fargli notare un ridicolo ritratto parlante che lo invitava ad accomodarsi fuori. Rispettoso delle regole, se solo, senza protestare sarebbe indietreggiato, come un cane bastonato nel suo orgoglio, se non fossero scaturiti a ruota gli altri Arcani dell’oracolo. 
Così aspetta l’evolversi degli eventi e sussulta nel vedere la rispettabile Papessa rispondere al Folle col segno poco educato del dito, imitata a bella posta dagli indici protesi, a seguire degli altri Arcani. Gesti meno fini e nobili i loro, più sguaiati e volgari, se paragonati al cenno compassato, quasi benedicente della Papessa, che occhieggiava al ritratto con sprezzo e rabbia, come se si trattasse di un sacchetto della spazzatura, abbandonato in strada da un anonimo insolente. La mimica del secondo Arcano suona quasi come uno squillo di tromba, un invito alla ribellione per la variegata brigata di Tarocchi, decisi a ignorare i ripetuti e cortesi inviti dell’inutile ritratto, posto dal Folle a guardia del proprio territorio prediletto.
 
10
Leda legge le carte all’Uomo dei Tarocchi
 
Leda intendeva procedere ad una nuova sistemazione delle carte, dopo che il Folle indispettito era riuscito a farle volare via dal tavolo ottagonale, su cui spiccava la stella di Davide, incisa con delle scanalature ricoperte d’una leggerissima doratura. Nelle sette case, individuate dalle linee ideali che formavano la stella, come per incantamento, vanno leggiadramente adagiandosi i sette Trionfi della sorte. Sembravano mossi da uno zefiro amorevole, parto delle invisibili energie dei Tarocchi, intenti a reclamare il posto assegnato dal caso, il quale non può essere sminuito, o beffato da chicchessia. 
La cartomante percepiva la presenza degli invisibili Arcani, piccoli come dei soldatini di piombo. Solamente il Diavolo non si era sistemato al centro della terza casa che gli spettava di diritto. Al suo posto si era accomodato il Folle con aria beffarda e dispettosa. Leda rimane sorpresa non per quel fluttuare delle carte, ma perché mai, nella sua collaudata carriera, tanti Trionfi avevano presenziato la genesi di un oracolo.
Leandro, per concentrarsi meglio, aveva chiuso gli occhi. Avvertiva sulle tempie una notevole pressione e voleva rinforzare le barriere difensive. Del resto non poteva permettersi altro, doveva mostrare d’essere forte e non desiderava lasciarsi intimidire. Secondo la cartomante il cliente era perfettamente concentrato e prevedeva che difficilmente avrebbe perso il controllo del proprio livello cosciente e sensorio. A volte le entità sopraggiungevano per prendere possesso di un cliente e lo riducevano a una larva senza volontà. La consueta scheda personale, redatta dalla segretaria, indicava qual era il peso complessivo dei Trionfi sulla persona di Leandro.  
Giunto su segnalazione di amici
Nome: Leandro
Data di nascita: 9 febbraio 1965
Trionfi dominanti*:
Eremita, Papessa, Innamorato, Gerofante, Mondo 
Trionfi** associati al nome: 
Ruota della Fortuna, Gerofante, Mago, Appeso, Imperatore, Torre, Morte
   * La data di nascita 9-2-1965, (prendendo in esame, separatamente, sia le ultime due cifre dell’anno e anche la somma di tutte le cifre dello stesso) individua i numeri 9, 2, 6, 5, 21 (1+9+6+5=21) corrispondenti ai Trionfi detti dominanti.
** Nella premessa iniziale consultare la seconda tabella: lettere dell’alfabeto, Numeri, Trionfi.
Tra sé e senza dire nulla, la cartomante osserva che due Trionfi associati al nome e tutti e cinque i Trionfi dominanti erano presenti nella sequenza; mentre il Diavolo svolgeva il ruolo dell’intruso. “Dai proprio la netta sensazione d’essere un conoscitore dei Tarocchi. Sento la presenza di troppi Arcani.”
“Ho letto qualche trattato classico ma nulla di più.”
“Comunque sia, questa è una sequenza interessante dal punto vista della cabala. Ben quattro Trionfi sono entrati nella propria casa naturale. Vedi: la Papessa, Trionfo 2, cade nella seconda casa. L’Imperatore, Trionfo 4, si posiziona nella quarta casa. Il Gerofante, Trionfo 5, trova posto nella quinta casa  ed infine l’Innamorato, Trionfo 6, occupa la sesta casa.”
“Hai ragione, è vero. Lo trovo molto curioso. Anche io l’ho notato.”
“Allora, ben quattro Trionfi sono entro la propria casa, il che accade raramente e poi, non riesco a crederlo, avverto la presenza distinta dei sette Trionfi chiamati in causa e quella del Folle, che pare abbia simpatizzato con me in questi tempi. Non so se percepisci le loro presenze, ma forse non mi credi. Penserai che voglia impressionarti con affermazioni senza fondamento.”
“No, sono osservazioni preziose per me. Sono venuto per questo. Quanto ai Tronfi potrebbero essere qui. Sento qualcosa di strano. Pure se non ho la tua dimestichezza con i Tarocchi, non escludo che questi fenomeni possano accadere. Vai pure avanti. Il mio tempo scorre inesorabile.”
La cartomante allora capovolge la clessidra e ricorda a Leandro che il caso gli aveva messo disposizione del tempo gratuito. In quel frangente l’Uomo rimane attratto dallo splendido manufatto; forse dalle finiture argentate che sorreggevano le due ampolline di vetro comunicanti, ove scorreva della sabbia finissima. Vi riconosce la medesima clessidra appartenuta al mercante ebreo, padre dell’inventore dei Tarocchi, da lui descritta nel suo sito. Se ne rammenta adesso nitidamente. Poi ascolta qualcuno che, fuori campo, gli stava leggendo una novella amata, come quando era bambino, per fargli prendere sonno. E la voce del narratore spuntata dal nulla, era buona e rassicurante. Trascinava lontano. Nella dimensione della scrittura, dove non ci sono rumori ed è più facile addormentarsi sereni.   
“Da anni inseguiva la voce del silenzio, sempre con cronometrica puntualità: all’ora vespertina, quando le fatiche del lavoro collettivo della città si attenuavano e cominciava la quiete del tramonto. La ripetitiva quotidianità lasciava posto al riposo e alla riflessione e v’era spazio per il dialogo con la propria interiorità, che non risponde mai alle insistenti domande, ma ostinata tace e pare nascondersi e sottrarsi a ogni esame con una tecnica di mimetizzazione quasi perfetta.
Il vecchio occultista ripeteva il medesimo rituale: quando le campane del monastero vicino di Béziers battevano i rintocchi del vespro, tracciava le ben note ramificazioni dell’albero della cabala e le completava aggiungendovi tre radici ascendenti rivolte verso l’ineffabile nulla, poi rimaneva a meditare a lungo, sfruttando l’energia sprigionata dai numeri, che, come un’onda rinfrescante, lo bagnavano e cullavano. La corrente cabalistica lo sospingeva a ripercorrere le tappe della sua vita, fino a sentirsi feto nel ventre di sua madre. 
Torna alla realtà a fatica. Mette insieme i granelli delle proprie fibre, per ritrovarsi seduto dinanzi al grande tavolo fratino cosparso di penne d’oca, inchiostro, appunti e calcoli cabalistici. Ora il rintocco delle campane stava annunciando compieta. Erano trascorse due ore e mezzo di meditazione. Da alcuni giorni aveva terminato il suo trattato sui numeri. Prende tra le mani il manoscritto con emozione e gioia, come si tocca un reperto archeologico raro e d’inestimabile valore. Poi lo stringe forte al petto visibilmente emozionato, come un figlio ritrovato, scomparso in circostanze misteriose e ritenuto da tutti morto. 
Nel fuoco dei roghi purificatori e nelle faville aveva intravisto i frammenti della verità disperdersi, per ritornare all’indistinto, al grande caos da cui tutto è emanato. Era affranto dall’idea della distruzione della sua opera tanto amata, per mano di un’orda intollerante, incapace di confrontarsi con idee differenti da quelle che pretendeva d’imporre con la violenza arbitraria, giustificata in nome di sacri principi e di precise leggi divine. Si sentiva isolato, impossibilitato a difendere il proprio pensiero, preso entro una cerchia di mura merlate che non avrebbero saputo resistere a lungo a un assalto bene organizzato, guidato dalle forze più conservatrici della Chiesa di Roma. Avvertiva sempre più il peso della stanchezza accumulata negli ultimi mesi, passati nella stesura del suo testo e, con una certa ansia, stava cercando una soluzione per garantire una forma d’immortalità alla sua opera: parto infelice della sua mente, già destinato alla consunzione della morte fin dal primo giorno della sua nascita. 
Nonostante l’euforia della realizzazione e la profonda soddisfazione intellettuale, non riusciva a gustare di quel momento. Nella sua condizione di veggente, vedeva quello che il futuro, di lì a poco, avrebbe prodotto: la crociata contro gli Albigesi. Il suo potere però non lo inorgogliva, ma lo rendeva fragile, come il filo d’erba piegato dal vento. Gli eventi lo incalzavano. Doveva trovare una soluzione che almeno garantisse una certa integrità al suo messaggio, affinché altri potessero raccoglierlo. 
L’occultista percepiva lo scorrere del tempo, sotterrato dai granelli di sabbia del deserto concentrata nella clessidra: vestigia e compagna di qualche carovana araba, che lui aveva preservato, come ricordo di famiglia, probabilmente finita nelle mani di qualche intraprendente mercante ebreo, trenta lustri prima. Quell’antica clessidra araba aveva accompagnato il suo peregrinare e a essa era unita la benedizione del padre, che aveva visto a malincuore partire il figlio prediletto anzitempo, preda dell’orgoglio e delle frenesie della conoscenza. I numeri del trattato placavano l’inquietudine dell’occultista, gli davano un certo benestare interiore, ma uno sguardo alla vita disseminata nei granelli di sabbia gli rammentava la propria precarietà e, come un beduino lontano dall’oasi, si vedeva inseguire il miraggio della vita immortale. La sabbia finissima cadeva lentamente, a tratti pareva levitare nello spazio angusto; lo scorrere delle ore dava l’impressione di congelarsi e sottomettersi a quel ritmo lieve e soave, quasi vellutato e impercettibile. 
L’occultista voleva sottrarsi al suadente miraggio creato dalla clessidra, che mimetizzava l’avaro e tiranno signore del tempo, impietoso dissipatore di progetti e speranze. Era pressato da un ingranaggio infernale, misterioso, talora impalpabile, talora manifesto e per salvare dalla distruzione il suo manoscritto ipotizzava diversi stratagemmi, che poco dopo gli apparivano inconsistenti e ridicoli, senza alcuna possibilità di riuscita.
Torna quindi a riflettere sullo schema dell’albero della cabala da poco tracciato, come per trarne un suggerimento, un’ispirazione. E meditando sulla natura dei numeri, si lascia vincere dalla stanchezza e comincia a dormire profondamente.”   
Senza neppure accorgersene, l’Uomo dei Tarocchi sprofonda nel miraggio della clessidra, come un beduino lontano dall’oasi. Incantato dalla sua stessa narrazione, scivola lieve insieme a quei granelli, in una danza senza fine, nel vuoto. L’Eremita però è molto attento e gli fa balenare di fronte agli occhi la benefica luce della sua preziosa lanterna, perché si è accorto che l’Uomo si sta rilassando: se si fosse addormentato, si sarebbe risvegliato trasfigurato, probabilmente nei panni di una larva senza storia, dimenticando la sua passione per i Tarocchi. 
Con distacco la cartomante invece aspettava che il professore prendesse sonno e scivolasse verso l’abisso, poi, vedendolo nuovamente lucido, come se niente fosse, inizia la sua puntuale lettura delle carte. “L’Eremita occupa la casa numero 1 e fotografa la tua persona. Tu sei l’Eremita che sta cercando la risposta. I tuoi strumenti preferiti sono le proprietà della cabala. La sequenza dei Trionfi sembra volerci consegnare un oracolo per iniziati, per chi coltiva l’esoterico. Altrimenti non sarebbero qui riuniti e curiosi ad ascoltare.”
“Ho analizzato i Tarocchi per diversi anni ed ho concluso che il meccanismo di controllo degli Inquisitori ha volutamente alterato le icone originarie, per consolidare nella gente le verità messe in crisi dalle pericolose eresie in espansione. In sostanza, molto probabilmente, erano uno strumento degli eretici per trasmettere le loro idee e in un certo senso proteggerle dall’anatema e dall’oblio.”
La cartomante guarda Leandro con l’aria di chi la sa più lunga. Gli si rivolge col tono di chi mette bene in chiaro che anche se furbo, a me non la si fa. “Allora quella storia sulla ricerca della donna autentica, era solo un diversivo?”
“Un poco, ho esagerato. Per metterti alla prova e vedere dove poteva arrivare la tua sensibilità. Anche se fuorviata, devo riconoscere che ti sei attenuta abbastanza al mio profilo.”
“La posizione della Papessa, nella sua casa naturale, la numero 2, rafforza le sue prerogative di guardiana del Tempio. Abitualmente costituisce un ostacolo insormontabile; ma in questo caso sembra interessata alla tua persona, proprio in virtù della posizione che occupa. Potrebbe essere un’alleata preziosa.”
“Così enigmatica e sapiente è l’icona più indecifrabile e sfuggente di tutte. Non posso che inchinarmi di fronte alla Papessa.”
“Un atto di devozione al sapere il tuo. Però dovrai guadagnarti la sua fiducia con un portamento integerrimo. E’ l’unico Arcano integralista che io conosca veramente.   Nella casa numero 3 è entrato il Diavolo: mimetizzato come sempre, ti vuole confondere.”A questo punto l’esperta cartomante fa una pausa per riflettere. Vorrebbe mentire al suo cliente, limitarsi a dire l’ovvio; ma non  riesce a essere elusiva quanto vorrebbe. “Giacché il Trionfo si trova nella terza casa, che di diritto spetta all’Imperatrice, il Diavolo vestirà i panni femminili.”
Per Leda la presenza del Trionfo Numero 15 aveva un significato inequivocabile e il destino del cliente era in un certo senso marcato per sempre. Leandro si era quasi assopito e stava per essere assimilato, ma, a sorpresa era riuscito a riprendersi. Indubbiamente doveva possedere una buona corazza energetica, altrimenti già sarebbe capitolato in quel fatale momento. “Ti ringrazio per l’avvertimento Leda. Il maschio è sempre troppo fragile di fronte ad una donna, anche la più apparentemente mansueta. Figuriamoci di fronte ad una donna che frequenta il Maligno.” Lo sguardo di Leandro a questo punto s’incrocia con quello di Leda. I suoi occhi erano argentei, quasi metallici e non lasciavano trasparire alcuna emozione. Tuttavia Leda abbassa leggermente lo sguardo, perché si sentiva esplorata e persino vulnerabile. “Comunque vedrò di stare attento, grazie.”
“Nella sua posizione naturale l’Imperatore è un’altra carta benevola. Garantirà affinché i tuoi diritti non siano calpestati. Subito dopo a ruota, nella casa numero cinque, segue il Gerofante: col suo pastorale t’intima la sottomissione e l’obbedienza. Devi prestare molta attenzione a questa carta. I suoi strumenti sono molto potenti: vigila con uno stuolo di Angeli sparsi dovunque.”
“Vedi Leda, a mio avviso l’Imperatore, casa 4, e Gerofante, casa 5, ripropongono l’antico conflitto tra ragione e fede, tra stato e chiesa. Una contrapposizione classica. Comunque i Trionfi possono essere manipolati e letti in una direzione, o nell’altra. Anche le carte usate nella divinazione hanno una loro intrinseca valenza ideologica e politica.”
“La gente comune Leandro non lo sa, anzi non dovrebbe neppure sospettarlo. Se col tuo libro pensi di fare luce su altri misteri, te lo devi togliere dalla testa. Il Diavolo e il Gerofante lo impediranno certamente.”
“Leda, non riesco a mettere veramente a fuoco l’Innamorato.”
“L’Innamorato si trova a proprio agio nella casa numero 6: la sua naturale. Amore sacro e amore profano. Le coordinate sono queste. Deve scegliere. Non sa uscire dal proprio dilemma. Il suo immobilismo è anche il tuo. Se non fosse per la settima carta molto positiva, il ventunesimo Trionfo, tu rimarresti bloccato nelle tue stesse contraddizioni.”
“Leda, vorrei qualche altro chiarimento, se possibile.”
La cartomante interrogata risponde volentieri. D’altronde era il suo mestiere: mettere insieme il più possibile d’indizi, perché dopo il cliente potesse darle ragione. “La tua vocazione alla ricerca è confermata dall’Eremita il cui percorso approda alla sintesi perfetta. Il Mondo, nella settima casa, rafforza la tua capacità di conquistare gli equilibri prefissati. I quattro Trionfi che occupano la loro casa naturale, ossia la Papessa, l’Imperatore, il Gerofante e l’Innamorato hanno una valenza doppia e il loro peso è maggiore rispetto agli altri tre. L’intera sequenza sembra volerci consegnare un oracolo per iniziati. Altrimenti non sarebbero qui riuniti e curiosi ad ascoltare.”
“Leda, non posso che ripetere lo stesso concetto già espresso:  il meccanismo di controllo della Santa Fede ha volutamente alterato le icone originarie. In sostanza i Tarocchi erano uno strumento degli eretici per trasmettere le loro idee e proteggerle dall’anatema e dall’oblio. Comunque riconosco che hai saputo interpretare la sequenza degli Arcani in maniera magistrale.”
In questo preciso istante un dardo galeotto scagliato da Cupido, che accompagnava sempre l’Innamorato, colpisce al cuore il professore, proprio nel momento in cui aveva deciso di mostrare il suo vero volto di studioso ed era più fragile ed esposto agli influssi esterni. 
Sulla natura delle frecce deputate all’innamoramento, si potrebbe aprire una digressione per analizzare come agiscono e sono fatte. Ci limiteremo a dire che Cupido ha in sostanza mantenuto il segreto esclusivo del suo manufatto artigianale fino ad oggi e che nessuno finora è riuscito a contraffarle. La punta è bagnata con la rugiada mattinale, dopo una notte di luna piena ed ha pure bisogno del sangue scaturito dalle doglie di una puerpera giovane e avvenente. L’asta è ricavata da un ramo di mirto, strappato naturalmente all’albero dalla forza del vento, durante un temporale. In tal modo condenserebbe su di sé l’energia dei quattro elementi primordiali della vita: il Fuoco, la Terra, l’Aria e l’Acqua e proprio per tali caratteristiche sarebbe irresistibile.  
Sentendosi trafitto nel profondo, l’Uomo dei Tarocchi sospira e poi esterna i suoi sentimenti. “Strano, proprio adesso avverto che mi sono invaghito di te. Non so neppure perché, ma fare del corteggiamento ora mi sembra fuori luogo.”
La cartomante sapeva che alcuni clienti s’innamoravano del suo fascino ambiguo e provocante e li contraccambiava, sia maschi, sia femmine. Un dardo dell’innamoramento, scagliato da Cupido, colpisce anche Leda quasi a tradimento, sorprendendola.  E’ la prima volta che accadeva. Al fascino femminile, più intrigante, non sapeva resistere e non diceva quasi mai di no. Al sesso forte spesso restava indifferente, ma si concedeva egualmente, per il piacere d’averlo in suo pugno, per approfittare della sua naturale debolezza. Quello strano trasporto e interesse per Leandro in un certo senso la coglievano impreparata, ma non era abituata a contrastare le pulsioni, anzi, al contrario, ad assecondarle. Pensa di concedere una pausa di riflessione a quel turbamento interiore; forse era più stuzzicante dargli tempo di crescere e diventare più travolgente. “L’innamoramento deve essere alimentato. L’attesa di solito lo rafforza, perché l’attrazione sul nascere è rinvigorita dalla lontananza. Potrebbe essere una vaghezza passeggera. Ci rivediamo fra tre settimane: il giorno ventisei di maggio mi risulta disponibile. Se avrai ancora intenzione di venirmi a trovare, puoi prendere un appuntamento adesso, per l’ultima seduta delle ore diciotto e trenta. Uscendo comunicalo alla segretaria, nel caso avesse inserito qualcun altro oggi, a mia insaputa. Noi avremo modo di leggere ancora le carte e poi di conoscerci più intimamente.”
Leandro si limita ad annuire e a questo punto la seduta s’interrompe, come previsto dalla scansione degli appuntamenti e non poteva essere altrimenti. 
L’Eremita prova subito ammirazione per quel professore dall’aria modesta; avevano in comune la tenacia e la determinazione nella ricerca del particolare indeterminato che sfugge all’analisi più meticolosa. L’Uomo dei Tarocchi aveva fatto luce su un mistero che doveva rigorosamente restare velato. Per questo motivo, le Voci si erano mobilitate e stavano chiamando a raccolta alcuni Trionfi. Neppure l’Eremita sapeva bene come stessero le cose. I conti non gli erano mai tornati. Non era riuscito ancora a spalancare le porte del Tempio della conoscenza. A questo punto, essendo maestro nell’applicare alle situazioni il calcolo cabalistico, comincia a valutare il peso dei Trionfi scesi in campo. Attribuisce a ogni carta il suo numero corrispondente, poi tira la somma e ottiene per riduzione il numero 8, che corrispondeva sostanzialmente all’equilibrio: segno che le forze contrapposte si bilanciavano. 
Eremita - numero 9
Papessa - numero 2
Diavolo - numero 15
Imperatore - numero 4
Gerofante - numero 5
Innamorato - numero 6
Mondo - numero 21
Somma dei numeri 9+2+15+4+5+6+21 = 62 = 6+2 = 8
Numero 8 - Giustizia   
Deduce dai numeri che nessun Trionfo da solo sarebbe prevalso sugli altri, perché un sostanziale equilibrio proteggeva il professore, al di là dalle volontà dei singoli.  Alla fine determina che forse, standogli alle costole, avrebbe potuto influire sul corso degli eventi, che si possono orientare in maniera anche inaspettata. Spesso dominano indifferenza e abitudine e l’individuo d’intelligenza media segue la scia del vento, anche se è appena una brezza impercettibile.

 

11
Innamorato e Cupido: simbiosi e dissapori
 
In talune occasioni alle Voci non mancava il buon umore e la voglia di scherzare. Di buon mattino decidono di collocare il messaggio destinato all’Innamorato direttamente nella faretra di Cupido, il quale era esageratamente suscettibile e timoroso. Il grazioso alato puttino fa per prendere, come d’abitudine, una freccia e si ritrova in mano una pergamena arrotolata. La lascia cadere a terra con disgusto, come se avesse toccato una serpe estranea e velenosa. Spaventato, comincia a battere i piedi e urla, colto da uno dei suoi ricorrenti attacchi isterici, a bella posta esibiti quando era contrariato e voleva richiamare l’attenzione dell’Innamorato, con il quale oramai viveva praticamente in simbiosi, da quando i Tarocchi avevano fatto la loro prima comparsa. 
Queste crisi nervose avevano radici antiche e noi, nelle vesti di affabulatori, cercheremo di spiegarle. La vicenda malinconica di Cupido non è mai stata divulgata prima d’ora e meriterebbe un racconto a parte. Per amore di brevità, ci limiteremo a dire che altre entità avevano fatto la loro comparsa prima della genesi dei Tarocchi. Tra queste spiccavano le divinità dell’Olimpo, alimentate dai poemi epici di Omero e dalla fantasia popolare. Ebbene l’unico sopravvissuto di quella gloriosa e nutrita schiatta di Dei e d’Eroi era stato proprio Cupido: puttino nudo e alato, pronto a trafiggere il cuore di sconosciuti, destinati a diventare futuri spasimanti. Un giorno si era ritrovato inspiegabilmente solo in un Olimpo vuoto. Per la sorpresa e lo sconforto era rimasto a lungo ad aspettare un improbabile ritorno dei suoi compagni e amici, ma poi aveva lasciato quella mitica dimora, alla ricerca insperata di una traccia lasciata dai suoi simili che si erano volatilizzati in una notte senza lasciare segni, o messaggi di sorta. Cupido, Eros per i Greci, aveva anche adottato il corrispondente nome latino, e, forte dell’alimento quotidiano fornitogli dagli umani, aveva anche replicato se stesso in una miriade sterminata di Cupidi alati, del tutto identici a lui, che non avevano sviluppato una personalità autonoma, ma si limitavano a fare sbocciare innamoramenti con la consueta freccia. In tal modo, così confuso tra tante attive copie, nessuno avrebbe potuto riconoscerlo e riservargli la fine degli Dei scomparsi. Quando, il che accadeva di sovente, raccontava la sua incredibile vicenda, diventava a ragione triste e talora piangeva a dirotto come un bambino, lasciato solo dai suoi genitori che aveva sempre nel cuore e avrebbe rivisto ben volentieri. 
Quelle accorate acerbe rimembranze erano necessarie a dire dell’Innamorato, perché alimentavano la speranza di trovare una spiegazione e poi quei ricordi doverosi rendevano imperituri gli affetti. Quotidianamente accorreva accanto a Cupido, per rincuorarlo se necessario, per ascoltarlo pazientemente e questo era l’indubbio segno che l’Innamorato aveva sposato fino in fondo il suo ruolo di padre adottivo, amorevole e premuroso, che non si spazientiva mai di fronte al pianto nervoso del suo fanciullino, al quale dedicava le ore del mattino, quando la gente comunemente era impegnata nei preparativi per recarsi al lavoro e trascurava la sfera sessuale, perché aveva sempre una grande fretta.
Legge la pergamena ad alta voce, rincuorando il suo pupillo. “E’ stato solo uno scherzo di qualche messo birbante. Ha lasciato bellamente la posta nella buca delle lettere sbagliata e bisogna riderci sopra e non prendersela per un nonnulla. Su con lo spirito! Andiamo a farci quattro risate. Vediamo gente.” Quando si mette in cammino, gli si affianca il fedele Cupido, dopo essere andato a fare scorta di frecce per il suo arco, semmai ce ne fosse stato bisogno.
Quella dell’Innamorato statisticamente era da sempre la carta più evocata e per questo motivo reputava di essere il padrone della situazione e il centro dell’attenzione di tutti. E di ciò andava fiero. “Sono il più richiesto. Il mio ruolo è fondamentale.” Ripeteva la medesima filastrocca a chiunque incontrava, con fare vanesio. Uno stuolo di scriventi, al servizio del consumismo e della pubblicità, agli innamorati aveva anche dedicato un giorno particolare del mese. “Perché mai non hanno rispettato la cabala, dico io! Il giorno degli innamorati avrebbe dovuto essere il sei giugno. Perché in Italia abbiano scelto il quattordici febbraio, proprio non lo so. Attribuirmi un numero che si sposa con la Temperanza e non certo con gli spasimi diletti. Valli a capire. Fanno sempre una grande confusione.” Comunque era contento di quella celebrazione, perché nessun altro Arcano aveva un giorno dell’anno tutto per sé, anche se a suo avviso avrebbe dovuto essere un altro.
L’Innamorato era giunto a Ponte Sulpicio per ultimo e gli Arcani già stavano approntandosi a lasciare la postazione per mettersi alle costole dell’Uomo dei Tarocchi. L’Innamorato aveva fatto appena a tempo a prendere posto sul parapetto e non aveva salutato nessuno. Era rimasto zitto e buono, fino a quando la cartomante non si era messa a leggere la sua carta. “Mente, mente spudoratamente. Non sta rincorrendo l’amore. E’ interessato solamente ai Trionfi.” Confida sottovoce a Cupido che gli fa cenno di tacere. Non gli era simpatico l’Uomo, perché la sua non era una faccenda di cuore, ma una sottile questione filosofica. 
Poi interloquisce con il Gerofante che gli stava di fianco, ad alta voce, perché tutti possano udire. “Questo soggetto matricolato conosce le carte più della cartomante. Tu ne convieni, vero?”
“State zitto che mi fate perdere la concentrazione. Lo sa benissimo la donna. Mi distraete con le vostre banalità.” Risponde severo e autorevole il quinto Arcano. Da sempre continuava a dare del Voi indistintamente a tutti, e tutti regolarmente gli davano del tu, per ripicca, per volergli mancare quel rispetto che pretendeva in eccesso.
Per natura l’Innamorato era portato a vedere l’altro lato della medaglia e si domanda se, per caso, quel mezzo convegno di Arcani non fosse stato organizzato apposta come una sorta di beffa, di scherzo. Vuole stuzzicare il suo illustre vicino, anche per vedere se prendeva a serio la faccenda. Questa volta si rivolge al Gerofante sussurrando, con maggiore rispetto. “Lo vedete anche Voi. Il Diavolo si è reso subito conto della situazione e già ha lasciato lo studio dalla cartomante. Ha presagito lo scherzo. Non ci è cascato.”
Lo sposo della quintessenza (appellativo affibbiatogli dal Folle) a questo punto perde la pazienza e si dilegua agli occhi della compagnia per mettersi al riparo dalle persecuzioni beffarde dell’Innamorato, che ogni volta lo sommergeva con le sue scempiaggini, fatte apposta per irritarlo. Lo aveva scomunicato nel corso dei tempi, lanciando strali contro l’amore e contro gli innamorati, vietando le copule contro natura, ma non era mai riuscito nell’intento di togliere agli umani le passioni dei sensi, che, li rendevano, a suo avviso, più simili alle bestie che agli Angeli.
Contrariato l’Innamorato, ammutolisce, osservando che l’Eremita prestava grande attenzione all’evolversi dell’oracolo e non pareva neppure sfiorato dall’idea che potesse trattarsi di una beffa. Così, verso la fine, quando l’Uomo manifesta una certa attrazione calcolata nei confronti della cartomante, per punirlo, ordina al suo Cupido di scagliare il suo dardo, per trafiggere il cuore di quel bugiardo. Cupido lesto prende la freccia dalla sua faretra e trafigge il cuore dell’Uomo e subito dopo, di sua iniziativa, anche quello della donna, trasformando un innamoramento in un amore. Sorride soddisfatto, con fare serafico. “Così non potranno svincolarsi dal loro legame.”
L’Innamorato, ribollendo d’ira, attende la fine della consultazione, sia perché gli altri Arcani gli avevano ordinato di tacere, sia perché non voleva fare una scenata davanti a tutti.  Contiene la sua rabbia. Poi tuona contro Cupido parolacce e improperi a non finire. “Dovevi fare innamorare solo l’Uomo! Stupido!”
“E perché non anche la cartomante?” Cupido risponde facendo la faccia meravigliata del perfetto idiota. 
“Perché io decido chi deve innamorarsi e non tu, coglione.”
“Non sono il tuo schiavetto. Saputone.”
“Lo sai che si tratta di un caso delicato. Lo sai bene, o non lo hai capito ancora? Idiota!”
  “Senti bel saputone, lo so. Nessuno ti ha chiesto di farlo innamorare. Lo hai voluto fare innamorare, per dispetto! Di tua iniziativa. Ed io, Cupido, ho preso la mia!”
“E se anche fosse così? Non sono libero di fare innamorare chi voglio?”
“Certo, ma anch’io sono libero di provocare i miei innamoramenti.”
“Tu stai provocando la mia collera. Adesso hai complicato maledettamente tutta la faccenda.”
“No, ho dato loro le stesse possibilità. Prepotente di un villano.  Fanculo.” Anche Cupido spazientito infila la sua sequenza d’offese a ripetizione. La serie alternata di rimproveri, d’improperi e d’insulti finisce con Cupido che depone arco, faretra con frecce in mano all’Innamorato e se ne va via dicendo che era stanco di essere usato e trattato come una pezza da piedi. 
 
 
12
Il Gerofante: direttore dell’opificio angelico
 
    L’artefice dei Tarocchi aveva attribuito al quinto Trionfo il nome solenne di Papa e aveva prestato un doveroso omaggio all’unica figura carismatica che condizionava la vita politica e sociale del tempo in maniera marcata e oggi inimmaginabile, perché ogni sostanziale cambiamento passava prima attraverso la sfera religiosa. Alla luce della sensibilità medioevale, collocare il Trionfo del Papa, il numero 5, a ridosso del Trionfo dell’Imperatore, il numero 4, significava tenere conto del dualismo belluino esistente tra le due autorità che da sempre lottavano per avere il primato nella società. Supporre che ogni operazione di nomenclatura dei Tarocchi fosse servita a rafforzare la Santa Fede contro il dilagare dell’eresia, non sarebbe poi azzardare una tesi tanto infondata da sostenere. Due casi sono indicativi su tutti: il Trionfo 14, denominato Temperanza, una delle virtù cardinali e il Trionfo 16, detto la Casa di Dio, specchio dell’azione poderosa della trascendenza.
  Potremmo considerare il quinto Trionfo anche da una prospettiva energetica. Se i primi quattro sono riconducibili agli elementi fondamentali della vita: il Fuoco, la Terra, l’Acqua e l’Aria; il quinto rappresenta la forza unificante, il legame alchemico che impregna indistintamente tutte le cose. Secondo l’Uomo dei Tarocchi una denominazione più appropriata, oggi, per questo Trionfo dovrebbe essere quello di gerofante, che indica, secondo l’etimologia greca, una persona che interagisce con il sacro, con le forze soprannaturali.
  In maniera forse irrispettosa della tradizione consolidata, noi, abbiamo ritenuto opportuno e conveniente avallare le tesi autorevoli del professore che da poco è uscito dallo studio della cartomante e quindi abbiamo chiamato Gerofante, il quinto Trionfo. In caso contrario, il nostro esperto professore, talora fumantino, ferito nella sua dignità, avrebbe potuto abbandonare le sorti di questa storia e lasciarci su due piedi, prima di scrivere la parola fine.
  In passato nessuno osava guardare impunemente in faccia chi incarnava la parola di Dio in terra. Nell’icona si vedono due individui, inginocchiati in segno di sottomissione, che aspettano una sorta di benedizione e di unzione dal Santo, in piedi con il proprio pastorale. Costruito sui valori della tradizione e della parola di Dio, l’Arcano del Gerofante nel corso dei secoli si era intrecciato con le vicende gloriose della Chiesa. Lutero però aveva messo in discussione il primato del vescovo di Roma, la sua infallibilità e il ruolo stesso del clero: semplice intermediario del rapporto diretto che intercorre tra l’uomo e Dio. Incurante dei mutamenti occorsi, il quinto Arcano era passato indenne attraverso gli scismi dei protestanti e anzi aveva fatto di tutto per rafforzare il punto di vista dei tradizionalisti, di chi aveva una visione di una Chiesa intollerante, ancorata a dogmi medioevali vetusti e obsoleti, ostile alla scienza e ai cambiamenti imposti dalla ragione. 
  Per vocazione esibizionistica e per volersi distinguere dagli altri, il Gerofante aveva sempre mantenuto in ogni circostanza una sua dignità esteriore. Nessuno lo aveva mai visto sorridere. Era abitualmente serio e meditativo, convinto di corrispondere e di interpretare i voleri dell’Essere Supremo. Le Voci lo tenevano in grande considerazione e rispetto, perché senza di lui l’intero sistema di controllo sarebbe crollato. Lui vigilava sulla coscienza degli umani per bocca dei sacerdoti e grazie allo sguardo degli Angeli; perdonava e prometteva la vita eterna; aveva il potere sulle anime dei defunti e interagiva col Creatore di tutte le cose (almeno così sosteneva pubblicamente).  
  Solamente il Gerofante era ammesso all’interno dell’inviolata Fortezza delle Voci. Quando si approssimava, era preceduto da cinque figure angeliche che ne annunciavano la visita e invitavano tutti quelli che stavano lungo il cammino a inginocchiarsi al suo passaggio. Il munito portone della Fortezza si spalancava e il cigolio dei cardini era considerato un segno di rispetto che raramente si ascoltava in quelle plaghe semi deserte dove nessun viandante osava mettere piede. Di solito il quinto Arcano intratteneva colloqui riservati con le Voci più autorevoli e spesso andava a vedere come procedevano i lavori alla teca degli Angeli di cui era diventato l’esimio direttore responsabile. La grande fabbrica di Angeli era l’unica autorizzata a questa delicata produzione e aveva la paternità intellettuale per ogni modello, dal più semplice al più elaborato. I disegni e i progetti erano opera delle Voci che si servivano delle schiere degli Angeli per assolvere le più svariate funzioni. Il Gerofante era stato promosso direttore da quando si era presentato alla Fortezza con una spropositata richiesta di manovalanza angelica, tale che gli aveva spalancato la porta finora inviolata.
  Il quinto giorno del quinto mese del secondo giubileo, nell’anno del Signore 1350, quattro brutti ceffi, assomiglianti più a demoni che ad Angeli, stavano giocando a morra e urlavano una sequela di numeri uno sull’altro, in attesa della vittoria. Neppure si danno la briga di guardare in faccia il visitatore e gli sbattono in faccia il regolamento che spiegava come potere avere accesso alla Fortezza.
Senza farsi annunziare da chicchessia il Gerofante si era presentato in veste dimessa. Legge e accetta le regole del gioco, senza scomporsi. “Sono il quinto Arcano.” Dichiara.
  A quell’epoca non era ancora famoso e quindi gli rispondono con la classica formula, risparmiando le cerimonie. “Allora devi vincere tre mani su cinque.”
Per tre volte pronuncia il suo numero: il cinque. Per tre volte consecutive riesce a vincere la mano. La prima volta esibendo un quattro, contro l’uno, azzardato prontamente dal primo guardiano, il quale emanava un olezzo inconfondibile. La seconda calando un due, contro il tre oppostogli dal secondo guardiano, il cui cipiglio poco raccomandabile non faceva presagire nulla di buono. La terza volta spuntando con uno zero, contro il cinque del terzo che se la rideva con aria da smargiasso. Il quarto guardiano, apparentemente il più educato e il meno aggressivo, lo riceve e gli domanda, dove vuole andare.
  “Alla Teca degli Angeli.”
  “Non esiste!”
  “Come! Non esiste la Teca degli Angeli?”
  “Esiste una Tanatoteca!”
  “Una Tanatoteca?”
  “Sì, dove finiscono i morti, non tutti: solo quelli più importanti.”
  “Non m’interessa. Io voglio essere accompagnato dove si fabbricano gli Angeli.”
  “Ah! L’opificio angelico. Ogni cosa ha un suo nome.”
  “Teca degli Angeli suona meglio.”
  “Io, intanto, ti porto all’opificio angelico, poi te la vedi tu.”
  Così, spalancati i portoni dell’opificio, il Gerofante è ricevuto da un commesso: un bell’Angelo della categoria ordinaria, con aureola piccola e poco luminosa e ali piuttosto elementari. “In cosa posso servirla?”
  “Allora vediamo. Vorrei acquistare novemila schiere angeliche.  Tremila di terza fascia: mille Angeli, mille Arcangeli e mille Principati; tremila di seconda fascia: mille Potestà, mille Virtù e mille Dominazioni; tremila di prima fascia: mille Troni, mille Cherubini e mille Serafini.”
  “Vedo che il signore è un vero competente! Con chi abbiamo l’onore di parlare?”
  “Con il Gerofante dei Tarocchi.”
  “Capisco. E’ un onore riceverla, ma sono spiacente di non poterla accontentare. Abbiamo appena una decina di unità, circa, e tutti di terza fascia.”
  “Sono molto sorpreso! Che razza di opificio angelico è mai questo?”
  “Abbiamo smesso di produrli da diversi anni.”
  “E per quale motivo?”
  “Il picco produttivo è stato verso l’Anno Mille. Si sono vendute molte copie dell’Angelo dell’Apocalissi. E poi c’è stato un calo di vendite inspiegabile.”
  “Ci vuole qualcuno che sappia rilanciare la produzione.”
  “Beh! La sua richiesta rende ciò possibile.”
  Così il Gerofante, in un sol giorno, era diventato il maggior acquirente e il direttore dell’opificio angelico, con licenza d’entrare e d’uscire liberamente dalla Fortezza, in virtù di un salvacondotto valido per sempre e senza dovere passare sotto le forche caudine del gioco della morra celeste.
  Con nostalgica determinazione, aveva scelto per dimora la superstite cattedrale di Saint Nazaire, proprio nella città di Bèziers, messa a ferro e fuoco e bersaglio della Chiesa di Roma. Assomigliava più a una fortezza ed era stata spettatrice alla santa crociata contro i Catari voluta da Papa Innocenzo III. Si era installato nel torrione di sinistra, per dominare la piana dallo sperone roccioso a picco sul fiume. Il luogo rinverdiva i fasti dell’Inquisizione e i metodi delle crociate. 
  In occasione degli inviti personalizzati, le Voci avevano deciso d’andare a prendere il Gerofante con un cocchio d’oro tirato da due splendidi unicorni alati. I camuffamenti degli inviati della dimensione celeste oramai gli erano familiari. Di solito si manifestavano solo in casi particolari, quando era necessario un incontro ravvicinato. Il quinto Arcano intuisce subito la situazione e non sono necessarie parole superflue. Si lascia trasportare dagli unicorni alati, dove era richiesta la sua presenza, come un fedele si lascia aspergere dall’acqua benedetta, senza opporre nessuna resistenza, lieto per quell’opportunità offertagli dai mitici animali che lo levano a tempo, proprio al basamento marmoreo dell’Isola Tiberina, per assistere all’oracolo tanto prezioso. Abituato a non mettersi mai in discussione e a non rivedere mai le proprie idee, secondo il Gerofante, l’Uomo dei Tarocchi stava mentendo spudoratamente, per fare della pubblicità gratuita al suo sito ed anche i benedetti Angeli c’erano cascati in quella mastodontica montatura. Indignato e distratto dalle punzecchiature e dalle provocazioni mirate dell’Innamorato, affrettatamente, ritiene che il sedicente professore non sapesse nulla che già non fosse ampiamente noto. Però detestava ogni individuo agnostico e soprattutto temeva la diffusione di certe idee; pertanto era necessario rinverdire gli strali della scomunica contro chi maneggiava maldestramente i Tarocchi e se ne serviva per obiettivi lucrativi, o per tessere sistemi filosofici. Pensa dunque d’andare a cercare qualche antica bolla pontificia contro le degenerazioni della cartomanzia e di trovare un modo per divulgarla, al più presto, prima che la mala pianta desse i suoi frutti e fosse troppo tardi per estirparla.
 
 
13
Il trono di marmo pario dell’Imperatore
 
    Nel corso dell’età medioevale, l’istituzione del Sacro Romano Impero Germanico, magniloquente nella sua facciata ma piuttosto fragile  nella sostanza, dovette combattere contro due nemici indomabili: la nobiltà, ancorata ai propri privilegi e il clero, strumento delle decisioni politiche del Papa.  Mai l’Imperatore avrebbe voluto patteggiare con la suprema autorità in materia di fede, e al Papa avrebbe solo garantito appoggio e protezione contro l’eresia, la quale, minando l’autorità religiosa, indirettamente metteva in crisi anche il potere temporale. 
  Il quarto Arcano dei Tarocchi era nato all’ombra di questa mentalità e interpretava alla lettera e senza mezze misure il ruolo storico che spettava all’Imperatore: emblema di un potere laico, il cui antagonista maggiore era il Papa, unto dall’investitura divina e proteso a plasmare la società sulla base della morale e della fede. A queste coordinate storiche l’Arcano si era attenuto con coerenza e dedizione, come se si fosse trattato di un impegno solennemente preso con la propria coscienza.
  L’Imperatore dei Tarocchi s’ispirava ai quattro elementi primordiali che avevano contribuito a rendere possibile la vita: il Fuoco, la Terra, l’Aria e l’Acqua. A suo dire era riuscito a fondere le energie originarie nel possente trono di marmo sul quale con ostentazione amava incontrare tutti quelli che chiedevano udienza. Convinto di rappresentare la totalità degli Arcani, avrebbe voluto evitare inutili dispute e sanare i contrasti sorti nel corso dei tempi, però non era riuscito nel suo intento e, quasi subito, i Tarocchi si erano divisi in due fazioni contrapposte, rinnovando la litigiosità dei guelfi e dei ghibellini che a Firenze avevano appoggiato rispettivamente le ragioni del Papa e dell’Imperatore. 
  Con l’intenzione di primeggiare sul mondo, anche i Tarocchi boriosi e temerari, usando gli umani come pedoni in un sanguinoso e crudele torneo di scacchi, si erano dati a lungo battaglia senza riuscire mai a imporsi definitivamente. La frattura era avvenuta molto tempo fa e, sull’onda della ragione affermatasi nell’età dell’Illuminismo, l’Imperatore si era finalmente imposto, facendosi riconoscere dalla maggioranza quale sovrano simbolico.
  Scomunicato e bandito dal Gerofante, nei primi anni, aveva vagato in molti luoghi, poi si era messo sulle tracce delle rovine della magnifica residenza che Adriano, sovrano inimitabile nella gestione attenta del potere e preoccupato di difendere l’integrità dell’Impero romano, aveva fatto costruire per la sua vecchiaia, provvedendola di una biblioteca, di un teatro greco e di un edificio termale adibito a bagni di calore. 
  L’Arcano aveva patrocinato gli scavi, poi si era stabilito sulla sommità del colle, dove aveva eretto il suo trono impreziosito con simboli alchemici e diventato famoso, perché nessuno aveva mai, prima d’allora, realizzato nulla di simile. L’Imperatore, impregnandosi dell’energia dei quattro elementi primordiali, era riuscito a generare una sostanza ideale che aveva plasmato a suo piacimento. Per alcuni anni aveva custodito gelosamente il procedimento, ma poi gli amici erano riusciti a farsi confidare il segreto e infine tutti gli Arcani, chi prima, chi poi, erano riusciti a realizzare anche le loro opere, sempre più ricercate. L’Imperatore si era limitato all’ambiente che ospitava il simbolico trono e non si era lasciato prendere dalla mania di grandezza, perché non voleva eccedere in esibizionismo.
 Ogni giorno, secondo un cerimoniale oramai consolidato da secoli, quattro splendide donzelle precedevano il quarto Arcano mentre saliva lentamente i quattro gradini che portavano al trono. Una, figlia del Fuoco, agile e scapigliata con le chiome rosse e le pupille color del sole; una, figlia della Terra, muscolosa e forte, dalle trecce nere come la lava solidificata e le iridi ardenti color brace; una, figlia dell’Aria, elegante e leggera, dai capelli turchini e ondulati e gli occhi azzurri color del cielo; una, figlia dell’Acqua, eterea e pallida, dalle ciocche verdi e umide e le iridi perlacee. Le quattro donne all’unisono intonavano una solenne cantica di omaggio e di celebrazione delle prerogative imperiali, di cui erano tutte spose fedeli. L’idillio amoroso di ciascuna durava per ventidue giorni, sia per rispetto al numero complessivo dei Trionfi, sia per rafforzare la cabala, essendo 22 riducibile a 4. Il sodalizio non provocava nessuna rivalità e gelosia, perché tutte erano rispettate e amate nel medesimo modo. 
  Stava l’Imperatore assiso sul suo trono di marmo, eretto a testimonianza visibile delle sue prerogative. Un centauro si presenta per consegnargli un messaggio redatto dalle Voci, debitamente sigillato. L’animale mitico nel porgerlo s’inginocchia sulle due zampe anteriori e china il capo, compiendo un duplice segno di rispetto. Il particolare non sfugge all’attenzione dell’Imperatore che, con un cenno deciso della mano, congeda il messo per allontanarlo dal suo cospetto. Rispettosamente, senza voltare le spalle, il centauro discende a ritroso quattro gradini, poi si ferma ad aspettare una risposta. 
  L’Imperatore non crede sia possibile quello che va leggendo e sorride. “Dovrei assistere a un’ordinaria lettura di carte! E’ semplicemente ridicolo!”
  La replica del messaggero è ferma e decisa. “Io sono un emissario delle Voci e non sono abituato a irridere nessuno.”
  Per un attimo anche l’Imperatore, come l’Innamorato, ha pensato trattarsi di uno scherzo; ma il sigillo impresso sulla ceralacca lo convince del contrario. “Un semplice mortale mette in subbuglio le Voci, sempre così riservate nel mantenere le distanze. E dovrei anche scomodarmi per dare il mio contributo. Quando ancora non sono stato riconosciuto come signore del mondo dal Gerofante, suddito dei tuoi padroni. No! Riferisci loro che non mi smuovo dal mio trono!”
  “Mi permetto di fare osservare all’Imperatore che c’è dell’altro. Potrebbe indurvi a cambiare idea. Abbiamo la certezza che lo studioso dei Tarocchi ha descritto il vostro trono alla perfezione in quel suo luogo informatico. Dunque deve essere in combutta con qualcuno, forse spie, perché ha rivelato particolari sconosciuti ai più e divulgato chiavi cabalistiche, oltraggiando la Maestà Vostra.”
  “Dimostra quanto dici. Per principio non do credito a voci inconsistenti che nascono in un baleno e si dissipano con altrettanta velocità.”
  “Quattro sono i gradini che precedono il trono dell’Imperatore. Nel mezzo di ciascun gradino di pietra spicca un quadrato di marmo, diviso in quattro parti uguali dalle sue diagonali, che formano come tante piramidi a base quadrata viste dall’alto. 
  Ciascuna piramide-prospettica presenta una coloritura differente: una di marmo completamente bianco, un’altra totalmente scura, una con i triangoli orizzontali bianchi e quelli verticali scuri, un’altra viceversa con i triangoli orizzontali scuri e quelli verticali bianchi; ciascuna è contrassegnata dai quattro simboli alchemici dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, ripetuti quattro volte ciascuno.
  La piramide a base quadrata visualizza la grande tetrade, essendo nel medesimo tempo unitaria, poiché si compone di un vertice che né è la sintesi geometrica; binaria, essendo due le diagonali di base; ternaria, essendo tre i lati delle facce triangolari; quaternaria, essendo quattro i lati della base quadrata. Le virtù ermetiche discendono direttamente dal numero quattro e visivamente sono simboleggiate da una piramide a base quadrata vista dall’alto e dai quattro toni cromatici differenti.”
  “Allora vale la pena andare a incontrare questo studioso di Tarocchi. Sono proprio curioso di saperne di più. E poi voglio conoscere quello che tu chiami luogo informatico. Mi hai convinto. Ti seguo, ma prima rispondi a una domanda. Se ancora, per ostinata ripicca, avessi opposto un fermo no, in quale modo avresti tentato di farmi cambiare idea?”
  “Io sono qui in veste di pacifico ambasciatore. Mio malgrado, mi sarei trasformato in nemico ostile nei confronti delle vostre spose tramutandole in tante statue di pietra, con questa verga magica che il disattento Mago ha lasciato incustodita, per seguire il gioco d’azzardo: il suo svago preferito!”
  “Sei uno stupido, a dare credito a quei caproni dei tuoi padroni celesti. Simula sempre il Mago. Lascia in giro innocue asticelle di noce, del tutto simili alla bacchetta magica originale. Un noto proverbio popolare dice che l’ambasciatore non porta pena. Vorrei che questa conversazione restasse confidenziale.”
  “Sua Maestà si confonde, se pensa che voglia spettegolare come una serva e raccontare in giro cose del trono e storie d’ingannevoli bacchette magiche. Solennemente m’impegno, con la mia parola d’onore, di non farne menzione mai!” Il centauro sincero guarda in faccia l’interlocutore, che gli monta in groppa, per seguirlo dove aveva tanta voglia di condurlo.
  Approdano all’imbarcadero dell’isola Tiberina, dove era ormeggiato un mezzo della polizia fluviale. Guadagna ponte Fabricio, l’Imperatore, per andare ad aspettare il transito del professore, che, con il suo trattato sui Tarocchi, aveva messo in moto tutta quella macchina da guerra. Su un parapetto già era seduto il Mondo, accanto all’Eremita. Di fonte, sul parapetto opposto, ciondolavano il Diavolo e il Gerofante. Tutti ricambiano il cenno di saluto col capo, ma non avevano voglia d’iniziare nessun tipo di conversazione e stavano guardinghi, avvolti da un alone di diffidenza. Per affinità ideologica l’Imperatore sceglie la sponda laica e non avrebbe potuto fare diversamente.
 
 
14
Melissa, la segretaria della cartomante
 
Da quattro mesi Melissa soggiornava a Roma, in una camera mobiliata. I soldi stavano finendo, era in arretrato di una mensilità e la proprietaria già l’aveva avvertita che, se non avesse saldato entro tre giorni, sarebbe stata mandata via. Per caso aveva letto un’interessante offerta di lavoro su un settimanale abbastanza diffuso nella capitale, dove gli inserzionisti privati pubblicavano gratuitamente ogni tipo di annuncio. Una cartomante cercava una segretaria. Melissa sapeva che, senza un salario fisso, sarebbe dovuta tornare a Béziers, sua città natale, in Provenza, ad aiutare il padre nel suo piccolo albergo; ma non sopportava l’idea di stare vicino alla matrigna marocchina, sposata in seconde nozze. Melissa decide di sfruttare la buona occasione. Si presenta al colloquio verso mezzogiorno, la domenica mattina.
  Assistita dal suo Arcano guida, Leda riceveva le aspiranti segretarie. Queste inizialmente erano sottoposte al vaglio con un pendolo fatto di pietra lavica. Era un procedimento rilassante che assomigliava a un’ipnosi. Se non erano ritenute idonee, quando uscivano, prendevano coscienza di un normale colloquio di lavoro andato a male e non ricordavano nulla. “Osserva attentamente questo talismano e lasciati cullare dalle sue oscillazioni. Quando rispondi, devi essere spontanea, tranquilla e sincera. La parte vulcanica di questa pietra farà affiorare il fuoco originario che è in te.”
Melissa si sente invasa da un’improvvisa vampata di calore. Le viene la frenesia di spogliarsi. Leda l’asseconda.  “Togliti gli indumenti. Voglio vederti nuda.” Melissa non si era mai mostrata a nessuno, ma per la malia subito obbedisce con una certa naturalezza e non mostra disagio quando si sente toccare i seni e palpare tra le cosce nelle parti intime. Forse per essere sgraziata e mascolina, non aveva mai avuto un corteggiatore e provava una vaga e indefinita attrazione per le donne più belle di lei, a cui la natura non aveva risparmiato attributi e fascino. “Ogni mattina, nei sei giorni lavorativi previsti, tranne il venerdì, devi essere qui alle otto in punto, nel mio letto. Faremo l’amore delle lesbiche. Imparerai facilmente. Ti frutterà un extra di cinquanta euro, ogni giorno. Inoltre riceverai uno stipendio pulito di mille euro al mese per il tuo semplice e rilassante lavoro di segretaria. Tutto in nero, naturalmente, perché non ti registro come mia dipendente. ”
  La cartomante tace, per dare tempo alla ragazza di riflettere e di riprendersi dallo stupore. Melissa rimane interdetta. Nuda e un poco sorpresa, va a rivestirsi frettolosamente, senza dire nulla. Non sapeva veramente cosa rispondere. Le era piaciuto farsi toccare da una donna. Era stato il primo contatto erotico della sua vita. Ne aveva sempre desiderato uno e questo momento giungeva inatteso. “Mi aspettavo un normale colloquio di lavoro, per cui era richiesta una buona conoscenza dell’italiano. Io sono nata in Francia, tuttavia mia madre, quando ero piccola, mi ha sempre parlato nella sua lingua.”
  “Hai detto bene. Lavorerai soprattutto di lingua. Apprenderai un idioma internazionale. Ma se sei in difficoltà, mia cara giovane, siccome ti sei rivestita subito, con tanta fretta, te ne puoi andare, se vuoi.”
  Melissa interrompe la cartomante; non voleva essere messa alla porta.  “No, resto. La proposta indecente un poco mi affascina e poi, se ho capito bene, mi paghi cinquanta euro al giorno per i miei straordinari erotici, oltre lo stipendio mensile.”
  “Vuoi un contratto scritto? O ti basta la mia parola?”
  “Per me la parte economica va bene.” 
  “Ora carina, vorrei chiarire un altro punto.”
  “Allora c’è dell’altro!”
  “Il bello deve ancora venire. Bisogna pure saperseli guadagnare questi soldi.” 
  “Sono curiosa, ti ascolto.”
  “Devi essere disposta ad essere servizievole, incondizionatamente, verso il demone che mi guida.”
  “Leda, a scuola le suore mi hanno insegnato a temere le lusinghe di Lucifero! Ed io mi facevo il segno della croce, solo a sentirlo nominare.”
  “E tu, carina, pensi che l’Angelo della luce, il supremo ribelle, alberghi a ridosso di quello che resta pur sempre un mazzo di carte, anche se con una sua lunga e gloriosa storia? Certo la gente, quando vede il Trionfo del Diavolo, subito pensa al principe del Male. Tuttavia non esiste un Male assoluto, responsabile di tutti i crimini commessi dall’umanità. Perché il male è istintivo, innato, congenito. Lo si sceglie perché piace; come una bella donna. Senza il mio demone, sarei meno esperta, più fiacca, non meno maligna. La mia è un’alleanza preziosa; ma anche lui ha bisogno di me, dei miei occhi, del mio corpo. Un demone non ha un nome, non ha un passato, rincorre sempre un maleficio dietro l’altro.”
  “Leda, adesso confesso d’avere un poco paura. Non sono esperta in questo genere di cose. Nessuno mi aveva mai parlato così. Eppure c’è tutta una letteratura che ha raccontato di eroi ed eroine che hanno venduto al Diavolo la loro anima preziosa, inseguendo la giovinezza, la ricchezza, il potere.”
  “Appunto queste storie dovevano raccontare: rimbambirci per farci credere. Se veramente si potesse vendere l’anima, Melissa, qui, a questo botteghino, ci sarebbe una fila interminabile e non due o tre ragazze in cerca di lavoro. Nel tuo caso, più semplicemente, tu affitti solo il tuo corpo per un periodo determinato.”
  “Quanto tempo?”
  “Il tempo che sarai al mio servizio. Non c’è nessuna forma di costrizione. Cerchiamo collaborazione. Tu esegui docilmente. Come una schiava che vuole essere sottomessa.”
  “Cosa dovrei fare?”
  “Nel momento dell’iniziazione le adepte dovranno inginocchiarsi di fronte al tuo tabernacolo.”
  “Non ho la capacità di convincere delle amiche ad accondiscendere a un rituale satanico.”
  “Il demone saprà come addomesticarle. Nessuna si rifiuterà. A te chiediamo il tuo consenso. Loro non avranno scelta.”
  “E’ dir poco che sono frastornata.”
  “E’ normale, invece. Lo ero anch’io agli inizi. Poi ti piacerà sempre di più. Forse hai problemi di coscienza. Puoi stare sicura che non muoiono. Si trasformano. Diventano creature più deboli, o più forti. Le incontrerai ancora per la strada. Berranno ancora il caffè insieme con te, al bar.”
  “La mia esistenza resterebbe per sempre macchiata.”
  “Diventerai la protagonista di una vita scellerata. Sarai un veicolo di trasmissione. Spanderai ovunque il morbo. Come un untore che semina la peste. Questo è l’aspetto frizzante. Ti farà sentire arbitro della vita di altri.”
  “Se non accetto, che fine farò?”
  “Uscirai da qui sana e salva, come quelle ragazze che ti hanno  preceduto ed erano davanti a te. Semplicemente eseguirò di nuovo l’incantesimo del talismano e non ricorderai che una banale conversazione di lavoro.”
  “Per un verso vorrei lasciarmi tentare.”
  “Questa piccola clessidra scandiva dieci minuti. Ne restano forse due, o poco meno. Sta visualizzando lo scorrere del  tempo da quando sei entrata.”
  “Come un untore che semina la peste. E’ un’immagine letteraria potente. Mi ricorda la Storia della colonna infame del Manzoni. Ho frequentato il liceo classico a Torino, la città natale materna. E il contratto quando scade?”
  “Con lui mai. Dura tutta la vita. Non ti licenzia. Ti procura sempre un nuovo lavoro. In pratica è una polizza vitalizia. Una fortuna per te che hai letto un semplice annuncio. E poi hai bisogno di soldi per la tua stanza e non vuoi tornare al tuo paese, per via della matrigna marocchina.”
  “Come sai questi particolari?”
  “Il demone sente i tuoi pensieri. Lo stesso potere lo potrai avere te, se dovessi dargli il tuo corpo come tabernacolo.”
  “Manca poco. Sono confusa e incerta.”
  “Adesso sei più propensa ad accettare. L’idea ti sta eccitando. Sei già molto umida.”
  “Hai detto che non devo vendere l’anima. Se accetto, in pratica la vendo.”
  “Sembra che questa sia la tua grande preoccupazione.”
  “Un domani non vorrei pentirmi.”
  “Storie. Proverai troppo gusto per ravvederti.”
  “Stai sconvolgendo la mia vita.”
  “Mi piace. E piacerà anche a te. Avrai un potere superiore ai comuni mortali. Denaro. Piacere. Rispetto. Salute. Io, da quando sono adepta, neanche un raffreddore.”
  “Pensi che accetterò?”
  “Sì, ne sono sicura.”
  “Da quando?”
  “Da quando ho palpato le tue pulsioni represse.”
  “E adesso?”
  “E adesso firmiamo il contratto. Inginocchiati qui in terra.”
  “Che devo fare?”
  “Solo aspettare che il demone esca da me. Intonare la cantica: dissolve, coagula e poi fare la tua  prima comunione.” 
 
 
15
Arcimondo, ultimo rampollo dei Trionfi
    
Arcimondo: l’Arcano più bendisposto e bonario che mai avesse visto la luce. L’assenza di una guida spirituale adeguata e la mancanza del buon esempio non ne avevano intaccata l’indole mite e ingenua, quantunque i Tarocchi, dopo appena qualche vagito, si fossero messi a litigare per conquistare un effimero primato e se le stessero dando di santa ragione. Ultimo rampollo dei Trionfi, il Numero 21, non era riuscito a farsi ascoltare, perché nessuno si era dato la briga di prenderlo sul serio. Con i suoi modi impacciati di ragazzino chiedeva inutilmente spiegazioni di quello che stava succedendo e soprattutto un poco di ragionevolezza, ma la sua candida presenza era allontanata e messa alla porta in malo modo. Nessuno gli aveva dato credito, quando diceva che dovevano sedersi attorno a un tavolo e discutere. I suoi inviti, detto per inciso, si erano poi concretizzati con alcuni secoli di ritardo. Tutti lo consideravano troppo giovane e inesperto, ancora immaturo per avere una voce in capitolo nella grande bega di famiglia scoppiata subito tra il Gerofante e l’Imperatore. 
  L’Arcano che agli occhi dell’ultimo nato appariva come il più equilibrato, ossia l’Eremita, un giorno, per tenerlo lontano dalla mischia, lo aveva afferrato per mano e portato nella regione montana e selvaggia del Carso dove aveva stabilito la sua dimora e lo aveva lasciato, raccomandandogli di crescere mentre le due fazioni guerreggiavano. “Da adulto, il più tardi possibile, prenderai una tua posizione. Per ora devi stare fuori dalla grande disputa. Noi siamo cresciuti troppo in fretta e con troppe ambizioni nella testa. Rimani qui tranquillo, lontano dalla polvere e dai proclami. Apprendi tutto quello che c’è da imparare. Sviluppa le tue facoltà. Osserva le creature. Ogni tanto, ma con moderazione e senza eccedere, vai a confrontarti con la tua icona, così potrai conoscere gli umani ma cerca di essere te stesso e non imitarli troppo. Mi rifaccio vivo tra qualche anno, quando si saranno calmati i bollenti spiriti dei prevaricatori.”
  Così Arcimondo era cresciuto in pratica a ridosso della dimora, rincorrendo farfalle, odorando fiori, ascoltando il cinguettio di uccelli, arrampicandosi sugli alberi dietro agli scoiattoli. Non amava i meandri delle cavità carsiche, dove deambulavano i servi dell’Eremita. Alla compagnia di donzelli diafani e deficienti preferiva l’aria aperta dei dintorni. Ogni tanto si lasciava attrarre da qualche oracolo costruito sopra i Tarocchi, quando era evocato; se non incontrava già qualche altro Arcano che lo rispediva subito a casa. 
  La sua effigie più antica, così aristocratica, con i due puttini alati che sorreggevano il Mondo, gli incuteva una certa soggezione e soprattutto, malgrado si sforzasse, non riusciva neppure a immaginarsi come la bella donna che danzava nuda all’interno del grande uovo primordiale della vita. A dire il vero, neppure la trasformazione così inspiegabile dell’icona originaria gli era piaciuta tanto e avrebbe gradito essere interpellato, ma, nella città di Marsiglia, dove erano prodotti i Tarocchi, non era riuscito a trovare il responsabile di quelle carte disegnate grossolanamente, dai toni accesi del rosso e del blu.
  Dagli gnomi del bosco avrebbe voluto farsi costruire un grande uovo di vetro trasparente, difeso da quattro sfingi di pietra che si animavano quando sopraggiungeva un estraneo. Le mitiche creature però non erano disponibili a favori del genere, come racconterebbero spudoratamente invece tutte le favole per bambini.  “Nella sua dimora l’Eremita progetta di fare ventidue stanze per gli invitati. Già ci siamo impegnati con lui, proprio perché l’ha chiesto con tanta insistenza e poi a dirigere i lavori ci sarà il Primo Famiglio, che pare sia il più intelligente di tutti.”
  “Strano. A me i donzelli sono parsi tutti un poco stupidi! Il factotum dell’Eremita è stato cortese, ma la prima cosa che mi ha detto, quando ci siano presentati, è che non aveva tempo per farmi da balia e che dovevo imparare a cavarmela da solo.” In sostanza le conversazioni con gli gnomi lì erano cominciate e lì finite. Arcimondo così aveva conosciuto una serie di cocenti delusioni: dai suoi simili guerreggianti, agli gnomi impertinenti. In seguito era passato a occuparsi di chi maneggiava i Tarocchi, con qualche speranza di garantirsi incontri migliori. 
  Vivendo così in solitudine aveva imparato a espandere e sfruttare al massimo le sue qualità metamorfiche non comuni; poteva assumere una forma animale, o vegetale: dal gufo notturno dagli occhi grandi e penetranti, all’albero sorridente nel giallo dei limoni; dalla puledra gravida che porta in grembo altra vita, al prato illuminato dai girasoli. 
  Coloro che maneggiavano i Tarocchi, per passione o mestiere, conoscevano le proprietà benefiche di quest’Arcano, ma la maggioranza della gente non aveva mai molto simpatizzato con l’indecifrabile icona, che mostrava una donna nuda, danzante entro una ghirlanda floreale circondata da quattro personaggi simbolici: un toro, un leone, un’aquila e un Angelo; raffigurazioni con valenze mistiche e alchemiche, incomprensibili ai più, in cerca di una soluzione pratica per i propri problemi quotidiani. Al contrario, l’Arcano meno amato e il più remoto di tutti, ripagava le creature incontrate con una benefica e copiosa pioggia d’energia positiva che spesso non era neppure raccolta e si disperdeva in mille rivoli, o era attribuita all’influsso di un altro Trionfo col quale si era più in sintonia e che si conosceva meglio. E allora Arcimondo un poco si rattristava, si sentiva ingiustamente ignorato e avvertiva anche un poco d’invidia per i suoi compagni più famosi, verso i quali però non riusciva a provare né antipatia, né odio. “Gli uomini sono così: indifferenti alle carezze della Fortuna, quando sono abbondanti!” Comunque non smetteva mai di mostrarsi disponibile verso tutti, chiunque fosse a evocarlo.
  Sempre con minore frequenza, negli ultimi tempi, si metteva ad ascoltare un oracolo, anche perché statisticamente le sue apparizioni erano sensibilmente diminuite, in misura da ritenere impossibile fossero così poche, facendo quindi presumere che forse qualcuno stava tramando contro di lui. Periodicamente, ogni anno solare, per ventuno giorni consecutivi, quando si erano completate le prime venti settimane, aveva preso l’abitudine maniacale di cercare nel mazzo la propria effigie, per vedere se c’era, o stava nascosta sotto il tappeto, o il cartomante aveva usato un altro trucco, come fanno i bari con le carte per vincere al gioco. Perché non si convinceva ancora sulla strana irregolarità delle sue scarse apparizioni. Su questa singolarità invero non smetteva mai di approfondire e sospettava fosse in atto un oscuro complotto, per espellerlo dal gruppo oramai consolidato dei Trionfi. Era giunto alla congettura, del tutto infondata, che la sua bontà d’animo originaria gli era costata l’inimicizia quasi compatta di prevaricatori, schierati contro di lui, che diffondevano energie negative contro la sua candida icona. 
  Annoiatosi del paesaggio montano e delle sue creature che conosceva tutte a memoria, Arcimondo aveva cominciato a vivere in strada, tra la gente comune da cui voleva apprendere tutto. Passava da una larva all’altra ogni ventuno giorni e iniziava un’avventura nuova e questi contatti frequenti erano la ragione della sua esistenza. Rispettava la personalità di chi frequentava e non faceva violenza a nessuno e tutti inconsciamente lo rimpiangevano quando andava via, perché lasciava un grande vuoto e apportava un contributo d’idee e grande voglia di vivere.
  Dal 21 gennaio dell’anno 2001 si era stabilito presso un’agenzia di viaggi ubicata nel cuore strategico di Roma, a due passi dalla scalinata di Trinità dei Monti, meta mondana utilizzata per girare scene di film famosi. L’agenzia era frequentata soprattutto dalla clientela straniera più danarosa che si fermava nella capitale e voleva conoscere bene anche i dintorni. Pare che Arcimondo prediligesse la compagnia di un’impiegata: un’affascinante russa di mezz’età, dal nome Irina, che attraeva la clientela soprattutto maschile e sapeva perfettamente parlare quattro lingue.
  Tempo addietro, scovare il ventunesimo Arcano era impossibile; sarebbe stato come trovare un ago in un pagliaio. Le Voci, avendo saputo delle sue abitudini recenti, avevano deciso di mandare un presidio fisso all’agenzia, in attesa di bloccare il convitato. 
  “Ah! Carissima signora Pistacchio, ma certo che è un piacere vederla. Non ci disturba per nulla. Tutti gli stampati sono a sua disposizione.” Da alcuni giorni l’anziana donna era diventata un’abituale frequentatrice dell’agenzia. Ogni giorno sfogliava molta pubblicità nella sala d’aspetto e chiedeva ogni tipo d’informazione: sulle crociere e sui voli, sugli alberghi e sulle offerte speciali. Forse, per essere sopportata, aveva già fatto alcune prenotazioni: per giugno, ottobre e persino Natale. Si era limitata a degli acconti irrisori, che potevano essere rimborsati. In agenzia tornava anche nel pomeriggio, per definire e decidere sulle scelte della mattina. Obiettivo primario inconscio: mettersi sulle tracce di Arcimondo, il quale, alla fine, sarebbe tornato all’ovile.
  Irina, un pomeriggio, si vede avvicinare proprio dalla signora Pistacchio, arcinota a tutti gli impiegati per essere una perditempo. Per fortuna neppure si siede, si limita ad affidarle una busta, porgendo saluti e ringraziando. Irina si meraviglia alquanto per la stravaganza dell’indirizzo.
‘All’attenzione del Trionfo XXI dei Tarocchi ’.
  “Questa donna deve essere pazza!” Sussurra. Vorrebbe gettare la lettera nel cestino, ma una forza imperiosa le suggerisce, suo malgrado, di curiosare e di leggerla subito.
  Arcimondo, raggiunto dal messaggio, non intende le preoccupazioni delle Voci. Il suo pensiero era lineare.  “Tanto gli accadimenti che devono essere, sempre saranno, perché la Ruota non si ferma per nessuno.”
  Durante il viaggio a piedi verso ponte Fabricio, dove era stato fissato l’appuntamento, giudica positivamente l’occasione per stare accanto ai suoi simili in una posizione paritaria. Non avrebbe detto di no al destino, che lo aveva chiamato a un convegno, dove la vittima era già stata designata. Assume un aspetto più consono a un convegno di Trionfi. Quando va a sistemarsi nella settima casa, quella tradizionalmente più ambita che gli spettava di diritto, pareva un uomo d’età matura, vestito con un abito da cerimonia, per andare a fare da testimone alle nozze del proprio figlio. Solidarizza con l’Uomo dei Tarocchi prima di conoscerlo, ma soffoca subito il suo slancio, rimuovendolo, per uniformarsi in tutto ai comportamenti dei Trionfi evocati. Quel gesto del dito, così volgare, all’indirizzo del simpatico ritratto parlante, gli sembrava sconveniente e maleducato.  Ci si poteva spiegare con le buone maniere, per farsi ospitare in un territorio che di diritto spettava al Folle. Trovava senza senso stilare regole oggi, per stracciarle l’indomani, ma era l’ultimo della fila e non voleva apparire il guastafeste, ruolo che non gli si addiceva poi tanto.


16
Due compari di merenda
 
L’Innamorato era rimasto nella sua casa naturale, la numero 6, mentre gli altri Arcani se ne erano andati via alla spicciolata, ognuno con un proprio progetto. Stava riflettendo su quale decisione prendere: se cogliere in qualche modo i frutti di quel duplice dardo scagliato dal suo Cupido all’indirizzo dell’Uomo dei Tarocchi e della cartomante; o se sciogliere rapidamente l’innamoramento d’uno dei due. Per la collera, se avesse potuto, avrebbe strangolato Cupido con le stesse mani che ora si gingillavano con le frecce abbandonate. Nello stesso tempo, avrebbe anche voluto rivolgere la propria rabbia contro di sé, perché in fondo sapeva d’essere il vero responsabile delle sagitte galeotte, che l’arco non avrebbe mai dovuto scoccare. I suoi pregiudizi l’avevano portato a non simpatizzare con il professore, meritevole d’avere riunito sette Arcani su un medesimo tavolo, dopo anni di litigi e guerriglie per la supremazia.
  A interrompere improvvisamente le riflessioni dell’Innamorato sopraggiunge Arcidiavolo. Gli spunta dietro e gli dà dei colpetti con la mano sulla spalla, andandosi poi a nascondere e tornando a provocarlo con altre battutine provocatorie, fino a presentarsi con tutta la sua immagine terrificante. “Che le frecce di Cupido siano benedette! Non avrei saputo fare di meglio. Qua la mano, Namorado. Se ci mettiamo insieme l’Uomo dei Tarocchi non avrà scampo.”
  L’Innamorato, scherzoso con gli altri, ma poco propenso alle sorprese rivolte a lui, in un primo momento sussulta di spavento, ma poi ostenta la consueta sicurezza. “Ti eri nascosto. Nessuno qui ha creduto alla tua assenza. Quando ti presenti a me, Belzebù, scegli un aspetto meno orripilante. Specialmente adesso che dovremmo diventare compari.”
  Arcidiavolo l’accontenta e assume le fattezze del professore, a cui fa spuntare la peluria del capro e corna mefistofeliche. Con voce vagamente femminina chiede anche come sta. “Ti piaccio, ora! Su, dimmi che sono passabile!”
  L’Innamorato si mette a ridere e poi si affretta a precisare subito il suo punto di vista. “Sei migliorato. Veramente Cupido la seconda freccia non avrebbe dovuto scoccarla; ha preso un’iniziativa personale, del tutto fuori luogo. Non ha senso fare innamorare la cartomante, la rende meno credibile.”
  “Allora tu non hai inquadrato l’Uomo. La cartomante deve accennare un innamoramento per essere credibile. Cupido ha avuto un colpo di genio. Una freccia sola non sarebbe servita a nulla. Dobbiamo fargli un monumento, a tue spese.”
  “Adesso non esageriamo, Belzebù. Cupido ha scagliato la seconda freccia a caso, per farmi un dispetto, non perché era entrato nel merito della questione.”
  “Comunque sia, l’Uomo deve sentire che v’è attrazione reciproca, altrimenti non torna dalla cartomante e non riusciremo a cavargli fuori altro.”
  “Diavolo di un Arcano! Avrai pure un tuo progetto.”
  “Ovviamente.”
  “Allora illustramelo.” L’Innamorato si avvicina per andare ad ascoltare il piano architettato da quel briccone matricolato, che aveva l’aria di padroneggiare una situazione piuttosto ingarbugliata. Arcidiavolo gli parla nell’orecchio, sia perché voleva fare ancora dello scherzo, sia perché temeva d’essere ascoltato. “Ammetterai Namorado che quel professore è alquanto singolare!”
  “Sono d’accordo con te, Belzebù. A me è stato subito sui ciglioni. Si atteggia a intellettuale esperto di Tarocchi.”
  “Io comunque non sono riuscito a penetrare nella sua mente. Ha una barriera difensiva perfetta. Ci vuole una donna per sedurlo, confonderlo e farlo crollare.”
  “Sì, ma perché continui, Belzebù, a farmi il solletico con i tuoi spifferi nell’orecchio?”
  “Sai, quando ci sono di mezzo le Voci, è bene prendere delle piccole precauzioni. Ne converrai, Namorado.”
  “Comunque non sono contento di rivederti, Belzebù. A naso, quando t’incontro faccio le corna.”
  “E perché mai tanta diffidenza, Namorado?”
  “La vita amorosa mi si è sempre maledettamente complicata. Le mie ambite prede ti trovano più attraente e girano i tacchi.”
  “Comunque Namorado non sono qui per entrare in competizione, stai pure tranquillo. Sono venuto per l’Uomo dei Tarocchi. Voleva darsi un’aria ingenua di studioso.”
  “Sedicente studioso.”
  “No, secondo me, Namorado, sa anche di più. E’ una categoria di bionico superiore alla media. L’entità oscura che si cela in lui è riconducibile piuttosto a quella dell’ideatore dei Tarocchi.”
 “Dici sul serio, Belzebù?”
  “Certo, Namorado. Per questo le Voci lo vogliono imbrigliare e controllare.”
  “Vuoi dire che lo spirito dell’inventore dei Tarocchi si è accasato con lui?
  “E’ certo molto probabile, perché sa molte cose sulla genesi dei Tarocchi. Parla di carte modificate dai controllori dell’Inquisizione. E pare investito dello stesso fervore che animava gli Albigesi.”
  “E lui è consapevole di ospitare un’entità?”
  “Non sono riuscito a capirlo. Per via delle barriere difensive che lo proteggevano.”
  “Quale bricconeria hai in mente?”
  “Quando torna dalla cartomante, lo lavoriamo per le feste.”
  “Non sarà facile!”
  “Leda è una mia creatura. Tu dovrai accentuare la vaghezza dei due.”
  “Allora è alla nostra mercé. Non avrà scampo.”
  “Non farne parola con nessuno! Sei molto chiacchierone, Namorado.”
  “Ci puoi contare, Belzebù. Starò zitto. Quell’Uomo mi sta sui ciglioni.”
  “Bene, allora siamo d’accordo!”
  “Certo. Parola d’onore.”
  “Non voglio una risposta ora. Puoi rifletterci su, com’è nella tua natura, Namorado. Ti concedo sei giorni di tempo per decidere. Se allearti con me, o procedere alla spicciolata.”
 “Belzebù, non c’è alcun bisogno di decidere. Sono convinto della proposta.”
  “Non voglio farmi dire un domani, Namorado, che ti ho forzato in qualche modo. Se si viaggia insieme, bisogna essere d’accordo. Hai il vantaggio che conosci il mio piano e, volendo, puoi anche mettermi i bastoni fra le ruote.”
  L’Innamorato cambiava idea frequentemente e in ogni questione prendeva tempo. “Ti farò sapere. Va bene. Si fa come suggerisci, Belzebù. Ci si rivede su questo tavolo, tra sei giorni.”
  Il signore incontrastato del male lo saluta con un cenno di mano e profumatissime parole di commiato. “Arrivederci ragazzo e non straviziare troppo queste notti. Ti voglio in forma, Namorado. Ci sarà da rimboccarsi le maniche.” Di solito, quando Arcidiavolo parlava, emanava dei fetori pestilenziali che stordivano alquanto chi gli era prossimo, ma voleva a tutti i costi dimostrare di avere imparato le buone maniere definitivamente, per meritarsi la fiducia del suo nuovo probabile compare di merenda.
 
 
17
La Papessa rievoca il mito di Edipo
 
La Papessa decide d’allontanarsi anzitempo, prima che si completi la lettura dell’oracolo. Non sopporta quella cartomante e vuole sorprendere gli altri Arcani per il tempismo della sua analisi. Lascia lo studio di Leda per trasferirsi nella dimensione del Tempio: inviolato, visibile solo ai sapienti, custodito dalla Sfinge: l’eterna guardiana.
  Lungo un erto e verdeggiante pendio stavano i simulacri in marmo raffiguranti gli oscuri viandanti d’ogni tempo e d’ogni paese, avventurati fino a quelle misteriose contrade di sottile sapienza. Anche se non avevano fornito risposte alle fatidiche domande poste dalla Sfinge, un anonimo artefice li aveva immortalati per sempre nell’iperuranio, registrandone il passaggio. La Papessa era transitata accanto ai simulacri, indifferente nei secoli e neppure aveva mai intravisto la mano del demiurgo che rendeva eterni quei volti segnati dal sacro furore. 
  Risolto l’enigma proposto dalla Sfinge, Edipo si era messo in cammino con un manipolo di fidati soldati. Tebe lo aveva riconosciuto Re della città liberata dal fardello dell’odioso mostro, che imperversava da anni in quelle contrade maledette dagli Dei ostili. 
  Giocasta, la regina, aveva tanto insistito per accompagnare il valoroso eroe nel viaggio verso le pendici del monte Olimpo, dove i Greci avevano collocato la dimora dei numi sempiterni.
  Edipo ancora non sapeva d’avere sposato sua madre. Quantunque non fosse più giovane, la donna possedeva del fascino, seducente per un ragazzo, abbandonato sui monti ancora in fasce e poi adottato da una coppia di pastori sterili.
  Secondo la volontà del re Laio, l’indesiderato nascituro doveva essere soppresso, come si faceva abitualmente con i figli deformi, o malati, che non potevano essere curati. Il neonato Edipo non era affetto da nessuna malformazione, ma un vaticinio aveva predetto a Laio la morte per mano di un figlio. Giocasta, madre amorevole, invece aveva predisposto la salvezza del predestinato. Così il fato si era compiuto; perché a nulla sono mai valsi i fiacchi tentativi di frenare il corso già segnato degli eventi.
  Laio, padre di Edipo, e sua madre Giocasta: vittime della grande Ruota del Divenire che stritola le creature impotenti. Gli eroi valorosi lo sanno, ma lottano con tutte le forze. E la loro grandezza sta proprio nella consapevolezza di partecipare a scontri impari che eternano i deboli e rendono imperiture le gesta. Gli antichi Greci sapevano affrontare la morte con dignità e, solamente così, agli occhi degli Dei, potevano guadagnare un posto nel sopramondo.
  Edipo aveva ucciso il Re Laio e la sua scorta, per difendere la propria persona. Poi aveva risposto all’inquietante indovinello propostogli dal mostro alato. I Tebani lo avevano incoronato Re, dandogli come sposa la regina Giocasta. Nel breve volgere di una lunazione era passato dall’anonimato al duello fatale, dalla soluzione dell’enigma esistenziale al trono regale.
  Con la donna che gli stava accanto, consumava un inconsapevole incesto. Vittima ignara del diletto carnale, mentre il fato lo aspettava per strappargli tutto quanto aveva conquistato con capacità e per buona sorte.
  “Perché stai andando verso il monte Olimpo, amatissimo giovane sposo? Perché non rimani nella sicura Tebe ad approfittare della tua nuova condizione?”
  “Ricordi incancellabili scuotono il mio petto e mi agitano il sonno: gli uomini che, mio malgrado, ho dovuto uccidere e quel prodigio alato che, volteggiando, è risalito lungo la scarpata. Li vedo di notte. Ne ascolto le Voci e ne inseguo le ombre. Tu, dolce sposa, rendi i miei sonni meno inquieti e tanto più gradevoli. Se non avessi questi rei fantasmi nella testa, rimarrei volentieri accanto a te, a gustare le delizie dell’ambrosia che scende dalle tue labbra.”
  Lasciata la scorta più a valle, Edipo da solo aveva affrontato le pendici sacre dell’Olimpo, dove nessuno osava andare e s’incontravano solo capre e cervi che si lasciavano anche avvicinare, perché non conoscevano la paura verso gli uomini.
  Il Tempio si materializzava all’improvviso, quando il sole tramontava e inondava di rosa il muschio adagiato sulle pietraie. Edipo aveva deposto a terra la spada e lo scudo e tolto via l’elmo. Si era spogliato d’ogni attributo potenzialmente offensivo e si era inginocchiato per purificarsi. Svolazzandogli attorno, quasi a dare un segno rassicurante, un alato, dagli occhi vivi e vigili, lo aveva preceduto fino alla porta del Tempio, che si era magicamente spalancata. 
  Al posto dei libri del sapere custoditi gelosamente, aveva scoperto una biblioteca con scaffali vuoti e una sola pergamena, dove non si riusciva a leggere nulla, perché senza scrittura. Poi lo sparviero gli aveva parlato e dato corpo alla sacra voce degli Dei, svelando l’incesto. Edipo si era messo subito a piangere e, urlando, si era strappato le vesti, mentre scendeva da quelle balze scoscese e fatali.
  Sua madre Giocasta ancora non sapeva. L’impasto incestuoso di carezze e baci mai sarebbe stato cancellato e un altro fantasma si era incollato sulle sue carni.
  E al Tempio poi era tornato ancora, con tenacia e ostinazione, il vecchio Edipo, quasi del tutto cieco e mendico, forte di un diritto acquisito per sempre. E la porta, riconoscendolo, si era spalancata di nuovo, al volo dello sparviero che era rimasto rispettosamente muto.
  La Sfinge furtiva alle spalle lo aveva seguito, mentre si aggirava in quel labirinto del sapere, dove finalmente aveva scoperto e preso a sfogliare gli occulti libri, che non avrebbe mai letto e per la vecchiezza e per l’incombente cecità.
  Sentendosi spiato, per la grande sensibilità sviluppata, si era girato e aveva parlato con la voce tremolante dalla fatica e dalla disperazione. “Chiunque voi siate, o demoni, o dei, mi avete ingannato! Avevo risposto ai grandi interrogativi e avevo tutto il diritto di sapere!”
  E la Sfinge, apostrofandolo e spingendolo con rabbia a terra, si era chinata sopra di lui per raccoglierne gli ultimi sospiri. “Ai trasgressori delle leggi divine è concesso solo d’entrare, ma non di leggere i sacri libri.”
  “Tenuto all’oscuro, non sapevo che Giocasta fosse mia madre. Uno dei miei figli mi vendicherà e il fuoco sommergerà i vostri libri e il vostro Tempio. Che siate maledetti,  demoni e Dei spietati che non avete avuto pietà di un vecchio afflitto e solo.”
  Dopo essere stato toccato dalla Sfinge, Edipo, lentamente era stato pervaso da una metamorfosi. Il corpo si era irrigidito e la sua parola esalante si era fatta più scarnificata, anche se il tono fermo e sicuro aveva assunto i connotati di un terribile vaticinio.
  La voce di Edipo, impressa nella memoria della Sfinge, aveva superato ogni barriera temporale ed era giunta intatta nella coscienza della Papessa; timorosa che la maledizione si potesse avverare, perché le visioni del futuro passano sempre attraverso un intenso dolore e nascono dal coraggio, dall’energia non comune che sprigionano, imprimendo alla grande Ruota del Divenire un andamento nuovo e imprevedibile.
  In presenza d’accadimenti rilevanti, la Papessa sempre tornava al sepolcro spartano che lei stessa aveva eretto all’interno del Tempio, accanto al peregrinante Edipo che era rimasto pietrificato sul suo bastone a sfidare un prodigio invisibile ai suoi occhi. Il suo corpo immobile ancora aspettava una risposta. Risollevatosi dalla terra, ove la Sfinge l’aveva spinto, era riuscito a trovare l’energia per testimoniare la volontà di sfidare la morte e il fato nel medesimo tempo. Negli ultimi anni della sua tormentata peregrinazione si era portato dietro il peso della carnalità, da cui non aveva voluto distaccarsi per testimoniare la propria diversità di pellegrino del sapere.
  Sempre, dinanzi al sepolcro, la Papessa s’inginocchiava al suo cospetto chiedendogli perdono. Anche se sapeva che i figli di Edipo non avrebbero perdonato.
  Prima della lettura dell’oracolo era propensa a impartire una punizione severa a quel sedicente studioso che aveva gettato ombre sulla veridicità dei Tarocchi. Poi, studiandolo meglio, le aveva palesato un’indubbia fierezza che contraddistingueva da sempre tutti quelli che possono essere ascritti tra i figli di Edipo: persone che non sono disposte ad accettare passivamente i tabù, ma scavano nelle fondamenta dei divieti antichi, per accostarsi agli inquietanti interrogativi proposti dalla Sfinge.
  Resta la Papessa inginocchiata, a lungo e in silenzio, accanto ad Edipo: uomo che più di ogni altro aveva ammirato. Quasi a percepire un sussurro e un impercettibile moto proveniente dal sepolcro su cui si era prefissata di porre una lapide come tante, per scriverci sopra versi straziati dal dolore, proprio come fanno gli umani per lasciare un ricordo imperituro nel tempo. Proponimento pietoso che non si era mai concretato, perché ogni verso di poeta famoso sarebbe comunque apparso inadeguato e al più sarebbe stato solo un lavacro per la sua coscienza afflitta.
 
 
18
L’Imperatore visita il sito dell’uomo dei Tarocchi
 
Le mani affusolate di Leda stavano mescolando con la consueta abilità i Tarocchi di Oswald Wirth scelti dalla sua ampia collezione. Quando riceveva un nuovo cliente cambiava sempre le carte, per via degli influssi che le persone a suo avviso lasciavano sul mazzo, nel momento in cui lo toccavano per dividerlo in due. I Tarocchi usati nella seduta precedente erano messi in una teca, dove stavano allineati vari tipi di cristalli che avevano la funzione di ripristinare gli equilibri energetici e di depurare le carte. “Questi ventidue Trionfi sono stati dipinti da Oswald Wirth: un occultista, un guaritore. La prima edizione di cento copie risale al 1889.” Incuriosito dalla puntualizzazione della cartomante, l’Uomo dei Tarocchi si era limitato a guardarli ammirato. 
  L’Imperatore, già prima di presentarsi all’insolito convegno, aveva deciso d’assumere le fattezze del quarto Trionfo disegnato da Wirth. A suo avviso meritava rispetto e interpretava al meglio la sua autorevolezza e i suoi poteri occulti. Ne approfitta per investire l’icona con tutta la sua energia e ne esce sul piano tridimensionale, impregnandosi con i colori della carta che appariva quasi più pallida e sbiadita agli occhi esperti di Leda. 
  La cartomante, mentre sistemava al centro di ciascuna casa le carte volate in aria, sente quasi nelle sue mani l’Imperatore prendere forma. Allora lo sfiora con tutta la cura e il rispetto possibile, quasi accarezzandolo con le dita. Per questa sensibilità dimostrata, Leda subito entra nelle simpatie dell’Arcano. 
  L’Arcano numero 4 considerava con molto scetticismo i cartomanti, frequentati rarissime volte, perché era convinto della diffusa ciarlataneria e scarsa fondatezza di formule improvvisate che raccontavano di tutto e di niente e di eventi probabili che comunque sarebbero potuti accadere. 
  Presta molta attenzione alla lettura dell’oracolo e nello stesso tempo cerca d’interpretare la sequenza delle sette carte.
9  -  2  - 15  -  4  -  5  -  6  -  21
  I quattro Trionfi entrati nella loro casa naturale rimandavano ai quattro elementi fondamentali della vita e alle rispettive quattro virtù del saggio. 
  La Papessa nella casa 2 personificava il Fuoco della conoscenza. L’Imperatore nella casa 4 rimandava alla fierezza e solidità della Terra. Il Gerofante nella casa 5 indicava la mutevolezza dell’Aria. L’Innamorato nella casa 6 esprimeva l’adattabilità dell’Acqua. I rispettivi numeri cabalistici di questi quattro Trionfi, se sommati, rimandavano all’energia primordiale delle stelle, essendo 2 + 4 + 5 + 6  = 17. Mentre i rimanenti Trionfi (l’Eremita, il Diavolo e il Mondo) essendo 9 + 15 + 21 = 45 = 4 + 5 = 9, ridotti alla luce della cabala, riconducevano alla lanterna magica dell’Eremita che trova alimento proprio dalle stelle. Interpretata secondo il pensiero degli alchimisti, la sequenza dei Tarocchi indicava il movimento ciclico delle stelle e le prerogative della lanterna che illumina in basso ogni sentiero, come in alto vi sono le luci degli astri a indicare la giusta direzione.
  Dopo la lettura dell’oracolo, sospinto da un innato realismo, l’Imperatore vuole esaminare e vagliare con la dovuta attenzione il sito dell’Uomo dei Tarocchi. Le Voci non avevano raccontato completamente tutta la storia e nel passato erano già comparsi decine di piccoli e grandi trattati sui Tarocchi, che non avevano suscitato poi tanto chiasso e ce ne sarebbero stati altri. Così affianca un esperto cibernauta e rimane di stucco quando legge una descrizione del suo trono meticolosa e puntuale. Secondo l’Imperatore, o l’Uomo era un veggente che aveva avuto una visione, o qualcuno dal sopramondo gli aveva mostrato, o raccontato con dovizia di particolari le caratteristiche del suo trono unico e inimitabile. La prima ipotesi era alquanto improbabile, perché la veggenza si applica a eventi in movimento, attivi, che lasciano tracce visibili nei meandri temporali, mentre il trono era un manufatto ad alto contenuto energetico ma statico. La seconda ipotesi, molto più praticabile, rimandava a un’entità che aveva pianificato e reso possibile quella visione da parte dell’Uomo dei Tarocchi, perché voleva che la descrizione del trono fosse riconosciuta in maniera inequivocabile.
  Nel frattempo, essendo diminuita la pressione sulla mente, il cibernauta, era andato a curiosare altrove ma poi viene ricondotto sul sito della divinazione.
   ‘Sulle facce visibili del trono cubico dell’Imperatore sono incisi i quattro ideogrammi alchemici degli elementi fondamentali. Il triangolo, con la punta rivolta verso l’alto, visualizza la fiamma che brucia e indica il Fuoco; il triangolo, con la punta rivolta verso il basso, indica l’Acqua pronta a essere versata nella coppa; l’Aria, assimilata alla vitalità del fuoco, è resa passiva da un tratto orizzontale; mentre la Terra, più vicina all’acqua, è solidificata e appesantita da un tratto orizzontale. 
  L’elemento Fuoco è caldo e dinamico. Senza un principio caldo, un’energia originaria, la vita non si può sviluppare. Il numero 1, il Mago, può essere assimilato al principio attivo del Fuoco. L’elemento Terra, freddo e statico, può essere ricondotto al numero 2; la Papessa, custode di una conoscenza di per sé inerte, ha bisogno di essere ravvivata dal Fuoco del sapere originario del Mago. E’ il raffreddamento del Fuoco a generare la Terra, ossia il 2 discende dall’Uno. L’elemento Aria va visto come una forza generata dal Fuoco che è caldo e dalla Terra che è fredda. L’Aria è figlia del Fuoco, elemento maschile e della Terra, elemento femminile. Assimilabile al numero 3, l’Aria si materializza nella forma dell’Imperatrice. A sua volta l’Aria può condensare e dare origine all’Acqua che completa gli elementi fondamentali della vita. Il mondo scaturisce da una trasformazione del numero Uno originario, il Fuoco, che a sua volta genera la Terra, l’Aria e l’Acqua. 
  Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma: questa legge della natura spiega la nascita del mondo. Le intelligenze originarie presenti nel Fuoco definiscono il progetto mondo. Le essenze originarie si trasformano e realizzano un progetto biologico intelligente che non è mero frutto del caso.
4 = 1 + 2 + 3 + 4 = 10
  L’analisi cabalistica illustra i meccanismi del potere. L’Imperatore incontra i suoi limiti oggettivi nell’imprevedibilità della Ruota, che può accrescere o dissolvere le fortune legate al trono; inoltre il potere, se vuole prosperare e non andare incontro a ostacoli e sconfitte, deve sapere armonizzare i dualismi esistenti e far scaturire una soluzione ispirata all’imparzialità dell’Uno, capace di generare buone leggi valide indistintamente per tutti . 
  Ogni abuso della feudalità va punito con fermezza e rigore, perché tutti devono essere sottomessi alle leggi emanate dall’Imperatore. Per consolidare il suo potere e fortificarlo contro i vari nemici, l’Imperatore non può fare a meno del sostegno delle 4 virtù ermetiche: sapere, tacere, osare e volere. Per questo l’Imperatore ostenta pubblicamente - approntando una grande messa in scena teatrale destinata a tutti - le prerogative magiche su cui il suo potere si fonda. 
  Il trono, nonostante la sua apparente solidità, può vacillare. Il soprannaturale soltanto può far breccia all’interno del potere assoluto e l’Imperatore è consapevole di essere minacciato da agenti che non riesce a controllare. L’Uomo più potente della Terra scopre così i propri limiti, avverte la propria impotenza, la propria fragilità di creatura corruttibile e mortale. L’Imperatore è solo nel suo potere e nella sua lotta contro le forze di ordine superiore. L’assolutismo di facciata è messo in crisi, ridicolizzato, perché l’esistenza, nel suo fluire imprevedibile, sfugge a ogni schema, o progetto. Pubblicamente l’Imperatore si mostra sicuro di sé e non ammette di poter essere soverchiato. Solo il pieno possesso e il controllo delle 4 virtù ermetiche garantiscono un potere gestito con saggezza, lungimiranza e rispetto della persona umana. L’etica filosofica assicura e consolida il buon governo; mentre, senza la luce della virtù il potere degenera, diventa intollerante, brutale, cieco.
  Esaminiamo le equivalenze cabalistiche. 
4 = 1 + 3  e  4 = 2 + 2
  In base alla prima, l’Imperatore deve utilizzare le facoltà illusioniste del Mago per fare leva sulla credulità popolare e mostrarsi magnanimo e materno come l’Imperatrice. Il potere vive e sopravvive grazie alle grandi messe in scena predisposte per le masse e in ogni caso deve mentire. 
  In base alla seconda equivalenza, l’Imperatore deve conoscere la doppiezza insita nei misteri. I ‘misteri artificiali’ sono alimentati da una casta, detta il Popolo degli Scriventi, che esercita il suo potere sul Popolo dei Parlanti. I ‘misteri primi’, indipendenti dalla volontà dell’uomo, in parte sono alimentati dall’Inconscio originario collettivo per proteggere se stesso, in parte dagli Dei per punire l’uomo del suo peccato di orgoglio. Questa equivalenza ci dice molto di più della prima sulla vera natura del numero 4: unico fra tutti ad unire la ‘doppia valenza’ del numero 2. Il vero potere non consiste in dominare su sudditi anonimi e idioti, ma afferrare la ‘natura duplice’ dei Misteri, espressi dal numero 2 ripetuto due volte. La prima equivalenza svela la ‘natura materiale’ del Potere, la seconda i fondamenti etici dello stesso. 
  Nel Mondo esiste una profonda interazione tra macro e microcosmo. L’uscita dell’uomo dallo stato di natura ha comportato una frattura degli equilibri primordiali. Il peccato di Adamo, la presunzione di essere l’Imperatore del mondo, viene scontato con l’isolamento, col silenzio della natura nei confronti dell’Uomo, bandito per sempre dalla comunione originaria di tutte le varie forme di vita: animali, vegetali, minerali. 
  Nel Paradiso Terrestre, o stato di natura, aleggiava un’armonia adesso perduta. L’originario equilibrio metteva in comunicazione tutte le creature. La storia umana è segnata da uno stato di conflittualità permanente che ha preso il sopravvento. Potenzialmente la mente umana sarebbe in grado di esprimere altre capacità, che sono state confinate negli spazi bui del paranormale. La visione antropocentrica del mondo ha generato il monoteismo. Solo una concezione, intrisa di superbia e presunzione, dell’uomo come centro dell’universo, può generare la tesi di un Dio onnipotente che crea a sua immagine e somiglianza la creatura più malvagia tra le molteplici esistenti. Nello stesso modo in cui i sudditi hanno bisogno dell’Imperatore, gli uomini soli e mortali hanno bisogno di Dio. Fino a quando le religioni intolleranti e monoteiste avranno vita, durerà l’assolutismo dei sovrani e i più arroganti s’imporranno agli umili servi. Fino a quando vi saranno servitori, vi saranno padroni.’
  Dopo avere letto queste considerazioni sulla natura del numero 4, l’Imperatore giunge a concludere che l’Uomo dei Tarocchi meritava rispetto e non poteva essere soffocato per blandire l’odiosa volontà delle Voci. Pertanto decide di tornare a sedersi sul candido marmo di Paro perfettamente squadrato, dal quale si mette a osservare gli eventi, mostrando attenzione verso le successive mosse del professore. Non lo avrebbe ostacolato nei suoi progetti in nessun modo, anzi lo avrebbe seguito benevolmente, come gli aveva suggerito l’oracolo scaturito da quella combinazione di Trionfi, dove occupava la casa numero quattro.  
 
 
19
Arcimondo incontra l’Uomo dei Tarocchi
 
Udito il responso della cartomante, Arcimondo pensa d’incontrare l’Uomo dei Tarocchi per capire meglio la natura delle sue ricerche, che preoccupavano tanto le Voci e avevano visti schierati tutti gli Arcani della sorte. 
  Con uno stratagemma, sfruttando la presenza di un’intervistatrice, riesce a prendere contatto con diverse persone che affollavano Piazza dei Cinquecento, sempre piena di viaggiatori e frotte di pendolari, diretti verso la stazione dei treni. Una bella ragazza stava sottoponendo i passanti alla consueta indagine di mercato, finalizzata alla vendita del prodotto. Soprattutto i maschi si fermavano volentieri, anche per fare solo amicizia. Lasciavano le proprie generalità anagrafiche e un telefono per essere richiamati, nel caso volessero aderire all’offerta commerciale e partecipare ad un concorso con in palio un premio importante. 
  Arcimondo, attaccato maniacalmente alla cabala, intendeva scegliere un Tizio nato il giorno ventuno, per avere una certa affinità e potere comprenderlo meglio. Non gli importava nulla del segno zodiacale; ininfluente anche il sesso; era essenziale che il passante fosse nato il ventuno. Sarebbe rimasto in quella piazza anche una settimana e avrebbe convinto l’intervistatrice a tornare sul posto, purché fossero soddisfatte le sue aspettative. 
  Arcimondo era disposto a scherzare su tutto, ma sui numeri non ammetteva scorciatoie. Il suo ventuno era sacro, era il tre volte sette, l’archetipo della rigenerazione morale, la sintesi della genesi del Mondo. Se Arcimondo avesse potuto tenere una lezione accademica su quel numero avrebbe cambiato persino il corso della storia, per gli effetti benefici che la disamina avrebbe indotto sulle menti dei presenti, che illuminati avrebbero fatto circolare una linfa vitale, tale da generare una nuova età dell’oro.  
  Verso le ore 18, quando Arcimondo aveva perso tutte le speranze, passa di fronte alla vivace intervistatrice il predestinato, che si sarebbe sottratto volentieri a quella sosta, per non sottostare alle solite domande. Non senza vergogna, ma convinto che il Tizio avrebbe reso fruttuose le ore d’attesa, Arcimondo trattiene quel passante frettoloso incollato al selciato; usando il classico sgambetto dei ragazzini per poco non fa cadere veramente in terra il poveretto, che riesce ad afferrarsi alle braccia ferme di un giovane militare di leva. L’intervistato si chiamava Lucio ed era nato il ventuno luglio del 1963.
  La gente, sul tardo pomeriggio, stanca dopo il lavoro, era particolarmente vulnerabile e anche propensa a prendere iniziative del tutto impreviste per spezzare la routine quotidiana. Arcimondo indirizza Lucio verso la più vicina postazione internet, per collegarsi con il sito dell’Uomo dei Tarocchi a cui scrive un’e-mail. Pensa di presentarsi con le parole ironiche di una nota canzone, un poco vecchia ma ancora celebre. ‘Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’… Congratulazioni per il sito. Dalle didascalie delle foto che hai pubblicato, evinco che vivi a Roma. Io passo quasi tutta la mia giornata nella capitale, per motivi di lavoro. Se possibile, vorrei fare la tua conoscenza per scambiare alcune idee sulla vera natura dei Tarocchi. Il tuo approccio è abbastanza originale. Sarei lieto di essere contattato. A presto. Un ammiratore. Lucio.
  Lucio, piuttosto insicuro e abbastanza vulnerabile, aveva tutte le caratteristiche della classica larva. L’uomo fa quattro passi insieme al suo nuovo e inatteso ospite, Arcimondo, e, contagiato dalla sua profonda bontà, manifesta un certo interesse per la vita. Di sua iniziativa, nelle vicinanze di Piazza Vittorio, va a sedersi in un’antica gelateria, che produceva specialità da più di cento anni. ‘Il pistacchio e il mirtillo, insieme alla banana e al melone hanno un sapore squisito.’ A questa conclusione giunge l’Arcano, soddisfatto di constatare che la sua larva stava riacquistando un certo gusto per la vita, attraverso le papille della sua lingua impigrita. 
  Lucio non viveva nella capitale, ma abitava a Nettuno: un antico insediamento con un suo borgo medioevale risalente alla Signoria degli Orsini e un imponente Forte, progettato dal Sangallo e voluto da Papa Cesare Borgia a difesa del granaio dello Stato della Chiesa. Ora la moderna cittadina, dal ruolo balneare e turistico, ospitava una popolazione residente che per la maggior parte lavorava a Roma e utilizzava come mezzo di trasporto un treno sempre pieno zeppo e in ritardo, a causa dell’inadeguata rete ferroviaria, vecchia di mezzo secolo e parzialmente ancora a binario unico. I poveri passeggeri dovevano sopportare disagi d’ogni tipo e convivere con la sporcizia di vagoni, bersaglio della maleducazione e della persecuzione dei vandali, che si erano pure accaniti sulle numerose stazioni intermedie con graffiti ignobili. La stragrande maggioranza si era assuefatta e non si sentiva più offesa da quella piaga che considerava la normalità. Lucio in passato stigmatizzava quei comportamenti e doveva sempre discutere per fare rispettare il divieto di fumare nei convogli ferroviari, ma negli ultimi tempi si era uniformato alla passività quasi generale e si limitava a vivere la routine dell’impiegato. Svolgeva mansioni esecutive al Ministero delle Finanze, ubicato non lontano dalla Stazione Termini, dove il treno quotidianamente sfornava migliaia di lavoratori.
  Il nostro antieroe ritorna alla postazione internet dopo avere curiosato un poco nelle vetrine di via Nazionale. L’Uomo dei Tarocchi aveva già risposto al messaggio, con un’e-mail inviata poco prima.“Caro Lucio, sono ben lieto di ricevere i tuoi complimenti lusinghieri. Devo confessare: finora sono pochi gli estimatori che mi hanno scritto. Conoscersi di persona è ben diverso dall’approccio virtuale. Se vuoi, domani mattina, incontriamoci. Termino le lezioni alle ore 12. Telefonami....”
  In treno Lucio invia un messaggio all’Uomo dei Tarocchi per confermare la sua disponibilità il giorno successivo. La mattina seguente non si reca all’ufficio, ma chiede un giorno di permesso per sopraggiunti motivi di famiglia. 
  Arcimondo si era appropriato senza creare troppa tensione della vita di Lucio: un appassionato d’arte che aveva al suo attivo ripetute visite ai Musei Capitolini e alla Galleria Borghese. 
  L’incontro e la stretta di mano tra Lucio e l’Uomo dei Tarocchi avvengono in maniera del tutto naturale, senza alcuna vera coercizione per la larva. Lucio, già di per sé simpatico, finisce anche con l’essere autentico. Insieme, subito decidono di prendere l’autobus per andare a pranzare al centro storico.
  “In quest’antica Birreria del Carbonaro, a due passi da Piazza Venezia, si mangia abbastanza bene. Nonostante la globalizzazione dei gusti, la cucina è genuina, con piatti tipici romani. Di solito qui vengono gli impiegati degli uffici vicini e qualche turista di passaggio che vi approda casualmente. Poi la birra alla spina ha un altro sapore. Eri mai stato qui, Lucio?”
  “No. Lo trovo un bel posto. Mi piace l’atmosfera. L’arredo tutto di legno è accogliente. Dalle foto di questo menù si capisce che devono avere conservato lo stile originale di fine Ottocento.”
  L’Uomo dei Tarocchi amava i piatti della tradizione fatti in maniera semplice, cucinati il giorno stesso. Detestava il menù standardizzato e veloce, all’americana e in piedi. Gli piaceva conversare quando mangiava.
  Dopo pranzo Lucio e Leandro vanno a passeggio per la vecchia Roma a scoprire qualche angolo interessante. Attraversano con qualche difficoltà vicoli intasati di motorini e strade rese irriconoscibili da macchine parcheggiate un poco dovunque. Sono abituati a quel caos cittadino, sono cresciuti insieme a quella cellula malata che si moltiplicava inesorabilmente. 
  “Mi fa piacere incontrare qualcuno interessato al mio sito. Poche persone oggi hanno il tempo di leggerti. Tutti hanno fretta e non si soffermano su quello che scrivi.” 
  Lucio sceglie la strategia migliore. Fa poche domande abbastanza scontate. Dimostra interesse, curiosità, voglia di capire. Spera che l’Uomo dei Tarocchi parli e dica quello che di solito non si scrive, ma si pensa. Spesso gli autori non si espongono e non si svelano per pudore o timore, per calcolo o per conformismo. “Trovo interessante l’idea di creare un proprio sito nel web.”
  “Vedi Lucio, le case editrici importanti trascurano gli esordienti. Tuttavia anche se pubblichi a pagamento, rischi che le prime cento copie restino invendute. La piccola editoria blandisce gli aspiranti scrittori, ma non riesce a garantire adeguata pubblicità e accesso alla grande rete di distribuzione nazionale. Oggi gli autori sconosciuti debbono inventarsi uno spazio proprio.”
  La conversazione prendeva la direzione auspicata da Arcimondo in maniera spontanea, senza forzature. Leandro voleva confidarsi, perché era diverso tempo che aspettava un franco colloquio con una mente curiosa disposta ad ascoltare, a interessarsi alla sua ricerca e alle sue teorie. 
  Il professore si fidava di Lucio, gli era simpatico, si dimostrava colto e semplice nello stesso tempo. “Forse esagero, ma se noi fossimo ancora al tempo dei roghi, la mia opera sarebbe stata bruciata insieme alla mia persona e le ceneri abbandonate in terra sconsacrata. Oggi l’esclusione è più sottile. Attorno a te c’è un silenzio creato ad arte dai mass media che ti hanno tolto ogni spazio concreto per comunicare. Per sentirti vivo, gridi la tua rabbia nella rete, affidi il tuo messaggio informatico al caso, come fa il naufrago che, nell’isola sperduta, mette il proprio appello disperato in una bottiglia e, superando a nuoto la barriera della risacca, lo affida alle correnti che possano portarlo altrove.”
  “Certo è triste, ma è la realtà; dobbiamo prenderla con filosofia, Leandro. Vedrai che il web nel tempo darà i suoi frutti.”
  “Adesso Lucio ti racconto un caso accaduto circa due anni fa. Una sera, invitato da un’amica, sono andato al cinema. Di solito non ci vado più. Le persone sono agitate. Il sonoro alto m’infastidisce. Avevo anche timore che la sala fosse troppo piccola e che mi mancasse l’aria. Soffro di claustrofobia. L’aria condizionata era però giusta, le poltrone comode, c’era lo spazio sufficiente per le gambe. La presenza di tanta gente non mi ha dato fastidio. Ho visto il film rilassato.”
  “E’ vero, concordo: il suono spacca i timpani e anche a me dà fastidio. Non so proprio perché nessuno protesta.”
  “Siamo in sintonia. Durante la proiezione ho avvertito che la gente sembrava assopita, forse era presa dalla trama e proiettata nei personaggi. Di solito qualcuno parla, un altro tossisce. Qualche sedia si muove. Invece sembravano tutti in catalessi, come se fossero lontano, svaniti nel mondo di celluloide.”
  “Indubbiamente lo spettacolo doveva essere particolarmente interessante. Forse il suono e le scene li avevano ipnotizzati. Era avvenuta un’inconsapevole alienazione.”
  “Ebbene, anche nella frenetica vita d’ogni giorno, può verificarsi quello che succede in una sala cinematografica, dove le immagini e gli effetti speciali possono svolgere un ruolo indubbiamente ipnotico. Intendo dire Lucio che sta accadendo, sotto i nostri occhi, un mutamento sostanziale. Le persone sono cambiate, hanno perso qualcosa che un tempo avevano. A tratti sembrano estranee e si comportano come se fossero possedute da una presenza aliena. Forse, attraverso i nostri televisori e nei film che vediamo, circolano immagini subliminali soporifere che tranquillizzano e uniformano i comportamenti. La gente non possiede più le reazioni istintive degli animali, non reagisce più agli odori sgradevoli, non s’infastidisce più per i rumori, non lotta più per cambiare quello che non va, accetta passivamente d’ascoltare le solite notizie idiote e manipolate.”
  Lucio, mostrandosi più pratico, si sforzava di fornire spiegazioni razionali e plausibili. “Nel complesso la gente è molto condizionata dai mezzi di comunicazione di massa. Il tuo giudizio mi sembra esagerato. Pur con tutti i suoi limiti, sopravvive una fragile democrazia e le voci di dissenso non mancano.” 
  “La parola democrazia è soltanto un’amplificazione; una specie di figura retorica che tiene in piedi l’intero sistema. Storicamente credo che la democrazia non ci sia mai stata, neppure ad Atene dov’è nata. Diciamo piuttosto che oggi la nostra è un’iconocrazia.”
  “Un neologismo interessante. Cosa intendi dire?”
  “Il popolo dei parlanti conta ben poco. Il popolo degli scriventi incide solamente sul dieci per cento della popolazione. L’altro novanta per cento, la massa, legge pochissimo ed è sempre più dipendente dai media. Il potere è nelle mani di chi controlla le immagini, le televisioni, il cinema, l’informazione visiva. Le icone moderne non sono quelle dei santi bizantini, sono il grande e il piccolo schermo che esercita un potere smisurato.”
  “Dobbiamo moltiplicare i controlli sui mezzi d’informazione. Evitare i monopoli. Esercitare la critica quotidianamente. Sulle degenerazioni della democrazia già è stato scritto molto, ma trovami un sistema politico migliore.”
  “Formalmente è così. Certo potrò essere smentito, ma la gente è stata lentamente assoggettata al Grande Fratello. Il famoso reality mediatico, che prende il nome dal romanzo, è solo un esempio. La massa vive di riflesso negli eventi televisivi collettivi, come la telenovela o il calcio, o nei grandi film di successo.”
  “Su questo posso essere d’accordo. Sono gli effetti deleteri prodotti dai grandi mezzi di comunicazione. Il fenomeno è già stato studiato e andrà sempre più ampliandosi.”
  “Io voglio dire di più. Molti uomini assomigliano a dei robot. I meccanismi di controllo che vigilano sulla gente hanno ottenuto quello che da sempre il Grande Fratello vagheggia nella sua stolta volontà di dominio: il controllo del mondo e della volontà delle persone.”
  “Certo Leandro, oggi le reazioni collettive sono guidate. Le notizie manipolate. Non possiamo farci nulla. Ecco il web è uno spazio adatto per dissentire, se il visitatore è fortunato e s’imbatte in te, perché magari sei stato individuato da qualche motore di ricerca.”
   “Secondo me Lucio, il popolo deve restare all’oscuro. Il popolo dei parlanti ripete quello che il popolo degli scriventi vuole si dica. Dietro agli scriventi ci sono il potere e la manipolazione nelle sue forme più raffinate. La globalizzazione comporta l’assimilazione. L’unico spazio residuo di libertà è il messaggio virtuale. Presto sarai schedato dal Grande Fratello. Per il tuo destino segnato, è solo questione di tempo. Morirai per cause improvvise e misteriose, o sarai comprato con qualche carica importante di prestigio, o sparirai misteriosamente.”
  “Caro Leandro, ora stai esagerando. Per eccesso di pessimismo. Perché ti senti escluso. Vorresti ribellarti, ma la tua rivolta è impotente. Il dato concreto è questo. Non ci sono astratti disegni oscuri, bensì forze economiche e gruppi di potere.”
  “Ascolta bene Lucio! In alcuni laboratori segreti si commettono crimini ed esperimenti. Questi luoghi esistono e sono tenuti nascosti. Si volatilizza troppa gente di cui non si trova il cadavere. Dove vanno a finire tutte queste persone in maggioranza giovani? Le cifre degli scomparsi nel mondo sono preoccupanti.”
  “Certo sono notizie che lasciano tanta inquietudine. Forse stanno testando dei super virus e il relativo vaccino per una minoranza di superuomini selezionati. Qualche scomparso sarà stato anche clonato. Comunque circolano voci spesso inconsistenti. Soprattutto nel web.”
  “La mia voce interiore pare autorevole.”
  “Forse si tratta di una suggestione psichica.”
  “Dice di essere Taro: l’artefice dei Tarocchi. Stanno cercando di farlo tacere da molto tempo. Gli Inquisitori gli hanno manipolato le icone. La regola è confondere le idee, tenere il popolo dei parlanti all’oscuro.”
  “Leandro i manipolatori sono sempre esistiti. Ogni tanto processano qualcuno. Talora uccidono. Noi siamo le vittime innocenti del sistema repressivo. Le nostre comunque restano parole vagamente libertarie. Corriamo il rischio di rimanere chiusi in una sterile e perenne rivolta. Le masse resteranno per sempre incantate e incatenate alle diavolerie dello schermo a cristalli liquidi. Non si può tornare indietro.”
  “Dovremmo avere il coraggio di staccare la spina dei media. Partire da zero e ricominciare tutto di nuovo. Una rivoluzione dei valori.”
  “Sarebbe una rivoluzione del tutto utopica. Io voglio essere realistico. Non possiamo fare altro che impegnarci con la nostra persona, per affidare quel famoso messaggio al caso e alla corrente del mare.”
  “Ebbene il mio messaggio caro Lucio è questo: qualche demone ci sta nascondendo la verità. Non da oggi. Da molto tempo. Forse tutto è cominciato ai tempi del processo per empietà a Socrate. Già allora esisteva un meccanismo di controllo degli spiriti liberi. E questo sistema ha proliferato, si è esteso a macchia d’olio, fino a diventare onnipresente. Troppe sono le vittime innocenti dell’intolleranza e della superstizione che si sono succedute nel corso della storia umana.”
  Leandro e Lucio entrano nella Chiesa di San luigi dei Francesi, poco dietro Piazza Navona, dove si possono ammirare tre opere del pittore Caravaggio. Ciascuna grande tela prendeva luce, ogni volta che un turista voleva ammirarla in tutto il suo splendore. Un euro in un congegno faceva accendere una serie di fari, disposti in maniera perfetta. L’ingegnoso sistema consentiva di risparmiare corrente e ripagava gli elevati costi della manutenzione. A intervalli il capolavoro restava in penombra, in attesa di un altro fascio di ioni. 
  I due si accomodano sulle panche, poste a lato dei dipinti, per lasciarsi avvolgere dal magico gioco d’ombra e di luce che l’artista era stato capace di realizzare.
  Su tutti spiccava il dipinto a olio la vocazione di Matteo. Un sorprendente realismo pennella l’interno di un’osteria, dove uno squarcio di luce esalta nella penombra i volti e le mani dei protagonisti.
  Lucio e il professore rimangono estasiati in un’instancabile mirare, reso più acuto dal silenzio dei visitatori ammutoliti. Catturati dalla meraviglia, si sentono trasportati entro la tela, accanto agli avventori della locanda, attraversati da una luce divina che trasfigurava e generava una metamorfosi interiore. Simili a due gemelli in una culla, si sentivano investiti da un bagno di fresca luce mattutina; purificati come il futuro discepolo raffigurato dal Caravaggio. Non erano più giocatori d’azzardo e donnaioli, ma apostoli pronti alla divulgazione del Verbo.
  D’improvviso il professor Leandro, sommerso dal fascino dell’opera pittorica, comincia a piangere per la commozione, preda di una catarsi purificatrice.  Anche Lucio lo imita poco dopo. Avvertono entrambi che non solo era tramontata per sempre l’epoca dei sublimi valori, immortalati nei canoni della classicità, ma, nell’indifferenza quasi generale, si era consumato il misfatto più grande: una silenziosa strage del pensiero. Uno scempio delittuoso, concepito negli oscuri meccanismi dell’inconscio, perpetrato da uno stuolo di servili cortigiani, reiterato dalle autorevoli chiese dell’intolleranza, aveva segnato il tramonto dell’homo sapiens sapiens. 
 
 
20
Lucio consulta la cartomante Leda
 
Il giorno seguente Lucio, ancora in stretta simbiosi con Arcimondo, telefona allo studio della cartomante per prendere un appuntamento. Ne chiede uno al più presto. La segretaria Melissa pare non sia disposta ad accontentarlo e vuole inserirlo solamente alla fine del mese di maggio. Lucio le mente e racconta che è a Roma di passaggio e che si sarebbe fermato solo altri tre giorni. È subito accontentato, quando promette alla donna una sostanziosa mancia di cinquanta euro.
  L’Arcano non era mai stato da una cartomante a chiedere un oracolo come parte in causa. Voleva approfittare dell’occasione per investigare sugli occulti poteri di Leda. Conosceva l’ambiente e aveva ascoltato quella musica di sottofondo. Procede alla purificazione, per eliminare le energie negative presenti sul corpo di Lucio con una certa emozione, soprattutto quando strofina ventuno petali tra le mani. Vuole imitare i gesti dell’Uomo dei Tarocchi. Potevano aiutarlo a entrare meglio nel personaggio. 
  La cartomante si dimostra attenta. “Quanti petali hai usato Lucio? Sento un vago profumo di rosa esalare dal mazzo dei Trionfi!”
  “Ventuno petali. E’ il giorno della mia nascita.”
 
Presentato da una collega di lavoro
Nome: Lucio
Data di nascita: 21 luglio 1963
Trionfi dominanti*: 
Mondo, Carro, Innamorato, Imperatrice, Sole
Trionfi associati al nome**: 
Ruota della Fortuna, Sole, Imperatrice, Eremita, Morte
 
*La data di nascita 21-7-1963 (prendendo in esame, separatamente, sia le ultime due cifre dell’anno e anche la somma di tutte le cifre dello stesso) individua i numeri 21, 7, 6, 3, 19 (1+9+6+3=19) corrispondenti ai Trionfi cosiddetti dominanti.
** Nella premessa iniziale consultare la seconda tabella: lettere dell’alfabeto, Numeri, Trionfi.
  
Leda osserva la scheda personale sotto i suoi occhi.  “Lucio: nome di persona dal carattere fermo, alquanto generosa. Vorrebbe sempre far luce sulle ombre che oscurano il suo cammino.”
  “Sono appassionato di Tarocchi. Vorrei tanto riuscire a capire certe disavventure in cui mi vado a cacciare.”
  “Allora ti sai leggere le carte anche da solo e un’idea già te la sarai fatta.”
  “Certo le leggo, alcune volte. Tuttavia nei casi difficili chiedo il parere di una cartomante esperta.”
  “Sei venuto su consiglio di qualcuno che è già stato qui?”
  “Una collega ha fatto il tuo nome. Leggevamo oroscopi per curiosità, nella pausa pranzo. Me ne sono ricordato.”
  “La gente contamina cartomanzia e astrologia. Comunque non divagare. Metti a fuoco il vero motivo della tua visita.”
  “E’ un argomento delicato.”
  “Di me devi avere fiducia, altrimenti come faccio a leggere le carte nella direzione giusta.”
  “Ho conosciuto una donna abbastanza giovane. Siamo stati insieme lo spazio breve di due settimane. Si è concessa e poi si è dileguata. Senza un motivo plausibile.”
  “Insomma sei stato accalappiato e dopo ti sei sentito buttare nel cestino. Non è forse così che è andata, Lucio?”
  “Esattamente come hai detto tu, Leda.”
  “Dà fastidio. Fa molto male. Vero Lucio?”
  “Sì, ti senti un oggetto.”
  “E lo sei Lucio. E’ la donna che sceglie sempre. Dovresti averlo capito. Hai varcato la soglia dei quaranta anni e ancora non ti sei reso conto della realtà che ti circonda?”
  “Io ne sono ancora perdutamente innamorato.”
  “Onestamente consiglierei l’aiuto di uno psicologo. Di qualcuno che possa fortificare il tuo carattere. Ti serve un sano bagno di realismo.”
  “Ottimo consiglio. Comunque Leda vediamo ora cosa dicono le carte! Se c’è una piccola speranza di rivederla.”
  “Lucio devi prepararti ad affrontare la realtà. Quando una donna agisce così, non cambia il giorno dopo. Nemmeno se la paghi. La massima soddisfazione con te già l’ha raggiunta!”
  “Qualcuno vocifera che sai confezionare degli amuleti, che puoi provocare innamoramenti!”
  Leda avrebbe voluto mentire, ma, di fronte al candore di Lucio, non riesce a tessere la sua abituale rete d’inganni. Si sente sottilmente osservata dal suo sguardo indagatore e finisce con l’essere autentica come non mai. “Non con questo tipo di donna. Io sono una professionista seria e non amo ingannare la gente. Ogni situazione è differente da un’altra. A volte ci sono dei margini esigui su cui potere operare. A volte no!”
  “Leda, possiamo sempre vedere se le carte ci suggeriscono qualcosa!”
  “Ovviamente, sì. La mia premessa era però doverosa. Dunque abbiamo il Gerofante nella prima casa. La Papessa nella seconda. L’Imperatrice nella terza casa. Il Carro nella quarta. Il Sole nella quinta. L’Innamorato nella sesta. Infine l’Imperatore nella settima casa. Abbiamo tre Trionfi nella loro casa naturale: la Papessa, l’Imperatrice e l’Innamorato, che assumono maggiore forza rispetto agli altri.”
  A questo punto Arcimondo interrompe la lettura delle carte, per riferirsi alla data di nascita di Lucio e avere maggiore credibilità agli occhi della cartomante. Temeva d’essere smascherato. Non gli piaceva agire, usando sotterfugi. Avrebbe preferito raccontare candidamente alla cartomante chi era, ma avrebbe ottenuto di eclissare il lato oscuro della personalità della donna. “Ah! Vedo che non è uscito il ventunesimo Trionfo. Scusa: toglimi una curiosità, prima che inizi a leggere le carte. Perché il Mondo esce così poche volte?”
  “L’ho notato anch’io. La gente non lo vuole. E’ un Trionfo forse poco simpatico. Questo secondo me è il motivo.” L’interruzione della lettura non distrae la cartomante. Aveva già chiara la risposta, anzi giudicava ovvia quella domanda, perché Lucio, nel fornire i suoi dati, aveva dichiarato d’essere nato proprio il giorno ventuno. “Diciamo subito che l’Innamorato posto nella sesta casa è assai potente e sarà difficile allontanarlo da te. Il tuo più che un amore è una possessione. La prima carta, il Gerofante, fotografa la tua personalità, ma in maniera ambigua. In genere si riferisce a persone che esercitano una professione mistica e hanno superato i condizionamenti carnali e le pure ambizioni materiali.”
  I ricordi di Lucio aiutano l’Arcano, che fa una puntualizzazione. “Otto anni or sono ero insegnante di religione. Hai indovinato.”
  “Ora sei diventato più malandrino. Insegui donne troppo giovani. Troppi peccati per un ex prete.”
  “Insegnavo religione, come laico. Non ero un sacerdote. Questo innamoramento sconvolge la mia vita.”
  “La Papessa custodisce segreti per te inavvicinabili. Essa nel tuo caso personifica l’eterno femminino che non si lascia afferrare. Non è nelle tue corde essere un dongiovanni. Nella terza casa l’Imperatrice ti ammonisce a scegliere una donna diversa, sposa e madre fedele. Le carte dicono che devi cambiare donna.”
  “Allora dovrei rassegnarmi.”
  “Pare. Andiamo avanti. La carta del Carro è favorevole. Forse uno spazio minimo di manovra c’è. Hai da mostrami una sua foto?”
  Lucio per caso rammenta d’avere nel portafoglio la foto della ragazza che più d’ogni altra amava oltremisura, senza essere corrisposto. “Questo primo piano mostra tutta la sua bellezza.”
  “La quinta carta è il Sole. La tua donna ti ha accecato completamente la vista. Ti sei immedesimato nei panni dell’Innamorato della sesta casa e non riesci a uscire dal maleficio dal quale sei avvinto.”
  “Allora non ci sono speranze.”
  “Nella settima casa l’Imperatore conferma che devi recuperare la tua dignità e tornare padrone della tua vita. Dimenticala.”
  “Come?”
  “Brucia tutto di lei. Le foto. Getta via ogni ricordo. Ogni oggetto che le è appartenuto. Fai un bel rogo simbolico. Stando attento a non bruciare la casa, perché devi essere anche maldestro.”
  “Non avrò mai il coraggio di farlo. Guardo le sue foto e mi metto a piangere.”
  “Devi evitare di guardare soprattutto le foto, Lucio.”
  “E’ perché mai?”
  “Perché il suo sguardo fatale riesce a condizionarti l’animo candido che ti porti appresso.”
  “In conclusione questa ragazza avrebbe su di me un influsso nefasto?”
  “Esatto. Devi metabolizzare le energie negative. In un secondo tempo riuscirai anche a combatterle.”
  “Leda, ma è possibile che una donna giovane, così bella, dal nome così nobile, Virginia, possa avere il potere e la volontà di fare del male a una persona mite che l’ama con tutta l’anima?”
  “Vedi tutto questo non accadrebbe, se tu fossi un poco di buono, o peggio un farabutto. Una persona così avrebbe rispetto e sarebbe riamata. Per la legge delle affinità elettive.”
  “Scusa, ma non ho capito. Spiegati meglio.”
  “Vedi Lucio nell’amore vige una regola basilare: evitare sempre di lasciarsi attrarre dal polo contrario. Secondo le leggi dell’elettromagnetismo è sempre il polo positivo che attrae il negativo; in amore però bisogna scegliere il polo affine.”
  “Leda, scusa ancora se insisto. Quali elementi hai per dire male di questa ragazza?”
  “Caro Lucio, sei tu, cieco d’amore, a non accorgertene. Io non vedo questa Virginia con i tuoi occhi. E’ una medium potente. Può ridurti a una creatura senza volontà.”
  “Aspetta, aspetta: spiegami cosa intendi dire per medium potente.”
  “Abbiamo ancora poco tempo, caro Lucio. La mia clessidra è inflessibile. Dopo di te c’è un altro cliente, che aspetta con ansia la sua lettura dei Tarocchi. Non posso farlo attendere troppo. Che cosa vuoi ti dica di più. E’ una sensitiva, stanne alla larga.”
  “So pochissimo di spiritismo. A scuola ci hanno fatto studiare per tre volte gli Egizi, i Greci e i Romani. Del corpo umano se n’è parlato pochissimo. Ed è l’unica realtà vera che possiedo. Di anima si parlava spesso nelle ore di religione e di filosofia. Di spiritismo non so un cavolo.”
  “Vuoi che ti faccia adesso una lezione Lucio? Cerca d’essere realistico.”
  “Leda. Dimmi in poche parole cosa c’è sotto.”
  “A scuola, caro Lucio, ti hanno per l’appunto rincretinito e confuso le idee. Tu stesso te ne sei accorto. Corpo umano davvero nulla. Spiritismo nemmeno a parlarne. Dovevi essere messo nella condizione di non sapere. L’istruzione al contrario, altrimenti ci sarebbero troppe persone somiglianti a Virginia in giro. Invece spesso vai dal medico, compri farmaci, consumi ansiolitici.”
  “Sì, forse ho capito, ma dammi un’ultima dritta sullo spiritismo, poi torno perché voglio approfondire con te. Sei veramente la migliore sulla piazza di Roma e forse del mondo intero.”
  “Vedi Lucio, i tuoi maestri, i preti hanno garantito per la tua anima immortale e tu, comportandoti bene, la vuoi condurre giustamente in Paradiso. Sei un buon figlio che vuole essere ricompensato. Quando volterai l’angolo di questa via che si affaccia nella piazzetta di Santa Maria in Trastevere, vai in Chiesa e inginocchiati nell’ultima fila dei peccatori e prega il tuo Dio di illuminarti. Se dovesse accadere, vedrai, dietro di te, quelle oscure presenze che bazzicano sempre nei pressi delle acquasantiere, per provare a prendere delle preziose energie in libera uscita. Sono gli unici veri spiriti che potrai incontrare in questa grande città della fede. Di solito se ne vanno a spasso dietro ai veri pochi medium, per trovare un ostello libero dove albergare.”
  “E’ veramente un grosso imbroglio questa vita, se dovesse essere veramente così.”
  “Lucio, suvvia non essere triste! Voglio farti una confidenza, che poi non è un mistero; anzi per me un vanto: mi piacciono anche le donne. La tua Virginia è veramente bella. Potreste tornare insieme a farvi leggere le carte.”
  Lucio sta al gioco e asseconda subito la morbosità della cartomante. “Io ti prometto che mi faccio in quattro per portarla qui: in questa sala meravigliosa, che è uno spettacolo solo a vederla e merita il prezzo del biglietto.”
  “Però ci vuole un talismano magico per trascinarla qui docilmente.”
  “Me lo regali?”
  “Lo devi comprare. Un valore simbolico. Trenta euro. Giuda vendette Gesù per trenta denari. La conosci meglio di me questa storia.”
  “Insomma mezzo tradimento e mezzo talismano.”
  “E’ un talismano autentico. Non fallisce mai.”
  “Come fai a dirlo?”
  “Garantisco io.”
  “Lo hai preparato te?”
  “Certo! Credi forse che si compri al supermercato?” La cartomante si alza e va verso la teca dei Tarocchi a prendere una piccola ampolla di vetro trasparente, sigillata con della ceralacca. “Sangue…. Basta riscaldarlo un poco con la mano per risvegliare il Diavolo dei Trionfi assopito. Una fattura terribile, a cui nessuno può resistere. Ripeto, costa solo trenta euro. Nulla. Entrando qui avresti pagato qualsiasi cifra per riavere la tua donna.”
  “E’ vero. Mi leggi nel pensiero. Sono soldi spesi bene. Purtroppo ho finito i contanti.”
  “Me li porterai domani Lucio. Li consegni alla segretaria a qualsiasi ora e lei ti consegnerà l’ampolla. Comunque vediamo cosa dice l’oracolo. Sbirciamo l’ottava carta: l’Appeso, la carta più vicina alla tua persona. E sbirciamo anche l’ultima carta, la più lontana: la Morte.”
La cartomante si concede una pausa più lunga del solito. Riflette sul significato di quelle due ultime carte. Poi fa una smorfia di disappunto. “Mi sono troppo fidata di te.”
  “Leda, non conoscevo il giochetto della carta vicina e di quella lontana.”
  “Queste due altre carte mi servono per avere le idee più chiare. Vedi, Lucio, ti sto dando anche lezioni che non hai pagato. Quando chiamo in soccorso i Trionfi, di solito mi rispondono sempre. Anche questa volta non hanno mentito. Possiedi una grande forza morale interiore, che proviene direttamente dall’Appeso. Lucio è qui in veste di larva, ma non è il suo abituale padrone che lo guida. Sono quasi certa che ho avuto l’onore di essere stata visitata dal ventunesimo Trionfo. Proprio la Morte, se capovolge l’Appeso, il numero 12, ci porta diritti al Mondo: il numero 21.”
   Arcimondo ora non aveva più motivo di camuffarsi e apertamente ammette. “Leda, mi congratulo con te. Sei un genio. Un giorno, non so come, ti ricompenserò.”
  “Sei ricorso ad un subdolo camuffamento. Con la tua ingenuità sei riuscito ad ingannarmi. Sei stato convincente, devo riconoscerlo. Però adesso mi devi una risposta sincera. Perché sei qui?”
  “Per vedere uscire questo benedetto Trionfo che si nasconde. Perché mai altrimenti dovrei essere qui? Adesso è tutto un agitarsi di Arcani. Si spiano. Si cercano. Per via dell’Uomo dei Tarocchi. E allora ho pensato. Torno da Leda e mi faccio leggere le carte. Metto il becco nei suoi affari, nella sua professione. Insomma qualcosa imparerò. Ed è così! Non mi hai forse svelato l’approccio all’ottava e all’ultima carta? E poi sono venuti a galla le tue inclinazioni lesbiche, i tuoi intrecci col Diavolo. Roba autentica, che gli ingenui, fuori di qui, neppure s’immaginano.”
  “E che il tuo Lucio farebbe bene a non divulgare. Del resto nessuno gli darebbe credito. Perché non ci sono prove tangibili di nulla. Del sangue forse infetto in un’ampolla, per fare abboccare chi crede in Satana e vuole magari vendergli l’anima: cosa che fa sorridere.”
  Nonostante avesse usato parole velatamente minacciose, per la prima volta nella sua vita Leda si sentiva fragile e smarrita. Provava del timore reverenziale per la presenza di un Trionfo, che adesso percepiva in maniera diretta. Quella larva era la prova tangibile che, attorno al suo tavolo ottagonale, si aggrovigliavano intrighi e imbrogli maledettamente complicati. 
  Lucio tace ed esce da quella sala respirando a pieni polmoni. Per tutto il tempo trascorso si era sentito a contatto con una forza sottile e maligna che albergava accanto alla cartomante e che di tanto in tanto lo scrutava. 
  Quando subentra il cliente successivo, la cartomante gira meccanicamente la clessidra come faceva sempre, ma questa volta il suo sguardo accompagna i granelli di sabbia che impietosamente sembravano segnare anche il dissolversi della sua dimensione temporale. La sua vita scivolava giù nella piccola ampolla di vetro soffiato; cadeva nel vuoto che la risucchiava, senza farla più risalire. 
  La voce di Arcidiavolo, più che trattenerla, sembrava sospingerla e le sussurrava in un orecchio parole sconfortanti.‘Questa volta sei stata molto imprudente. Dovevi intuire prima che era una larva mascherata. E’ stato un imperdonabile errore: questa tua prima leggerezza.’  Leda si sentiva presa per mano, ma la sensazione non era di possesso, ma d’abbandono.
 
  
21
L’epistola del pastorello leggiadro
 
Padre Julius stava seduto nella consueta sala di lettura riservata agli studiosi più importanti e preclusa agli studenti. Per accedere alla Biblioteca Vaticana bisognava possedere titoli e referenze; la selezione era accurata e rigorosa, solamente così poteva essere tutelato l’enorme patrimonio culturale ivi contenuto. Nel passato non lontano, questi spazi erano negati a tutti i laici, perché la biblioteca era accessibile esclusivamente al Papa e agli ecclesiastici. 
  Un anziano omino, con gli occhiali piccoli e tondi, lo stava guardando insistentemente. Gli si era seduto di fronte senza provocare rumore e si era fatto notare, perché aveva appoggiato sul tavolo un solo foglio e non aveva altro con sé: né cartella, né astucci, né penne, né libri. Aveva espresso un cenno di saluto col capo per educazione e il sacerdote aveva risposto nel medesimo modo. “Lei è Padre Julius. Ogni giorno viene nella Biblioteca Vaticana a consultare libri sui fenomeni paranormali. Entra alle nove e ne esce verso mezzogiorno. Posso permettermi di disturbarla?”
  Di solito il sacerdote si limitava a fare le sue ricerche e non scambiava mai opinioni e dati con nessuno. Ipotizza si tratti di un impiegato che aveva evinto, dalla scheda del prestito libri, identità e interessi. “E’ per caso un bibliotecario addetto alla ricerca dei volumi?” L’apparenza dell’uomo faceva pensare al classico topo di biblioteca che non coltivava interessi terreni e si era invecchiato nel digerire tutto il sapere dai libri.
  “Non sono un bibliotecario. Il sapere cartaceo è fin troppo limitato e dispersivo. Parte dai presupposti più differenti e arriva a conclusioni sempre contrastanti.”
  “E allora quale lavoro svolge? E vorrei sapere il suo nome. Io non mi presento perché già mi conosce.”
  “Mi scusi è vero, sono stato poco educato e forse ho disturbato. Chiedo solo un poco del suo tempo prezioso. Mi bastano dieci minuti. Sono un Arcangelo. Svolgo delle mansioni ufficiali. Non la sto importunando a titolo personale. Il mio nome  è Gabriel.”
  “Signore, mi sta prendendo forse in giro?”
   “Perché dovrei? Lei dirige una fondazione di studi sul paranormale, patrocinata dall’Ordine dei Penitenti, grazie ad un cospicuo lascito anonimo. Non potrei scherzare con lei, nel suo stesso campo d’indagine. Sarei smascherato alla fine.”
  “Mi dica come ha saputo queste informazioni riservate.”
  “Le ripeto, Padre Julius, la mia sapienza è per così dire innata. Le creature angeliche sono sempre ben informate.”
  “E lei sarebbe una creatura angelica?”
  “Certamente! Come potrei sapere delle sue funzioni altrimenti?”
  “Bene, veniamo al sodo e non mi faccia perdere altro tempo!”
  “Perché s’irrita? Dovrebbe essermi grato per questo incidente paranormale che le sta capitando, non certo in maniera fortuita. Potrebbe approfittarne per inserirlo nella sua casistica.”
  “Ascolti, Gabriel, per vagliare con criteri scientifici la chiaroveggenza mi ci vorrebbe molto più tempo dei dieci minuti che le ho concesso. E poi sono abituato a programmare il mio lavoro, in ben altro modo. Non so se sta cercando pubblicità, o altro.”
  “Non ho forse l’aria di una persona perbene, Padre Julius? Mi dia un poco di credito, ancora per un momento. Avrà una vita intera per spiegarsi quello che le sta succedendo.”
  “Allora venga al sodo, Gabriel. Anche le creature angeliche agiscono per leggi logiche universali.”
  “Venga con me: la voglio condurre in un luogo molto prossimo.”
  “Preferirei rimanere qui. Non dovevamo solo scambiare quattro parole?”
  “Ora sta manifestando una certa paura verso l’ignoto, che non vuole affrontare, allontanandosi da dove si sente più sicuro.”
  “Perbacco, la seguo. Oggi ho perso del tutto la concentrazione. Avrei potuto chiamare la vigilanza, farla identificare e sbattere fuori da questa Biblioteca!”
  “Vede, Padre Julius, non è ancora convinto di avere a che fare con una presenza angelica. Allora le dico che qui si respira aria di muffa. Lei usava questa frase nella Russia sovietica, quando fiutava la presenza di qualche spia fisica nei paraggi, o di qualche microspia elettronica nella stanza. Per questo sarebbe meglio fare insieme quattro passi.”
  Il sacerdote rimane esterrefatto e cambia improvvisamente atteggiamento. Osserva l’omino con gli occhiali con maggiore considerazione. Si alza e fa per prenderlo sottobraccio. Istintivamente vuole sentire se è di carne. “E’ venuto portando con sé un foglio. Lo lascia incustodito sul tavolo? Anche se qui nessuno tocca niente. Siamo tutti studiosi.”
  “No, lo metta pure tra le sue carte, Padre Julius. Questo foglio che ho stampato ora in Biblioteca, sarà la prova della grandiosità del divino e delle miserie del quotidiano. Vede ora lo ripiego bene in due e lei, in tutta tranquillità, lo potrà leggere quando tornerà, a mente serena, scevro da condizionamenti, lungi dalla mia presenza scandalosa.”
  “Dove mi vuole condurre, Gabriel?”
  “In un’ala della Biblioteca c’è una porta che comunica direttamente con gli antichi palazzi pontifici. Quando è nato questo complesso, il Pontefice aveva un accesso riservato diretto con la sua biblioteca e poteva andarsi a scegliere la lettura che prediligeva, magari usando un impiegato al suo servizio.”
  “Non so, dove sia; ignoro la mappa e l’ubicazione degli ambienti, ma uno studioso potrebbe condurmi fin là. Ora però questa porta dovrebbe essere chiusa, per ovvi motivi di sicurezza.”
  “Tutto esatto. Le offro però una grande opportunità: potere entrare nel cuore antico della Biblioteca. Noi creature angeliche possiamo superare ogni tipo di ostacolo.”
  “Dove vuole andare, Gabriel? A incontrare qualche anima di Papa nostalgico che ritorna nei suoi spazi terreni per una diversione?”
  “No! Andiamo a prendere un messaggio vergato dalla mano di una suora. Lei aspetta nella Galleria delle Carte Geografiche con il suo taccuino.”
  “Una suora... e il suo taccuino...”
  “Aspettano Padre Julius. Il messaggio è per lei”
  “Un altro messaggio per me? Non sono forse troppi? Già ce n’è uno nella mia cartella: il suo. Ora vi si aggiunge quello di una suora. Cosa dovrei farne?”
  “Leggerli e confrontarli: sono identici. Uno stampato. Uno scritto a mano. Noi creature angeliche possiamo ispirare con una certa facilità qualsiasi testo. E’ forse l’attività che ci riesce meglio in assoluto.”
  “Doveva scegliere un modo più clamoroso per mettere in mostra il paranormale. Non crede, Gabriel?”
  “Affatto, Padre Julius. Forse voleva che imitassi quelle macchinazioni che riempiono le sale cinematografiche e piacciono tanto al pubblico? Mi sono attenuto alle direttive. Cercare di usare discrezione e stile mi era stato suggerito.”
  “I messaggi, se identici, cosa dimostrerebbero?”
  “Che sono stati ispirati. Ve ne sono altri ventuno sul taccuino della suora.”
  “Non mi è chiaro ancora quest’arzigogolo, ma facciamo il passo successivo: andiamo a prendere questo benedetto messaggio.”
  “Altre creature angeliche stanno vigilando su quanto accade nella Galleria delle Carte Geografiche. Un Cherubino farà passare il messaggio autografo sotto la porta: sarà lei a sfilarlo via e a trattenerlo con sé. Aspetteremo pazientemente che, dopo pranzo magari, faccia una visita ai Musei che già conosce e venga a salutare tutta la squadra.”
  “Insomma, da sotto una porta blindata, dovrei vedere spuntare un messaggio. E poi, nel pomeriggio, farmi vivo nella Galleria. Se ho ben capito!”
  “Certo. E’ tutto. I grattacapi verranno dopo. L’importante è che soddisfi le mie richieste e non mi deluda. Credo che le sarà facile muoversi nella direzione da me auspicata.”
  “Piuttosto perché non pensa a come attraversare la porta blindata, Gabriel?”
  “Non sono una proiezione spirituale. Io sono fatto di materia, Padre Julius. Lei stesso se n’è accertato poco fa.”
  “Tuttavia si è definito una creatura angelica?”
  “E lo sono; ma il corpo che mi ospita è fisico. Anche il materiale cartaceo lo è: per questo può passare solamente sotto la porta. Tra pochi minuti vedremo spuntare il messaggio.”
  “Perché non mi fa assistere dal vivo a un vero prodigio? Teme forse che il mio cuore possa risentirne?”
  L’omino con gli occhiali non accetta la provocazione e rimane ostinatamente silenzioso. Nell’attesa Padre Julius spiava tra i libri e respirava il profumo della sapienza antica. Temeva in cuor suo di essere scoperto, in quel corridoio dove non sarebbe dovuto stare. Un lieve sussurro interiore interviene per allontanare ogni ombra di fobia. ‘Nessuno ti vedrà! Ci sono due Cherubini con le loro grandi ali. Stai tranquillo!’ Nell’ascoltare la voce protettiva, Padre Julius si sente più al sicuro nel cuore della stupefacente Biblioteca Apostolica Vaticana, una tra le più antiche al mondo, fondata nel 1451. Adesso contava un milione e seicentomila volumi a stampa, ottantamila manoscritti, ottomila quattrocento incunaboli, monete, medaglie, stampe e fotografie.
  Il sacerdote occhieggiava a tratti il pavimento con una certa curiosità. L’omino con gli occhiali poteva anche avere un compare dall’altra parte, ma con quale scopo avrebbe dovuto ingannarlo in maniera così maldestra? Poco dopo spunta, sotto la porta blindata, l’estremità bianca di un foglietto, che Padre Julius afferra, tirandolo con la punta delle dita; quindi piega il messaggio e lo infila direttamente nella piccola agenda che portava sempre con sé.
  Nel percorso a ritroso verso la sala di lettura, si rende conto che tutti lo ignoravano e non si accorgevano di lui. Vorrebbe farsi notare, ma poi si affretta a seguire l’omino con gli occhiali che lo precedeva e andava verso l’uscita dalla Biblioteca, dopo averlo salutato. “Arrivederci, Padre Julius. Ci vedremo più tardi.”
  Il sacerdote si siede e non perde tempo; spinto dalla naturale curiosità mette i due fogli subito a confronto e scopre che sono veramente identici, come annunciato; perfino nella scansione della punteggiatura e nell’andare a capo. Opera della stessa mente. 
16 rintocchi di campane. 
14esimo giorno del Signore.  
Maggio dell’anno 2005. 
Nelle umili vesti di un pastorello leggiadro, suggerisco queste note alla suora che mi sta ascoltando estasiata. Protetta da ampie e pietose ali, la religiosa sosta nel bel mezzo della Galleria delle Carte Geografiche tra l’indifferenza dei passanti e del personale preposto alla sorveglianza. 
Sul suo taccuino d’appunti sta scrivendo 22 messaggi tutti identici: uno per ogni Trionfo dei Tarocchi. L’arrivo di Padre Julius metterà fine alla malia di cui Suor Chiara è preda. Lo spettacolo inverecondo lascerà il sacerdote impietrito. 
Il fatto però resterà circoscritto, perché oscurato da 7 angeliche creature. Tale macchia di un incomparabile luogo d’arte è un avvertimento. Perché episodi più crudeli non si ripetano all’interno della Città del Vaticano, l’Autorità dovrà fare oscurare il sito blasfemo partorito da un eretico professore. 
Speriamo che la mala pianta tarocchi-origini.it  venga estirpata e non riveda la luce per sempre. L’offesa mossa ai Trionfi ha superato ogni limite e non può essere oltre sopportata.
Il Pastorello Leggiadro
  All’orario d’apertura, puntualmente come stabilito, già era entrato in azione il gruppo angelico deputato al vaglio dei turisti che facevano la fila per andare a visitare i Musei Vaticani. 
  Una suora filippina chiacchierava con una conterranea e snocciolava una parlantina per nulla musicale che sembrava scaturire da un timpano metallico battuto da un cucchiaino per la colazione. Le due donne, trovatesi accanto per caso, non smettevano mai di parlare alto della loro patria lontana e davano l’impressione di essere affette da sordità e infastidivano alquanto i più taciturni e compassati vicini: dei cinesi ben educati, lieti d’essere alla fine della lunga coda e di quell’incomoda vicinanza.
  Questa giovane suora, esile e piccolina, aveva assunto il nome di una santa italiana: Chiara. Aggraziata, ogni tanto avanzava a piccoli passi verso l’agognata meta dell’entrata. Aveva completato il corso universitario di Letteratura e Lingua italiana e stava per diventare a sua volta insegnante. Essendo appassionata di storia dell’arte non voleva perdere l’occasione d’ammirare dal vivo quei capolavori riprodotti sui libri. Costretta ad aspettare pazientemente il turno in una fila lunga almeno cento metri davanti al botteghino, da sola avrebbe letto delle preghiere sul suo piccolo breviario; in compagnia invece preferiva esternare tutta la propria felicità ed emozione e ovviamente le proprie competenze.
  La sua conterranea lavorava come badante e accompagnava un’anziana professoressa che voleva rinverdire e rinfrescare le sue conoscenze e, un’ultima volta nella vita, avere l’opportunità d’ammirare tanti capolavori in un unico Museo, forse il più ricco in assoluto sulla faccia della Terra.
  Appena entrate le due donne si congedano, perché i tempi e l’andatura della visita non potevano essere i medesimi. 
  Gli Angeli avevano cominciato a interagire con le più disparate persone che casualmente venivano a contatto con la suora, fin dalla calca dell’ingresso e più avanti nelle sale più gremite. Avevano bisogno di molta energia e potevano prenderla con facilità e a buon mercato, a piccole dosi, approfittando dell’estrema vulnerabilità di chi stava loro accanto. Qualcuno aveva sete e si dissetava. Qualche altro cercava un gradino, o una sedia per riposarsi dalla fatica. La visita era stressante soprattutto per gli anziani assai numerosi, per il tempo trascorso in piedi, per il caldo eccessivo di ambienti poco arieggiati, per il numero incredibile di visitatori che gremivano sale dove a mala pena si respirava. Vi erano dunque tutte le condizioni favorevoli per essere vicino a soggetti stanchi e inermi, impossibilitati a sottrarsi a un salasso d’energie che avrebbero imputato a quella faticosa giornata. 
  Quando il Serafino raggiunge la vibrazione giusta, prende le fattezze di un pastorello raffigurato in una grande tela, da cui esce fuori per polarizzare l’attenzione di suor Chiara che sostava proprio al centro della lunga Galleria delle Carte Geografiche, dove di solito il turista passa frettoloso per andare direttamente ad ammirare la celeberrima volta affrescata della Cappella Sistina.
  La giovane suora si era seduta accanto ad una finestrona che illuminava quella Galleria, lunga centoventi metri e larga sei. Fisicamente simboleggiava la penisola italiana illustrata alle pareti, rispettando la posizione geografica delle varie regioni. Secondo una fondata leggenda, i Papi per secoli vi avevano passeggiato, quando fuori nei giardini pioveva e il tempo era inclemente, o per il gran freddo, o per la calura. In quella sala potevano ammirare le quaranta carte geografiche dipinte che illustravano con delle visioni aeree le regioni e le città più importanti della penisola italiana, considerata la culla della cultura rinascimentale e della religiosità, unite in uno spazio incommensurabile, inondato dalla luce generosa filtrata dalle strette ed alte finestre distribuite simmetricamente lungo i due lati della Galleria.
  Il pastorello invita suor Chiara a prendere il taccuino e le suggerisce quanto avrebbe dovuto scrivere con voce serena, suadente. La suora obbedisce in stato d’ipnosi, senza rendersi conto che la sua scrittura era automatica, indipendente dalla sua volontà. Comincia a scrivere il messaggio, perché il Serafino aveva il potere di farsi ascoltare nell’inconscio. Gli umani, abituati alle voci più disparate, spesso le identificavano in quello che avevano di più caro e in cui credevano, senza porsi altri interrogativi.
16 rintocchi di campane. 
14esimo giorno del Signore.  
Maggio dell’anno 2005. 
Nelle umili vesti di un pastorello leggiadro …  
Dopo avere suggerito alla suora, quanto avrebbe dovuto scrivere, il sedicente pastorello le mostra di nuovo tutto quello che i suoi occhi avevano visto. Il film ricominciava sempre e non finiva mai di sorprenderla. I capolavori si susseguivano uno dietro l’altro, con la loro storia e il loro splendore.  
  Suor Chiara aveva occupato una delle tante savonarole. Sistemate bellamente accanto  alle finestrone, attendevano la sosta del passeggero che transitava lungo quella preziosa esposizione cartografica, realizzata da una nutrita schiera di pittori esperti, noti e ignoti, sotto la supervisione del geografo perugino Ignazio Danti. La grandiosa scenografia pittorica si estendeva fino ai soffitti e illustrava la vita e i miracoli dei vari santi, nati nelle località raffigurate sulle pareti. Tuttavia la mirabile Galleria, terminata nel 1581 dopo quattro anni di lavori, non riusciva a trattenere, il tempo necessario per essere pienamente gustata, la simpatica orda dei visitatori, che frettolosi inseguivano immagini da mostrare come trofeo e scattavano una foto dietro l’altra, per immortalare un viaggio avente per meta i famosi Musei dello Stato più piccolo al Mondo.  
  Padre Julius lascia la Biblioteca Apostolica Vaticana verso le tredici. Tra sé ripercorreva gli eventi: una, due, tre volte, per vagliarli alla luce della ragione. Trovava sempre delle spiegazioni plausibili. ‘Qualcuno deve aver congegnato il tutto, in combutta con il finto Gabriel. Sono certo che la messa in scena è stata apparecchiata dal mecenate della fondazione sul paranormale. Vogliono farmi credere d’essermi imbattuto in un caso straordinario. L’omino con gli occhiali era di carne e l’ho preso sottobraccio apposta, per sincerarmi della sua fisicità. Non ci casco. Vado a passeggiare in centro per distrarmi e pranzo al solito ristorante preferito. Non sono tenuto ad andare ai Musei per fare un sopralluogo. Non è successo nulla di così clamoroso.’
  Nel pomeriggio il sacerdote comincia ad arrovellarsi il cervello, sprofondato nei dubbi e nei ripensamenti e, quaranta minuti prima della chiusura del Museo, decide d’entrare. La biglietteria era già serrata, perché era ampiamente trascorso l’orario consentito per ultimo l’accesso. Il personale avrebbe dovuto allontanarlo, ma i guardiani presenti neppure lo notano. Passa inosservato. E una voce interiore lo tranquillizza. ‘Sei protetto dalle ali degli Angeli. Nessuno può vederti.’
  Questa volta Padre Julius vuole essere sicuro dei suoi occhi. Ha portato con sé una piccola fotocamera digitale: con essa si prefiggeva di scattare diverse fotografie e forse anche registrare un eventuale colloquio. 
  La lunga Galleria delle carte geografiche era deserta come le varie contrade italiane, ivi rappresentate e viste dall’alto. Già erano transitati i visitatori del museo che stavano tutti avviandosi verso l’uscita. Il rumore dei passi trafelati di Padre Julius sui marmi bianchi e neri, dai motivi geometrici e vagamente labirintici, era amplificato dall’eco creato dal silenzio che regnava sovrano. In quella solitudine, amplificata dagli spazi, il sacerdote poteva quasi avvertire il suo cuore vulnerabile pompargli il sangue e scandire anche lo scorrere impietoso del tempo sulle sorti dei mortali. Neppure l’ombra di un guardiano faceva da spettatore alla scena che si profila allo sguardo allibito del sacerdote, improvvisamente, come se la tela di un palcoscenico invisibile si fosse sollevata davanti ai suoi occhi increduli e feriti. La cruda visione avrebbe scosso l’indifferenza di qualsiasi passante. Si piegano lentamente e poi crollano in ginocchio le gambe del sacerdote, proteso istintivamente a sollevare in aria le mani, per proteggersi dal candore accecante delle ali semichiuse di sette Angeli disposti attorno ad una donna leggermente sospesa in aria, completamente nuda, con le gambe e le braccia divaricate atte a formare una croce obliqua. Per terra, lasciati cadere alla rinfusa, stavano abiti da religiosa. La suora levitava e ruotava su se stessa avvolta entro una sfera d’energia luminescente. Idealmente il suo corpo poteva essere inscritto in un quadrato tracciato attorno a un cerchio. La posizione richiamava alla mente un disegno di Leonardo da Vinci, noto come ‘l’Uomo di Vitruvio’. 
  Suor Chiara ritmicamente scandiva una nenia profana: il celeberrimo verso di Dante, il primo del capitolo settimo, quello più criptico. 
“Papè Satan, Papè Satan, Aleppe!”
“Papè Satan, Papè Satan, Aleppe!”
“Papè Satan, Papè Satan, Aleppe!”
“Papè Satan, Papè Satan, Aleppe!”  
Esegeti d’ogni tempo e ogni cultura si sono cimentati in interpretazioni d’ogni tipo. Intuitivamente, a orecchio, il ritmo di quell’endecasillabo infernale intendeva sottolineare, anche visivamente, la voluttà provata da Satana nel dividere la Chiesa, lacerata da scismi e guerre intestine.
  Padre Julius, di origini lituane, ignorava il seguito di quel verso e al momento anche la paternità di quelle parole, comunque deliberatamente blasfeme, e neppure aveva dimestichezza con la perfetta costruzione geometrica del corpo umano, sottolineata dal genio di Leonardo in pieno Rinascimento. 
  L’uomo: misura di tutte le cose e centro di un universo razionale, riconducibile ai numeri, era diventato una parodia oscena e per nulla edificante. Spodestata e messa in ridicolo la logica, paradossalmente trionfava la sfida di un intrigo blasfemo, scaturito dalle viscere del paranormale.
  Più tardi a Padre Julius sarebbero bastati alcuni clic su internet per ricostruire il contesto storico in cui erano stati concepiti quei due messaggi, altamente simbolici, ma destinati ad una cerchia d’eletti.
  Sul momento il sacerdote prova una profonda pena e neppure trova la forza e il coraggio di riprendere con la fotocamera quella rappresentazione che coniugava l’architettura e la poesia, due nobili arti liberali, per farle sprofondare in un baratro e trascinare la ragione nel vortice dell’ignoranza. Una mano pietosa inattesa lo risveglia dal torpore in cui era caduto. L’omino con gli occhiali lo stava riportando in sé. 
  La suora era tornata seduta, accanto alla finestrona stretta ed alta, con gli occhi chini e riservati. Nel suo grembo stavano il taccuino con gli appunti della preziosa visita al Museo e altri ventuno messaggi vergati di suo pugno: uno su ogni pagina. 
  L’omino li sfoglia e li conta. “Meglio stracciarli! Non vorrei trasformare questa triste giornata in un incubo per questa infelice!” Un gesto pietoso dal tono amorevole, insufficiente a lenire lo scoramento di Padre Julius, il quale non trovava parole, ma solo singulti muti che a intervalli gli strozzavano la gola.
  La suora aveva avuto il tempo anche di disegnare, con tratti davvero invidiabili per una principiante, la scena di cui era resa protagonista, agli occhi scandalizzati e increduli del sacerdote. “Non ha osato scattare fotografie, padre. E’ stato davvero un gentiluomo. Le faccio dono di questo schizzo a matita. Le rammenterà quello che è avvenuto sotto i suoi occhi.” Gabriel ripiega in due e mette nella tasca della giacca del sacerdote il foglietto tolto dal piccolo quaderno a spirale che la religiosa teneva con sé e ripone via nella sua borsetta d’ordinanza, al momento d’alzarsi.
  Padre Julius si ritrova con la suora al fianco, all’uscita dal Museo sulla scia degli ultimi visitatori ritardatari.
  Come estranei neppure si erano scambiati una parola.  
  I due prendono vie opposte: Chiara si avvia tranquillamente al negozio dei souvenir, il sacerdote di corsa imbocca verso i gabinetti degli uomini. Un bisogno fisiologico impellente lo sospinge verso mete che di solito i protagonisti dei romanzi, sublimato della scrittura, non frequentano. 
  Padre Julius avrà il tempo d’aspettare la suora all’uscita dal Museo, quindi deciderà di pedinarla fino alla Casa madre. 
  I nostri lettori potranno di nuovo incontrarlo nel secondo romanzo dedicato alle carte della divinazione. (L’artefice dei Tarocchi - ANNO DOMINI MCCXXI TARO FECIT).
  Lo scrivente affigge qui il suo aforisma. ‘La lingua parlata d’ogni giorno riflette il sapore dei cibi preferiti e lo scrittore artigiano mette in fila le parole, raffazzonate alla meglio, che è riuscito a digerire. L’ingordo scrittore laureato invece ignora la corretta alimentazione e predilige i cenoni pantagruelici.’
 
 
22
L’Assemblea degli Arcani Maggiori
 
Tanto tempo fa, l’Eremita, emulando in parte la Genesi, si era privato del mignolo e aveva preso a modellare il prototipo del Famiglio, copiando la famosa statua dello scultore greco Prassitele, espressione dell’ideale di bellezza classica e punto di riferimento nella storia delle arti figurative. 
  Il Primo Famiglio, Perimene, dal nome autorevole, composto di quattro sillabe ed altrettante consonanti e vocali, doveva incutere rispetto in tutta la servitù futura che lo avrebbe affiancato, inoltre avrebbe svolto le funzioni di Architetto della dimora che l’Eremita aveva deciso di realizzare. A Perimene aveva trasmesso anche la capacità di clonarsi secondo le necessità, fino a un massimo 99 unità, per non dovere tornare a fare altri donzelli di nuovo, perché l’Eremita voleva dedicarsi anima e corpo alla ricerca della verità e non aveva tempo da perdere in altri progetti.
  Il Primo Famiglio, immune dai vizi capitali degli umani, aveva sviluppato una sua personalità: gioiosa, ottimista, comunicativa; opposta a quella del suo artefice. Quando bisognava predisporre qualcosa all’interno della dimora, l’Eremita conferiva solamente con il Primo Famiglio e dava le istruzioni del caso. Automaticamente gli altri donzelli, che possedevano una rudimentale coscienza collettiva, ne erano informati e si uniformavano alle direttive. Perimene nei confronti del proprio programmatore nutriva una vera e propria venerazione. Secondo l’Eremita il rispetto non era mai abbastanza e poi ne aveva piene le tasche della litigiosità dei Tarocchi, quindi nel progettarlo aveva ecceduto con l’affetto e la riconoscenza.
  Solo il Folle poteva vantare una frequentazione non occasionale della dimora dell’Eremita e nel corso degli anni aveva instaurato con il Primo Famiglio un vero rapporto d’amicizia, perché lo Zero era abituato a conversare con tutti e non faceva distinzione di ruolo per principio e neppure assumeva mai atteggiamenti di superiorità di fronte a chicchessia.
   Sempre educato e molto disponibile, Perimene raramente scambiava quattro chiacchiere con estranei, fatta eccezione del personale in servizio alla dimora che non era di molta compagnia. Quei bighelloni dei donzelli se ne stavano sfaccendati e appisolati con lo sguardo ebete rivolto nel vuoto, o deambulavano, per disperazione e senza motivo, da punto all’altro della magione, in attesa di un’improbabile novità, o di una chiamata dell’Eremita, sempre molto taciturno. 
  A una decina di questi inservienti il Folle aveva regalato un mazzo di carte e aveva anche insegnato qualche gioco elementare, per scuoterli un poco dall’apatia generale e dal disinteresse verso tutto. L’unico curioso e sveglio era il Primo Famiglio, che ogni tanto il Folle portava con sé, per fargli conoscere qualcosa d’interessante e offrirgli occasioni di svago. “Vieni con me. Ti prendi qualche giorno di ferie. Se l’Eremita protesta, mi assumo io tutte le responsabilità. Non puoi vivere recluso in questa dimora, sempre più grande e sempre più vuota.” Così la frequentazione delle Terre di Sopra era diventata una sorta d’appuntamento abituale che Perimene aspettava pazientemente. 
  Il Folle trasmetteva sicurezza e trovava sempre un nuovo posto interessante e divertente da visitare. Proprio nel corso di queste vacanze periodiche, il Primo Famiglio aveva avuto modo d’ammirare anche il famoso tavolo ottagonale sul quale la cartomante Leda interpretava le sequenze dei Tarocchi. 
  Secondo le consegne, per evitare confusioni ed errori, due donzelli guardiani accompagnavano sempre il raro visitatore da Perimene, il quale riceveva l’ospite, lo faceva accomodare, o lo rimandava indietro con qualche scusa plausibile. Nella sua ora di meditazione quotidiana l’Eremita non era disponibile a ricevere nessuno e non voleva essere disturbato. A volte partiva per uno dei suoi frequenti viaggi di pellegrino alla ricerca della verità che non saltava mai fuori, quasi giocasse a uno strano nascondino, assai infantile se paragonato alla maturità che avrebbe già dovuto raggiungere.
  Perimene saluta il Folle in modo sempre molto rispettoso. “Signor Zero, dove si va di bello oggi?”
  “Da nessuna parte. Oggi devo parlare con l’Eremita, con una certa urgenza.”
  “Vedo che siete agitato. Diamine! Cosa è successo di così importante?” Perimene aveva imparato le imprecazioni del Folle, di cui si riteneva veramente amico, anche se ancora continuava a chiamarlo Signor Zero, perché dal suo punto di vista il rispetto era essenziale.
  “Le Voci sono stranamente agitate. Vorrei incontrare l’Eremita per prendere un’iniziativa comune.”
  “Oggi è possibile.”
  “Eremo è di buon umore?”
  “Non mi pare; quando è rientrato, l’ho visto rabbuiato. Comunque per me è difficile interpretarne l’umore. Ci ho rinunciato. Parto sempre dal presupposto che è arrabbiato. Così non sbaglio.”
  “Dove sta?”
  “A passeggiare nella foresta pietrificata.”
  “Vado incontro al peripatetico. Conosco la strada.”
  “Arrivederci, Signor Zero.” 
  Tra tutti i Tarocchi, un Arcano propenso allo scherzo e alla battuta ironica, era il Folle, ed è abbastanza intuibile. Quando poi lo Zero incontrava l’Eremita, non mancava mai d’esordire con la classica barzelletta, o inventata di sana pianta, o ascoltata nel suo girovagare per il mondo. L’Eremita non amava queste storielle, ma doveva sopportarle suo malgrado, perché il Folle lo pretendeva. A volte, quando era di buon umore, si faceva pure qualche risata e così iniziava una chiacchierata sul più e sul meno, su quello che andava e su quello che non filava, sui fatti accaduti e le previsioni del futuro scaturite durante una lettura dei Tarocchi.
   L’Eremita, in tono mesto, supplica l’amico d’offrirgli lo spunto per una sana risata. “Raccontami una storiella divertente che mi tiri su il morale; ne ho bisogno.”
  “Come, oggi vuoi ascoltare una barzelletta? Di solito quando te ne racconto una, non vedi l’ora che smetta.”
  “Sì, proprio oggi. Le ho sopportate quando non ne avevo voglia. Ne facevi una questione d’amicizia. Adesso me la racconti, volente o nolente.”
  “Allora ti racconto uno spaccato di vita quotidiana.
  In un condominio, nel corso di un’assemblea, il tema all’ordine del giorno verte sul rispetto del vicino e le buone regole della convivenza civile. Prende la parola un signore, il quale lamenta che un inquilino del suo piano, abitualmente, ogni sera, lasciava sul pianerottolo il sacchetto della spazzatura, che per norma igienica ovviamente doveva essere messo negli appositi cassonetti presenti in strada.
  Meravigliata e irritata risponde una signorina, giovane e abbastanza sofisticata. ‘Io non capisco proprio perché certi condomini non abbiano altro a cui pensare e suscitino problemi, là dove non ci sono. Io mi limito semplicemente, di sera, a mettere fuori la spazzatura, proprio per non dimenticarla la mattina, quando esco. Si vuole fare polemica, solo per il piacere di rompere le scatole alla gente.’
  Il signore anziano replica a sua volta. ‘Ho notato che il tappetino della mia vicina porta ben visibile la scritta FUTURO. Io, onde evitare altri incresciosi equivoci che possano turbare il buon vicinato, le consiglio d’aggiungere poche parole di precisazione: NEL MIO FUTURO VEDO LA MONDEZZA.’
  Un vampata improvvisa di rossore e di vergogna copre allora il viso della ragazza.
  Sai qual è la morale della favola, Eremo? L’Eremita tace e sorride un poco. “Le persone trovano sempre le giustificazioni più sciocche per non rispettare le regole e fare il proprio comodo. Me ne accorgo quotidianamente, da come la gente si comporta.”
  “Allora dimmi, zuzzurellone, cosa intravedi nel nostro futuro di Arcani. Questa mattina, pensavo proprio di venirti a cercare, per interpellarti. Tuttavia era più facile che tu rintracciassi me.”
  “Eremo, intravedo qualche nube al nostro orizzonte. E sai cosa sono venuto a scoprire?”              
  Il Folle aveva messo appellativi a tutti gli Arcani, ai simpatici e agli antipatici, perché si divertiva a vederli in difficoltà nel sentirsi sbeffeggiati da un nomignolo fatto apposta per fotografarne l’intrinseca debolezza. A dire il vero l’Eremita non gradiva per niente un appellativo che sapeva apertamente di sfottò, ma questa volta non se la prende. “Detesto le oziose domande retoriche, Zero. Le Voci sapevano già quali erano gli Arcani che sarebbero usciti. Rendimi plausibile questo punto meno ovvio.”
  “Oggi Eremo mi sono mosso tra le pieghe temporali e con uno stratagemma sono riuscito a violare la Fortezza, dove vivono le Voci e tutte le schiere angeliche.”
  “Non ci credo. Dimmi come hai fatto. In passato nessuno è mai riuscito a individuare punti deboli nel suo sistema difensivo che finora si è dimostrato impenetrabile.”
  “Finora. Ebbene, grazie al mio tappeto volante, quando il filo è tirato nella parte inferiore, sono entrato nella piega temporale del 14 marzo del 2005 e mi sono presentato con estrema naturalezza al portone principale, canticchiando le laudi del vespertino e vestendo i panni dell’Angelo napoletano, venditore ambulante abilitato, con tanto di attestato del Gerofante e bigliettini da visita.”
  “E allora?”
  “- Tappeti! Vendi tappeti! Per farne che! Per metterli dove!- Mi hanno riso in faccia quattro figuri, per nulla celestiali, più simili a demoni dei gironi danteschi, che se la spassavano a giocare a morra, a due e due, urlando come ossessi un numero dietro l’altro. 
  - Per metterli sotto il sedere. Sono tappeti volanti dell’ultima generazione. Portano fino a otto individui.- Ho risposto loro, a fronte alta, senza fare una grinza in viso.
  - Abbiamo le ali per volare!- Hanno esclamato in coro i quattro. 
  - Qui potete volare, stare seduti e nello stesso tempo fare quattro risate con gli amici. C’è una grande differenza, ma, se non volete fare un giretto gratuito di prova, me ne vado dai piedi e tolgo il disturbo.- Ho puntualizzato fermo io.
  Poi ho fatto un solo mezzo dietro fronte e sono stato richiamato sui miei passi. I quattro guardiani avevano smesso di giocare e si guardavano in faccia. Senza parlarsi già avevano trovato un accordo.
   - Vengo con voi a farvi provare l’emozione del tappeto volante. Metto però dentro gli altri miei tre tappeti. Sono pesanti e non voglio lasciarli fuori incustoditi.-
  Sono rimasti così entusiasti dell’assaggio, che hanno quasi insistito perché mostrassi i miei tappeti a chi contava veramente. E così, ne ho approfittato per osservare e ascoltare. Numerose schiere angeliche stavano sedute davanti ai visori a spiare la gente. Ognuno stilava la sua brava relazione sopra un taccuino e poi la consegnava all’ispettore di turno. Il sito del professor Leandro era già stato individuato. I suoi movimenti erano seguiti scrupolosamente e senza saperlo era osservato, giorno e notte, da Angeli mattutini e vespertini. Qualcuno, poco tempo dopo la sua comparsa, aveva notato il suo trattato dedicato allo studio dei Tarocchi.  Poi aveva stilato la sua breve e concisa relazione. Pare che tra la popolazione angelica, da giorni non si spettegolasse di altro. Ed io ho raccolto anche alcune confidenze. 
  ‘Il sito è ancora poco conosciuto. Finora ha avuto un influsso modesto; ma può diventare pericoloso.’
  ‘Anche senza pubblicità, comincia ad avere molti visitatori. Stiamo cercando di oscurare le menti dei lettori, di confonderle; ma potrebbe non essere uno strumento sufficiente ad arginarne la diffusione.’
  ‘Un Cherubino si sta occupando personalmente del professore, il quale ha pensato di consultare un’esperta cartomante ed ha fissato con notevole anticipo un appuntamento con una data cabalistica ben precisa: 5/5/2005, per cercare di rispettare l’energia sprigionata dai numeri.’
  Adesso, Eremo, è tutto più chiaro.”
  “Zero, hai svolto un buon lavoro. Ovviamente le Voci già sapevano quale combinazione di Trionfi il professor Leandro avrebbe apparecchiato nello studio della cartomante. Sono contento dei risultati della tua esplorazione, ma dobbiamo comunque sapere leggere i segni con cautela. Mi sembra strano che tu abbia incontrato tanti Angeli chiacchieroni, in un sol giorno. E poi, in sostanza, hai appurato ciò che tutti sospettano oramai da qualche tempo. Anche se non ci sono mai le prove di nulla.”
  “Certamente, hai ragione. E tu, Eremo, dal profondo delle tue elucubrazioni , cosa hai scoperto?”
  “Poco, o niente. Tutti noi lo abbiamo già intuito. L’Uomo dei Tarocchi, diresti tu, ha scoperto gli altarini. E le Voci hanno suonato la tromba.”
  “Eremo, io ero lì per caso. I sistemi di controllo delle Voci funzionano alla perfezione. Se non fosse trapelato qualcosa d’importante, non ci avrebbero scomodato. I fatti mi danno ragione. Tutti gli Arcani Maggiori devono essere informati di questo intrigo. Sei, o non sei d’accordo, Eremo?”
  “Certo, sono d’accordo, Zero.”
  “Bravo Eremo, anche te, oggi, sei in forma. Facciamo già una buona squadra noi due. Qui non servono elucubrazioni. Serve l’azione, perché il gesto purifica il tarlo della mente. Dobbiamo partire in due e trascinarli tutti nella mischia, perché la partita è grossa.”
  “Gli altri ci seguiranno?”
  “Non lo so, ma dobbiamo tentare. Le risorse ci sono. Potremmo sempre mettere insieme una schiera di pugnaci Arcani, come non si è mai vista. Potrebbe fare pisciare le Voci dalla paura, al punto che ne verrebbe fuori un altro Diluvio.”
  “Zero, sei sorprendente! Riesci a dare dignità all’immondizia, riponendola dentro i cestini delle frasi fatte.”
  “Eremo, dobbiamo pescare nella spazzatura e turarci il naso. Perché la sostanza delle cose sta nella sua puzza e, quanto mai voli in basso, tanto più ti rendi conto di quello che ti circonda. Anche il linguaggio deve essere intriso di terra, perché è quella che gli umani calpestano. Basta con i voli pindarici. Dobbiamo fare la nostra rivoluzione adesso, nel momento propizio. Il potere degli zar in Russia è caduto nel corso di una guerra logorante che stavano perdendo. Un manipolo di bolscevichi, una minoranza, ha letteralmente inventato una grande rivoluzione. Anche in pochi, se siamo convinti, possiamo ribaltare credenze millenarie infondate. Te la devo insegnare io, Eremo, la storia?”
  “No. E’ che i pensatori spesso sono titubanti. Mancano di coraggio. Hai ragione. E’ il momento propizio. I cicli favorevoli della storia mutano, non si ripetono mai. Dobbiamo perciò avvicinare anche gli altri. Non tutti sanno quello che sta succedendo.”
  E così l’Eremita e il Folle, spinti dal medesimo intento, decidono sull’opportunità di chiamare a raccolta quanti più alleati possibili. Pensano di dividere i Trionfi in due schiere: quella contrassegnata dal numero dispari e quella pari.
Trionfo 1 Mago                                  Trionfo 2 Papessa
Trionfo 3 Imperatrice                       Trionfo 4 Imperatore
Trionfo 5 Gerofante                          Trionfo 6 Innamorato
Trionfo 7 Carro                                 Trionfo 8 Giustizia
Trionfo 9 Eremita                              Trionfo 10 Ruota
Trionfo 11 Forza                                Trionfo 12 Appeso
Trionfo 13  Morte                               Trionfo 14 Temperanza
Trionfo 15 Diavolo                              Trionfo 16 Torre
Trionfo 17 Stelle                                  Trionfo 18 Luna
Trionfo 19 Sole                                    Trionfo 20 Giudizio
Trionfo 21 Mondo                                Trionfo 0 Folle
  Rispettando la cabala, l’Eremita stabilisce di prendersi cura della propria schiera: quella dispari e il Folle della pari, ove si colloca per affinità con il numero 10 e il numero 20.  L’Eremita nel suo giro sarebbe partito dal primo Trionfo: il Mago e il Folle dall’ultimo Trionfo: il Giudizio. 
  I due, rispettando le buone maniere e per darsi coraggio, si augurano buona fortuna e infine si stringono pure la mano. Il Folle compie i consueti ventidue passi e torna indietro sul punto di partenza, dove l’Eremita era rimasto a fare ghirigori scaramantici, sui numeri della schiera avuta in sorte. “Entrambi, nel fervore dell’iniziativa, ci siamo dimenticati di stabilire quando dovremo riunirci.”
  “Ah! Bravo che te ne sei ricordato. Mi era passato di mente. Allora vediamo: siamo in maggio: logico che ci si veda tutti il giorno ventidue del quinto mese, giacché noi siamo ventidue.”
  “Hai scelto bene Eremo. Anche i più restii quando si vedranno presentare un bel biglietto d’invito e lo leggeranno, non se la sentiranno poi di prendere le distanze, dicendo che preferiscono rincorrere i fatti propri, perché non vogliono impicciarsi dei casi degli altri.”
  “Vuoi che si faccia anche un invito ufficiale?”
  “Meglio essere precisi e mettere nero su bianco, Eremo. Lo sostieni in ogni occasione. Così non potranno dire d’avere frainteso, o che ci eravamo spiegati male.”
  “Allora Zero, dobbiamo preparare un bel biglietto, senza fronzoli, che metta tutti d’accordo. Dobbiamo trovare una formula che non offenda nessuno. Siamo permalosi e boriosi.”
  “Certamente Eremo, bisognerà tirare fuori dal cilindro qualcosa di veramente straordinario, perché altrimenti ci saranno significative defezioni.”
  “Comunque Zero, dovremo essere convincenti soprattutto sul campo, per questo ci scomodiamo di persona. Il biglietto sarà una formalità, un pretesto. Restiamo nel generico.
Nel giorno 22 di  maggio, alle ore 22 si terrà un’assemblea straordinaria degli Arcani maggiori, resasi necessaria dopo la pubblicazione di un Trattato sulla vera origine dei Tarocchi. La Riunione avverrà presso la dimora dell’Eremita. Al consesso non sono ammessi servi al seguito, aiutanti, o Arcani minori amici. Tutti sono pregati di lasciare amuleti e armi magiche a casa. La presentazione dovrà avvenire alle ore 19, per consentire il ricevimento, la sistemazione degli ospiti e la prevista cerimonia di benvenuto. Alla Cortese Attenzione dell’Arcano Numero………….Con tanti ossequi. L’Eremita
  Che te ne pare?”
  “Eremo, io non avrei saputo fare meglio. Senza fronzoli. Essenziale.”
  “Toh! Undici a me e undici a te! E ora non ti fare venire più idee nuove!”
  “Non essere affrettato Eremo, mettici i numeri di tuo pugno. I miei sono sgorbi indecifrabili. I tuoi caratteri sono perfetti: sembrano stampati a macchina.”
  “Allora per rispettare la tradizione ci mettiamo i numeri romani, usati ancor oggi sui mazzi di Tarocchi”
  “Adesso sono perfetti! Nessuno saprà resistere a un invito così!”
 
 
23
Incontro al cimitero di San Pietroburgo
  
Dagli appassionati fruitori dei Tarocchi, il Giudizio è sempre visto con molta preoccupazione e alcune persone, se potessero, lo toglierebbero volentieri dal mazzo, insieme alla Morte: la più temuta di tutti. Esprimendo un evento scandito da quelle trombe che annunciano la fine del mondo, il Giudizio è indubbiamente il Trionfo dai contorni più angoscianti, anche perché gli umani lo immaginano nelle maniere più terribili, acuite da un alone di incombente minaccia, tanto più agghiacciante quanto più indeterminata. Il Folle lo aveva ribattezzato Lapide, ma dovendolo incontrare in un’occasione così delicata, per non irritarlo si guarda bene dall’apostrofarlo in tale maniera e pensa piuttosto di tirargli su il morale. Col passare degli anni progressivamente il Giudizio era stato colto da crisi depressive, dovendo personificare un momento cruciale, molto discusso e temuto. Dal punto di vista psicologico l’indeterminazione del giorno del giudizio lo aveva danneggiato in maniera marcata, per cui quasi sempre stava senza nessuno al fianco, in attesa del fatidico giorno dell’Apocalissi, annunciata da profeti, predetta da pseudo veggenti, sempre più prossima, ma che non si concretizzava mai. Oltre a presentare naturali crisi d’ansia e la fisionomia del pessimista cronico, il ventesimo Arcano non era riuscito ad accettarsi, a essere in sintonia con il proprio ruolo e nel suo intimo malediceva chi lo aveva rappresentato in quella maniera, impedendogli d’essere diverso. 
  Il Folle, in passato, anche per una certa simpatia e affinità per via dello Zero che l’Arcano si portava appresso, aveva cercato di rincuorarlo, di infondergli fiducia e destarne l’ilarità con qualche barzelletta del suo vasto repertorio. E sovente era riuscito a farlo sorridere un poco. “Sei così. Devi accettarti.” Glielo ripeteva spesso; ma non c’era verso di cambiare il suo umore malinconico.
  Lo Zero non si era mai capacitato del perché il Giudizio, da quasi cento anni, era rimasto relegato nei paraggi del cimitero di San Pietroburgo, presso una simbolica fossa comune, dove erano state sepolte le vittime della rivoluzione d’ottobre. A dire il vero, sulle ragioni di quella scelta singolare, di proposito aveva rinunciato a investigare, perché gli sembrava di scavare, senza averne il diritto, nel dolore altrui. Il Folle poi era certo che le sue domande sarebbero state disattese, per cui, di fronte ad un diniego, preferiva tacere per non dovere restarci male. Eppure, se il Folle avesse osato, il Giudizio gli avrebbe risposto che forse in quella fossa comune potevano esserci le spoglie del suo vecchio amico Rasputin. Nato umile contadino si era fatto passare per monaco indegnamente; era stato negromante, guaritore e veggente; amante forsennato di nobildonne e di ogni femmina che incontrava sulla sua strada; morto ammazzato e gettato nudo nel fiume gelato, in una notte invernale, all’epoca in cui i soldati russi tornavano a casa, stanchi di morire di fame e di piombo, per fare una guerra voluta da uno zar despota e spietato. Se fosse stato per le premonizioni giuste di Rasputin, quei contadini sarebbero rimasti a sgobbare nei campi forse per un altro secolo e nella Santa Russia non sarebbe cambiato nulla, nemmeno il nome della città di San Pietroburgo fondata dallo Zar Pietro il Grande nel 1703.
  Un volto pallido e triste. Uno sguardo svagato e disattento. L’Arcano stava poggiato a una lapide mortuaria con gli occhi semichiusi, quasi in catalessi.
  Il Folle era sopraggiunto di sera, all’improvviso, sul suo tappeto volante. Conosceva il luogo che il Giudizio non lasciava per nessuna ragione, quantunque lo avesse invitato in passato a cercare qualche diversione e passatempo.  “Allora questa sera, amico Giudizio, ti racconto una barzelletta tipica dell’umorismo londinese.” Esordisce il Folle, mentre tra sé pensava a come porre la questione a quel problematico, perché lo voleva a fianco schierato tra gli amici, ma non sapeva bene in quale modo trascinarlo dalla sua parte.
  “Zero, sei venuto sin qui per raccontarmi una delle tue storielle?”
  “Non solo. E’ l’inizio per rendere meno tenebrosa e fredda questa notte.”
  “E’ la notte di Pietroburgo. Non vedo perché cambiarla.”
  Il Folle non sta dietro alle argomentazioni del Giudizio, il quale avrebbe avuto la forza di smontare qualsiasi ragionamento intriso di un briciolo di speranza. Inizia subito a raccontare una storiella nota ed anche abbastanza datata, nella speranza d’infondergli il buonumore e trasmettergli tanta voglia d’agire.
  “Siamo nella via di Londra più frequentata e due signori molto anziani, sposi da oltre cinquanta anni, vedono un pinguino. Meravigliati, lo avvicinano e lo bloccano per evitare che correndo possa andare a finire sotto una macchina. Poi si rivolgono al classico poliziotto londinese in divisa nera. ‘Abbiamo incontrato questo pinguino, signor Agente. Cosa ne dobbiamo fare?’  ‘La cosa più logica: dovete riportarlo allo zoo, da dove sarà fuggito, immagino.’ ‘Giusto signor Agente. E’ logico che sia così. Una buona idea la sua. La ringraziamo tanto.’ 
   I due si allontanano per andare verso lo zoo, con il pinguino per mano. Il giorno dopo lo stesso Agente vede i due passeggiare in strada con lo stesso pinguino, sempre per mano. ‘Allora Signori! Ancora state cercando lo zoo?’ ‘Per chi ci prende Agente, sappiamo bene dov’è.’ ‘Allora perché non avete portato il pinguino allo zoo, come vi avevo detto?’ ‘Ma certo signor Agente, abbiamo seguito il suo consiglio. Il pinguino allo zoo si è anche molto divertito, specie quando ha visto le foche. Dopo lo abbiamo portato al ristorante del pesce e ha mangiato più di noi. Oggi lo stiamo accompagnando al cinema York, dov’è in programmazione un documentario sulla vita degli animali.’”
  Il Folle attende di vedere se l’amico sorride. Niente: è serioso; come al solito. Allora ha un lampo di genio. “Mi sono tenuto la storiella vera per ultima. Questa ti terrà su il morale. Un gruppo di Arcani è stato messo alle costole di un Tizio. Lo chiamano tutti l’Uomo dei Tarocchi. Pare che abbia scoperto qualcosa sulle autentiche effigi dei Trionfi. Tu sarai il primo a guadagnarci. La tua vera immagine sarà ricostruita, riabilitata definitivamente. Ti faranno pure le scuse.”
  “Questa deve essere un'altra delle tue invenzioni. Da quando si rivisitano i Trionfi? Dopo alcune varianti iniziali, sono stati consacrati nei secoli. Questa è una blasfemia!”
  “Allora in questi anni mi hai rotto i santissimi perché ti rodevano. Hai sempre pianto: su come sei, sul perché sei, sul tuo incerto futuro. E ora che ti metto su un piatto d’argento l’occasione propizia per riabilitarti, mi vieni a dire, con la tua aria mortificata, ‘è una blasfemia’!”
  “Allora non è una delle tue fandonie? Una bischerata!”
  “No, è la storia più autentica che ti abbia mai raccontato. Un po’ la grande occasione di conoscere le nostre vere origini. Gli umani non hanno forse un padre? E’ giunto il momento del nostro riscatto. Stai con me, nel gruppo?”
 “Chi c’è?”
  “Quasi tutti i migliori. Quelli che contano. L’Eremita è dei nostri. E poi abbiamo bisogno del tuo aiuto e dei tuoi poteri.”
  “Io non ho poteri particolari. Lo sai bene.”                  
  “Non li hai, perché non li hai scoperti, ma adesso, con l’Uomo dei Tarocchi, li avrai anche te.”
  “Dici?”
  “Certo. Devi essere ottimista. Il punto di raccolta è la dimora dell’Eremita. Ti ricordi dov’è? Ci siamo stati insieme una volta.”
  “Fin lassù!”
  “Perché hai il fiatone? E’ un posto un po’ fuori mano, ma appartato, lontano dagli occhi indiscreti. Mostri ai donzelli guardiani, quest’invito ufficiale. Ti presenti e chiedi del Primo Famiglio Perimene e gli sussurri in un orecchio la parola confidenziale strabuz.”
  “Strabuz? E che significa?”
  “Niente e tutto. Mette buon umore. Io la uso sempre con il Primo Famiglio. Gli fai capire che sei un mio amico. Sarai accolto come un Re. Vai e ti riposi. Respiri l’aria pura di montagna. Ti ossigeni i polmoni.”
  “Io non ho polmoni. Non ho bisogno dell’aria di montagna.”
  “E’ questo il tuo difetto. Non ci hai creduto. Non ti sei dato una struttura. Per questo sei depresso.”
  “Come mi presento?” 
  “Non so; come vuoi. Hai gusto. Puoi scegliere di farti accompagnare dai classici Angeli con la tromba. Per ispirarti, vai prima ai Musei Vaticani. La quarta sala ospita quello che resta degli Angeli musicanti.”
  “Non sapevo che lo Zero fosse anche un intenditore di Angeli.”
  “I veri e i soli Angeli musicanti sono quelli del Melozzo da Forlì. Per la tromba, vai in qualche museo di strumenti musicali antichi. A Monaco. Al Deutsches Museum.”
  “E per le musiche?”
  “Anche le musiche! Vuoi riceverci anche al suono della musica? Conosci per caso Georg Telemann? Ha scritto concerti per trombe veramente mirabili.”
  “Sei straordinario. Sai tutto e poi ti chiamano Folle.”
  “So tutto perché mi sono mosso e informato in questi anni su quale cacchio di mondo sono nato. Non sono stato a piangermi addosso come te.”
  “Allora, Angelo ispirato al Melozzo. La musica di Telemann. E la tromba la scelgo io. Pensi che vada bene?”
  “Sì, la tromba la scegli tu, a tuo gusto. Hai sempre avuto del buon gusto in fatto di trombe. E apparecchia la tavola per ventidue.”
  “Allora saremo tutti!”
  “Non so, ma apparecchia per ventidue. Porta bene. Ah! Dimenticavo di consegnarti l’invito ufficiale, firmato dall’Eremita in persona. Ti servirà: lo presenti ai valletti, così non avrai problemi a entrare. E non scordare la parola confidenziale.”
  “Strabuz: me la ricordo. Non sono mica scemo.”

 

24
L’Eremita a colloquio col Mago
  
Per l’aria gioviale e giovanile e le arcinote capacità illusionistiche, il Mago era il più ben voluto e il più simpatico a tutti. Poteva contare in ogni occasione sulla stima degli umani quando chiedevano l’aiuto dei Tarocchi e i suoi simili lo consideravano un poco l’antesignano naturale di tutta la schiatta. Nel passato se v’erano stati screzi con qualcuno, era stata un’incomprensione momentanea, subito rientrata con una stretta di mano. L’Eremita doveva cominciare i suoi incontri proprio da lui, ma avrebbe preferito avvicinare un avversario ostile in partenza, perché il primo Arcano nel corso dei tempi in tutte le dispute e le contese si era dimostrato sempre neutrale, evitando di parteggiare a favore di chicchessia; per cui l’Eremita si aspettava un comportamento eguale a quello assunto in altre circostanze.
  L’incontro con il Mago avviene di fronte ad un tavolo da gioco importante, frequentato da ricchi e da vip. Aveva scelto di vivere nella suite reale dell’Hotel più esclusivo di Montecarlo, così poteva condividere le passioni dei giocatori più impenitenti. Intento a seguire una partita di poker, suggeriva a un accanito giocatore le carte da scartare, ma dalla faccia il galantuomo non mostrava d’essere soddisfatto della sua sorte. L’Eremita lo punzecchia e lo rimbrotta nel medesimo tempo, anche perché non sapeva rinunciare ai sermoni. “Alla tua età ancora ti fai prendere dalla frenesia del gioco e lasci che qualcun altro ci rimetta i suoi soldi, facendosi abbindolare dai tuoi bluff sconsiderati?”
  “Misura le parole Eremita. Il bluff è un’arte sopraffina. Qui siamo a Montecarlo: il tempio del gioco. Questo non è un tavolo qualsiasi.”
  “E’ davvero tanto speciale questo tavolo?”
  “Come! Non vedi con quali carte, questi signori stanno giocando? Usano Arcani minori, parte di un mazzo che io stesso ho ispirato: i Tarocchi dell’Antico Egitto, figli degli insegnamenti di Ermete Trismegisto!”
  “Giocano a poker con un mazzo fuori ordinanza: inaudito! Contaminazioni senza fondamento. Velleità degne di un Mago! Piuttosto vedo che il tuo assistito è rimasto con pochi gettoni.”
  “Finora ha sempre perso. Non è fortunato. Io lo sto aiutando. Adesso ha ricevuto però in sorte quattro Assi e un Fante di spade.”
  “Allora è servito!”
  “Non voglio che diano parola al servito. Dico passo e non lo faccio aprire. Poi gli faccio scartare il Fante. Li spellerà vivi.”
  “Questo Fante di spade è piuttosto magro e allampanato. Potevi dargli un po’ più di sostanza. Ce la farà a sollevare la sua durlindana?”
  “Gli antichi egizi erano così: snelli, agili e muscolosi. Non ti va mai bene niente! Trovi sempre difetti. E poi non ti fare sentire. Gli Arcani minori stanno tranquilli da troppo tempo, ma non c’è da fidarsi. Una volta bussavano sempre alla porta per fare rimostranze.”
  “Nessuno ha abboccato al tuo bluff. Gli altri giocatori sono tutti passati.”
  “Perché non avevano niente in mano. Io ho giocato benissimo.” Al Mago non restava che difendere strenuamente la propria strategia. Vestiva il suo consueto abito sgargiante e variopinto, indossato per le grandi occasioni. 
  L’Eremita gli fa cenno di stargli dietro e si allontana dal tavolo da gioco. “Hai fretta? Potevi fermarti a illuminare con la tua lanterna la sorte di quel giocatore.”
  “Sei atteso alla mia dimora. Questo è l’invito. Abbiamo bisogno del tuo appoggio. Di solito riesci a essere simpatico e soprattutto imparziale. Ci servi per conciliare i contrasti che nasceranno. Sei perfetto per presiedere l’Assemblea.”
  Il Mago legge appena il biglietto e subito puntualizza il suo punto di vista.  “Veramente il giorno ventidue prossimo sarei impegnato. C’è in programma un poker miliardario. Non vorrei perdermelo.”
  “Basta giocare!”
  “Di cosa si tratta? Dal biglietto non si evince.”
  “Le Voci ci hanno convocato per assistere a un oracolo. Uno studioso di Tarocchi ha forse scoperto il segreto delle nostre origini.”
  “Un altro trattato sui Tarocchi? Ebbene troverà il suo posto in biblioteca.”
  “Fiuto aria di complotto, Mago!”
  “A me le Voci non raccontano mai dei loro garbugli. Non le sento da una vita.”
  “E’ solo questione di sorte. Non eri tra gli Arcani usciti. Piuttosto dimmi Mago, secondo te cosa sta accadendo?”
  “Così, a naso, volendo essere pragmatico, intendono soltanto decifrare l’oracolo e capire meglio questo signore. Tu sei nato con la vocazione della ricerca. Le Voci amano tenere tutto avvolto nel mistero. Ubi maior minor cessat: dicevano i latini. Ergo, lasciamo stare caro Eremita.”
  Il Mago si era fatto una cultura e ogni tanto ci teneva a farne sfoggio, specialmente con l’Eremita, il quale lo aveva sempre tenuto in poca considerazione e si era sempre tenuto stretto il suo sapere. L’Eremita capta questo suo risentimento nei suoi confronti e va diretto al cuore dell’assunto. “Non si tratta di una volgare bega personale. Il caso ci riguarda da vicino. Secondo me, in questo frangente, è venuto fuori il punto debole delle Voci. Non possiamo restarcene a guardare, senza fare nulla.”
  Il Mago a questo punto preferisce troncare la conversazione e tornare dove prediligeva stare: accanto alla frenesia dei giocatori d’azzardo. “Arrivederci. Io sono affezionato al mio tavolo da gioco, è più divertente e salutare. La passione dei giocatori mi ripaga del tempo che passo accanto a loro.”
  “Me lo aspettavo! Del resto quando mai hai parteggiato!” L’Eremita usa un tono risentito, perché non era il tipo di scegliere mezze misure e vie diplomatiche.
  “Tu, Eremita, hai percorso il mondo in lungo e in largo, da cima a fondo. E’ nelle mani sbagliate. Le Voci sono più forti: fanno le regole e decidono; ci lasciano in cambio il nostro spazio di libertà. Ti pare poco? Non ci conviene smuovere le acque e interferire nei loro piani.”
  “Sei soltanto libero di scegliere il tuo tavolo preferito, Mago. Non sei libero d’inventare un nuovo gioco però. Le carte le mescolano le Voci. Le poste in palio sono sempre loro a stabilirle.”
  “Finora nessuna delle Voci mi è venuta a dire quello che devo fare. Io non m’immischio nei loro disegni e loro non ostacolano i miei.”
  “Vorrei trovare argomenti validi per convincerti. Comunque alla fine rispetto la tua volontà. Secondo il Folle, pochi possono mutare il destino di molti.”
  “Allora si è già messo al tuo fianco?”
  “Sì, sta contattando l’altra schiera. Ci siamo divisi il campo. Confidiamo nelle quattro virtù ermetiche. Tu sei il Mago e dovresti saperle dominare. Possiedi la Spada, la Coppa, la Bacchetta e la Moneta d’oro, che simboleggiano l’essenza di quelle virtù. Tu avresti potuto fortificare la nostra debolezza, perché non è il coraggio che ci manca.”
  L’Eremita fa il gesto di stringergli la mano. Un movimento sincero. Tuttavia i suoi occhi erano tristi, perché aveva fallito. Allora il Mago, in maniera energica e diversa, ricambia quella stretta per trasmettergli tutta la sua solidarietà.
  “Il saggio distilla il segreto dell’Acqua in una coppa comune. Concentra il segreto dell’Aria in una spada eguale ad altre. Scopre il segreto della Terra in una moneta d’oro qualsiasi. Attinge il segreto del Fuoco con una verga di legno ordinaria. L’oggetto magico è solo un veicolo. L’energia scaturisce dai quattro elementi della vita. La magia più autentica sta nel captare l’energia che già esiste e saperla dirigere.”
  E l’Eremita, come risposta, con un gesto spontaneo, abbraccia il Mago per quella formula essenziale condivisa. Alcune particolari conoscenze si trasmettono solo nei momenti propizi, quando non può esserci fraintendimento, o barriera a ostacolarne il cammino, quando già si possiede lo stesso livello di saggezza. 
  In passato l’Eremita aveva nutrito una certa superiorità nei confronti di quel ragazzo che generava magie incredibili e dava l’impressione di farlo per esibizionismo, mentre la sua era solamente la gioia festosa del mescolamento delle forze originarie. In quella circostanza, tardivamente, comprende il fare sempre scherzoso del più giovane compagno di viaggio, finora mal giudicato e intende anche la ritrosia a schierarsi e dare una mano.
  Sapeva perfettamente il Mago che il suo aiuto non avrebbe cambiato di molto la sostanza delle cose, perché gli individui mutano quando hanno raggiunto la maturità intrinseca per farlo e gli interventi estranei non provocano mai i miracoli, in cui credono solo i fiacchi e i superstiziosi.
 
 
25
Breve idillio tra il Folle e Arciluna
 
Dopo aver conquistato la fiducia del Giudizio, il Folle va rapido a incontrare l’Arcano della Luna: il più imprevedibile, sia nell’umore, sia nel comportamento. 
  Quasi tutti i cartomanti osservano scrupolosamente le fasi lunari del calendario, astenendosi dal leggere le carte nei giorni di luna piena, perché i suoi influssi sono massimi e oscurano quelli dei Trionfi, rendendo davvero impossibile formulare un oracolo senza commettere errori. Solamente pochi cartomanti, e fra questi anche la nostra eroina Leda, nelle notti di luna piena si espongono ai suoi raggi per diciotto minuti rispettando così scrupolosamente la cabala, perché il Trionfo Numero 18 raffigura proprio la Luna. Nel corso dell’esposizione si fanno investire dalle sue energie positive; ovviamente sono anche capaci di respingere quelle negative.
  Arciluna si lasciava cullare dai cicli naturali e doveva molto del suo umore e del suo comportamento all’omonimo satellite che più da vicino influiva sulle umane sorti. Mutava stato d’animo in maniera improvvisa, senza una ragione plausibile, conformemente alle continue variazioni luminose della Luna in cielo: forse anche per dare un fondamento all’espressione popolare che chiama lunatiche le persone soggette a frequenti e inspiegabili cambiamenti psichici. Accanto ad Arciluna il tempo dava la sensazione di cristallizzarsi, ma anche un attimo poteva dilatarsi e non avere mai fine. Standole vicino potevi provare la sensazione di essere un idiota o un genio, un mendicante o un ricco epulone. Anche il Folle, dovendo per necessità avvicinare Arciluna, si sentiva a disagio, impreparato e non sapeva quale contegno assumere. Voleva essere serio, poi ripiegava sul faceto; assumere una veste più ragionevole, o darsi un’aria ancora più da pazzo; insomma era veramente in difficoltà.
  Arciluna sostava abitualmente nei pressi del piccolo e incantevole Lago di Nemi, dove amava specchiarsi un corpo graziosamente femminino, alquanto esile, dal carnato viola pallido. I capelli lunghi, fluenti, sottilissimi abbigliavano la nudità, rendendola più desiderabile. 
  Il Folle non sapeva come interrompere quella narcisistica contemplazione, si sentiva un intruso, un estraneo che disturbava. Prende la sua bisaccia e l’apre per vedere se incontra un oggetto di valore, degno di un omaggio, per presentarsi adeguatamente. Di solito collezionava rarità stravaganti, amuleti, specchi di foggia strana, piccole cose, anche insignificanti, ma giudicate preziose perché differenti dalle altre più tradizionali. Decide di presentarsi con l’invito in una mano e una bambolina di biscuit nell’altra.
  Arciluna parla senza voltarsi, perché ne aveva percepita la presenza. “Zero, non avere paura, puoi avvicinarti. Sono di buon umore, quando mi specchio al mio lago preferito. Qui, anche se malinconica, riscopro la mia bellezza nascosta. Vieni vicino ad ammirarmi.”
  Il Folle rimane estasiato dalla piena visione dell’Arcano, che avrebbe fatto vibrare anche la più insensibile e indifferente delle creature. Le poggia in grembo regalo e invito. Poi con gli occhi lucidi le dà un bacio istintivo e la stringe forte. Mormora poi, teneramente disteso in grembo ad Arciluna, dominato da un sentimento nuovo: “Vorrei che quest’attimo fosse eterno. Vorrei dimenticare i fardelli del cuore, che mi portano altrove a cercare sempre nuove avventure.”
  “I più temono d’incontrarsi con un’entità sconosciuta e differente. L’eccessiva paura scaturisce dalla loro coscienza, non sono io a provocarla.”
  “Arciluna, pennelliamo con le labbra le luci del cielo e regaliamo i nostri occhi alle stelle.” Sussurra ancora il Folle. E i due Arcani si mescolano, lasciandosi trasportare dall’alchimia misteriosa delle sensazioni. E vibrano tanto che divengono una cosa sola.
  “Allora fammi leggere questo invito che non ti decidi a mostrarmi. Non ho mai visto un messaggero così agitato!”
  “Credevo di non essere il benvenuto e il futuro incerto mi mette ansia. Sono così da sempre. Se non entro subito in un’atmosfera ridanciana, non mi sento a mio agio.”
  “Capisco perfettamente, Zero. Ti sei mosso bene anche in una situazione differente. Devi essere più convinto delle tue possibilità.”
  “Arciluna, avrei gradito una guida adeguata in questo strano guazzabuglio che è il mondo. Invece ho dovuto costruirmi da solo, giorno dopo giorno.”
  “Amico Zero, siamo tutti il parto straordinario di una magica icona. Qualcuno la considera un semplice disegno, senza venature di cabala e d’alchimia. L’ideatore dei Tarocchi ci conferisce un’aureola misteriosa: l’imprimatur per renderci eterni. Le menti degli umani ci trasmettono energia. Le Voci intervengono, per imbottirci di Angeli. La vita non è solamente il frutto del caso, ma l’intrecciarsi di apporti molteplici che non scaturiscono dalla scintilla degli elettrodi in laboratorio.”
  “Arciluna, gli umani, per non sbagliarsi, fanno risalire le loro origini all’opera sapiente di Dio. Così si attribuiscono un’intelligenza divina e un’anima immortale. Dio come polizza vitalizia per l’oggi e il domani. Il vero dramma è il nostro. Paternità incerta.”
  “Hai ragioni da vendere Zero. Noi Arcani siamo enti fuori dalle opinioni convenzionali, degni di meraviglia al punto da non essere creduti veri. Eppure numerose persone accettano i nostri favori ben volentieri. Solamente noi sappiamo di non essere né meravigliosi, né incredibili.”
  “Arciluna, ti vogliamo al nostro fianco in questo intrigo di Tarocchi. Le Voci vogliono confonderci, oscurare una ricerca. Io mi contrappongo dicendo che una buona volta dobbiamo spiegare a noi stessi da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo.”
  “Zero, secondo il mito, Edipo rispose agli eterni interrogativi posti dalla Sfinge ai passanti. Dopo, inconsapevolmente, si macchiò d’incesto e fu punito e bandito da uomini e Dei per il suo peccato. Morale della favola: il vero peccato di Edipo fu di avere risposto.”
  “Arciluna sembra proprio che qualcuno voglia tenerci la bocca chiusa.” Il Folle le bacia la mano, poi, come un paggio medioevale di fronte alla sua dama, s’inginocchia al suo cospetto, quasi a voler essere insignito cavaliere. 
  “Zero, ho letto nel tuo cuore le buone intenzioni e sarò con voi al vostro fianco.”
  “Arciluna ti lascio adesso nel momento che meno vorrei. Tuttavia ho fatto un patto: da onorare prima di tutto con la mia coscienza e con degli amici.” E l’Arcano, senza dire nulla, garbatamente, con la propria mano esile carezza la fronte del Folle per infondergli la giusta determinazione e la consapevolezza di averlo sempre al proprio fianco.
 
 
26
La profezia di Federico II
 
Voluto dall’Imperatore Federico II, un isolato castello turrito sorge su un colle delle Murge occidentali, in Puglia: prediletta regione del sovrano. Questo capolavoro, ancor oggi integro, incute rispetto e colpisce l’attenzione del passeggero per la sua singolarità. Possente e maestoso, eretto sopra uno sperone di roccia, per l’assenza di un fossato e di un ponte levatoio non sembra essere stato concepito come una fortezza, quanto piuttosto si materializza nei panni di un emblema architettonico visibile a tutti i viandanti da qualsiasi direzione provengano. Grazie al gioco sapiente di otto torri perimetrali, che rinsaldano e accentuano la struttura ottagonale della torre centrale, il castello simboleggia il culto dei numeri e si ispira alle discipline esoteriche degli alchimisti.
  Federico II nutriva una vera passione per l’astronomia, la magia e la matematica. I dotti arabi, frequentatori della Corte imperiale, avevano accresciuto la sua fama di eretico. Proponendo un vantaggioso accordo economico era riuscito a riprendere ai mori Gerusalemme: senza distogliere l’attenzione dalle vicende dell’Impero, senza dovere organizzare una dispendiosa spedizione e senza montare in sella a un cavallo per iniziare un viaggio lungo e incerto. Il Papa per questo l’aveva scomunicato, perché gli eretici dovevano essere piegati con la spada e con il sangue della Santa Crociata. L’Imperatore Federico, memore della funesta esperienza del padre Barbarossa, morto affogato in un fiume durante l’impresa benedetta, si era guardato bene dal ripercorrere la via intrapresa dai crociati.
  L’Imperatore prediligeva le terre fertili della Puglia e in quella regione aveva creato una rete di 111 torri la cui funzione era di mostrare le prerogative del sovrano, il suo potere simbolicamente rappresentato quasi dovunque in un progetto architettonico funzionale che controllava il territorio. Taluni di quegli insediamenti turriti non erano nuovi ma edifici di epoca normanna, o romana, adattati. Il più insigne e ammirato di tutti, oggi chiamato Castel del Monte, secondo l’Unesco appartiene al Patrimonio culturale dell’umanità con la seguente motivazione: ‘Possiede un valore universale eccezionale per la perfezione delle sue forme, l'armonia e la fusione di elementi culturali venuti dal Nord dell'Europa, dal mondo musulmano e dall'antichità classica. È un capolavoro unico dell'architettura medievale, che riflette l'umanesimo del suo fondatore: Federico II di Svevia.’
  L’Arcano della Torre era entrato subito in sintonia con la propria icona corrispondente. Originariamente si vedeva una grande torre a base ottagonale, sormontata da un’altra torre, anch’essa ottagonale, più stretta e alta esattamente la metà della sottostante. 
  Nei Tarocchi della seconda generazione qualcuno, per ordine dell’Inquisizione, aveva cominciato a raffigurare una torre squassata dalla forza di un fulmine e due poveretti che crollavano al suolo insieme alle mura. Il pittore, devoto ma poco ispirato, aveva amplificato così il potere di Dio sulla natura e sulle fragili costruzioni degli umani. Arcitorre non si era riconosciuto in quell’icona trasfigurata e soprattutto in quel messaggio, assumendo ben presto le vesti del ribelle che polemizzava contro la sciagurata manipolazione dei Trionfi in atto. 
  Ancora succube del Gerofante, la maggioranza degli Arcani aveva deciso d’isolare Arcitorre, il quale contava solamente sulla solidarietà dell’Imperatore e dell’Eremita. Lo screzio iniziale aveva determinato una profonda frattura e alimentato una logorante querelle nei secoli avvenire. 
  Per reazione, l’esule, messosi alla ricerca di una torre ideale da contrapporre alla versione devota del Trionfo Numero 16, era rimasto particolarmente colpito dall’unicità del Castello di Federico II. Proprio per il suo rapporto con la luce, non essendo oscurato dalle pendici di un monte, quel capolavoro, investito in pieno dal sole, creava prospettive diverse a ogni ora del giorno e si trasformava in un grande orologio solare che misurava e visualizzava il tempo nelle ombre. Inoltre al suo interno si potevano ammirare porzioni geometriche di cielo stellato al riparo da ogni riflesso esterno e dunque il castello si trasformava in un osservatorio privilegiato.
  Arcitorre aveva scelto quel Castello come propria dimora, per scoprirne tutte le particolarità su cui si era messo a studiare, per trovare corrispondenze e valenze di numeri significativi. In pratica aveva esplorato ogni torrione, percorso in lungo e in largo le otto sale, si era inerpicato per le scale elicoidali che conducevano in cima alle torri e le aveva discese nel tentativo d’incontrare una chiave di lettura unitaria, capace di decifrare il perché di tante coincidenze cabalistiche: la grande torre ottagonale interna, le otto torri più piccole periferiche, l’altezza della torre di 24 metri (3 per 8), il diametro del castello di metri 56 (7 per 8). 
  I suoi sforzi erano stati premiati solamente nell’Anno del Signore 1666. Attratto da un mattone non in linea con altri, aveva scoperto una scatola di legno intarsiata contenente una piccola  pergamena con i sigilli dell’imperatore svevo. Le altre pareti del castello non presentavano analoghi nascondigli. L’unica eccezione era la torre orientale che nell’ottavo mese dell’anno è baciata per prima dalla luce del sole. 
  Arcitorre custodiva molto gelosamente il testamento alchemico di Federico II e lo portava sempre con sé, cucito all’interno del proprio cappello. Ogni tanto tornava a riflettere sul significato profetico di quella pergamena. L’aveva imparata a memoria ma ancora lo agitava fortemente.
1. Ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, emanazione dell’Ineffabile. Otto lettere in equilibrio esprimono il suono originario da cui scaturisce il Mondo.  
2. Gli arabi usano 22 carte per la divinazione. Le giuste distillazioni alchemiche dovranno essere 22. L’Arcano 16 erediterà la chiavi nascoste in questa turrita dimora, che io Federico II battezzo col nome di Ottava, perché sa ascoltare le otto lettere originarie e sa produrre le sette finali. 
3. I capitoli dell’Apocalissi sono 22. E’ risibile che gli uomini facciano risalire le loro origini al principio del Bene. Lo fanno per pura menzogna e per sembrare più bravi agli occhi di se stessi. Il principio del Male è più tangibile di quello del Bene. 
4. L’Apocalissi dell’Apostolo Giovanni è il 66esimo libro della Bibbia. La venuta della Grande Bestia e la relativa notazione numerica 666 s’incontrano al versetto 18 (6+6+6) del capitolo 13. 
5. Il numero della Grande Bestia 666, scomposto nelle sue unità, assommate alla luce della cabala, equivale a 222111: numero che mostra come il suo potere sia amplificato e ramificato sul Mondo. 222: tante le Chiese. 111: tante le torri dell’Imperatore Federico II nel suo Regno di Puglia e Basilicata.  
6. Il Diavolo ama se stesso in modo esasperato. 666 esprime  la somma di tutti gli innamoramenti diabolici.
7. Sette numeri innescano la fine dei tempi. La Porta sarà spalancata nell’Anno 2021, perché 20 è l’Apocalissi e 222111 ne è la chiave.*
  
Dopo il ritrovamento del testamento di Federico II, Arcitorre non aveva più abbandonato Castel del Monte per investigare e ripetere freneticamente esperimenti, con l’intento di produrre il prezioso oro alchemico. 
  La sua dimora si sviluppava al di sopra del torrione orientale. Il portale d’accesso era suddiviso in otto riquadri geometricamente eguali, su cui spiccavano, scolpiti nei materiali più diversi, bassorilievi di piccole torri dalla foggia disparata, tutte ricoperte di simboli alchemici completamente d’oro. Sulla turrita sommità un minuscolo fante, con tanto d’armatura, intimava il suo Alto là! Passeggero! ed era pronto a trafiggere l’intruso con una freccia soporifera, scagliata dalla sua infallibile balestra, se proseguiva senza fermarsi e con l’intenzione di violare l’accesso alla dimora.
  Ogni visitatore doveva aspettare pazientemente l’apertura del portale che si spalancava solamente dinanzi ai benvenuti. Se Arcitorre era di cattivo umore, o impegnato in altro e non voleva ricevere chicchessia, tanto valeva tornarsene indietro, perché il portale sarebbe rimasto serrato e non c’era verso di salire, almeno di volere tentare un’improbabile scalata e rischiare di beccarsi un dardo, che in pochi istanti sprofondava il malcapitato in un sonno costellato d’incubi.
  Impercettibilmente animata, la torre alchemica respirava perché era costituita da pietra viva ed emetteva un suono soave e incantatore, simile al canto leggendario delle Sirene, mescolato al tonfo costante e sfibrante della risacca del mare. Al cospetto del Folle il portale si apre lentamente. Lo Zero lo varca e comincia a salire su per i gradini di una scala elicoidale molto angusta che conduceva alla vetta. All’interno della torre avverte un inspiegabile senso di mancanza d’aria, di progressivo soffocamento e non vede l’ora d’uscire all’aperto. 
  Una volta iniziata la turrita ascensione, nessuno, anche se tentato per il terrore, riusciva a tornare indietro ed era preso da una vera e propria crisi di panico, trasmessa apposta dalla struttura vivente. Era il prezzo pesante che si doveva pagare per arrivare alla cima, attrezzata come un laboratorio d’alchimista, con molte ampolle di vetro, alambicchi e fuochi per la distillazione. Se il visitatore non possedeva doti sufficienti per arrivare in vetta, cadeva estenuato lungo il percorso, veniva meno e si ritrovava nuovamente fuori, ancora intontito, scoraggiato e senza più voglia di risalire. 
  Il Folle non aveva mai affrontato quella prova, ma qualcuno in passato, come l’Eremita, che si era temprato attraverso quell’esperienza, gliene aveva parlato, per cui era entrato preparato a superare la prova. 
  “Qual buon vento ti porta? E’ un secolo che non ci si vede!”
  Il Folle nutriva tanta curiosità di vedere l’interno della torre, ma si era sempre categoricamente rifiutato di sottostare alla doppia prova, offensiva e selettiva, della porta e della scala. Tuttavia si sentiva rinfrancato dal successo e sperava di scalfire la cocciutaggine della Torre, perché alla riunione gli Arcani maggiori dovevano esserci proprio tutti. “Arcitorre, abbiamo bisogno del tuo aiuto e della tua esperienza. Uno studioso di Tarocchi forse è in pericolo, ma lo dobbiamo proteggere, perché solo così difenderemo la nostra autonomia. Ecco questo è l’invito ufficiale firmato dall’Eremita.”
  Il biglietto dell’ospite viene letto con attenzione a mezza voce. “Zero, siamo dunque minacciati anche noi?”
  “Non proprio. Tuttavia, se riducono l’Uomo dei Tarocchi al silenzio, è in pericolo la nostra stessa libertà. Le Voci gli stanno alle costole e vogliono oscurare la sua ricerca poco ortodossa che ha condotto in questi anni sui Trionfi.”
  “E perché mai dovrebbero essere preoccupati per un trattato?”
  “Questo non lo abbiamo scoperto. Arcitorre, dobbiamo e possiamo capirlo insieme, se siamo solidali e non divisi come le altre volte. Forse anche noi siamo minacciati, in maniera occulta.”
  “Qual è stata la sequenza dei Trionfi evocata? Vediamo di leggerla alla luce della cabala.”
  “Io, in quanto Zero, sono un poco allergico ai numeri. Vediamo. Li ho scritti su di un foglietto per non dimenticare l’ordine esatto. Tu sei il primo che me li chiede. L’ho messo qui: dentro la scarpa destra: a riempire questa inutile punta. Toh, ecco! Non è neppure tanto stropicciato. Nove, due, quindici, quattro, cinque, sei, ventuno.”
  Arcitorre si mette a fare mentalmente dei conti. “Una sequenza alla luce dell’equilibrio, la sua riduzione numerica dà esattamente otto. E’ già di per sé un messaggio indicativo.”
  “Allora mi sembri interessato. Ci si rivede presso la dimora dell’Eremita. L’invito riporta orario e raccomandazioni.”
  “Conosco la dimora. L’Eremita è uno dei pochi che sono venuti a trovarmi, anche più di una volta. Ed io gli ho ricambiato la visita. Sono educato, anche se non sembra.”
  “Allora già conosci la strada. Non devo indicartela.”
  “Io sono pigro e affezionato alla mia ricerca. Mi muovo poco,  Zero.”
  “Lo so, ma una volta dovresti viaggiare. Sono i tuoi amici che  t’implorano. Posso anche mettermi in ginocchio in segno di umiltà, se vuoi.”
  “Non c’è bisogno che nessuno mi riverisca, Zero. Ho sempre tenuto alla larga chi non era degno di starmi accanto. Tu sei giunto sin qui e quindi sei un mio pari. Sarò sul posto. E’ una questione troppo importante a quanto pare.”
  “Bene, allora ci si vede. Io vado. Ho fretta di avvicinare gli altri.”
  “Non ti fermi neppure un poco, per prendere fiato? Tu che, più di ogni altro, nutrivi tanta curiosità di visitare la mia torre?”
  “E’ vero, ma non riuscirei a godere i suoi segreti fino in fondo. Ti prometto che torno. Ci si rivede. Adesso che i nostri rapporti sono più cordiali.”
  “Una particolarità vorrei mostrartela. Ti porterà via poco del tuo tempo prezioso. E forse può essere relazionata al tuo caso, in qualche modo.”
  “Suvvia allora mostramela. Di che si tratta?”
  “Saprai di certo che per secoli gli alchimisti hanno cercato di distillare l’oro da altri metalli meno preziosi.”
  “Certo, che lo so. Tu ci sei riuscito?”
 “Sì.”
  “Allora puoi venire tranquillamente, forte della tua nobile ricerca, di cui potrai andare fiero con tutti.”
  “Zero, non vuoi vedere la natura del distillato ottenuto?”
  “Mostramela e vieni alle conclusioni.”
  “Ho ottenuto questa pepita d’oro alchemico dopo aver eseguito ben ventidue distillazioni, tante quanti sono i Trionfi. La pepita è visibilmente sferica ed ha un diametro di ventidue millimetri.”
  “In fondo ti sei limitato a rispettare la cabala, mostrando buon senso.”
  “Ho operato secondo quanto stava scritto nella profezia di Federico II. E tu oggi con la tua sequenza di Trionfi ne confermi profondità e fondatezza.”
  “Non conosco questa profezia.”
  “Per ora non posso dirti di più, Zero. Ti benedico anima diletta. Hai davanti a te la prova della chiaroveggenza di quell’Imperatore eretico e scomunicato.” 
   “Ti aspettiamo, Arcitorre. E porta con te qualche pepita. E’ una prova. Non te la dovrebbe rubare nessuno.”
  “Porterò tutte quelle che ho, Zero.”
  “Così le sistemiamo a tavola. Come segnaposti.”
  “E se qualcuno non viene?”
  “Adesso, a questo punto della storia, sono quasi sicuro che verranno tutti, solamente per la curiosità di vedere le tue pepite. Magari qualcuno anche con l’idea di portarsene una via, come ricordo. Come fanno gli umani, quando vanno in qualche albergo, dove di solito si prendono il portacenere. ‘Valeva la pena, fare quella scarpinata fino alla dimora dell’Eremita.’ Diranno mentre tornano a casa. E tu perdile pure di vista le tue pepite Tanto non sono pezzi unici. Dopo le vai a riprendere, con gli interessi. Ciao. E il Folle sparisce letteralmente alla vista di Arcitorre, per la fretta che aveva accumulato. Vuole informare il suo compare d’inviti, Eremo, dell’ultima novità venuta a galla. “Incredibile dictu.” Bofonchia tra sé in latino. Poi sussurra a bassa voce in perfetto inglese: “That’s incredible”. Se avesse potuto, avrebbe fatto un’edizione straordinaria, a pagamento, su un importante quotidiano per informare il mondo.
 
* La riduzione del numero 666, ossia la somma delle cifre che lo compongono, equivale a 222111.
 
 
27
Ventidue sfere d’oro alchemico
 
Il Folle pensa subito di raccontare le ultime novità all’Eremita e gli spunta davanti sopra il ramo di un albero, disteso come un commensale dell’antica Roma lungo il triclinio. L’amico però sembrava distratto e concentrato nei suoi pensieri e non lo nota. Allora lo Zero sceglie un altro albero, dove assume la posizione dell’Appeso, senza la testa, con la gamba flessa a formare un rombo. Prima ha un sussulto, l’Eremita, poi rimprovera il Folle. “Trovi il tempo anche di fare gli scherzi, adesso?”
  “Eremo, ero apparso poco fa tutto intero e non ti eri accorto di me! Ecco adesso mi hai notato!” Esclama lo Zero.
  “Pensavo ad altro. Giuro di non essermi accorto di te, prima. Orsù racconta! Qual è il motivo della tua comparsa?”
  “Sono stato ora a visitare Arcitorre. Pare sia riuscito ad ottenere ventidue sfere d’oro, distillate dopo ventidue riduzioni alchemiche.”
  “E’ un vero portento! Perché non ne ha parlato finora con nessuno? Con me, almeno, poteva confidarsi! Un tale prodigio dovrebbe essere patrimonio di tutti!”
  “Eremo, dovresti capirlo, per affinità. Vive in pratica tumulato. E poi l’enigma voleva risolverlo da solo. Del resto la ricerca è  sua. Tu ne hai già tante delle tue.”
  “Arcitorre come interpreta la sequenza dell’Uomo dei Tarocchi?”
  “ - Una sequenza alla luce dell’equilibrio, la sua riduzione numerica dà esattamente otto. E’ già di per sé un messaggio indicativo. - Sono state queste le sue testuali parole.”
  “Non si è molto sbottonato.”
  “E cosa ti aspettavi che dicesse?”
  “Potevi solleticare la sua vanità. Chi vive a lungo isolato, quando comincia a parlare diventa inarrestabile, come un fiume in piena.”
  “Comunque c’è dell’altro, Eremo. Arcitorre ha parlato di una certa profezia di Federico II. Tu per caso la conosci?”
  “No! Non ne so nulla. L’Imperatore svevo nutriva interesse verso l’occultismo. Il nostro più grande difetto è che non abbiamo mai collaborato veramente. Ognuno coltiva il proprio orticello. Avrà tenuto nascosta anche la profezia: l’Arcano alchimista!”
  “Beh! Non scopri certo nulla di nuovo. Comunque il mio incontro pare averlo rassicurato. Mi ha pure benedetto. Metaforicamente.”
  “Allora non v’è dubbio: ne sa più di noi. Forse verrà.”
  “Abbandonerà la sua dimora. Me l’ha assicurato. E porterà anche le pepite: tutte e ventidue.”
  “Pensandoci bene: come ha fatto il buon Federico a formulare una profezia? Non aveva fama di essere un veggente.”
  “Probabilmente ha ascoltato delle Voci, Eremo. Si occupava di esoterismo. Frequentava gli intellettuali arabi. Solo così si può spiegare. Non è farina del suo sacco.”
  “Hai fatto centro. Sei tutt’altro che uno Zero spaccato.”
  “Comunque, Eremo, perché, anziché chiacchierare a vuoto, non andiamo a incontrare insieme Arcitorre, per chiedere delle spiegazioni?”
  “Hai ragione, Zero! In fondo si tratta di un aspetto non marginale. Però ci metteremo del tempo per andare fino alla torre alchemica.”
  “No! Con me, per le impellenti necessità, ho portato il mio tappeto volante e ci arriveremo in un attimo, Eremo! Vuoi che percorra ancora il mondo a piedi, come fai tu?”
  “Allora andiamo.”
  Presto arrivano alla meta.  Il tempo di scrivere appena una riga.
  Arcitorre non rimane del tutto sorpreso di vedere ancora il Folle in compagnia dell’Eremita. “Ci avrei scommesso di vedere voi due, qui, insieme!”
  “Siamo dei peccatori venali e non siamo allergici all’oro.” Risponde il Folle.
  “E poi quella profezia di Federico II ci rende curiosi. Siamo qui proprio per saperne di più. Spero che tu, amico, voglia esternare quello che sai.” Puntualizza l’Eremita.
  “Seguitemi allora. Devo mostrarvi qualcosa d’interessante.”
  I due neofiti, in rispettoso silenzio, aspettano la grande rivelazione. “Ecco, queste sono le ventidue sfere d’oro distillate sulla torre alchemica grazie ai miei alambicchi. Le ho disposte a caso su questo tavolo ottagonale.”
  “Diamine, sembra proprio quello della cartomante Leda.” Esclama il Folle basito.
  “Esatto. Anche se prima usava il classico tavolo rettangolare. Quando nell’anno 1771, per via della cabala, cominciai a frequentare un occultista del ghetto ebraico di Roma, gli ispirai questo modello. Di professione faceva il falegname e lavorava per la nobiltà romana. Il massiccio tavolo nelle sue intenzioni doveva essere un dono per la giovane sposa che aveva preso familiarità con i Tarocchi, ma la poveretta non sopravvisse al parto e quindi quel capolavoro rimase nel fondo della bottega a fare da scrivania dei conti, dove si ricevevano i clienti. La famiglia rispettò le volontà dell’antenato e lasciò il tavolo dove era sempre stato e non pensò mai di venderlo a nessuno, perché, secondo le disposizioni testamentarie, doveva essere regalato ad una donna, che, vedendolo, avrebbe mostrato di saperlo apprezzare per quello che effettivamente valeva e per il suo significato altamente simbolico. Una decina di anni fa, l’ultimo discendente falegname, un certo Peppino ha davvero regalato il capolavoro ad una cartomante, che l’ha restituito alla sua primitiva funzione.”
  L’Eremita dimostra di condividere il punto di vista di Arcitorre. “Un tavolo ottagonale trasferisce alla lettura delle carte un’energia equilibrata. Trasmette anche serenità ai presenti. Concordo che sia la migliore forma possibile in assoluto.”
  “Bene amici miei. Adesso scegliete la vostra pietra omologa. Anche se sembrano tutte eguali, avvertirete un’energia che attraverserà la vostra mano. Non potete sbagliare.” Il Folle per primo e l’Eremita dopo, vanno a pescare l’aurea sfera che si attacca sulla mano, come fa un chiodo di ferro su di una calamita. “Potete constatare che ogni concentrato alchemico corrisponde esattamente a uno dei Trionfi. Ne ero più che sicuro, perché le altre ventuno sfere si mostravano indifferenti alla mia presenza.”
  “Ora parlaci della profezia.” Incalza l’Eremita.
  “Sediamoci attorno a questo tavolo per trarre ispirazione dalla profezia di Federico II. Da quando ho casualmente scoperto il suo nascondiglio, in altre parole dall’Anno 1666, questa piccola pergamena è rimasta celata sotto le cuciture del mio stravagante berretto, somigliante a una torre di pannolenci.”
  In rispettoso silenzio, gli Arcani cercano di entrare in sintonia con la profezia, sistemata sul tavolo ottagonale. Poi la leggono ad alta voce, per otto volte consecutive. Tutti insieme, come se stessero recitando un’orazione agli dei.
“1. Ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, emanazione dell’Ineffabile. Otto lettere in equilibrio esprimono il suono originario da cui scaturisce il Mondo.  
2. Gli arabi usano 22 carte per la divinazione. Le giuste distillazioni alchemiche dovranno essere 22. L’Arcano 16 riuscirà ad ereditare la chiavi nascoste in questa turrita dimora, che io Federico II battezzo col nome di Ottava, perché sa ascoltare le otto lettere originarie e sa produrre le sette finali. 
3. I capitoli dell’Apocalissi sono 22. E’ risibile che gli uomini facciano risalire le loro origini al principio del Bene. Lo fanno per pura menzogna e per sembrare più bravi agli occhi di se stessi. Il principio del Male è più tangibile di quello del Bene. 
4. L’Apocalissi dell’Apostolo Giovanni è il 66esimo libro della Bibbia. La venuta della Grande Bestia e la relativa notazione numerica 666 s’incontrano al versetto 18 (6+6+6) del capitolo 13. 
5. Il numero della Grande Bestia 666, scomposto nelle sue unità, assommate alla luce della cabala, equivale a 222111: numero che mostra come il suo potere sia amplificato e ramificato sul Mondo. 222: tante le Chiese. 111: tante le torri dell’Imperatore Federico II, nel suo Regno di Puglia e Basilicata.  
6. Il Diavolo ama se stesso in modo esasperato. 666 esprime la somma di tutti gli innamoramenti diabolici.
7. Sette numeri innescano la fine dei tempi. La Porta sarà spalancata nell’Anno 2021, perché 20 è l’Apocalissi e 222111 ne è la chiave.”
  L’Apocalissi dell’evangelista Giovanni, analizzata dagli esegeti d’ogni tempo, avrebbe potuto essere integrata con la profezia blasfema di Federico II. E probabilmente un rabbino esperto avrebbe saputo decifrare il messaggio scaturito dalle sette lettere dell’alfabeto ebraico da associare alla fatidica sequenza numerica di sette Tarocchi, che poteva essere assimilata ai famosi sette sigilli.  
9 - 2 - 15 - 4 - 5 - 6 - 21  
Certo i tre Arcani avrebbero potuto e dovuto meglio dirimere e sviscerare l’annosa questione, ma il tempo inesorabilmente, in modo sottile, incalzava e confondeva tutti. Nessuno riceve al momento l’illuminazione sperata. Eppure gli animi dei tre Arcani erano sereni e preparati a ricevere la rivelazione.
 
 
28
La strana gravidanza dell’Imperatrice
 
Da oltre cinquanta anni, da quando era iniziata l’attività alberghiera, l’Imperatrice era diventata ospite fissa del Cantuccio: una dimora di gusto, non sfarzosa ma elegante, curata nei dettagli, dall’atmosfera accogliente e familiare, frequentata da persone educate amanti della tranquillità e della natura. Il sentiero per arrivarvi a piedi non era agevole e gli ospiti con i bagagli giungevano tutti con una barca a motore. L’isola del Giglio offriva un mare incontaminato e protetto. Il Cantuccio aggiungeva una cucina mediterranea tipica e genuina, prodotti locali a base di latte di capra, passeggiate con l’asino attraverso viottoli, le bocce, l’osservatorio stellare, il gazebo con attrezzi ginnici. 
  L’Imperatrice prediligeva sostare sulle sdraie della spiaggia, sulle sedie di paglia dei giardini e, quando voleva seguire qualche piacevole conversazione, si trasferiva nella taverna che ospitava cene animate e conviviali. Lontano dal traffico e dalla confusione era il suo luogo ideale, il più adatto alle sue aspirazioni. Lo viveva con dignitoso aristocratico isolamento; come se qualcuno l’avesse spodestata da un trono e mandata in esilio, lontano da dove sono prese le decisioni che contano. Nel passato aveva sempre scelto alberghi di lusso, frequentati da nobili e principi, per stare accanto a persone di rango e raffinate, a cui lei credeva giustamente d’appartenere. 
  Ogni tanto, al Cantuccio, qualche ospite portava con sé un mazzo di Tarocchi e faceva le carte agli amici, per passatempo e passione e non per denaro. In genere Lei preferiva queste persone, agli intrighi frettolosi dei cartomanti di professione che a suo dire non avevano dignità.
  L’Imperatrice in passato era stata la diletta sposa dell’Imperatore; quando erano stati giovani erano stati amanti; poi lui non l’aveva più desiderata e lei aveva avuto una storia col Bibliotecario. Al momento presente l’Imperatrice non aspirava a riconquistare la grazie dell’Imperatore. Considerava se stessa un tributo, una forma di riconoscimento all’eterno femminino di cui era la personificazione: come madre e come compagna fedele. Altri Arcani le avevano fatto la corte, ma lei aveva sempre respinto tenacemente tutti gli assalti, tutte le proposte, quelle più serie e quelle più volgari, per concedersi solamente agli sguardi languidi dell’Innamorato che costantemente l’aveva desiderata, ma mai si era deciso a dirle ti amo, perché era troppo impegnato a correre dietro all’ultima pulzella che incontrava e sempre rinnovava per un'altra i propri sospiri amorosi, fiero d’essere un grande dongiovanni. 
  L’Imperatrice si era confinata in un limbo dell’innamoramento, dal quale non era voluta uscire, nonostante le premurose pressioni dell’Eremita: il suo confidente e il suo maestro di virtù, al quale si confessano sogni e delusioni. La sua aspirazione di un unico grande amore e di avere un figlio, espressione e coronamento di tale legame, l’aveva spinta a essere la protettrice delle unioni maritali, delle gravidanze, ma anche una strenua sostenitrice della verginità femminile e della fedeltà. Un tempo la sua presenza era invocata perché auspice di fertilità e matrimoni. Con la liberalizzazione dei costumi la sua figura alquanto appannata, non era più vista con l’entusiasmo di una volta e neppure era evocata con la stessa frequenza. Questi cambiamenti radicali avevano messo in crisi le sue funzioni di nume tutelare del focolare domestico. Fuori sintonia con i tempi, si sentiva sempre più obsoleta ed anche il viso non aveva più lo splendore di un tempo. La sua tempra si era indebolita, le sue certezze erano cominciate a vacillare. 
  L’Arcano della peregrinazione, conoscendo le debolezze della propria protetta, a cui aveva davvero fatto da guida, era contento d’incontrarla e già la sentiva al proprio fianco, schierata accanto a lui in quella complicata tenzone. Giunto via mare con i barcaioli locali, in compagnia di due coppie di turisti inglesi, amanti del riposo, l’Eremita approda alla Cala dei Pini e risale una lunga scalinata attraverso gli alberi per cercare l’Imperatrice nell’albergo, ma deve ridiscenderla, per dirigersi verso la spiaggia dove spera d’incontrarla. Di solito era abitudinaria e trascorreva la giornata nel suo punto panoramico preferito: due semplici sedie di metallo e un tavolino rotondo dove le coppie sostavano, per ammirare il gioco di luci sullo specchio incontaminato del mare.
  L’Eremita sa del difficile momento che l’Imperatrice stava attraversando e attribuiva il suo fare distratto e l’indifferenza a quella sua crisi d’identità. Così le prende la mano, gliela stringe, la bacia teneramente, come si fa con una figlia e le spiega molto scrupolosamente i motivi della visita con tutti i dettagli possibili, perché con lei non aveva mai avuto segreti. Era assorta sulla riva, seduta sulla sabbia, i piedi nell’acqua, in una fresca mattina, con un prendisole bianco e trasparente. Giocherellava e ammirava la straordinaria diversità delle conchiglie e delle pietruzze levigate dalla risacca. “Vedi figlia: il Folle ha tanto insistito perché scrivessi anche un biglietto d’invito. Ha voluto rispettare il galateo. Te lo lascio. E spero d’averti al mio fianco.”
  “Vedo. Comunque non riesco a starti dietro. Non condivido le tue ansie. Non potrei neppure esservi d’aiuto, in queste nuove e per me oscure scaramucce.”
  L’Imperatrice pareva avesse altre preoccupazioni per la testa e non si mostrava interessata al nuovo conflitto tra i Tarocchi che si stava profilando all’orizzonte. Forse non aveva capito l’importanza del momento. Il suo sguardo era mutato, come se, estraneo a quella conversazione, fosse rimasto lontano a rincorrere una chimera. “Ti senti bene, figlia mia?”
  “Certo. Non sono mai stata così bene, negli ultimi tempi.”
  “Mi sembri molto diversa dal solito, oggi.”
  “E’ vero. Ieri ho ricevuto la visita dell’Innamorato e mi ha fatto sua. E’ stato un momento meraviglioso, che attendevo da sempre. Non voglio dimenticarlo più.”
  “E non ti sei stupita di averlo al tuo fianco come spasimante, dopo tanto tempo?”
  “No! Mi ha baciato, mi ha posseduto!  Già mi è nata nel ventre una creatura sua, che si muove. Adesso sono madre e felice. Perché mai avrei dovuto respingerlo, dopo averlo desiderato così a lungo? Dammene una ragione.”
  “Non hai colto nulla di strano dal suo sguardo, dal suo atteggiamento? Certo usava l’inganno, per approfittare della tua debolezza, quel depravato.” 
  “Mi è sembrato sincero. Ha detto che non era degno di me e che si sarebbe accontentato di un bacio.”
  “Ti ho sempre detto che amavi la persona sbagliata. Ti ho anche indicato qualche concreta possibilità. Potevi amoreggiare a mio avviso con il Mago, strappare l’Appeso ai suoi tormenti. No. Volevi lui. Il più volubile. Il più vanesio. Il più corrotto.”
  “Comunque, adesso, l’Innamorato è mio! E tornerà da me! Perché quello che ha provato con me, non potrà provarlo con nessun’altra, più bella, più giovane che sia!” Grida l’Imperatrice.
  “Non alzare la voce con me!”
  “Alzo la voce, quando è il momento di alzarla! Sono stata quieta e buona per secoli! E se l’Innamorato è un farabutto come pensi e non tornerà qui, sarò io a cercarlo! E non la passerà liscia, perché non gli darò tregua!”
  “Te ne accorgerai allora di che pasta è fatto quel bellimbusto.”
  “Non sono una bambina. Quanto all’Uomo dei Tarocchi devo valutare. Se l’Innamorato mi ha sedotto, non ha comprato il mio intelletto e la mia facoltà di discernere; anzi, se il suo obiettivo è stato quello di distrarmi, si sbaglia di grosso.”
  “Bene, sono in fondo contento che finalmente ti abbia fatto sua. Perché hai ripreso carattere e quella voglia di lottare che negli ultimi tempi ti era venuta meno. Ti abbraccio e ti faccio le mie scuse, figlia mia, se ho esagerato nei rimproveri. Adesso sono contento. A volte non sappiamo giudicare neppure le persone a cui vogliamo più bene e, forse l’affetto, troppo carico d’egoismo, ci acceca. Ed io, nonostante la mia lanterna, scopro sempre d’essere incapace di scorgere le piccole cose che ho sotto gli occhi.”
  “Comunque ci vedremo al più presto alla tua dimora. Sento crescere la mia creatura a un ritmo vertiginoso. Mi metto già in cammino. E non raccontare in giro questa storia. La mia gravidanza sarà palese a tutti e voglio essere io a togliermi le castagne dal fuoco.”
  L’Eremita promette e si accomiata dall’Imperatrice, ma non sa resistere alla voglia di strappare la verità a quel bellimbusto tentatore. L’Innamorato, guarda caso, aveva scelto proprio quel frangente per ricordarsi del suo unico grande amore non corrisposto. Così decide d’interrompere il suo naturale ciclo di visite e di recarsi a trovare il sesto Arcano, che, secondo il protocollo stabilito, spettava al Folle. ‘Parlarne con l’interessato non è poi venire meno a una promessa. E’ un atto doveroso, degno di un padre premuroso.’ L’Eremita non sempre, per il proprio rigore morale, riusciva a venire a patti con la propria coscienza, per cui voleva dare una giustificazione al proprio comportamento.
 
 
29
L’Eremita indaga sulla gravidanza dell’Imperatrice
 
L’Innamorato a tempo pieno frequentava le adiacenze di via Veneto, a Roma, attratto dalla vita notturna, dagli alberghi famosi, dalla prostituzione camuffata e tollerata. Quello era il contesto ideale per chi amava correre dietro alle stelle dello spettacolo, ai vip e alle coppie anonime che si davano appuntamento in quei paraggi. 
A due passi dalla strada mondana si estendeva Villa Borghese: un ampio parco verde frequentato dagli spasimanti d’amore, dai guardoni e altri pervertiti. Il Giardino del Lago più interno offriva anche momenti romantici a tutti gli autentici innamorati, che, seduti sopra una barchetta a remi, ne approfittavano per fare un giro attorno alla minuscola isola, dove era stato eretto un piccolo tempio circolare pagano con una statua che simboleggiava la salute e dove l’Innamorato aveva stabilito la sua dimora ufficiale che condivideva con il fedele Cupido.
 Senza l’aiuto della sua preziosa lanterna, l’Eremita non sarebbe mai riuscito a scovare l’epicureo in quel ginepraio di case d’appuntamento e di hotel d’ogni categoria. 
Quando la luce veniva affievolita, bastava accostare la foto di una persona, o una carta dei Tarocchi con la faccia rivolta sul vetro della lanterna e la preziosa compagna ti prendeva per mano e ti guidava fino alla meta, come attratta dalle sembianze e dai fluidi invisibili emessi dall’immagine, resa magica da quel breve contatto. 
Di solito l’Eremita, rispettoso della privacy altrui, usava questo sistema solamente in casi speciali, quando era strettamente necessario, in quanto si era dato delle regole precise di comportamento a cui si atteneva rigorosamente, di cui andava fiero e che poteva sempre contrapporre a tutti coloro che agivano senza porsi freni morali.
A vederlo peregrinare col mantello logoro e spartano, a nessuno sarebbe venuto in mente che quel biglietto da visita ufficiale era una forma dissimulata di presentarsi con tutti; perché l’Eremita il meglio di sé aveva imparato a occultarlo, proprio per essere lasciato in pace dalla valanga di rompiscatole che avrebbero voluto sapere tutto sui segreti della lanterna. Agli ordinari doveva apparire come un oggetto antico e di poco valore, degno compagno di un eccentrico Diogene alla ricerca della verità.   
In una camera di una pensione d’infimo ordine, l’Innamorato stava sprofondato nel bel mezzo di un baccanale, compiendo atti di libidine innominabili, quando un paludato figuro, spuntato tra le cosce di una baldracca, s’intromette nell’orgasmo. 
Lì sul momento neppure lo riconosce. “Non mi rompere i ciglioni e ripassa domani per la tua elemosina.”
“No, ti rompo la testa, adesso, col mio bastone alquanto nodoso, se non la smetti subito di fornicare, lurido vizioso!”
“Pazzo! Come osi minacciarmi!”
L’Innamorato, sentendosi preso per la gola e avendolo bene di fronte, finalmente riconosce l’Eremita. “Che fai, qui? Vuoi la tua porzione di piacere? Serviti! Perché non metti via il tuo bastone? Non ci sono ostacoli pericolosi.”
“Ci sono io di pericoloso. Interrompi subito i tuoi piaceri e rispondimi.”  
“Sono tutt’orecchi.”
“Perché ti sei deciso, a un tratto, d’amoreggiare con l’Imperatrice?”
“No. A un tratto non è possibile. Ancora la penso. Ancora la desidero. Ancora non mi sono deciso.”
“Mi stai prendendo per i fondelli. La mia figliola mi ha detto che l’hai anche ingravidata” 
“Eh! No! Caro Eremita, io non racconto mai bugie. Sono un depravato, lo ammetto. E per questo non ho mai avuto una storia con lei. Per rispetto.”
“E allora giuri che non sei stato tu a possederla?” 
“Certo. Lo giuro sul mio fedele Cupido. Sugli Amorini più cari. Vedi com’è giù, lo hai traumatizzato.”
“Ti riprenderai. E se non sei stato tu, chi è stato?”
“Tu potresti avere desiderato in segreto la tua prediletta, ma non sai mimetizzarti, quindi non puoi essere stato.”
“Assolto. Sono più tranquillo adesso. Non fare ragionamenti Innamorato, piuttosto usa il tuo fiuto.”
“Caro vecchio Eremita, proprio non so nulla. Se fossi stato presente, mi sarei fatto paladino del suo onore.”
“Se sei in buona fede, fiuta quel mascalzone che si è fatto passare per l’Innamorato e ha ingannato l’Imperatrice.”
“Potrebbe essere stato un Arcano esperto nella metamorfosi. Arcimondo è maestro in questo genere di cose.”
“Sarebbe la prima canagliata che fa in vita sua e senza un motivo plausibile. Dovrebbe essere uscito di senno.”
“E’ vero. Perché no, il Folle? Non rispetta nessuno.”
“Rispetta gli amici e noi due siamo veri amici.”
“Forse l’Appeso. A causa dell’astinenza prolungata. Chi sogna la perfezione può avere di queste cadute.”
“Ci sta. Glielo posso sempre domandare.”
“L’Imperatore è uno che stupra, lo so. Tuttavia rispetta i ranghi altolocati. Stupra pulzelle di basso rango. Il Mago non avrebbe avuto ragione di camuffarsi: a mio avviso è l’unico vero gentiluomo di famiglia. Non so proprio a chi pensare. E tu, grazie alla tua preziosa lanterna, potresti scoprirlo meglio di me chi è stato il vile gaglioffo seduttore.”
L’Eremita, a cui la rabbia stava scemando, si mette anche a formulare la sua ipotesi. “Forse è qualcuno che ha voluto inguaiare anche te e approfittare dell’Imperatrice nello stesso tempo.”
“Hai ragione. Arcidiavolo non può essere stato sicuramente.”
“Perché?”
“Perché siamo soci in affari. Lo escludo categoricamente. Aspetta: lasciami riflettere:.... Lui di certo é l’indiziato numero uno: il meno sospettabile.”
“Lui chi? Parla! Non ci girare attorno. Fai il suo nome! Dimmi subito, secondo il tuo fiuto erotico infallibile, chi è stato l’artefice dell’inganno.”
“Lui sicuramente é il colpevole. Il Gerofante. Gli sto sui ciglioni. Gli stiamo entrambi sui ciglioni.”
“Ma non si dice coglioni?”
“No, ho cambiato il termine. Suona più fine. ”
“E’ una trovata tua?”
“No l’ho presa in prestito dal repertorio del Folle. Non voglio vantarmi di quello che non è farina del mio sacco.”
Finisce così quella conversazione serrata tra l’Eremita e l’Innamorato. Si erano sempre guardati negli occhi. Per dire che faceva sul serio, l’Arcano della peregrinazione non aveva mollato la gola dell’avversario. Il dongiovanni era rimasto pietrificato in un inutile cenno di altolà, come ad affermare estraneità ed innocenza.
 
 
30
Due stelle a cinque punte
 
A questo punto, secondo quanto stabilito dal protocollo cabalistico, l’Eremita incontra il quinto Arcano: lupus in fabula. Giudica però opportuno non entrare nello specifico della gravidanza dell’Imperatrice, tanto il suo astuto interlocutore avrebbe negato ogni coinvolgimento e poi era difeso da poderose schiere di Angeli al suo servizio esclusivo.
   Per avere accesso al torrione annesso alla Chiesa di Saint Nazaire in Béziers, l’Eremita deve lasciare il bastone, la lanterna e anche il mantello. Riceve in cambio un saio di panno ruvido, simbolo di penitenza e di sottomissione, poi è accompagnato al cospetto del Gerofante.
  “Vi stavo aspettando. Presagivo che oggi sarebbe venuto a farmi visita l’Eremita.” Ostentava sicurezza il quinto Arcano, con la mano destra stretta sul pastorale cruciforme che sempre portava con sé e usava per intimorire amici e nemici. Vista da vicino, quella verga, scolpita con simboli alchemici, non serviva soltanto a sorreggerlo nei rari momenti di fiacchezza. Il Fuoco e la Terra stavano impressi sulla lunga traversa verticale, mentre l’Acqua e l’Aria erano impresse sulla corta traversa orizzontale. Le due unità erano tenute insieme dal turbine della quintessenza che mescolava le energie dei quattro principi fondamentali della vita.
  Tuttavia l’Eremita, anche senza i mezzi di difesa che abitualmente lo accompagnavano, non si sentiva vulnerabile e non mostrava disagio. Messo da parte il consueto atteggiamento battagliero e polemico, esordisce in maniera discorsiva, per intavolare una normale conversazione tra amici. “In un frangente delicato e dai contorni oscuri, sono venuto personalmente ad invitarti nella mia dimora che mette tutti sullo stesso piano. Ecco il tuo invito.”
  Il Gerofante lo leggicchia appena con una certa diffidenza e ogni tanto gettava gli occhi all’indirizzo dell’Eremita nei panni dell’ospite non gradito. “Vi siete scomodato solo per questo?” La domanda, apparentemente superflua, serviva per scandagliare l’antagonista, il quale pensa di rispondere subito e di essere preciso e deciso.
  “Come puoi vedere sono un libro aperto. All’assemblea dovranno intervenire tutti. Una riunione alla pari. Senza nessuno al seguito.”
  “In forma educata mi s’impone anche come mi devo presentare.”
  “No. Se vieni con qualche angelo, resta fuori. Non entra. Tanto vale che lo lasci a casa. Farebbe un cammino inutile, perché dovrebbe tornarsene indietro.”
  “E voi osate venire nella mia dimora a dettarmi delle condizioni?”
  “No. Tutti dovranno lasciare a casa ogni tipo di talismano, arma magica e altro. La regola non la faccio solamente per il Gerofante. Vale per tutti. Qui, non ho forse lasciato in custodia la mia lanterna e il resto?”
  “Bene. Allora è diverso. E se non accettassi l’invito?”
  “Chi non dovesse partecipare a questa importante riunione, di fatto si isolerà dal resto del gruppo.”
  “Una specie di limbo. Fuori per sempre dalle contese centenarie. Potrei guadagnarci maggiore quiete.”
  “Beh! Tutto dipende da come sono accolte le raccomandazioni. Ognuno è libero di fare le proprie scelte. Comunque la maggioranza stabilirà delle sanzioni.”
  “E quest’ostracismo, come pensate di poterlo concretare?”
  “Per uscire dal tuo torrione dovrai aprire una porta, ma ne incontrerai sempre una nuova e saranno una vera moltitudine: una dietro l’altra come le bamboline russe. Tu le spalancherai e ne troverai un’altra più piccola. Le porte, simili a lanterne magiche, saranno sempre più minuscole, fino a diventare infinitesimali...”
  Per avere accesso alla dimora del suo più acerrimo nemico, l’Eremita aveva indossato un abito francescano simbolo di sottomissione; ma sembrava molto temerario. Il Gerofante, nonostante l’energia concentrata nella sua insegna cruciforme, non riusciva ad assaporare tutta la fragilità del suo interlocutore, tranquillo, anche se era senza difese. La sua collera saliva come una piena impetuosa e incontenibile. Sentiva invece il proprio avversario perfettamente a suo agio. Le parti adesso si erano invertite: lui, in casa, con gli Angeli a proteggerlo, provava stizza verso quell’intruso inerme. Non gli andava giù l’idea d’essere un convitato che non poteva sottrarsi ai suoi obblighi. Di fronte a tanto osare il Gerofante vagliava anche l’idea di un complotto ben architettato ai suoi danni. Voleva vederci più chiaro, conoscere in faccia tutti i suoi nemici.
  L’Eremita, pronunciata la parola infinitesimali, ad arte, inizia una pausa teatrale, con l’intento di confondere e stordire l’interdetto interlocutore. Lo sposo della Quintessenza, dal nulla, lo vede afferrare una minuscola lanterna a forma di tetraedro, a cui non presta molta attenzione. Sembrava al momento una suggestione priva di fondamento, giacché l’Eremita si era privato di tutto ciò che aveva con sé.
  Il Gerofante allora sbotta e usa un tono minaccioso. “Questa mia verga cruciforme potrebbe tramutarvi in una statua di sale. Adesso! Non parteciperete alla riunione dei Trionfi che vi sta tanto a cuore, perché siete privo delle vostre naturali difese. Ve ne siete forse dimenticato?”
  “Ne sono consapevole, ma resteresti qui, per sempre, con un’inutile statua di sale accanto, prigioniero del tuo torrione dal quale non riuscirai più a uscire.” L’Eremita ribadisce con fermezza il concetto adombrato dell’isolamento perpetuo e volge le spalle al Gerofante senza neppure congedarsi, per dimostrare che non vi erano più margini di discussione. Ostentava fermezza, anche se provava la sensazione di rivivere l’esperienza della biblica Lot, in procinto di essere tramutata in una statua di sale, mentre stava per girarsi a guardare la distruzione di Sodoma e Gomorra. E la tentazione di voltarsi era assai forte. 
  Se l’Eremita si fosse piegato alla volontà del suo interlocutore, avrebbe tradito la propria fragilità e tutta la sicurezza ostentata sarebbe svanita in un attimo. Sentiva la verga, alta sopra la sua testa, in procinto di colpire, e l’ira del Gerofante pronta a scattare d’improvviso, se solo avesse tentennato, anche nell’andare. Nell’allontanarsi a passo fermo, percepisce distintamente la mano minacciosa abbassare l’arma cruciforme. 
  Il Gerofante torna indietro a piccoli passi e guarda un ospite inerme mandare in fumo tutti i suoi progetti, proprio adesso che era sul punto di realizzarli. Il trono ligneo mobile, su cui si lascia letteralmente cadere il quinto Arcano, era tutto scolpito a mano e istoriato con effigi misteriose e indecifrabili. Lo schienale piramidale presentava due pentagoni, dove stavano iscritte due stelle a cinque punte che attraevano la curiosità e avevano il potere di stordire.  
  Nella prima stella, con la punta rivolta verso l’alto, era stato scolpito l’Uomo. Nella seconda stella, rovesciata, era stato scolpito il Diavolo. I due pentacoli affiancati indicavano il dominio esercitato dal Gerofante sulle forze del Bene e del Male, ma potevano anche significare la loro indissolubilità. In effetti l’Eremita dal nulla aveva plasmato una minuscola lanterna a forma di tetraedro e poi aveva cominciato ad agitarla sotto gli occhi sgranati e meravigliati del Gerofante, interdetto nella sua riflessione. ‘Adesso intravedo quella maledetta lanterna. Però non è possibile. L’ha deposta nelle mani scrupolose degli Angeli, non può averla portata dietro.’ 
  La lanterna però stava lì davanti, con tutti i dettagli, eguale a quella che ben conosceva, con la sua caratteristica forma di tetraedro.  Alimentata da tre luci prodotte da tre stoppini, ardenti sopra un unico blocco di cera e protetta da tre vetri trasparenti, la lanterna non si affievoliva, ma sprigionava una luminosità intensa, di molto superiore a quella delle lampade normali. La struttura di ferro battuto, a forma di tetraedro, terminava con dei piedi singolari a forma di tre, di sei e di nove, mentre nel vertice sbocciavano come petali tre uno. Di fatto la forma della lanterna costituiva una visualizzazione del calcolo cabalistico.
  Dopo essere stato minacciato d’isolamento, da parte del suo antagonista, inspiegabilmente e in maniera repentina, il Gerofante si trova di fronte ad un grande portale di legno con dei riquadri, del tutto simili ai suoi pentacoli, con la stella a cinque punte, perfetta, ma vuota. Si avvicina per andare a verificare quella singolarità e poi d’istinto spalanca il portale per incontrarne un altro, identico, ma leggermente più piccolo. Anche nel successivo portale, meno imponente, incontra sempre la medesima stella, ora capovolta, ma vuota. E l’Arcano viene preso da una smania infinita d’aprire un altro portale più piccolo, con la stella ancora vuota e capovolta. E l’attrazione magica del portale si ripeteva ciclicamente, attraendolo e ponendogli un simbolico interrogativo sulla natura insoluta del Bene e del Male. Il Gerofante, stordito dalla malia, subiva tutta la forza del suo avversario, che, imperterrito e quantunque minacciato, gli voltava le spalle con sprezzo. 
  Con tutta la forza della sua verga cruciforme, ancora e invano gli trasmette la sensazione di rivivere la fragilità della biblica Lot e la curiosità incontenibile d’assistere alla distruzione di Sodoma e Gomorra, decretata da Dio per i vizi e i peccati. Come Lot, l’Eremita, voltandosi e obbedendo al comando imperioso, sarebbe stato tramutato in una statua di sale; ma il temerario credeva nella propria energia interiore e proseguiva senza scomporsi, o denotare paura e senza neppure curarsi della verga minacciosa pendente sul suo capo indifeso. 
  Il Gerofante allora abbassa il braccio sollevato e guarda quel coraggioso allontanarsi. Poi torna indietro a piccoli passi verso il trono, sul cui schienale piramidale stavano due pentacoli facilmente riconoscibili, che avevano il potere di stordire chiunque li guardasse. Anche il loro padrone stremato viene attraversato da un’improvvisa debolezza fisica e quasi si accascia sopra il sacro seggio, scosso intimamente dal vero miracolo riuscito all’Eremita: sfruttando la punta rivolta verso l’alto del primo pentacolo e la punta rivolta verso il basso del secondo, aveva attratto il Gerofante verso l’eterno conflitto tra le forze del Bene e quelle del Male, contrapponendogli tutta la propria forza morale.

  

31
I poteri della Temperanza
 
Originariamente il quattordicesimo Trionfo era una bellissima donna che simbolicamente mostrava l’essenza del flusso alchemico, travasando energia da una brocca d’argento a un’anfora aurea. Poi i revisori dell’Inquisizione le avevano fatto spuntare ali d’Angelo per farle incarnare una delle quattro virtù cardinali: la Temperanza. Il gesto del travaso energetico attraverso le brocche era comunque rimasto. Rendeva quel cambiamento meno aspro e tradiva le origini alchemiche dell’icona. Tuttavia la gente che maneggiava i Tarocchi ignorava quei profondi cambiamenti, anche perché preferiva immaginare la Temperanza come un angelo protettore capace di provocare mutamenti nelle situazioni più sfavorevoli; pertanto la presenza di questa carta taumaturgica era da tutti auspicata e vista sempre come un segnale positivo. 
  Il Folle quel giorno avrebbe volentieri incontrato un altro Arcano; quelle venature miracolistiche della Temperanza lo avevano sempre fatto ora sorridere, ora indispettire. I loro rapporti pertanto erano stati pessimi; fin dagli albori dei Tarocchi i due si erano sinceramente detestati e si sentivano quasi agli antipodi, per aspirazioni e per modo di essere. Il Folle non sopportava gli esseri angelicati, il loro svolazzare aggraziato. Li giudicava poco autentici e credibili. Diffidava per istinto della bontà ridondante, che poteva essere uno schermo  per celare la malvagità. Mentre andava verso l’incontro, aveva cominciato a grattarsi dal nervosismo con sempre maggiore frenesia e non riusciva a trattenere la tensione che in qualche modo doveva pure manifestarsi.                               
Si ferma e si priva della bisaccia sudicia, dei variopinti pantaloni da giullare, della giacca rigonfia, stretta in vita, e di tutto il resto. Con tutto quel corredo riveste uno spaventapasseri, messo a bella posta in un campo di girasoli antistanti alle fonti del fiume Clitunno, sulle cui amene verdeggianti acque era sorta la dimora della Temperanza che obbligava i visitatori a una mistica levitazione. Per non comparire nudo, il Folle si confeziona all’istante una piccola tunica. Bianca e corta copriva il ginocchio e lasciava anche scoperte le braccia. Indossando un abito fresco sperava che il prurito cessasse d’intensità e, in effetti, prova una sensazione di benessere nello spogliarsi del chiassoso paludamento abituale. A detta del Folle, l’abito talvolta è lo specchio del monaco, a dispetto dei proverbi e un abitino pulito e semplice avrebbe perlomeno facilitato l’approccio. Una creatura con la vocazione angelica avrebbe certamente gradito il bianco, preferendolo all’arcobaleno sfacciato di colori che lo Zero sbatteva sotto gli occhi di chiunque avesse la ventura d’incontrarlo per via. 
  Una schiera di quattordici angioletti, fedeli custodi in grado di accecare chiunque con i loro bagliori, accompagnava dappertutto la Temperanza e trascinava il suo cocchio iridescente. Mentre il Folle si appropinquava, rimuginava considerazioni e soluzioni. ‘Io proprio non li capisco, questi santoni celesti. Sentono il bisogno d’essere protetti da nuclei di guardiani. Non vedo cosa mai hanno da temere? Io ed Eremo, ce ne andiamo forse in giro con dei giannizzeri? Chi mai potrebbe minacciare la tanto amata Temperanza? E a me gli umani hanno affibbiato il marchio del Folle, quando ho ragioni da vendere e con la mia parlantina lapalissiana potrei raddrizzare il mondo.’
  ‘Vedrai che neppure mi fa entrare e neanche mi lascia parlare.’ Ripeteva ad intervalli regolari tra sé il Folle, mentre cercava uno stratagemma per essere ricevuto subito. ‘Se mi presento sotto mentite spoglie, poi mi prendono a pedate nel sedere.’ Insomma non riusciva a trovare una maniera credibile per farsi avanti. 
  Esclude i modi subdoli e poi sceglie la sincerità. “Dite al vostro Signore che un Arcano gli porta un messaggio d’interesse vitale per tutti i Tarocchi. Le Voci stanno minacciando la nostra stessa esistenza.” Parla con enfasi accentuata e con il volto accigliato e preoccupato.
  Uno degli angioletti vola subito all'interno della dimora di cristallo, che emanava una luce intensa, quasi accecante, al punto che il Folle faceva un grande sforzo a tenere gli occhi aperti. Poco dopo il messaggero torna indietro, per conoscere l’identità dello strano visitatore. “Il mio Signore desidera sapere quale Arcano vuole essere ricevuto al suo cospetto.”
  “Io sono lo Zero.” Il Folle parlava con tanta fermezza e autorità da mettere in agitazione l'angioletto che vola via di nuovo, più rapidamente di prima.
  “Il mio Signore dice che potete essere ricevuto al suo cospetto.”
  Il Folle entra nella dimora con tutto il tappeto volante, anche perché non aveva voglia e tempo d’imparare a levitare. La Temperanza lo guarda allibito e non sa se arrabbiarsi, mettersi a ridere, o fare finta di nulla. “Hai infranto le regole. Dovevi entrare levitando come uno spirito mistico.”
  “Allora non sarei mai riuscito a entrare. E invece dovevo, perché sto portando un messaggio vitale per tutti gli Arcani.”
  “Non vedo il messaggio. Dov’è?”
  Il Folle istintivamente si guarda nelle tasche, ma non le trova e fa una smorfia di disappunto. “Lo avevo, adesso non più. Ho lasciato gli inviti nella tasca del mio giubbetto!”
  “Hai lasciato a casa il tuo abito variopinto e sei venuto qui come un fuoriuscito da una casa di cura?”
  “Ho lasciato l’abito fuori: nel prato dei girasoli. Torno indietro a prendere l’invito.”
  “Ora sei qui. Dopo lo consegni a uno dei miei angioletti. Piuttosto, dimmi perché hai cambiato il tuo consueto abito?”
  “Per essere più in sintonia con la tua persona. Il bianco rende più trasparenti. Volevo essere più accetto.”
  “Sinceramente non ti sei visto allo specchio. Hai tutta l’aria di uno che vuole prendermi in giro.”
  La Temperanza fa un’espressione corrucciata, tuttavia il Folle vuole dimostrare la sua sincerità. “L'Eremita di persona sta portando lo stesso messaggio a un altro gruppo di Trionfi. E' la prova che non sto mentendo. Mettiti in sintonia con il Mago. Deve averlo già avvicinato.”
  Il quattordicesimo Arcano aveva sviluppato oltremodo le facoltà telepatiche. Il Mago, contattato, gli conferma la visita dell’Eremita. La sua espressione diventa benigna e comprensiva.  “Allora Zero, raccontami cosa sta succedendo.”
  “Ci stiamo riunendo tutti nella dimora dell’Eremita, per fare quadrato contro l’invadenza delle Voci. Vogliono tappare la bocca a un professore che in un sito ha illustrato le origini dei Tarocchi. E poi Arcitorre è riuscito a distillare ventidue pepite d’oro e ci porta a vedere i suoi trofei nuovi di zecca.”
  “Beh! Stando così le cose, penso di raggiungervi sicuramente.  Anche perché avverto una frattura molto prossima della curva spazio-temporale. L’inconscio collettivo genera paure. E poi  le tensioni apocalittiche sopite si materializzano sempre, in qualche modo.”
  Ascolta con qualche smorfia e discreta sorpresa il Folle, perché le intuizioni della Temperanza non riusciva a metterle a fuoco completamente. Comunque ripete l’importanza dell’invito. “E poi ci sono anche altre cose da discutere e definire insieme. Ti aspettiamo. Addio.”
  Frettolosamente si congeda, con una stretta di mano, anche se non erano mai stati amici sinceri. Il Folle, quasi immediatamente, dopo avere contato i consueti ventidue passi (per darsi una logica in quello che faceva, contava sempre i passi quando cambiava idea) compie un dietro fronte e si presenta di nuovo in faccia al suo interlocutore. “Hai dimenticato forse qualcosa?”
  “Ho una certa fretta, oggi. Comunque, detto per inciso, quella notazione sulla frattura della curva temporale, io proprio non l’ho capita, se devo essere sincero. Me la puoi spiegare? Altrimenti questa sera ci penso su, mi arrovello e non dormo.”
  “Dormi? Senti il bisogno di dormire e vi riesci?”
  “Non proprio, mi rilasso. Recupero le energie. Io ho modellato i miei comportamenti sugli umani e faccio una certa distinzione tra il giorno e la notte. Per via che spesso tento di sognare, ma questa è un’altra storia.”
  La Temperanza diventa seria e usa il tono esplicativo del padre quando fa una lezione a un bambino. “Il tempo della dimensione terrena è scandito dalla posizione degli astri. Il Sole sembra fisso rispetto a noi, ma si muove congiuntamente a tutto il proprio sistema planetario. Quando ci si approssima a un buco nero, lo spazio e il tempo cominciano a curvarsi.”
  Il Folle non gradiva molto i professoroni per la loro sicumera e presunta superiorità intellettuale. “Hai seguito un corso di fisica astronomica alla Sorbona?”
  “Diciamo che un corso di laurea non basta. Se il sapere, non ti entra dentro, non serve a niente.”
  “Allora cosa intendi dire veramente?”
  “Che le nostre conoscenze dovrebbero essere in grado di trasformarci. Altrimenti sono passeggiate oziose. Diletti vuoti dello spirito. Tanti libri di sapienza vanno a riempire le scaffalature, ma non scalfiscono chi li possiede.”
  “Cerca d’essere più chiaro, altrimenti si fa notte.”
  “Il percorso spazio-temporale del mondo è stato già descritto, alle origini, dai mitici programmatori. Prendilo come un postulato esistenziale.”
  “Con una certa difficoltà ti seguo. Vai avanti.”
  “Bene. Siamo come una biglia che corre su di un biliardo cosmico, dove tutto già è descritto: dall’inizio alla fine. Quando ci si approssima alla fine, il buco nero riassorbe tutto. Nella prossimità del buco nero occorre appunto una frattura nella curva temporale. Il tempo là è sempre lo stesso. Qui gli istanti sembrano differenti.”
  “Non posso vederci chiaro in un attimo, ma diciamo che la spiegazione è confortante per un principiante. Io sostengo che il filone catastrofico, alimentato dai film e dal web, può contribuire realmente ad amplificare le paure apocalittiche della gente.”
  “Osservazione acuta per uno Zero, alquanto intelligente e il maestro doveva essere più generoso verso di te. Quello che sta avvenendo nel profondo della psiche, non può non influenzare ciò che accadrà inevitabilmente nel macrocosmo. Secondo un detto cinese, il battito delle ali delle farfalle può generare un vento tempestoso.”
  “S’impara sempre molto. Cercherò di mettere da parte i miei infondati pregiudizi. Tornerò da te per fare quattro chiacchiere, se non disturbo.”
  “Certo Zero, torna pure, rivedrò un amico con piacere.”
  “E, mi raccomando, amica Temperanza, non cadere in un buco nero, prima d’essere comparsa alla riunione degli Arcani. Dopo sei libera di restarci quanto vuoi.” Solo allora, il Folle prende a considerare quel terribile buco nero. Se per lui era facile scivolare e risalire dall’abisso, nessuno finora aveva raccontato d’avere fatto visita a un buco nero per prendere un tè ed era tornato indietro con qualche biscotto in tasca.
 
 
 
 
32
L’Appeso lascia l’albero del supplizio
 
 
Allo Zero la prossima destinazione non dispiaceva affatto. Tra tutte le visite insidiose previste, era veramente l’unica che meritava d’essere affrontata con tutta la calma possibile e con l’animo del naturalista. 
  Giunto al porto di Napoli con il tappeto volante, s’imbarca sul traghetto che partiva con destinazione Stromboli. Tra i passeggeri sceglie una giovane coppia d’escursionisti svizzeri. Sapevano scalare le vette per essere nati tra le montagne e avevano portato tutto l’occorrente: dalle borracce, alle scarpe da trekking, al sacco a pelo. E poi non sarebbero scivolati durante quella difficile ascesa che richiedeva fisici robusti e abituati agli sforzi. Il tratto di salita era impervio e bisognava camminare per tre ore di fila. Si partiva durante il pomeriggio, per arrivare prima che sopraggiungesse la notte. La guida controllava che i membri del gruppo fossero provvisti di tutto l’occorrente ed esigeva che ciascuna persona avesse una pila e fosse munita anche di batterie di scorta. 
  Negli ultimi tempi, da quando il turismo di massa era esploso, lo Zero per recarsi a trovare l’Appeso usava sempre lo stesso sistema: poteva così risparmiarsi un sacco di strada a piedi in salita, perché detestava arrivare in cima, sudato e stremato. S’immedesimava tanto in quello che faceva, al punto di riuscire persino a sentire la fatica dello sforzo. Cosa che avrebbe fatto ridere veramente tutti, se lo avesse mai raccontato. 
  Nell’ultimo tratto, in un viottolo laterale, mentre il Folle va spedito a incontrare il dodicesimo Arcano verso la sua alquanto lugubre dimora, avvertiva ancora la sensazione della stretta di mano ricevuta poc’anzi dalla Temperanza, così diversa dalle altre, così intensa. Più di una volta, lungo il cammino che portava alle pendici del monte, aveva osservato la palma della mano, per vedere se avesse cambiato colore, o se vi fosse rimasto un segno di quel contatto. Essa emanava la piacevole sensazione di portarsi appresso i poteri straordinari che la Temperanza, in segno di amicizia, aveva voluto trasferire al Folle nel momento del congedo. Lo Zero non si sente più solo; con più ottimismo e con maggiore determinazione affronta la ripida salita finale e le varie insidie del terreno che sembravano fatte apposta per scoraggiare il viandante di quelle brulle e inospitali contrade, dove il terreno era tutto di pietra di color ferrigno.
  Nell’arcipelago delle Eolie, l’isola di Stromboli, famosa per le sue sarabande eruttive, ospitava l’Appeso in uno dei tanti sentieri naturali che conducevano alle cime del vulcano, frequentate perennemente da escursionisti, amanti degli spettacoli pirotecnici naturali. Di notte giungevano spettatori anche dal mare. Barche di ogni dimensione sostavano di fronte alla Sciara del Fuoco per ammirare le esplosioni crateriche. Anche il Folle, con la scusa di scambiare quattro chiacchiere con l’amico confinato nel suo limbo vulcanico, poteva godersi quei bagliori che squarciavano le tenebre da oltre duecentomila anni. 
  Il dodicesimo Arcano trascorreva il suo tempo appeso, con la testa all’ingiù e un piede legato con una fune a uno sperone di lava, simile a un tronco d’albero, rinsecchito: una delle tante stravaganti formazioni vulcaniche, che il vento e la pioggia avevano levigato e modellato, come sa fare solo la natura quando vuole meravigliare. Le ramificazioni laviche sembravano vive ed essere state recise di recente, perché una linfa, color ambra, ancor fresca e molle, fuoriusciva e dava l’impressione che stessero sanguinando e il supplizio inferto avesse attinto anche le concrezioni del vulcano.
  Sotto l’Appeso, la terra, spaccata, era scossa da periodici e brevi movimenti tellurici. Dalle crepe laviche fuoriuscivano esalazioni inconfondibili di zolfo emanate dal vulcano sotterraneo. La fenditura maggiore costituiva già idealmente un sarcofago pronto ad accogliere il corpo paziente dell’Appeso, la cui testa e la cui capigliatura erano sospese nel vuoto e sembravano conficcate nel ventre stesso della terra, come le radici di un albero.
  Il Folle di solito ironizzava su tutto, ma nei confronti del dodicesimo Arcano provava soggezione e rispetto e non era riuscito mai ad affibbiargli un nomignolo credibile anche ai suoi occhi irriverenti. Da pipistrello a equilibrista: gli appellativi cambiavano, ma non trovavano mai una conferma duratura. Alla fine il Folle aveva scelto di chiamarlo appeso, com’erano abituati a fare gli umani, che questa volta avevano azzeccato il nome, per cui non valeva la pena ribattezzarlo.
  Il Folle rispettava la vocazione sacrificale dell’Appeso, ma non la intendeva nella sostanza. La sua dedizione e la sua sofferenza gli sembravano esagerate, perché poi alla fine nessuno riconosceva i suoi meriti ed era rimasto confinato, in quel vulcano aspro, lontano da ogni contatto, dimenticato dagli umani e dagli Arcani. Era andato a trovarlo diverse volte, anche per convincerlo a lasciare quell’incomoda posizione e a scendere con lui verso il mondo a fare quattro passi e quattro risate a spese degli sciocchi. 
  Avvinto al suo mistico patibolo, l’Appeso però aveva sempre cortesemente rifiutato ogni diversivo ed era rimasto lì, come simbolo eterno di coerenza e di dedizione alla sublime causa dell’esempio morale. In sintonia con il proprio numero dodici, fra tutti i Tarocchi, l’Appeso era l’unico che, quando era stato evocato, aveva presenziato il proprio oracolo solamente per dodici volte: una sola volta ogni dodici anni. Adesso, essendosi esaurite le valenze cabalistiche, non visitava più nessun cartomante e non rispondeva personalmente più a nessuna chiamata.
  Stava immobile, con i capelli folti e lunghissimi, penzolanti nel vuoto e sollevati a tratti dalle fumate di zolfo. Il corpo a intervalli ballonzolava terribilmente per le scosse telluriche e sembrava un grande pendolo che andava su e giù. L’Appeso, instancabile, neppure muoveva dalla sua posizione abituale la gamba sinistra, flessa a croce sull’altra. 
  Un poco al Folle veniva da ridere, ma poi si sente sopraffatto da un moto di tenerezza rispettosa. Non sa trovare una maniera adeguata per farlo uscire dalla meditazione in cui era immerso. Gli viene in mente di sfuggita la barzelletta del pipistrello confezionata a misura per lui, ma per rispetto mai divulgata e tenuta per sé.  L’Appeso apre gli occhi e va giù diretto: “Ti ho pizzicato! Oggi quella barzelletta me la devi raccontare. Ogni volta ti passa per la mente e la fai scivolare via, verso l’abisso. Se non me la racconti non dirò più nulla, neanche se mi preghi in ginocchio.”
  “Non fa ridere. Te ne dico un’altra migliore.”
  “No. Voglio quella del pipistrello. Conosco già un poco come comincia, non cambiarla strada facendo che mi accorgo della bugia.”
  “Bene. Te la racconto. Anche se ci sono altre validissime ragioni che giustificano la mia visita qui.
   C’era un vecchio pipistrello al quale non si rizzavano più gli attributi; aveva passato tanto tempo capovolto che il passerotto gli cadeva giù in direzione del naso. Però non aveva smesso di sbirciare le ragazze pipistrello, che mostravano certi boschetti veramente piacevoli. Nella maniera più sfrontata, senza alcun ritegno, proprio per provocarlo, gli si piazzavano davanti ed esibivano tutta la loro mercanzia. 
  Allora decide d’andare da un gufo stregone, il quale gli prescrive come rimedio d’imparare a suonare il flauto. Il vecchio pipistrello s’irrita e fa intendere a chiare note che non era rimbambito. Il gufo conferma e precisa la sua cura dicendo che gli avrebbe procurato un flauto magico. E in effetti, quando il vecchio pipistrello zufolava, il suo pistolino si rizzava. Lo strumento musicale per lui era pesante e il vecchio pipistrello, per non cadere da dove era abbarbicato, doveva stare in piedi e le ragazze pipistrello erano abituate a farsi ciurlare stando appese. 
  Allora il vecchio pipistrello inviperito torna dal gufo, per dire che il verso del suo dardo non collimava con quello della farfallina delle ragazze pipistrello e che non era soddisfatto del rimedio. ‘Allora sei proprio imbecille – gli risponde subito il gufo – Ne chiami una accanto a te e dici che le vuoi leggere una favola. Poi la fai sedere in braccio e improvvisamente ispirato ti metti a suonare il piffero. Insomma uno stratagemma per far mutare loro di posizione.’ 
  Il giorno dopo il vecchio pipistrello fa osservare al gufo che aveva seguito il suo consiglio, ma nel corso della favola tutte si erano addormentate, prima di accorgersi della sopraggiunta novità. ‘Allora te lo ripeto una seconda volta, sei proprio imbecille! – gli ribatte duro il gufo - Ti devo dire proprio tutto. Non hai fantasia. Suona prima il piffero e poi le chiami al tuo fianco per leggere loro la favola.’
  Ancora una volta il vecchio pipistrello segue alla lettera le indicazioni del gufo. Tutte le ragazze pipistrello insistevano perché continuasse a raccontare la sua favola: la migliore mai ascoltata e si lasciavano poco attrarre da quel fischietto che conoscevano a memoria. E il gufo tenace lo sprona ancora, perché narri non la più bella tra le favole, ma la più nota e nella maniera  peggiore possibile.
  Non vedendolo più, il gufo curioso va a trovare personalmente il vecchio pipistrello e lo immaginava già felice e contento di essere finalmente andato a segno. Lo trova addormentato che russava con il suo arnese ancora armato. ‘Allora, com’è andata?’ 
  ‘Male.’
  ‘Non sembra a vederti. Racconta.’ 
  ‘Ho zufolato, prima di tutto. Poi mi sono messo a raccontare la peggiore delle favole possibili. Sono stato interrotto da due ragazze pipistrello. Hanno insistito per raccontarmi una storiella decente, tanto carina che come vedi mi sono addormentato.’
  Da quel giorno, la vergogna per quella cattiva figura fu tanta che il passerotto del vecchio pipistrello non si sollevò, neppure con le note del flauto magico. Morale della favola: non assumere mai troppo a lungo la posizione dell’Appeso.”
  Al nominato la barzelletta su misura, confezionata dal Folle, piace abbastanza e si lascia scappare un mezzo sorriso, che non illuminava il suo viso imperturbato da secoli. “Puoi farla circolare liberamente adesso. E’ simpatica. Non capisco perché l’hai tenuta nascosta per tutto questo tempo.”
  “Pensavo ti offendesse troppo.” 
  “Al contrario, per ironizzare su qualcuno bisogna pure simpatizzare con lui, condividere un briciolo della sua vita.”
  “Allora adesso fammi il favore di scendere dalla posizione prediletta e vieni a sentire, quaggiù, quello che ho da dirti. Così ti abitui anche un poco a stare in piedi e a camminare. Dovrai fare un poco di strada per venirci a trovare.”
  “Venirvi a trovare? Ma siete matti, io sono secoli che non mi muovo da qui.”
  “No, veramente il matto autentico sei proprio tu, che te ne stai appollaiato sul tuo trespolo di pappagallo. Non mi va di parlare con uno che mi vede capovolto.”
  “Beh, se non ci riesci, fai lavorare la fantasia, o capovolgiti tu.”
  “Ascolta bene Appeso. Questa conversazione sta prendendo una piega che non mi piace. Cerca d’essere flessibile e disponibile una sola volta nella tua vita. Fai un’eccezione per un amico, perché tale io sono e l’ho dimostrato in passato, venendoti spesso a trovare. Scendi giù e parliamo seriamente. L’esistenza degli Arcani è minacciata da un complotto gigantesco ordito ai nostri danni. Dimentica per qualche giorno le tue sublimi ragioni. Siamo disposti a erigerti un monumento se ci aiuti.”
  “Scendo proprio perché sei tu a chiedermelo. Così potremo vedere le cose dallo stesso verso.”
  “Questo è l’invito! Firmato dall’Eremita!”
  L’Appeso neppure lo legge e lo infila direttamente nel taschino del suo giubbetto. “Raccontami i retroscena che contano.”
  “Uno studioso di Tarocchi parla fin troppo bene di noi in una specie di giornale elettronico.”
  “Non so cosa sia un giornale elettronico.”
  “Certo. Ti sei voluto isolare dal mondo e non sai niente del progresso. Sei rimasto alle pergamene. Non hai neppure saputo nulla dell’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Johann Gutenberg.”
  “Per trasmettere il proprio pensiero c’erano le pergamene. Bastavano. Non c’era bisogno d’inventare altro. Comunque sui numeri mi sono tenuto sempre aggiornato. Ne avrai presto una dimostrazione.”
  “Ascolta questa! L’Uomo dei Tarocchi ha studiato l’origine dei Trionfi ed ha messo in agitazione le Voci. Si stanno mobilitando contro di lui e ci hanno chiamato per schierarci con loro.”
  “Questo mi piace assai poco.”
  “Poi c’è di mezzo una combinazione di Arcani, 9-2-15-4-5-6-21 che si interseca con una profezia attribuita all’Imperatore Federico II. E per questo ci s’incontra tutti a casa dell’Eremita. Tu non sai, dove sta. Quindi vieni con me e, lungo la strada, t’istruisco anche un poco.”
  L’Appeso si lascia convincere e decide di seguire il Folle, perché si rende conto che il suo apporto avrebbe potuto aiutare la causa comune degli Arcani.
  Per riprendere il mare, non bisognava aspettare il transito degli appassionati che passavano la notte in vetta e discendevano a valle verso le prime luci dell’alba. Il Folle, munito di pila, inizia la discesa davanti, per primo; l’Appeso si limita a stargli dietro, senza parlare, per non interrompere la sua meditazione.
‘Taciti, soli, senza compagnia
n’andavan, l’un dinanzi e l’altro dopo,
come i frati minor van per via.’
  Pensa ai versi del suo poeta prediletto. Lo Zero aveva letto e riletto il capolavoro dantesco, condividendo qualche piccola gloria, per delle strofette fatte entrare a fatica nella granitica tempra del ghibellin fuggiasco.
 
 
33
La Dimora della Ruota della Fortuna
 
A causa dei fastidiosi e improvvisi peti del suo battistrada, l’Appeso risolve di mettersi a fianco del Folle, il quale, approfittando dell’opportunità offertagli dalla lunga discesa verso la riva del mare, comincia a ragguagliarlo sulla singolare vicenda dell’Uomo dei Tarocchi e nello stesso tempo cerca d’informarlo sulle più importanti novità accadute nel mondo negli ultimi secoli. Non era un compito facile, ma i tempi d’apprendimento di un Arcano erano molto più rapidi di quelli di un uomo, per cui contava di recuperarlo per quando era stata fissata l’assemblea. L’Appeso poi lo sorprendeva per la curiosità e le acute osservazioni: sembrava un ragazzo diligente in grado di divorare un intero libro nello spazio di pochi minuti.
  Giunto a destinazione, il Folle srotola il suo tappeto, su cui l’Appeso si accomoda con una certa familiarità, dando ad intendere che era il suo antico mezzo di trasporto preferito. “Da quale favola araba lo hai rubato?”
  “Ah! Questa poi! Se ci mettessimo a saccheggiare anche le novelle altrui, ci troveremmo ogni giorno coinvolti in storie che non sai mai come vanno a finire.”
  “Allora in quale bazar lo hai preso?”
  “L’ho fatto io. Nell’anno 1963, per dieci mesi, sono stato in volontario esilio, dove si fabbricano da secoli i tappeti persiani migliori. Per conoscere tutto su tecniche, filati, colori e disegni.”
  “Dove andiamo?”
  “A incontrare il decimo Arcano.”
  “L’ho perso di vista da secoli. Non ho proprio idea di dove sia andato a finire.”
  “Lo credo, confinato lassù, hai perso tutto il meglio dei pettegolezzi.”
  “Beh! Direi che me li sono risparmiati! Tu ovviamente ci sei già stato.”
“Sì, conosco il posto solo di passaggio. Ero in transito.”
  “Dimmi, dove sta.”
  “Un luogo niente di speciale. Dove anticamente sorgeva l’antica Civitas Praenestina. Ha eletto come sua dimora il complesso monumentale pagano dedicato alla Fortuna Primigenia.”
  “Insomma si è voluto mantenere coerente. In linea con la famiglia.”
  “All’ingresso della sua dimora ha messo due porte circolari in legno, del tutto simili alla famosa Bocca della Verità, da cui è nata la leggenda delle adultere, costrette a mettere la mano in quel pertugio, per palesare se avevano tradito il marito.”
  “Questa è storia che già conosco, Zero. Dimmi piuttosto delle porte circolari.”
  “Le vedrai a tempo debito. Adesso stai pronto che voliamo.” L’Appeso chiude gli occhi per pochi secondi e ascolta le grida dello Zero. “Scendi! Siamo arrivati!”
  “Già? Ai miei tempi i tappeti volanti erano meno veloci, puzzavano anche un poco e sobbalzavi come se stessi cavalcando un mulo!”
  “Lo vedi? Ti sei perso il progresso. Valeva la pena proprio scendere dalla trave del sacrificio.”
  “Non so; vediamo, sono appena agli inizi.”   
  Il simbolo universale della Ruota, comune a tutte le civiltà, indica l’andamento ciclico degli eventi cosmici. La parola zodiaco etimologicamente significa Ruota della vita. Anche l’icona della Ruota della Fortuna allude ai repentini mutamenti di direzione e quindi ai capricci del destino a cui sono sottoposti indistintamente gli uomini di ogni condizione sociale. L’Arcano era rimasto fedele alla sostanza della carta, anche se aveva rinunciato a ogni effetto spettacolare e terrificante e si era limitato ad adagiare a un lato delle due porte della propria dimora una semplice ruota di un carretto e dall’altro una ruota tutta intagliata e dipinta a mano, degna della carrozza di un re: voleva con questo indicare gli estremi della condizione umana che annovera fortunati magnati e poveri derelitti, ignorati dai favori delle stelle. Le due porte, entrambe circolari, raffiguravano un vecchio barbuto sorridente e un altro abbastanza corrucciato, aventi presso a poco la stessa fisionomia del grande mascherone di pietra, noto a tutti, a Roma, come la Bocca della Verità
  Appena il Folle giunge di fronte alle due porte della dimora, quasi rallenta il passo e palesa che le dicerie sulle sue strane paure avevano un certo fondamento. “Io mi sono sempre rifiutato di rispondere agli indovinelli. Sembra che una delle porte immetta direttamente nel nulla.”
  L’Appeso, meravigliato per quel timore infondato, irride le preoccupazioni del Folle. “Una dimora così semplice non deve nascondere nessun tipo di trabocchetto. Si tratta solo di una scelta puramente simbolica: due ruote e due porte. Una porta, infatti, è ancora grezza, quasi non finita e per questo il vecchio fa un’espressione dolente; la seconda invece è tutta lavorata, laccata, tirata a lucido e perciò il vecchio si mostra sorridente. Tutto è molto chiaro e non c’è nulla da temere!”
  “Se lo dici tu che sei un mistico ispirato, allora sono più tranquillo. Da quale entriamo?”
  “Non siamo degli straccioni. Scegliamo quella che si addice al nostro nobile rango.”
  “E se fosse una trappola? Entriamo insieme e ci facciamo ingannare nel medesimo tempo? Senza sapere dove andiamo a finire?”
  “Io ti precedo. Mi sacrifico in nome della causa. Se non dovessi tornare, al mio posto, riservato per la riunione degli Arcani, metterai la mia effigie.”
  Lo Zero si gettava a capofitto verso l’abisso, per risalirvi poi sorridente ed esitava di fronte ad una porta, che aveva tutta l’aria d’essere una pura decorazione simbolica. L’Appeso, ironizzando sul paradossale portamento del Folle, entra deciso attraverso la porta regale che si richiude subito. Il tentennante compagno rimane lì fermo ad aspettare che qualcuno si faccia di nuovo vivo, con un cenno della mano. 
  ‘E’ vero: non ci siamo messi d’accordo in tal senso, ma in genere succede che arrivi un segnale per andare avanti sicuri, perché non v’è alcun pericolo. Almeno questo accade sempre, in tutte le avventure che si rispettano.’Rifletteva il Folle. 
  Trascorre un certo tempo e lo Zero era sempre più agitato e nervoso: andava avanti e indietro, guardava e riguardava le porte; insomma doveva decidersi. Risolve d’entrare da quella più modesta, perché dell’altra, a suo avviso, non c’era da fidarsi. Così attraversa un lungo corridoio e si trova all’interno di una grande sala, dove i due Arcani stavano conversando amichevolmente.
  “Tutto questo tempo, per entrare? Pensavamo che avessi rinunciato definitivamente all’impresa.” Lo rimbrotta ridacchiando l’Appeso, il cui viso serioso pare illuminarsi di un sorriso, per la prima volta in tutta la sua esistenza. 
  Il particolare non sfugge al Folle e avrebbe voluto farglielo notare, ma non disturba quel momento d’ilarità giustificata del suo amico, che pareva trasfigurato da quando si erano messi in cammino. “Potevi almeno tornare indietro ad avvertirmi!”
  “L’avrei fatto, ma le due porte dall’interno rimangono bloccate e costringono gli indecisi come te ad andare avanti. Questa storia, se la racconto, potrebbe diventare una barzelletta e farà morire tutti dalle risate.”
  “Comunque, alla fine, ho vinto le mie fobie e sono entrato.”
  Tuttavia le parole dell’Appeso non avevano tranquillizzato del tutto il Folle, subito in apprensione per come sarebbero potuti uscire, se non era possibile aprire quelle due porte dall’interno. La voce ferma e rassicurante del padrone di casa interrompe la scherzosa schermaglia. “In fondo entrambe le porte implicano una decisione. Chi viene a trovare la Ruota della Fortuna deve mostrare di sapere scegliere, non importa che tipo di scelta faccia. Siate entrambi benvenuti.”
  Il decimo Arcano in segno di amicizia si alza e va incontro al Folle per stringergli la mano. “Gli ho spiegato già tutto. Sarà schierato al nostro fianco.” Puntualizza l’Appeso all’indirizzo del Folle.
  “Allora consegniamo l’invito. Salutiamo e ce ne andiamo.”
  Il Folle, sempre in ansia, non vedeva l’ora d’uscire, ma non voleva svelare altre paure ingiustificate. “Perché tanta fretta? Siediti e dì la tua.” Aggiunge subito l’Appeso.
  “E’ che sono un poco imbarazzato, ecco tutto. Sono venuto qui, devo confessarlo, diverse volte, tuttavia ho sempre girato i tacchi e sono tornato indietro.”
  “Forse non eri pronto, non avevi nulla d’importante da dirmi. Oggi vi era una valida ragione per essere qui. Quello che conta è sempre il punto d’arrivo, non di partenza. Evidentemente dover scegliere ad ogni costo non ti piaceva.”
  “Sì; è così. Il caso gioca sempre delle sorprese. A volte gradevoli, a volte sgradevoli. Non mi piace dipendere dal caso, quanto dalla mia volontà.”
  “Esatto: la volontà si contrappone al caso. Tu sei giunto sin qui perché sei tenace. Ora una schiera compatta di Arcani sta cercando insieme di capire. Prima ognuno era isolato nella sua amata dimora. Al tuo posto sarei fiero della tua impresa, amico, perché hai saputo rivoluzionare la nostra vita. Non devi per nulla rammaricarti di un’esitazione passeggera e giustificata.”
  Parlava con voce calma il decimo Arcano, dimostrando comprensione e rispetto per il peso delle decisioni che sempre tutti affrontano con grande travaglio interiore. Per questo si sentiva vicino alla vita d’ognuno e non disprezzava chi stenta, o crolla di fronte alla grande Ruota della Fortuna. Molto più attento del Folle, grazie al vizio antico di meditare a lungo sopra ogni piccola cosa, l’Appeso, nel corso della conversazione, aveva osservato sulla tunica dell’Arcano quattro lettere ricamate a forma di cruciverba.
R     O     T      A
O     R     A      T
T      A     R     O
A      T     O     R
E allora, in un baleno, senza bisogno d’appendersi a una fune penzolante dallo sperone di lava, riesce ad assumere la classica posizione della meditazione e del supplizio in cui il Folle l’aveva incontrato. 
  “Sai fare l’Appeso, anche senza quel palcoscenico spettrale in cui ti sei confinato! L’hai proprio nella testa la tua posizione prediletta!”
  “Taci creatura blasfema e non mi distrarre. Voglio meditare sulle quattro lettere della Ruota della Fortuna.”
  “E perché mai, adesso e d’improvviso, ti vai a impicciare di lettere che non sono tue. Non è il momento, proprio ora che abbiamo cose più importanti da fare. Salvo che non voglia restare nella dimora di un amico, che non ti ha invitato a restarci per l’eternità!”
  “Caro il mio Zero, adesso voglio dimostrarti le mie competenze sui numeri.”
  “Ti credo sulla parola.”
“Ora ascolta Zero, che impari qualcosa! Le lettere T , A,  R,  O sono riconducibili rispettivamente ai numeri 18, 1, 16, 13. * La somma dei numeri 18 + 1 + 16 + 13 equivale al numero 48. Il primo membro del numero 48 è il 4, il secondo membro è l’8: 4 sono i gli elementi fondamentali della vita; 8 personifica l’equilibrio. TARO indica il perfetto equilibrio dei 4 elementi fondamentali. Le 4 lettere e le 4 Voci: ROTA, ORAT, TARO e ATOR esprimono 4 differenti combinazioni, il cui risultato è l’essenza stessa del Divenire espressa sempre dal numero 48.”
  L’Appeso continuava concentrato nella sua analisi, incurante dell’invito a smetterla del Folle, il quale stava quasi per perdere la pazienza e soprattutto non vedeva l’ora di andarsene e scommetteva sull’esistenza di una terza porta segreta.
  “La costante fisica della velocità della luce è stata misurata: c equivale a 299.792. 458 metri al secondo. Tale numero se ridotto** dà esattamente 55, ovvero un 5 + 5 equivalente al numero 10. La cabala analizza la costante c alla luce del Divenire. I Tarocchi descrivono il Divenire in tutte le sue sfaccettature. La ROTA, il numero 10, ne è la sintesi. Esaminiamo il numero 10: 1 e lo zero mostrano il primo Arcano che scaturisce fuori dal nulla, dallo zero originario da cui siamo partiti.”
  La Ruota della Fortuna, estasiata, prova la tentazione d’inginocchiarsi di fronte all’Appeso come dinanzi a un profeta illuminato, ma si frena e mantiene un certo portamento distaccato. Le 4 lettere ricamate sulla sua tunica frattanto cominciano a brillare.
  Malgrado non condividesse certe passioni per i numeri, anche il Folle stralunato sembra toccato dall’analisi cabalistica dell’Appeso. Seduto sulla terra, traccia con un dito un cerchio perfetto, come faceva talora nelle circostanze che contavano. Solo così riusciva ad aprire uno spiraglio per calarsi a capofitto nell’abisso e sparirvi dentro. Non ce la faceva più a sopportare quella prigionia e proprio nel familiare zero primordiale riesce a trovare sollievo e l’agognata libertà.
 
Per conoscere le corrispondenze tra le lettere dell’alfabeto e i Numeri consigliamo di sbirciare la seconda Tabella annessa alla premessa del romanzo.
** La riduzione di un numero equivale alla somma delle cifre che lo compongono.
 La velocità della luce è stata misurata in metri al secondo.
299.792.458 = 2+9+9+7+9+2+4+5+8 = 55
55 = 5 + 5 = 10 
 
 
34
L’Auriga traghetta l’Eremita su Eusfera
 
Secondo il professor Leandro la nomenclatura dei Trionfi aveva la sua importanza e gli abili manipolatori dell’Inquisizione non solo avevano alterato le effigi, ma, astutamente, anche i nomi originari, apportando modifiche concettuali abbastanza raffinate e consistenti. A suo giudizio, nella mutevole e variegata iconografia dei Tarocchi, sempre alle prese con sopraggiunte novità, partorite dalla fantasia di qualche improvvisato copista, il più consolidato e il meno manipolato era il Trionfo Numero 7, raffigurante un auriga eretto a guida del suo cocchio, trascinato da un animale mitologico. Tuttavia la denominazione di Carro non rendeva giustizia alla vera natura della carta, sottraendole meriti e profondità. Comunque il gioco sottile dei nomi, dalle varie sfumature, in quanto meno appariscente delle immagini, contribuiva, in maniera indiretta e più subdola, ad offuscare il disegno originario dell’intero sistema dei Tarocchi. 
  La carta del Carro, forse la più dinamica, secondo gli interpreti, annuncia successo, vittoria e cambiamenti positivi. L’Arcano, fedele interprete della tradizione iconografica, aveva sempre svolto un ruolo attivo e positivo, cercando di trasmettere a tutti, ottimismo e voglia di lottare, anche nelle circostanze più avverse. Nel corso dei secoli aveva accumulato saggezza e sapienza, virtù che gli avevano consentito di attingere un livello esistenziale più alto rispetto ai suoi simili ancora incapaci di distaccarsi dagli intrighi mondani. Proprio per essere riuscito a proiettarsi in una nicchia dimensionale, dominata dall’armonia e dall’equilibrio, era stato ribattezzato col nome di Ermes, il messaggero degli Dei, perché molto anticamente uno di loro aveva il compito specifico di mantenere i contatti con gli umani che ascoltavano, con sacro terrore, le comunicazioni indirizzate a individui meritevoli della benevola attenzione dei numi. Secondo la mitologia, i messaggi potevano essere decifrati solo da persone degne e col passare degli anni si erano fatti sempre più rari, anche perché nessuno era più riuscito ad ottenere il grado richiesto di perfezione. Ermes, negli ultimi sette anni, non era più disceso nel Mondo di Sotto, neppure per ascoltare gli oracoli dei cartomanti di chiara fama. Non si sentiva più attratto dalle frenesie terrene ed era rimasto prigioniero del suo stesso aureo isolamento.
  La chiave per accedere alla suprema Dimora, davvero irraggiungibile per chi non possedesse gli attributi morali per affrontare il viaggio, era nota all’Eremita, che già una volta aveva visitato Eusfera, in occasione di un rinvenimento archeologico abbastanza casuale, come avviene in quasi tutti gli scavi. Nell’anno 1896, in prossimità del santuario pagano di Delfi, era venuto alla luce un bronzo. La statua di un auriga, offerta ad Apollo, celebrava la vittoria nella corsa delle bighe nei giochi panellenici. Quel dono consentiva a un mortale di condividere la sua gloria terrena con gli Dei, assurgendo idealmente al loro livello.
  Il 26 agosto di quello stesso anno, Ermes e l’Eremita stavano ammirando, insieme ad altri studiosi ed esperti giunti da tutto il mondo, lo splendido reperto da poco scoperto e mostrato per la prima volta ad un pubblico ristretto e selezionato. Tutti i presenti erano rimasti attratti dallo sguardo sapiente dell’Auriga che sembrava condensare l’equilibrio sereno degli Dei. Ermes, folgorato dall’intuizione giusta, aveva invitato l’Eremita a montare con lui sulla biga. “Sali! Questa statua prodigiosa può condurci verso un’altra dimensione. Non è solamente materia scolpita. L’Auriga emana un’energia differente e considerevole. Dobbiamo solo captarla e lasciarci impregnare. Approfittiamo del fatto che tutti sono andati via, alle soglie dell’imbrunire.” Così era avvenuto il primo viaggio dimensionale dentro Eusfera. L’Auriga si era animato. Un comparso cavallo a due teste, mezzo bianco e mezzo nero, era stato imbrigliato. E, all’istante, il cocchio era partito su una scia di luce iridescente.
  Dovendo incontrare Ermes, per presentargli l’invito a partecipare all’Assemblea degli Arcani Maggiori, l’Eremita sa bene che può solamente servirsi dell’unico mezzo di locomozione che spalancava le porte di Eusfera.
  In perfetta sintonia con la natura dei luoghi circostanti, il santuario pagano di Delfi domina il mare e si erge supremo sopra i comuni mortali che a piedi devono percorrere sentieri e inerpicarsi verso la voce misteriosa degli oracoli scaturiti dalla sapienza dei numi. L’Eremita si affianca a un giovane olandese che con il suo zainetto in spalla voleva emozionarsi e ascendere, insieme ai suoi compagni, verso la meta oggi turistica, ma, un tempo, pregna di fascino spirituale. La comitiva scherzava, amava la natura e l’arte e si sentiva nobilitata dall’imperituro valore del bello che avrebbe incontrato nel Museo sovrastante.
  Il bronzo dell’Auriga di Delfi, imponente e un poco verdastro, svettava nella sala ed emanava una grande forza fisica e spirituale che investiva indistintamente tutti i visitatori. Catalizzando su di sé l’energia dei presenti, l’Eremita cerca di risvegliare l’attenzione del cocchiere, già conosciuto al primo viaggio, quando Ermes lo aveva trasportato personalmente in quella dimensione incontaminata. L’Auriga si anima e vaglia l’Eremita come fosse la prima volta, anche perché, nel frattempo, avrebbe potuto perdere certi attributi morali indispensabili per essere guidato.
  Subito dopo essere salito sul cocchio, l’Eremita comincia a entrare nella mitica dimensione degli Dei, seguendo la luce di un arcobaleno che era comparso in cielo. Dentro Eusfera la voce del silenzio attraversava le fibre del visitatore che si sentiva levitare in quell’aurea serenità.
  Ermes mostra d’essere già informato sulle ragioni che avevano stimolato quel viaggio. “Stavo aspettando con una certa impazienza l’arrivo del mio amico Eremita. Talora mi chiedo perché non viene più spesso qui, a rilassarsi un poco e preferisce invece segnare il passo su enigmi senza soluzione. In questi ultimi giorni però ho ricevuto la piena conferma delle tue ragioni. C’è aria di complotto nel Mondo di Sotto. Le arbitrarie interferenze delle Voci sono intollerabili.”
  “Allora siamo in perfetta sintonia, divino Ermes. Con sorpresa vedo che ti stai interessando a questa vicenda terrena. Cosa sei riuscito a captare dal tuo livello?”
  “Alcune anomalie oscillatorie indicano che la materia sta mutando. Queste anomalie hanno suscitato la mia attenzione e sembra esserci un nesso con gli esperimenti che vengono effettuati nel grande acceleratore di particelle, a Ginevra.  Dobbiamo considerare con più attenzione le vibrazioni degli elementi fondamentali della vita: il minimo comune denominatore della genesi del tutto. Il chimico francese, Antoine de Lavoisier, descrisse il meccanismo delle trasformazioni, sostenendo che nulla si crea e nulla si distrugge, ma, come riconoscimento al suo genio, fu spedito alla ghigliottina. Così gli impedirono di sviscerare certe sue altre intuizioni rivoluzionarie che avrebbero assegnato al microcosmo un ruolo insospettato nella genesi della vita.”
  “Allora la nostra assemblea non è più tanto casuale, ma indispensabile. E cade nel momento più opportuno. Ti esorto, divino Ermes, torniamo al Mondo di Sotto senza troppi indugi.”
  “Aspetta caro Eremita. Devi prima essere istruito sulle stranezze dei flussi cognitivi, quando si valicano le porte dimensionali.”
 “Ti ascolto con attenzione.”
  “Certo saprai che l’attraversamento della sfera onirica comporta una perdita consistente di dati mnemonici.”
  “Lo so, tuttavia la censura dei sogni prospettata da Freud, mi sembra abbia un suo fondamento e non mi sento del tutto di ricusarla.”
  “In sostanza, dotto Eremita, ogni volta che attraversiamo una particolare dimensione la nostra memoria viene distorta. I processi cognitivi non sono i medesimi, perché il contesto muta sostanzialmente. Il fenomeno, a cui sto accennando, è assai complesso e difficile da spiegare. Tuttavia dobbiamo farci bene attenzione entrambi, perché quando saremo nel Mondo di Sotto, dimenticheremo molte delle nostre conoscenze, giacché vedremo le cose da un’altra prospettiva. In passato, per ovviare questo inconveniente, tracciavo degli appunti che mettevo in una tasca. Spesso non ricordavo neppure di averli vergati di mio pugno e se per caso li incontravo e ne prendevo visione, non riuscivo a dare loro la giusta importanza perché non avevano per me la stessa valenza di quando li avevo scritti.”
  “Ermes, pare quasi che un demone confonda la coscienza, sempre.”
  “E’ parso anche a me, altre volte, Eremita. Comunque la conoscenza dei fatti sostanziali deve avere una sua motivazione interiore. Dobbiamo trovare gli stimoli per attivare la nostra volontà di capire. Sul piano terreno la nostra struttura si modifica, la nostra memoria viene in parte alterata, percepiremo un altro mondo e in maniera differente. Dobbiamo trovare uno stratagemma. Lasciare delle tracce.”
  “Potrei incidere un messaggio nel vetro della mia lanterna. Di notte essa invierà una luce differente, me ne accorgerò sicuramente e andrò a vedere perché.”
“Potrebbe funzionare. Bravo!”
“Tuttavia lo spazio è poco. L’incisione poi deve essere netta e precisa. Quale messaggio in codice devo scrivere?”
  “V barra E. Ossia rimarcare la vibrazione, correlata agli elementi fondamentali della vita. Inoltre indichiamo pure la famosa sequenza numerica degli Arcani maggiori: con 9 barra 21. Essa verosimilmente indica la frequenza e l’intensità di tale vibrazione; la quantifica dal punto di vista dei numeri. Quasi certamente dovremmo essere in grado di ricostruire e di interpretare il messaggio.”
  Come stabilito, l’Eremita con molta cura e precisione incide sulla propria lanterna un crittogramma.
V/E    9/21
  Poi Ermes richiama l’Auriga, affinché li riporti nel Mondo di Sotto.
 
 
35
Riflessioni sulla massima ‘conoscere è ricordare
 
“Il punto essenziale da cui dobbiamo partire è la massima di Platone: conoscere è ricordare. La sto ripetendo tra me, fin da quando abbiamo lasciato Eusfera.” L’Eremita si esprime con decisione, appena l’Auriga si posa sulla radura, sovrastante il Museo, dove approdava regolarmente dopo la fine di ogni viaggio dimensionale. 
  Prima di rispondere, Ermes, spaesato, si guarda un poco attorno. “Ogni volta faccio fatica ad adattarmi. Su Eusfera ero temprato dalle mie consapevolezze e qui, ora, mi sento più vulnerabile, come se mi fossi risvegliato da un lungo sonno e non riuscissi a ritrovare appieno la mia identità.”
  L’Eremita ripete il concetto prima espresso, per non dimenticarlo. “Io sono convinto che dobbiamo partire da Platone. Se l’essenza della conoscenza sta nel ricordare, perché abbiamo dimenticato? Gli Dei forse hanno cancellato la nostra memoria, per motivi imperscrutabili? L’oblio ci confonde, non ci appaga.”
  “Eremita, hai detto bene. Gli Dei hanno voluto cancellare via elementi rilevanti dalla nostra memoria. Mi chiedo perché mai un dio, buono e premuroso, dovrebbe fare questo e condannarci a inseguire una conoscenza oscura e costellata di mille insidie?”
  L’Eremita frattanto scende dalla biga e comincia a fare strada. Ha una certa premura, ma preferisce subito una breve sosta. All’uscita dalla radura protetta, incontra le chiare e fresche acque di un ruscello, adatte a una pausa ristoratrice. Depone la lanterna e distende il mantello sull’erba, come aveva tante volte visto fare agli umani, quando andavano in campagna a fare un picnic. Poi invita il suo interlocutore, con meno familiarità a quei rituali terreni, a sedersi con lui. “Divino Ermes, secondo te gli Dei sono buoni e premurosi? Spesso nel mio girovagare mi sono imbattuto in entità spirituali poderose. Sembravano inseguire tutto, tranne che virtù e conoscenza.”
  “Hai ragione, mio dotto amico. Piuttosto quel dio non è premuroso, e vuole sfuggire a un possibile incontro. Forse non vuole farsi riconoscere apertamente, perché la sua natura è malvagia. Non è un dio, ma un demone; non si lascia esplorare, confonde le sue tracce e si nasconde alla nostra vista.”
  “Allora Ermes le nostre origini non sono divine? Gli Dei, da tempo silenti, non esistono? Non interagiscono più con il Mondo di Sotto e invece un demone controlla e seleziona le nostre conoscenze, rendendo alcune possibili ed altre impossibili?”
  “Probabile sia proprio così, Eremita. Se gli Dei esistono, sono assai lontani. Forse osservano interdetti, perché non vogliono, o non possono intervenire. Mentre l’astuto demone sembra sia in grado di fare quello che vuole. Non è forse il mondo degli umani dominato da una moltitudine di malvagi? Il male non è ovunque più tangibile del bene?”
  “Secondo la teologia, Dio ha creato gli uomini liberi di scegliere il bene, o il male. E poi dobbiamo tenere conto delle tentazioni operate dal Demonio. Insomma i patrocinatori del male sono un poco ovunque. Prendi questo mantello, l’ho dovuto concepire e lo devo portare sempre con me, per proteggermi dalle presenze malvagie.”
  “E questa lanterna che hai messo in mezzo, Eremita, non serve forse a illuminare anche la tua mente? Come reagisce quando incontra un malvagio?”
  “Vedi divino Ermes, questa esile fiamma, che appena s’intravede, si avvampa come un fuoco e mi avverte del pericolo. Ed io posso allontanarmi indisturbato.”
  “Eremita, ora dimmi. Non è certo la prima volta che ti siedi a parlottare con un amico. E dopo ci si alza sempre con gli stessi interrogativi. Perché?”
 “Forse per i nostri limiti.”
  “Allora Eremita dobbiamo concludere che siamo tutti idioti? Da secoli non ne abbiamo cavato un ragno dal buco. Il mistero persiste.”
  “Dio si allontana sempre. Ineffabile: è questo l’attributo che gli conferiscono gli ebrei, consapevoli che la sua natura non può essere descritta.”
  “Vedi Eremita sembra che l’Ente Supremo abbia lasciato il mondo in balìa del male. Il Supremo si nasconde e parla solo agli eletti. Non è un padre amoroso, assomiglia piuttosto a un sovrano assoluto, a un despota. Il male invece è tangibile: il suo demone sta nascosto in qualche oscuro meandro della psiche e non si manifesta nella sua interezza. Ci inganna nelle nostre stesse conoscenze.”
  “Divino Ermes, hai toccato il nocciolo della questione. Quel demone che oscura la nostra conoscenza ha paura di essere analizzato. Perché la nostra indagine porterebbe diretti fino a lui. Nel mondo terreno accade la stessa cosa. La logica è la medesima, su qualunque piano. Se un padre nasconde qualcosa al figlio, lo fa per proteggere se stesso, non la propria creatura.”
  “Allora siamo d’accordo, dotto Eremita. Per conoscere bisogna ricordare. Tuttavia un demone oscura il ricordo. Non vuole farci sapere la verità. Il nostro sapere indebolirebbe la sua natura. Inoltre questo demone è assai potente, perché finora ha scoraggiato ogni tipo d’investigazione. Insisto nel dire che sono secoli che ci interroghiamo e non arriviamo mai al nocciolo. Com’è possibile questo?”
  “Ho la sensazione, divino Ermes, che il demone ascolti i nostri pensieri, che vigili ovunque, possente come Dio. E quando ci accostiamo alla verità, l’allontana, la confonde. E’ possibile solo se ammettiamo che esiste un meccanismo oscuro nella nostra coscienza di Arcani. Noi siamo in parte una proiezione degli umani e quindi dobbiamo supporre che tale meccanismo esista anche nel loro inconscio, ben celato ma vigile.”
  “Come accade nei sogni degli umani, Eremita. Non riescono a ricordare. Esiste pare un meccanismo di censura dei sogni, sul quale poco si è approfondito. Uno spiraglio. Filtrato chissà come e poi caduto quasi nel dimenticatoio.  Una forza inconscia manipola e censura, vigila e guida con il piglio autoritario del despota. Un’oscura presenza si nasconde e si sottrae ad ogni analisi.”
  “Divino Ermes ora, finalmente, ho capito. Ci hai illuminati tutti. L’inconscio opera una censura sulla coscienza e impedisce di ricostruire le proprie origini. L’inconscio alimenta il mistero e genera l’idea stessa di un Dio unico, creatore e signore di tutte le cose.”
  “Adesso, dotto Eremita, finalmente possiamo dire di avere ricordato. Domani però avremo la stessa consapevolezza?”
  “Certo questa è un’osservazione sensata. Perché la censura entra in azione sui ricordi originari e cancella via le informazioni. Sulla lavagna della memoria, il gesso si libra, come polvere nell’aria, annebbiando la vista.”
  “In conclusione aveva ragione Platone. Conoscere è ricordare. Tuttavia non possiamo ricordare perché la censura oscura il ricordo originario. Dunque parrebbe inutile ogni speculazione presente e futura che pare condannata all’oblio.”
  “Ed io allora ti chiedo divino Ermes. Come fai a vivere in quell’aurea serenità? Sapendo che ogni tua percezione, o sensazione, o idea, non potrà mai essere condivisa con nessuno, ma è destinata per sempre all’oblio?”
  “Io posso vivere di riflesso nel vostro quotidiano sudore e respirare il profumo della terra dopo un temporale. Posso sentire la vostra ansia infinita e poi aspetto che un altro riesca a fare lo stesso percorso. E tu amico, sei asceso al mio livello più di una volta. Poi sei tornato con tenacia indietro, forse per trarre altri al seguito. Preferisci vivere in un gradino inferiore, più frequentato, con tanti compagni di strada.” 
  “Tu certo non ne sei informato, divino Ermes, perché nessun messaggero terreno percorre i lidi di Eusfera, ma l’Uomo dei Tarocchi ha scritto un trattato che ricostruisce le origini storiche e filosofiche dei Trionfi. Questo suo indagare sulle origini ha messo in moto un meccanismo collaudato di difesa. Nel corso dei tempi diversi scrittori sono stati condannati al rogo insieme ai loro libri, come opera del demonio. E’ un rituale che si ripete ciclicamente nei modi più disparati e camuffati. Le Voci vogliono zittire l’Uomo dei Tarocchi, ma soprattutto vogliono oscurare la nostra memoria.”
  “Quello che dici è molto interessante, dotto Eremita. Proprio adesso mi è parso evidente questo parallelismo. Noi Arcani in fondo non conosciamo le nostre vere origini, avvolte nel mistero, nella leggenda. Le icone non sono firmate. Subito dopo la loro nascita, possono essere state adulterate di proposito. Ed anche gli umani non conoscono esattamente le loro origini.”
  “Con vanto e presunzione, divino Ermes, l’Uomo sostiene di essere un’emanazione di Dio.”
  “Logico che dica così. Presume d’essere l’unica creatura intelligente del creato. Tutti gli altri sono considerati inferiori. Si sente al centro dell’universo, con un pianeta tutto a sua disposizione.”
  “Hai ragione, divino Ermes. Nessuna cultura mette in discussione il principio che la natura umana ha in sé qualcosa di divino. Sembra una sorta di dogma, consolidato dopo l’umanesimo. L’Uomo come misura di tutte le cose, secondo Marsilio Ficino.”
  “Vedi, dotto Eremita, deve essere così, perché altrimenti l’Uomo non riuscirebbe a giustificare le proprie azioni e il proprio dominio sulle altre creature terrestri. Lui è l’unico essere intelligente, creato appunto a immagine e somiglianza di Dio. Le religioni sono il fondamento stesso dell’umanesimo più integrale.”
  “Io insisto nel sostenere divino Ermes che la natura di questo Dio non è buona. E, proprio per suffragare il contrario, accade che gli uomini buoni siano considerati come preziose figurine da collezione. Si mettono in cornice. Si fanno santi.”
  “Il nostro avversario, dotto Eremita, sembra molto più potente di noi, ma stiamo qui a interrogarci, a fianco dell’Uomo dei Tarocchi, dunque il potere del dio malvagio non è così esteso.”
  “Un dato oggettivo è che ci sono contro stuoli di pseudo-Angeli. Noi siamo pochi, divino Ermes.”
  “Ancora, dotto Eremita, devo ricordarti che dobbiamo fare tesoro delle quattro virtù ermetiche, perché in termini numerici siamo certamente più deboli. Tuttavia non è del numero che dobbiamo temere. Dobbiamo impostare il confronto in termini morali, di qualità. Noi ce la possiamo fare.”
  “Certo che avere te, divino Ermes, al fianco ci fa sentire più forti. Ed anche il nostro piccolo gruppo di Arcani può cambiare il mondo.”
  Alla fine della disamina, i due decidono d’approfittare del refrigerio concesso dalle acque di un ruscello vicino. A un passeggero distratto quei due Arcani, sarebbero parsi due compassati signori che stavano facendo un pediluvio e magari componendo ad alta voce qualche carme, giacché l’Eremita si era messo a declamare i versi di una poesia.
“I cipressi che a Bolgheri alti e schietti
van da San Guido in duplice filar,
quasi in corsa giganti giovinetti
mi balzarono incontro e mi guardar.
…bisbigliaron ver’ me co ‘l capo chino:
‘Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
…ira non ti serbiam de le sassate
tue di una volta: oh, non facean già male!’
‘Bei cipressetti, cipressetti miei,
fedeli amici di un tempo migliore,
oh di che cuor con voi mi resterei…
…ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù:
non son più, cipressetti, un birichino,
e sassi in specie non ne tiro più.’
…Intesi allora che i cipressi e il sole
una gentil pietade avean di me,
e presto il mormorio si fe’ parole:
- Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
che rapisce de gli uomini i sospir,
come dentro al tuo petto eterne risse
ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
l’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come è pacato e azzurro è il mare,
come ridente a lui discende il sol!
…rimanti, e i rei fantasmi oh! non seguire…
e Pan l’eterno che su l’erme alture
a quell’ora e ne i pian solingo va
il dissidio, o mortal, de le tue cure
ne la diva armonia sommergerà.-
…- Deh come bella, o nonna, e come vera
è la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
sotto questi cipressi, ove non spero,
ove non penso di posarmi più:
forse, nonna, è nel vostro cimitero
tra quegli alti cipressi ermo là su.-
Ansimando fuggia la vaporiera
mentr’io così piangeva entro il mio cuore…
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
rosso e turchino, non si scomodò:
tutto quel chiasso ei non degnò di un guardo
e a brucar serio e lento seguitò.  
“Complimenti dotto Eremita! Hai un’ottima memoria. Io rammentavo solo qualche verso di questa lirica del vate Carducci. Tu sei un vero portento.”
  “Non è esattamente così. Pochi giorni fa ho riascoltato questi versi, letti in classe alla sua scolaresca dall’Uomo dei Tarocchi. Il professore, nel suo commento, ha voluto porre l’accento che la lirica sposa sentimento e semplicità. E che nessuno oggi riesce più a scrivere con quell’intensità. Questi versi valgono anche per noi; sembrano un abito fatto su misura.
‘quello che cercai mattina e sera
tanti e tanti anni in vano, è forse qui’
  Quello che, per anni, invano, abbiamo cercato è accanto a noi, nel posto più semplice e impensato.”
  Proprio quando l’Eremita citava a memoria Carducci, un perverso e oscuro meccanismo, innescato dal versoansimando fuggia la vaporiera, dissolve in un sottile filo di fumo la massima di Platone conoscere è ricordare
  Stava sopraggiungendo la notte e si udivano in lontananza i tuoni per l’approssimarsi di un temporale. Prima d’affrontare di nuovo il cammino, l’Eremita vuole prolungare quella sosta salutare per ritemprare lo spirito e recuperare le energie spese. Trovato rifugio in una grotta naturale, accende lo stoppino della sua fedele compagna di viaggio: la preziosa lanterna dalla quale non si separava mai. Al momento, non osserva nulla di strano nella luce emanata. Nelle ombre proiettate sulla roccia, invece Ermes visualizza delle irregolarità, provenienti da alcune sottili striature presenti sul vetro della lanterna. Prontamente fa osservare l’anomalia e l’Eremita si mette a studiarla attentamente. “Strano, sembrano delle incisioni. Non ho mai lasciato incustodita la mia lanterna, negli ultimi tempi. Forse quei birboni degli Angeli, a cui l’avevo affidata, hanno voluto graffiarla per dispetto.”
  “Più che delle casuali scalfitture, sembrano dei segni leggibili. Non ti pare?” Osserva Ermes, che si era fatto sotto per esaminare la lanterna anche lui.
  “Hai ragione. Vediamo di dosare l’intensità della luce per riuscire a vederli meglio.”
  L’Eremita si mette a decifrare i tratti incisi sul vetro. 
V/E    9/21
  “V barra E,  poi  nove barra ventuno.Toh, sembra che un messaggio in codice sia comparso sulla mia lanterna! A pensarci bene, ora ricordo di essere stato io a fare queste incisioni, ma perché mai avrei dovuto?”
  Anche il settimo Arcano non sa sul momento fornire una spiegazione plausibile, ma risponde in maniera del tutto intuitiva. “Certamente siamo stati noi gli artefici di queste incisioni. Volevamo evidenziare la fatidica sequenza degli Arcani maggiori e metterle a fianco gli elementi fondamentali della vita. Mi pare che la sostanza del messaggio sia questa. Comunque dovremo approfondire questo singolare graffito.”
  Entrambi concordano che sarebbe stato meglio rifletterci su. La notte, pur se tempestosa, avrebbe portato consiglio. Nessuno dei due sul momento collegava la V con la vibrazione: essenza del colloquio avuto poco prima di tornare nel Mondo di Sotto. In seguito forse sarebbe accaduto, ma i dettagli più profondi, emersi da quella conversazione, non sarebbero stati più ricostruiti.
  L’Eremita rammentava i celebri versi del Carducci. Poteva anche ricordare i contorni di un dialogo dotto, innescato a ridosso della filosofia greca. Semplicemente aveva incontrato un Arcano colto come lui e così, insieme, si erano messi a filosofeggiare sui demoni che ascoltavano i pensieri. 
  ‘Ansimando fuggia la vaporiera’. Insieme a lei sfumavano taluni elementi significanti e tutto rientrava in un’ardita disputa tra saggi. L’essenza del ricordo, oscurata e confusa, era sfuggita per sempre. Sarebbero nate altre ardite speculazioni e a seguire altre dispute infinite, senza soluzione, con pochi spiragli e molte ombre: troppe per essere vere. L’Eremita sarebbe tornato sui suoi passi a percorrere il medesimo cammino, illuminando gli stessi sentieri percorsi con la luce della preziosa lanterna. Mettendo insieme tutte le conoscenze e le novità della scienza e della ricerca, non era riuscito finora a trovare un senso compiuto all’esistere, un briciolo di logica in tante creature convenute su un pianeta meraviglioso. Eppure una volta il Folle aveva anche gridato in faccia all’Eremita parole quasi illuminanti; tuttavia non aveva attribuito loro il giusto peso; gli erano parse fuorvianti, estreme.
  “Il Mondo è complesso, ma è organizzato secondo logica. I dotti si complicano la vita da soli. Anche un uomo senza istruzione, intuitivamente, potrebbe spiegare e svelare i grandi misteri della vita. Se volesse, se osasse andare verso l’Abisso per vedere come è fatto veramente. Se trovasse la forza di fare veramente tabula rasa delle conoscenze fittizie, della rete che rende schiavi, dei conformismi, delle regole. Se gridasse la sua pazzia e la sua libertà.”
 
 
36
Ammessi al cospetto dell’Arcano della Giustizia
 
Risalito dall’abisso in un altro punto del globo, il Folle, con l’aiuto del tappeto volante, era volato rapidamente proprio di fronte alla dimora della Ruota della Fortuna, da dove l’Appeso sarebbe dovuto uscire di lì a poco. Secondo un copione non scritto, puntualmente il padrone di casa fa la sua comparsa da una porta della dimora e il dodicesimo Arcano dall’altra. Per uscire dalla dimora bisognava spalancare le due porte simultaneamente. 
  Svelato il marchingegno solo per metà, il Folle prosegue il cammino taciturno, perché non gli era chiaro come la Ruota della Fortuna, che non aveva donzelli al suo servigio, potesse spalancare contemporaneamente due porte, quando era sola. L’ipotesi di una terza porta segreta, non era poi tanto infondata. Più passava il tempo e l’Appeso diventava curioso e ciarliero, tuttavia questo cambiamento al Folle non dispiaceva, anzi se ne attribuiva il merito e aveva al solito ragioni da vendere.
  “Zero, tu hai fama di essere un vero giramondo! Sarai certamente già andato a incontrare la Giustizia.”
  “Mi sono fatto vivo una volta. Non so quanto tempo fa. Poi non sono più tornato.” Il Folle non voleva raccontare per intero com’erano andate le cose e preferisce rispondere in maniera generica, ma l’Appeso se ne accorge.
  “Insomma non sei riuscito a fartelo amico.”
  “Non ci siamo per niente incontrati, quel giorno.”
  “E perché? Racconta, non essere reticente. Non vedo cosa ci sia da nascondere.” Pungola ancora l’Appeso.
  “Otto stupidi uccelli, somiglianti a beccafichi, hanno cominciato a scrutarmi da capo a piedi. Io mi sono sentito imbarazzato. Non riuscivi a nascondere loro nulla. Ti leggevano nella coscienza come fossi un libro aperto che non c’era il verso di chiudere, neanche volendolo fortemente.”
  “Temevi forse il loro giudizio?”
  “Errori di gioventù.”
  “E così, come dinanzi alla torre alchemica, sei indietreggiato?”
  “No. Ho aspettato che terminasse la loro fastidiosa ispezione. Secondo quanto mi è stato spiegato, molto educatamente da un beccafico, non avevo raggiunto il giusto equilibrio interiore e non ero degno d’essere ammesso al cospetto della Giustizia. Non so se capisci anche l’offesa che ho dovuto subire. Essere posto al vaglio da otto inquisitori bigi. Potevano essere almeno otto aquile. No, beccafichi.”
  “Sono dei nobili animali e poi sono sempre espressioni della coscienza dell’Arcano. Perché avrebbero dovuto essere prevenuti verso di te? Senz’altro ti avranno vagliato in maniera equilibrata. Ti sei offeso stupidamente. Un tempo eri molto meno maturo di quanto sia oggi, Zero.”
  “Vuoi dire che ero un autentico Folle?”
  “Intendo dire che eri un tantino più agitato e irrequieto di oggi.”
  “Non essere esagerato. La tua prospettiva da eterno appeso distorce alquanto la realtà.”
  “Non ti sto giudicando. Ti sto dicendo quello che eri. Riconosci almeno i tuoi errori di gioventù. Tutti li commettono. Ammetti?”
  “Ammetto. Avranno avuto le loro ragioni, quei nobili uccelli.”
  “Comunque se non vuoi essere sottoposto a un altro esame, ci vado io a incontrare la Giustizia.”
  “Ci vai tu? Sei rimasto troppo tempo in catalessi. Non sai neppure, dove sta!”
  “Me lo puoi dire te!”
  “Sali che si vola!”
  “Stavo solo dicendo che al tuo posto posso andare io, se gli otto uccelli ti negano nuovamente di accedere al cospetto della Giustizia.”
  “Oggi le mie ragioni sono nobili, non personali.”
  “E allora non temere, Zero, perché saremo ammessi entrambi, ne sono più che sicuro.”
  Il tappeto volante atterra in un ampio prato abbastanza pianeggiante, dove la gente portava a scorrazzare cani di ogni taglia e di tutte le razze. Sarebbero dovuti stare legati al guinzaglio, ma le leggi nel bel paese erano interpretate e aggirate in virtù di un atavico individualismo che consegna la palma del vincitore al più furbo e al più prevaricatore.
  “Dove siamo?”
  “A Villa Ada: uno dei grandi polmoni verdi, in una metropoli abbastanza inquinata come Roma. Gli amanti della corsa frequentano questo grande parco per fare moto, soprattutto la mattina presto.”
  “Lo trovo un bel posto. Idea eccellente.”
  “Se lo paragoni al tuo Stromboli, lo troverai asfittico, senza pathos, quasi ordinario.”
  “Anche la Giustizia si è fatta costruire nei paraggi un palazzo dagli gnomi?”
  “No. Vive all’aria aperta.”
  “E allora possono arrivarci tutti, abbastanza facilmente.”
  “Sì, ma se gli uccelli non concedono il placet, non riuscirai a vedere nulla. Solo pini e qualche scoiattolo, se sei fortunato. L’Arcano è invisibile.”
  Mentre i due confabulavano e si guardavano attorno, come annunciato, arrivano gli uccelli. Annusano gli intrusi e poi si mettono a saltellare avanti e a fare da guida.
  “Oggi è andata bene. Gli andiamo a genio.” L’Appeso era allegro, avendo auspicato una soluzione onorevole: entrambi ammessi al cospetto della Giustizia, senza riserva e indugi. 
  Secondo la classica rappresentazione la Giustizia assomigliava a una figura femminile imponente e paludata, seduta su di un trono ad ascoltare e valutare in modo equo il giudicato, ostentando una preziosa bilancia d’oro, garanzia e simbolo della sua funzione. L’Arcano invece volutamente aveva ricusato ogni forma iconografica cara alla tradizione. Le sue gambe erano incrociate nella posizione consueta della meditazione yoga, gli occhi bendati e i capelli lunghi e incolti. Levitava sopra una colonna di marmo bianco, anch’essa librata in aria e sormontata da un sobrio capitello ottagonale. Gli otto uccelli svolgevano una funzione ben precisa: in base agli attributi morali dei convenuti in pratica consegnavano al vaglio della Giustizia solamente i meritevoli. In tal modo l’Arcano aveva praticamente deputato le proprie funzioni a creature alate, che svolgevano un ruolo essenziale. 
  Un uccello pacatamente invita i sopraggiunti a sedersi sull’erba e a spiegare il motivo della visita. Il Folle preferisce non parlare e sussurra all’orecchio dell’Appeso: “Dì qualcosa tu, è meglio. Mi mette soggezione. Non so conversare con un equilibrista bendato sopra una colonna.”
  “Siamo venuti a chiedere il conforto della Giustizia, per una questione che interessa tutti gli Arcani. Dovranno incontrarsi tra qualche giorno nella dimora dell’Eremita. Tu saprai illuminare il nostro giudizio e vagliare alcuni fatti accaduti. Lo Zero ha pure portato l’invito: più che altro ti servirà per conoscere i dettagli.”
  La Giustizia interrompe le spiegazioni dell’Appeso. “Già conosco i fatti nella sostanza. Si è aperto un dibattimento sull’opportunità di oscurare il sito dell’Uomo dei Tarocchi. Stanno cercando un elemento che giustifichi il provvedimento, per ora solo provvisorio. Grazie a qualche pretestuoso cavillo, probabilmente il sito sarà rimosso a tempo indeterminato. Ci sono state delle forti pressioni in tal senso.”
  Il Folle a questo punto consegna l’invito e lo mette sulla colonna, sfiorata con una certa apprensione, nel timore che possa venire giù da un momento all’altro. Guarda l’Arcano. Vorrebbe entrare nel merito di quella levitazione, ma preferisce tacere. Non voleva dare la soddisfazione alla Giustizia d’esternare le sue perplessità su tutta quella messa in scena, che non gli stava oltretutto simpatica. L’Arcano, quasi intuendo i pensieri del Folle, puntualizza in modo deciso. “Dì la verità: vorresti sapere in quale maniera ho saputo di questa iniziativa giudiziaria. Tu credi attraverso l’occhio acuto degli alati al mio servizio; tuttavia non è così. Gli uccelli possono scrutare solo coloro che si accostano alla mia dimora. Non sono autorizzati a svolgere alcun tipo di spionaggio. Sappiamo rispettare gli spazi mentali altrui. E’ stato l’Eremita con la sua cabala a evocarmi quando ha analizzato la famosa sequenza dell’Uomo dei Tarocchi, riducendola al numero otto. Da allora seguo il caso da vicino e con molto interesse. Addio.”
  L’Arcano della Giustizia ritorna nel silenzio della sua posa, a levitare sopra la colonna di marmo bianco, sospesa in aria. Poco  dopo prende lentamente a ruotare su se stesso fino a entrare in un buco dimensionale e a sparire alla vista dei due ospiti.
  Un poco stizzito il Folle si alza e ammette. “Beh, perlomeno è stato educato. Ha salutato e via. Non ci ha detto che sarebbe venuto alla riunione, ma si sottintende di sì.”
  L’Appeso lo segue e ammonisce il suo compagno di viaggio. “Se fossi stato più affabile, sarebbe stato più cordiale. Lo hai irritato con i tuoi gesti e la tua titubanza E ti ha ripagato con l’indifferenza.”
  “A me quegli uccelli stanno sui ciglioni.”
“Sui ciglioni?”
  “Un candido neologismo da me coniato. L’Innamorato m’interpellò per ammorbidire la volgarità della parolaccia coglioni. A quel tempo frequentava ambienti di persone sensibili, di rango sociale elevato, dal gergo ricercato. Voleva incantarli con raffinatezze linguistiche. Chiese che gli tenessi un corso di galateo. Intendeva ingentilire il suo comportamento poco aristocratico.”
  “Incredibile! Comunque gli uccelli devono stare sui ciglioni: il loro posto naturale; sostano sulla sponda della strada per andare a beccare quanto vi capita.” Alla puntualizzazione corretta dell’Appeso, il Folle prende a ridere contento.
 
37
Nei pressi del laghetto di Villa Borghese
 
“Zero, non risaliamo sul tappeto?”
  “No, andiamo a piedi. L’Innamorato a quest’ora bazzica un altro parco qui vicino: Villa Borghese.”
  “Fuori è una baraonda. Veicoli a motore di ogni tipo.”
  “Questa è Roma, mio buon amico. Ti ci devi abituare.”
  “Certo che, dall’epoca in cui siamo nati, è cambiata molto.”
  “Lo credo! Sono passati quasi ottocento anni. Solamente tu non te ne sei accorto.”
  “Torniamo indietro. O si viaggia sul tappeto volante, o torno al mio vulcano.” Il Folle deve accontentare l’amico, perché era testardo e sapeva essere anche un tantino convincente, grazie all’arma del blando ma esplicito ricatto: la forma di costrizione più antica del mondo, la più usata nelle situazioni più disparate, ma sempre la più efficace. 
  Quando l’Innamorato vede avanzare verso di lui il Folle in compagnia dell’Appeso, prova un sussulto. ‘Ieri sera ho ricevuto la sgradita visita dell’Eremita e ancora non mi sono ripreso. E oggi, di prima mattina, devo incrociare la presenza inconsueta dell’Appeso. Come avrà fatto poi il Folle a tirarlo giù dalla sua posizione abituale? E dire che avrei voluto iniziare questa giornata nella maniera più serena possibile.’
  Quel rubacuori voleva sempre stare accanto a una donna. Un’incantevole mamma aveva portato i suoi due bambini a dare da mangiare alle papere del piccolo laghetto di Villa Borghese. Durante la mattina però sarebbero anche arrivati, per abbandonarsi a effusioni amorose, gli studenti che avevano marinato la scuola, anche se in giro ancora non se ne vedevano. Per un attimo l’Innamorato decide di sparire alla vista degli Arcani e di non farsi incastrare in un secondo interrogatorio; ma poi, per non perdere la faccia e non fare la figura del vile, risolve, suo malgrado, d’affrontare l’incresciosa situazione con l’abituale faccia tosta che spesso usava per nascondere le sue costanti indecisioni. “Ciao ragazzi. Qual buon vento? Questa notte, l’Eremita si è intrufolato nella mia vita privata e mi ha accusato di avere sedotto l’Imperatrice, posseduta a quanto pare da un gaglioffo, fattosi passare per l’Innamorato. Mai, per intenso amore, ho osato profanare neppure l’ombra della dolce Donzella, vittima di lusinghe galeotte. Me tapino, dovrò anche sopportare l’onta del disonore!”
  L’Appeso prende in consegna la mamma e la convince subito a fare un giretto in barca con i due figli. Intendeva mettere piede sull’isolotto ed esplorare quel tempietto classico, ma soprattutto voleva tenersi lontano da discussioni e beghe di famiglia.  A suo avviso la casta Imperatrice avrebbe fatto bene a concedersi, quando lui le aveva domandato la mano e quando erano giovani e pieni di speranze e ancora non conoscevano il mondo. L’Appeso a quel rifiuto aveva in sostanza risposto confinandosi in un eterno supplizio. E l’Imperatrice neppure una volta era andata a trovarlo, per aspettare il suo amato casanova. E adesso doveva subire l’onta del disonore, alla sua veneranda età. La legge del contrappasso esigeva talora il suo doloroso tributo. Frattanto la donna sbarca sull’isolotto con i suoi due figlioli, per guardare la statua di cui non sapeva la storia. E l’Appeso ammira una maternità felice. 
  L’Innamorato non può trattenere il suo sdegno. “Orrore! L’esempio vivente del sacrificio non mi vede da secoli e neppure mi saluta! Se ne va in barca con una sconosciuta, che stava al mio fianco e mi pianta in asso!”
  “Lo sai bene che ti ritiene responsabile delle sue delusioni amorose.”
  “Io cosa c’entro? Glielo vuoi fare entrare in testa, a quella rapa! Neppure una volta ho sfiorato il candore dell’Imperatrice.”
  “Avrete modo di spiegarvi. Dunque qualcuno ha voluto metterti nei guai, assumendo le tue fattezze.”
  “Qualcuno mi ha disonorato, ma presto sarà smascherato. Convoco immantinente una riunione di tutti gli Arcani maggiori!”
  “Già è stata convocata. Questo è l’invito! Te lo leggo io, ora, perché potresti dimenticartene.
  Nel giorno ventidue di maggio, alle ore ventidue si terrà un’assemblea straordinaria degli Arcani maggiori, resasi necessaria dopo la pubblicazione di un Trattato sulla vera origine dei Tarocchi. La Riunione avverrà presso la dimora dell’Eremita. Al consesso non sono ammessi servi al seguito, aiutanti, o Arcani minori amici. Tutti sono pregati di lasciare amuleti e armi magiche a casa. La presentazione dovrà avvenire alle ore diciannove per consentire il ricevimento, la sistemazione degli ospiti e la prevista cerimonia di benvenuto. Alla Cortese Attenzione dell’Arcano Numero Sei. Con tanti ossequi. 
  Firmato dall’Eremita in persona.”
  “Allora siete veramente degli amici. Te e l’Eremita.”
  “La seduta non prevede la discussione del tuo caso, di cui non sapevamo ancora nulla.”
  “Abbiamo il dovere d’informare tutti gli Arcani che quel fiore di Donzella non è più immacolato, ma è stato profanato da un gaglioffo maligno e menzognero. Certo ne converrai anche te, Zero.”
  “Ne convengo, tuttavia siamo qui per informarti di una vicenda molto più importante, di cui in parte sei già al corrente…”
  L’Innamorato preso dalla foga interrompe il Folle e afferma deciso: “Nulla può soverchiare il torto subito dalla mia tenera ex amata…”
  Interrompe a sua volta il Folle: “… che tu hai lusingato con vaghe promesse, lasciando il suo cuore in sospeso. Lei ti è rimasta fedele fino ad oggi. Dovresti correrle incontro, abbracciarla e assumerti la responsabilità di quello che le è accaduto.”
  “Meriti proprio d’essere chiamato Folle, amico. Ti ho detto e te lo ripeto in ginocchio: non sono stato io il gaglioffo. E’ stata ingannata la pulzella. La mia ex amata.”
  “Allora, giacché ex, non è più nei tuoi desideri?”
  “No, al contrario resterà sempre nel mio cuore straziato. Quella dolce immacolata creatura è stata ingannata. Voglio che il caso sia sviscerato, fino a incastrare il colpevole.”
  “Si può sempre discutere. Non c’è ancora un ordine del giorno definito. Comunque ci sarà anche la Giustizia.”
  “Si deve discutere, altrimenti io non verrò. Voglio delle garanzie scritte.”
  “Ora non sottoscrivo nulla, ma posso sempre impegnarmi con la mia parola d’onore.”
  “Bene, perché si tratta di un perfido inganno, ordito ai danni di un nostro simile, ignaro, in buona fede.”
  “Dimentichi che ci siamo fatti la guerra per secoli, per avere il controllo del mondo.”
  “Abbiamo sempre sparso sangue innocente, non nostro. A rimetterci erano sempre gli umani. Adesso si osa colpire il sentimento di un Arcano tra i più  nobili.”
  “Voglio crederti. Tuttavia l’Innamorato dovrebbe assumere su di sé l’onta del disonore: per cancellarlo con un colpo di spugna. Per ridare alla sua Donzella un volto rispettabile, una dignità e rendere vano, con un gesto nobile, un piano ignominioso e perfido e guadagnarsi in un giorno la stima della sua donna. Solo questo puoi e devi fare, a mio avviso. Se hai una tua dignità.”
  E l’Innamorato, incantato, guarda in viso il Folle e comincia a commuoversi. Presto si sarebbe messo anche a piangere, perché l’Arcano più sconsiderato di tutti lo aveva messo di fronte alle proprie responsabilità e gli aveva indicato una strada per uscirne pulito e riscattare con un nobile gesto un’esistenza spesa all’insegna dell’indecisione, nella vana rincorsa di piaceri effimeri, a cui aggrapparsi per dare un significato alla propria inquietudine interiore. Lo abbraccia alla vita, come a chiedere una benedizione, un viatico alla propria esistenza vuota che poteva anche assumere un altro significato. 
  Il Folle gli conferma la sua disponibilità. “Ti prometto che solleverò personalmente il caso dell’Imperatrice. E dovrai decidere allora se farne una vittima, o una sposa. E sarà la tua coscienza a scegliere. Io posso soltanto indicarti la via. Prima però devi farci sapere quale è la tua posizione sull’Uomo dei Tarocchi. Gli Arcani s’incontrano per esaminare il suo caso. Le Voci vogliono fargli pagare la sua ricerca poco ortodossa.”
  L’Innamorato a questo punto si accosta al Folle e bisbiglia, per fargli una confidenza riservata: “Insieme ad Arcidiavolo abbiamo confezionato un piano perfetto per ridurlo allo stato di larva.” Poi esclama: “Oh! Per Cupido, non avrei dovuto farne parola! Era un patto segreto!”
  “Adesso non più. E poi t’informo che la maggioranza degli Arcani ha deciso di essere al fianco dell’Uomo dei Tarocchi, di proteggerlo.”
  “Già mi sono impegnato con Arcidiavolo. Ho dato la mia parola.”
  “Nel frattempo sono successi fatti nuovi, per questo abbiamo deciso di non seguire le direttive delle Voci.”
  “Non posso macchiare il mio onore! C’è di mezzo la mia parola!”
  “Dovrai difendere in altri modi il tuo onore. Se sei dei nostri, avrai tutto il nostro appoggio nel caso dell’Imperatrice.”
  “Allora potrebbe essere conveniente schierarsi al vostro fianco.”
  “Potresti incolpare il tuo compare della seduzione ingannevole e giustificare così il tuo voltafaccia.”
  “Zero, questo è un ottimo suggerimento. In seguito potrei accollarmi il peso della sedotta.”
  “Per te, in ogni modo, sarà comunque sempre un peso: quella seduzione incompiuta della Donzella, che forse amavi più di ogni altra. Io vado e ci si vede tutti nella dimora dell’Eremita. Addio.”
 
 
38
Il fiuto del destriero mitologico individua la Donzella
 
Nessuno degli Arcani sapeva dove fosse la dimora della Forza. Si raccontavano diverse storie, in parte senza fondamento, altre mediate dalle fantasie degli umani che immaginavano la Donzella personificazione della Forza nella foresta insieme alle fiere, o nascosta in qualche caverna in compagnia dei lupi. Nessuno conosceva bene i suoi poteri. Alcuni l’avevano vista mentre ridava energia ai fiori appassiti del bosco. Altri riferivano che riusciva a intendere perfettamente il linguaggio degli animali e si faceva obbedire da qualunque creatura vivente entrasse nel suo raggio d’azione. Chi le era stato molto prossimo non aveva saputo resistere alla sua bellezza e se ne era innamorato appena l’aveva vista, con i suoi lineamenti delicati e fini, il suo sguardo innocente e sereno. L’Eremita era a conoscenza di tutte queste dicerie e neppure lui sapeva, dove andare a incontrare l’Arcano della Forza: l’unico che non aveva una fissa dimora; eterno pellegrino di ogni dove.
  Ermes intuisce le difficoltà dell’amico e gli dà un suggerimento. “Buon Eremita, ho un’idea: mandiamo in perlustrazione l’Auriga e l’animale mitologico che trascina il mio cocchio. Il suo olfatto è capace di tutto. Tempo fa la Forza si presentò nella mia dimensione e fu mia gradita ospite.”
  “Non ne ho saputo nulla. E’ sempre stata così schiva e riservata con tutti.”
  “Allora era riuscita a superare un momento difficile. Con me si confidò.”
  “Divino Ermes, nel corso di un incontro casuale, la Forza mi disse che ogni tanto ripensava a quando non era riuscita ad addomesticare il leone, al tempo della grande scommessa del Mago. Io pensai che stesse mentendo e che forse i suoi problemi, di cui non voleva parlare, erano altri.”
   “La Donzella verso di te ha sempre avuto soggezione. Di me assai meno. Forse per via che ero l’unico Arcano ad accompagnarmi con un animale. Io la convinsi che quello non era un vero leone, ma un portento, una creatura di pietra, una metamorfosi, giacché nessuna fiera autentica al mondo sarebbe stata capace di resisterle. Comunque Eusfera credo l’abbia rigenerata alquanto e le abbia dato più convinzione nei suoi mezzi. In fondo era stata capace di un’ascensione sublime.”
  “Allora, divino Ermes, devi conoscerla bene, meglio di chiunque altro.”
  “Ah questo è certo. Siamo stati però insieme solamente per undici giorni.”
  “Un vincolo rispettoso. Imposto dalla cabala?”
  “No; dopo undici giorni la sua natura sarebbe mutata e non sarebbe più potuta tornare indietro come prima. Avrebbe perso molti dei suoi poteri. Non voleva cambiare.”
  “E non è più tornata?”
  “No.”
  “E tu non l’hai più cercata? Non avevi voglia di rivederla?”
  “Ricordarla era come averla vicino. In quell’aurea solitudine accadono i fenomeni più strani. Rivederci per poco, sarebbe stato molto più doloroso. Anch’io non mi sarei potuto fermare da lei per più di sette giorni, altrimenti avrei perso tutto quello che avevo con tanta fatica conquistato. Però accade, a volte, di volersi bene, forse di più, quando si è lontani.”
  “Divino Ermes, spero proprio non ti abbia turbato il ricordo del tuo breve idillio.” 
  “Assolutamente. Non so, buon Eremita, se conosci quella famosa aria di Vincenzo Bellini.
‘A te, o cara, amor talora
mi guidò furtivo e in pianto;
or mi guida a te d’accanto
fra la gioia e l’esultar.
Al brillar di sì bell’ora
se rammento il mio tormento
si raddoppia il mio contento,
m’è più caro il palpitar.’ ”
Ermes offre una prova vocale, degna di un tenore di grande temperamento, per timbro, chiarezza e intensità.  Quella voce fa vibrare d’emozione l’Eremita, quelle note gli entrano nelle fibre e si sente sospeso nel vuoto, rincorrendo la gioia e l’esultar. E così per rimando, rammenta anche la voce sgraziata e dolente che soverchiava lo gnomo e gli dettava i termini della missiva, nascosta poi in una segreta fenditura dell’albero.  
  “L’animale mitologico non ha dimenticato il suo odore inconfondibile: qualcosa simile al muschio appena bagnato, ma intriso di fragranza di menta, inconfondibile perché dà alle narici una sensazione di piacere delicato e nello stesso tempo ti eccita forte.” Ermes trasmette all’Eremita proprio l’odore della Donzella e dà un saggio dei poteri che aveva sviluppato.
  Nel breve volgere di una clessidra della cartomante, l’animale mitologico localizza la Donzella nel mare aperto, a cavallo di un delfino, montato come un destriero della prateria. La Forza, riconosciuti l’Auriga e il suo destriero, si lascia condurre nei pressi di Delfi, dove era attesa, con una certa ansia, dai due amici.
  “Scusaci per questa improvvisa intrusione, ma abbiamo delle valide ragioni per strapparti alla tua tradizionale riservatezza.” Parla solamente Ermes e l’Eremita, tacitato subito dalla Donzella, non trova neppure il tempo per spiegare quali erano i motivi della chiamata. 
  “Sono già stata informata dei fatti dal taciturno Auriga, che sa ascoltare in silenzio e rammenta perfettamente le conversazioni degli ospiti.” Neppure scende dal cocchio, distende una mano verso Ermes e gli fa cenno di salire. “Suvvia, voglio approfittare di quest’unica occasione per condurti in un luogo che devi assolutamente conoscere. Useremo il tuo mezzo di locomozione.”
  Ermes lesto sale dietro all’Auriga, stringe al fianco la Forza e poi prende congedo. L’Eremita prova una vaga mestizia nel vederlo partire, proprio adesso che aveva guadagnato un perfetto compagno di viaggio, quando ne avrebbe più bisogno e deve accingersi ai due incontri più ardui della sua missione. Forse stava continuando una storia d’amore ed era giusto che i due si appartassero di nuovo. 
  Deve ricorrere alla luce della sua lanterna, per ritrovare le energie e staccare lo sguardo fisso sul cielo vuoto, nel punto dove l’aureo cocchio era sparito. Per un attimo aveva sentito tutta la fragilità del suo stato d’inquieto girovago, incapace d’assaporare appieno l’abbraccio della giovinezza. Benedice il viaggio dei due innamorati e con nuova energia risale con i granelli di sabbia, dalla solitudine bianca del fondo della clessidra. Resta solo, con i due inviti. Per la concitazione degli eventi, non aveva trovato neppure il tempo di consegnarli.
 
 
39
L’Eremita affronta l’Arcano della Morte
 
Prima d’incontrare l’Arcano della Morte, l’Eremita approfitta della sosta salutare nei pressi di un ruscello per ritemprarsi. Di solito meditava, confortato dalla luce della lanterna, e considerava ogni tipo di fenomeno, riconducendolo al proprio numero originario. Il lieve fresco scorrere delle acque lo aiuta a rinfrancare lo spirito, un poco malinconico. Voleva ritrovare vigore e coraggio. L’unica risorsa a sua disposizione era la cabala. 
  La Morte dei Tarocchi, contrassegnata dal numero 13, è riducibile ad un 9 + 4 sulla base di una semplice equivalenza. Per riuscire a bilanciare i fluidi letali dell’Arcano, in base alle indicazioni cabalistiche, bisogna sapere sprigionare una forza interiore, riconducibile alla lanterna dell’Eremita e ai quattro elementi fondamentali della vita. In base alla medesima equivalenza, la lanterna ha anche la facoltà di separare l’unione dei quattro elementi fondamentali della vita e di provocare la morte corporale. I poteri della provvidenziale compagna, in grado d’emanare sia energia positiva sia negativa, non fanno inorgoglire l’Eremita, ma gli palesano che ogni creatura può essere fonte di bene e di male, alleviare le pene dei più prossimi, o inasprirle, contribuire a diffondere un poco di serenità in più, o trasmettere ansie e tormenti. 
  Guarda in alto verso le stelle e rivolto alle luci del cielo formula un auspicio. Secondo un’antica credenza, coltivata negli ambienti frequentati dagli alchimisti, un astro seguiva le sorti della sua creatura prescelta, da quando nasceva a quando moriva. Suggerisce alla sua guida, ove mai fosse, di trasmettere a ciascun vivente la forza intrinseca della sua lanterna e d’offrire a tutti indistintamente l’opportunità di servirsene secondo le proprie inclinazioni, perché solamente allora qualcosa di sostanziale sarebbe potuto accadere e il bene forse trionfare. Poi riprende il suo viaggio, pungolato dalla volontà di non arrendersi e come un superstite marinaio, dopo il naufragio, ricomincia il suo viaggio, per andare incontro al proprio destino, più sereno di prima. 
  Quando non peregrinava a piedi come il filosofo Diogene, per il trasporto l’Eremita si affidava alla luce della sua lanterna, che lo portava ovunque ci fosse un raggio di sole. Detestava ed evitava sempre l’uso dei mezzi di locomozione mossi da motori rumorosi e inquinanti.  Fortificato, adesso l’Eremita si sente pronto ad affrontare l’ostacolo principale: trovare il modo per accostarsi all’Arcano della Morte, che, secondo le leggi delle affinità alchemiche, non poteva che trovarsi negli stessi territori frequentati dall’Arcano del Diavolo. Decide allora di fare il giro dei cartomanti più conosciuti e più chiacchierati della città di Roma, dove sicuramente avrebbe incontrato le sue inconfondibili tracce.
  Con sadica voluttà, la Morte perseguiva sistematicamente il dolore e la sofferenza nelle sue forme più disparate. Si vantava di provocare ogni tipo di sventura con cronometrica precisione, quando qualcuno la invocava, per sbarazzarsi di un nemico e per ottenere benefici economici dalla malattia di un vecchio genitore, o parente. Nel corso dei tempi era l’unico Arcano che, con ostentazione, aveva cambiato aspetto a secondo del gusto iconografico dei tempi. Era passato dal classico orrido scheletro con la falce insanguinata e arrugginita, alla più compassata e raffinata signora in gramaglie. Sempre disponibile ad accompagnare una consultazione dei Tarocchi, solo per vedere la faccia sorpresa e dolente di chi doveva accettare passivamente la sua sgradita presenza; o per suggerire trame di morte in chi aspettava la sua comparsa, per infierire su una persona odiata di cui voleva liberarsi. Queste erano le situazioni più intriganti, alle quali non rinunciava mai, quelle che più arrecavano diletto. 
  Con questi elementi, del resto arcinoti a tutti, l’Eremita comincia a depennare dalla sua lista i cartomanti seri, che operavano con l’intenzione di aiutare comunque la gente a risolvere i problemi dai quali era assillata. Bastava ascoltare il passa parola, le confidenze, le dicerie e alla fine la lista si sarebbe assottigliata a poche persone conosciute sulla piazza per certi poteri, neppure gridati troppo alla luce del sole e tantomeno divulgati in giro, per non correre il rischio di essere confinati esclusivamente ai ranghi di quelle frequentazioni tenebrose.
  La notorietà della cartomante negli anni era rimasta costante. Ogni sabato pubblicava a pagamento un trafiletto in grassetto su una rivista della capitale che offriva ogni tipo di servizio: dagli affitti, alla vendita delle automobili usate, alle offerte di lavoro. Formata al ‘Rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi.’ Dove si rivela all’uomo il modo di servirsi della sua Volontà, per assoggettare a essa tutti gli animati del mondo visibile e invisibile. Veggenza, talismani, medianità, cartomanzia.
  Con ostentata perfidia, l’infida India riusciva sempre a corrispondere le attese dell’ingenuo avventore. Oltre che cartomante era maga e confezionava amuleti e talismani vari. I clienti ricorrevano alle sue nefaste influenze per obiettivi abietti e lei invocava il male occulto per provocare malattie e strani, improvvisi decessi. 
  La Morte aveva riservato quel tavolo tutto per sé e seguiva le sedute, per condividere le emozioni della cartomante, bramosa d’influenzare la breve vita di sconosciuti indifesi, verso i quali lanciava i suoi strali velenosi. Aveva anche ispirato il look di India: una mantellina mefistofelica, labbra violacee, capelli lunghi corvini chiazzati di rosso, una croce uncinata come pendaglio, una calzamaglia scura e guanti neri con merletto, che lasciavano le cinque dita scoperte, per meglio maneggiare le carte.
  I clienti si presentavano con le foto abbastanza nitide, talora ingrandite, della persona a cui volevano attaccare il malocchio e India mischiava sempre lo stesso mazzo di Tarocchi ingialliti e sporchi che faceva tagliare dalla mano sinistra. Con le medesime carte lavorava da quando aveva iniziato la sua professione, perché a suo avviso avevano prodotto e concentrato un vero e proprio scenario di scelleratezze e per questo non andavano sostituite con delle nuove, che non avrebbero assolto la medesima funzione. 
Sceglieva una sola fotografia e vi metteva sopra l’amuleto della malasorte. Forava con due aghi gli occhi della vittima predestinata e mischiava regolarmente le carte, prima ordinate per tredici volte. “Non è facile compiere prodigi, con semplici aghi usati per il cucito, facendo credere che si possono produrre incantesimi. Bisogna sempre usare l’ago con cui si sono cucite diverse lenzuola per i cadaveri. La Morte ripaga sempre onestamente i servigi resi.”
  La spiegazione lasciava il più delle volte il cliente di sasso, ma nessuno osava più toccare quegli aghi, neppure se avvertiva un vago ravvedimento per essere istigatore e complice di un progetto omicida. L’onorario, di quaranta euro, era duplicato se usciva il Trionfo della Morte. Statisticamente, faceva la sua apparizione due volte su tre, anche se India in tal senso non usava nessun trucco. Mostrava al cliente le carte nell’ordine naturale e le mischiava davanti ai suoi occhi attenti. 
  Prima di manifestarsi, l’Eremita aspetta di essere evocato nel corso di una consultazione e solo dopo si fa notare. “Dovrei rubarti un poco del tuo tempo. Di solito non sono abituato a importunare i Tarocchi sul loro tavolo preferito. Ma oggi vi sono costretto, perché devo farti un’importante comunicazione.”
  “Non disturbi, Eremita. Dimmi pure. Cosa mai è successo di tanto importante?”
  “Ci si riunisce tutti nella mia dimora, per stabilire il destino che sarà riservato all’Uomo dei Tarocchi. Ha scritto un trattato ed ha formulato delle ipotesi sulle nostre origini. Sul tavolo ho messo l’invito destinato a te.”
  “Simpatico bigliettino. Rispettoso di cabala e quant’altro. Che cosa riserva il futuro a questo povero derelitto?”
  “Le Voci vogliono fare oscurare il sito, a quanto si dice. Io e altri, per diversi motivi, siamo invece d’avviso contrario.”
  “Ti sei messo a fare il salvatore della patria e adesso ti trascini alcuni Tarocchi a rimorchio. Ci vuoi tutti sul tuo carretto?”
  “Questa è la sostanza, ma ci sono anche altre questioni che dobbiamo decidere.”
  “Quali?”
  “Dobbiamo approvare delle regole comportamentali che varranno per tutti.”
  “Regole comportamentali? Non ci sono mai state. Siamo liberi. Possiamo scegliere il bene, come il male. Tu hai scelto la prima possibilità. Io, la seconda.”
  “Sarà la maggioranza a darsi certe regole ed esse varranno per tutti gli Arcani. Indistintamente.”
  “Parli come se questa maggioranza si fosse già espressa.”
  “Presto si esprimerà. E chi non dovesse seguire le regole, sarà bandito, isolato per sempre. Una barriera gli impedirà di avere contatti col mondo esterno.”
  “Una forma punitiva terribile. Non potrei più seguire la mia perversa passione per India, nutrire insieme con lei l’insana predilezione per il dolore. Ma se l’esito della votazione dovesse essere diverso da quello auspicato?”
  “In tal caso, sarei io certo a rammaricarmi.”
  “Se è così, voglio sapere come va a finire. E farmi quattro risate. Sono curiosa di vedere come riuscirete ad applicarle le vostre benedette regole. Verrò, per assistere alla fine di questa strana partita, ma prima voglio andare a conoscere più da vicino l’Uomo dei Tarocchi, a cui tieni tanto.”
  Detto questo, la Morte comincia a liquefarsi, come una statua di cera sotto un intenso calore. Distilla tanta malignità nella sua ultima affermazione e lascia cadere le sue parole in sospeso, per dare più consistenza a un’indeterminata ma reale minaccia, che da quel momento avrebbe pesato come un macigno sul prediletto dell’Eremita.

 
40
Lezione sull’inconscio originario collettivo
 
Dopo aver ricevuto dalla Morte quel minaccioso avvertimento, l’Eremita intende subito porsi come paladino al fianco dell’Uomo dei Tarocchi. Voleva trasmettergli le energie indispensabili per difendersi da un nemico invisibile, capace di ogni tipo di scelleratezza. 
  Quel giorno il professor Leandro stava impartendo una lezione in un liceo di Roma. Tra i ragazzi e le ragazze regnava un certo interesse ed anche curiosità: l’argomento proposto esulava dal programma vero e proprio e rientrava in un progetto filosofico che si prefiggeva indagini a tutto campo. Ai giovani era stata consegnata una copia dattiloscritta di quello che l’insegnante stava leggendo, commentando e sottoponendo all’attenzione e al dibattito della classe.
   “Oggi vorrei prendere in esame alcuni aspetti dell’onirologia: disciplina che raccoglie varie teorie sulla natura dei sogni. 
  ‘Nel passato l’interpretazione dei sogni era affidata a vere e proprie istituzioni sociali oracolistiche. Secondo le antiche credenze, l’oracolo manifestava la parola divina trasmessa agli uomini in un dato luogo, da persone consacrate al culto di una divinità. Nella Bibbia degli Ebrei si hanno molti esempi di sogni profetici. Anche nei Greci si crede nel carattere soprannaturale del sogno profetico, molto diffuso nelle opere di Omero. Nel secondo secolo dopo Cristo, con la sua Oneirocritica, Artemidoro, nativo di una cittadina della Lidia, distingue i sogni profetici da quelli originati dal presente e dal passato. Secondo il greco dunque la natura del sogno è triplice e riesce a coprire uno spazio temporale assai vasto. Con Platone, nella Repubblica, i sogni liberano gli impulsi repressi, per l’attenuarsi del controllo durante il sonno e la sua teoria anticipa la concezione freudiana. Anche Ippocrate mostra di avere vedute moderne, perché è convinto che dall’analisi del sogno si possano ricavare diagnosi mediche.’ Questo riferisce l’Enciclopedia filosofica Sansoni alla voce sogno.
  Con l’evolversi delle discipline connesse alla psicologia, l’attività onirica è stata analizzata in maniera abbastanza approfondita e si è appurato che durante il sonno profondo, detto anche REM, l’attività celebrale è particolarmente intensa e in questa fase prendono consistenza i sogni che lasciano anche una traccia visibile quando si effettua un elettroencefalogramma. 
  Da alcune recenti ricerche di laboratorio risulta che anche alcune specie animali sognano. E’ stata dimostrata un’attività di sonno REM nel gatto ed anche nel delfino. Per estensione possiamo supporre che gran parte del mondo animale sogna. 
  Secondo alcuni studiosi, sarebbe più dannoso per un uomo privarlo della sua possibilità di sognare, che diminuire artificialmente la sua necessità di dormire. Questo dice molto sull’importanza di un fenomeno psichico su cui è comunque difficile indagare, a torto considerato come un fatto secondario. Sognare di per sé è piacevole, tanto che nel linguaggio comune la parola sognare aiuta a superare le miserie del quotidiano. 
  La funzione celebrale del sogno è utile e necessaria alla psiche. Pare dimostrato che il sonno di regola sia accompagnato dal sogno, anche se il più delle volte non lascia traccia nella nostra memoria conscia. 
  Secondo gli antichi, il sogno era procurato da entità benefiche. E il dolce sonno era ambrosia e regalo degli dei. Il sonno e il sogno insieme coniugavano miti e credenze e suscitavano l’attenzione d’indovini e poeti. 
  Sognare è un fatto naturale e fisiologico, come il respirare e il bere, ma per questo non dobbiamo pensare che sia altrettanto semplice, anzi si tratta di un fenomeno complesso che coinvolge la mente e l’attività celebrale.  
  Le visioni oniriche non possono essere ancora registrate da una telecamera; solo il paziente può raccontare i suoi sogni e conserva una specie di diritto esclusivo sulle immagini e sulle situazioni vissute. Nessuno quindi ha la possibilità d’entrare nella dimensione onirica di un'altra creatura, perché essa è patrimonio esclusivo della mente e la scienza pure deve segnare il passo, perché non possiede gli strumenti adatti per verificare i contenuti di un sogno. 
  Abbiamo iniziato a curiosare nello strano mondo onirico fin da ragazzi. Spesso siamo rimasti sorpresi e irritati per avere perso il filo di un sogno e abbiamo anche escogitato un modo pratico per riprenderlo, quando s’interrompeva improvvisamente per un risveglio improvviso. 
  Stranamente alcuni sogni ricorrenti, dai contorni enigmatici e inquietanti, diventano una persecuzione e si tramutano in incubi a cui stentiamo a dare una spiegazione logica. Certo il sogno nella sua essenza sfugge a una rigorosa analisi e forse proprio per questo ha suscitato l’attenzione dello psichiatra Sigmund Freud. Secondo l’analista viennese, il meccanismo psicologico della censura operata dal Super-Io interviene sui sogni, i cui contorni sono alterati, fino a renderne illeggibile e incomprensibile il contenuto. La censura sui sogni, qual è concepita da Freud, riflette il clima della repressiva morale borghese del suo tempo, di cui sono vittime le sue pazienti, incapaci di liberarsi da un’educazione rigida e puritana che negava dignità alla sessualità femminile. 
  Scandalizzando i benpensanti, Freud scopre la forza prorompente dell’eros ed opera una forma di legittimazione e di liberazione dello stesso. Proprio analizzando i sogni, fa il suo ingresso prorompente in scena l’inconscio, riportato alla luce dalla marginalità in cui era stato confinato dai filosofi antecedenti. Tutti i sogni, secondo Freud, sono la realizzazione allucinata di un desiderio, o di una tendenza in parte inibita. Tale affermazione è da considerarsi riduttiva. La tesi di Artemidoro, ossia la sua distinzione tra sogni profetici e quelli originati dal presente e dal passato, è particolarmente affascinante e ricca di stimoli. 
  Oggi prevale una visione naturalistica del sogno, risalente ad Aristotele, che lo considera una forma di attività psichica pura e semplice durante il sonno. Dobbiamo spogliarci di questo paludamento neopositivista e logico, per andare a recuperare la valenza poliedrica insita nella natura del sogno. 
  La grande scoperta freudiana è riuscita a dare uno spessore insospettato al Super-Io, nel ruolo di un censore, simile a un Dio mosaico che legifera con le sue Tavole della Legge.  Potremmo ribattezzare il Super-Io, la componente psichica inconscia, con il termine ‘inconscio originario’, mettendone in luce non solo la natura nascosta, ma il legame profondo che esso ha con le nostre oscure origini, di cui resta l’unico spettatore credibile, perché saprebbe rispondere, senza timore di sbagliare, agli eterni interrogativi formulati dalla mitica Sfinge. 
  Potremmo supporre anche che l’inconscio originario non sia puramente un semplice elemento individuale, scaturito dall’ambiente esterno e dall’educazione, ma che esso sia una fondamentale componente genetica ed ereditaria.
  L’errore di Freud è stato di avere sottovalutato la polivalenza dei sogni per piegarli alla morale repressiva borghese. Freud non era riuscito a liberarsi della morale corrente che aveva introiettato ed era ben radicata nella sua persona. Nel riappropriarci di Freud, vogliamo coniugare insieme l’inconscio e la censura onirica, per confrontarci con un dato psicologico rimasto all’oscuro per secoli e spesso frainteso e definito con termini approssimativi e riduttivi. 
  Chiameremo questo nascosto dato psicologico con il termine di inconscio originario collettivoIOC. Affermare che esiste un quid psichico di natura genetica, non significa condividere i fondamenti dell’innatismo, il quale sostiene che alcune idee fondamentali non derivano dall’esperienza, ma sono presenti nella psiche fin dalla nascita. L’anima è una credenza filosofica e religiosa, un postulato che andrebbe però dimostrato e la coscienza non esiste prima dell’esperienza. Se il concetto di persona è un indubbio valore; non significa che ogni individuo possa sviluppare un’anima immortale svincolata dal corporeo, senza un’adeguata crescita morale e intellettuale.  
  I programmi presenti nel DNA determinano lo sviluppo delle cellule per assolvere determinate funzioni. I neuroni celebrali sviluppano la coscienza e un particolare segmento, molto recondito, del DNA sviluppa anche l’IOC: l’unico che conserva memoria della genesi del tutto. Proprio l’IOC sta alla base della coscienza superiore delle creature umane; esse sono determinate e scrutate da un vigile occhio indagatore che ne orienta lo sviluppo psichico e la conoscenza, oscurando le origini e ponendo le basi dell’occulto, del mistero, del deus absconditus della teologia.     
  Questo inconscio originario collettivo finora intravisto da Freud e Jung, ancora non è stato messo a fuoco nitidamente per diversi motivi che analizzeremo di seguito.
  Innanzi tutto si osserva che ogni individuo è diverso da un altro ed è vero, ma si dimentica che la specie umana è una. Anche l’inconscio originario collettivo è uno e non varia da un individuo a un altro. Nella persona l’IOC non è attivo, ma latente, nascosto sotto la coscienza. L’individuo tende a primeggiare e a oscurare naturalmente il proprio IOC. Esso deve mettersi da parte, per consentire al singolo di sviluppare una propria psiche autonoma ed originale.
  Il progetto della specie umana originaria non è detto che coincida con i vari progetti individuali. Hegel, ad esempio, parla di un’astuzia della ragione nella Storia e vede lo Spirito manifestarsi nel progetto egemonico di Napoleone, suo inconsapevole strumento.
  Se l’IOC non fosse latente, rischierebbe di compromettere la naturale e graduale crescita del singolo individuo.
  Tutti gli uomini, almeno una volta nella vita, hanno ascoltato una voce interiore: essa parla, orienta, consiglia. Tale voce spesso è chiamata con i termini più disparati: spirito guida, angelo custode, la stella protettrice, la parola di Dio. La denominazione cambia secondo le credenze della persona. La voce interiore spesso è quella dell’ IOC. E’ più comodo pensare che non sia nostra. 
  L’ IOC ha una sua memoria originaria, conosce bene la natura del progetto. Se riuscissimo a farlo parlare potrebbe svelarci molti misteri. Purtroppo ostinatamente tace da secoli e vive camuffato nei meandri della psiche. Ogni specie vivente possiede un proprio IOC. Gli insetti, ad esempio le formiche, hanno comportamenti abbastanza uniformi che manifestamente dimostrano l’esistenza di un’unica coscienza collettiva. 
  Nell’uomo la singola individualità sembra avere preso il sopravvento e avere soverchiato in parte l’ IOC, il quale si è abilmente camuffato scavandosi una nicchia, per sopravvivere anche a scapito dei singoli. Ogni conflitto di natura psicologica è riducibile a un conflitto tra l’Io e l’ IOC. Esiste un perverso meccanismo di rimozione e manipolazione dei sogni. Un Inquisitore psichico si arroga il potere d’intervenire e cancella a sua discrezione una determinata situazione onirica, rendendola confusa e incomprensibile.
  A prescindere dalle teorie, fondate o meno, siamo tutti consapevoli che esistono diverse categorie di sogni. Alcuni sono semplicemente ricordi delle esperienze vissute nel corso dei giorni più prossimi, che la fantasia e la mente mescolano, unitamente a desideri erotici non soddisfatti, a vagheggiamenti infantili di volare, o di visitare mondi fiabeschi mediati da letture fantastiche. Altri sogni hanno invece un altro spessore, una valenza più nitida, perché i luoghi e le creature sono pregni di vita e di colore e sembrano appartenere a un'altra dimensione nella quale, proprio in virtù del sonno, ci siamo inspiegabilmente trasferiti e di cui conserviamo una certa indefinita memoria. Non riusciamo a padroneggiare questi sogni, perché alcuni elementi sfuggono, diventano, con lo scorrere del tempo, sempre più evanescenti e bisogna correre lesti a scriverne delle tracce su di un foglio per poi poterli in parte ricostruire.
  Certi sogni possono essere definiti premonitori, sembrano messaggi che qualcuno ci sta inviando, per renderci partecipi di verità che un oscuro censore cerca sempre in qualche modo di cancellare. Dunque una parte della coscienza è come illuminata dai sogni e gli orizzonti cognitivi si dilatano; nello stesso tempo un meccanismo psichico perverso fa da filtro e cancella i ricordi. Esiste dunque un Inquisitore psicologico, perché ne sperimentiamo gli effetti proprio nel momento in cui andiamo a inseguire invano i ricordi dei sogni fuggenti. Esso ha tutta l’aria di essere un corpo estraneo al fenomeno tutto naturale del sogno, oggi inquinato, che in passato doveva avere una precisa funzione: quella di metterci in diretta comunicazione con il mondo originario da cui siamo venuti. 
  Il sogno un tempo era la risposta naturale agli interrogativi di Edipo, ma la censura opera proprio con l’obiettivo precipuo di cancellare i nostri ricordi, di offuscarli. Quei ricordi originari paleserebbero l’inganno secolare perpetrato dagli scriventi al popolo dei parlanti, spodesterebbero la secolare custode dal Tempio della conoscenza, renderebbero inutili tutti i libri sacri, i suoi vati e tutte le istituzioni fondate su principi indiscutibili, ma senza alcun fondamento. 
  Il censore onirico fa uscire l’Uomo dallo stato di natura originario e lo trasferisce in un universo di conoscenze fittizie, controllate, con i suoi misteri, i suoi profeti, perché solo cancellando i ricordi può fondare ed estendere la sua egemonia, manipolare coscienze, controllare creature obbedienti, talora potenti ma servili, oscurando in loro l’originaria libertà di esistere.
  Il sogno anticamente era soprattutto una porta spalancata sul passato e sul futuro. La sua funzione naturale originaria è stata adulterata dalla censura onirica: un meccanismo indotto dall’ IOC, il quale è anche capace di elaborare le più svariate forme di controllo della coscienza individuale: seleziona gli scriventi, li orienta, li tacita, plasma la classe dirigente, controlla i mezzi d’informazione. L’ IOC ha sostituito il politeismo con l’integralismo monoteista e ha cancellato il ricordo originario del mondo progettato dagli dei. La censura onirica è un fenomeno indotto, frutto e prodotto perverso dell’inconscio originario collettivo
  Oggi però noi possiamo recuperare il valore essenziale delle quattro virtù ermetiche della tradizione alchemica, sapere, volere, osare e tacere, per fonderle in una sola possente virtù: sapere di sapere. Grazie a questa formula siamo perfettamente consapevoli che, come aveva intuito già Platone, per conoscere dobbiamo solo ricordare, ossia recuperare la nostra dimensione originaria perduta. 
  Il processo intentato a Socrate dimostra che i guardiani degli scriventi sono attivi da secoli. La sua dottrina maieutica era giudicata pericolosa, non perché corrompeva i giovani e metteva in discussione le divinità adorate dagli ateniesi, ma bensì perché divulgava un modo di pensare pericoloso: ne sarebbe rimasta intaccata l’essenza stessa dell’ IOC.”
  Con la tesi ‘Intersezione tra Platone e Freud. Ricordare il mondo originario e dare un significato ai sogni.’ il professor Leandro progettava di fare circolare certe idee che forse avrebbero attecchito in qualche coscienza e creato i presupposti per una metamorfosi. 
  Qualche minuto prima del termine della lezione, l’allievo più partecipe e diligente, ma anche più esibizionista, stupisce tutti con la sua immancabile osservazione. “Vorrei domandare perché a Platone fu risparmiato un processo, eppure sostiene apertamente nel Menone che conoscere è ricordare.”
  Dopo quell’acuta domanda, l’alunna più spiritosa osa fare una previsione maliziosa.  “Adesso il professore ci lascia e si salva in corner al suono della campanella.”
  “Resterò ancora un poco, per fare una considerazione intuitiva. Dopo il processo intentato a Socrate, gli Inquisitori di Atene forse non godevano più delle medesime potenzialità repressive che l’eco del processo stesso aveva ristretto. E poi il pensiero di Platone era articolato dentro un sistema complesso di opere aventi una cornice mitica e la massima conoscere è ricordare andava inserita in un insieme più vasto di riflessioni. Secondo le circostanze, alcuni pensatori vanno processati, altri devono essere semplicemente assimilati. Oggi per il dibattito non c’è tempo. Ne riparleremo la prossima volta.”
  Ascoltando questa lezione di filosofia tanto particolare, l’Eremita si meraviglia. L’oggetto della tesi era proprio la massima di Platone discussa con Ermes, a dimostrazione poi che la circolazione delle idee è un fenomeno sovrastante ogni tipo di ostacolo e barriera.  
  Incoraggiato dall’atteggiamento battagliero del suo protetto, lo segue per tutta la giornata, come un vero e proprio spirito guida. Infine, di notte, si sistema con la sua preziosa lanterna nella stanza da letto del professore e l’avrebbe protetto durante il sonno, quando sarebbe stato più vulnerabile. 
A intervalli regolari, dal portentoso manufatto faceva balenare un plasma dorato, in grado di bilanciare gli influssi negativi dell’Arcano della Morte, qualora si fosse affacciato minaccioso nei paraggi.
 

  

41
Scovare l’Arcano del Diavolo
 
Il prossimo ostacolo appariva quasi insormontabile sul cammino dell’Eremita, perché Arcidiavolo non aveva mai avuto una propria dimora, ma sempre trovava persone disposte forzatamente, o spontaneamente a ospitarlo. Era proprio della sua natura riuscire abilmente a mimetizzarsi ed anche imbattendosi nel suo nascondiglio, poteva sempre, se non voleva farsi riconoscere, sfuggire a un incontro ravvicinato e dileguarsi.
  Per approntare gli strumenti indispensabili a un sicuro contatto, l’Eremita intendeva sfruttare le proprietà dei numeri, convinto che una reale combinazione di Tarocchi potesse evocare Arcidiavolo, facendolo uscire allo scoperto e attirandolo come un insetto su della carta moschicida. Si rammentava del tavolo ottagonale di Leda. L’Arcano albergava in quei paraggi ed era sensibile al richiamo dei numeri. Ovviamente l’Eremita per manifestarsi escogita uno stratagemma che, senza suscitare sospetti, avrebbe dato i frutti sperati.
  Quel giorno una donna molto infelice, malata e alla ricerca disperata di una guarigione miracolosa, stava provando a ricorrere ai moderni occultisti in circolazione e si apprestava a consultare la cartomante Leda. L’Eremita tramuta immediatamente la sventurata in una larva e prende possesso della sua volontà già fiaccata dalla malattia. 
  “Vorrei sapere quale significato può avere una certa combinazione di carte.” Senza tanti inutili preamboli, fa per afferrare il mazzo di Tarocchi che la cartomante aveva sistemato davanti a sé.
  Appena intuisce le sue intenzioni, Leda lesta allontana i Tarocchi dalla sua sfera d’azione. “Generalmente le carte le mescolo io. Il cliente può solo tagliare il mazzo. Vi trasmette la sua energia concentrata nel tocco fatale. Se dovesse manipolare l’intero mazzo, farebbe per così dire svanire l’oracolo. Mi sembri molto agitata. Rilassati. Dimmi perché sei qui.”
  “Mi resta poco tempo: i medici mi hanno concesso solo pochi mesi di vita.”
Leda al solito osservava la scheda personale già pronta, per assegnare al nome una fisionomia sulla base dei Tarocchi dominanti.
Presentata da un amico cliente 
Nome: Eloisa
Data di nascita: 13 maggio 1975
Tronfi dominanti*: 
Morte – Gerofante - Carro – Imperatore
Trionfi associati al nome**: 
   Gerofante – Ruota – Morte – Eremita – Stelle - Mago
*La data di nascita 13-5-1975 (prendendo in esame, separatamente, sia le ultime due cifre dell’anno e anche la somma di tutte le cifre dello stesso) individua i numeri 13, 5, 7, 5, 4 (1+9+7+5=22=2+2=4) corrispondenti ai Trionfi detti dominanti.
** Nella premessa iniziale consultare la seconda tabella: lettere dell’alfabeto, Numeri, Trionfi.
“Eloisa: nome musicale, con ascendenze letterarie, adatto a una persona colta, intellettualmente complessa, ma alquanto infelice. C’è una sorta d’espiazione nella tua persona, ma possiamo sempre provare a reagire.”
  “Cerco dei rimedi, per riuscire a curare il mio male.”
  “Non sono una guaritrice. Leggo solamente le carte.”
  “Non desidero che tu mi faccia le carte. Semplicemente spiegami quelle che ho ben nitide dinanzi alla mia mente. Se mi dai i tuoi Tarocchi, invece di tenerteli stretti tutti per te, riuscirò anche a essere più concreta.”
  In certe circostanze e proprio per esaminare una sequenza già definita, alcuni clienti abituali si portavano dietro il loro mazzo. La cartomante non faceva toccare le sue carte a nessuno, ma non poteva negare a Eloisa la legittima curiosità di conoscere il significato di una particolare combinazione. Prende un mazzo di Tarocchi Visconti: i più antichi, i più importanti. Li offre alla donna, ne osserva il pallore, l’automatismo dei movimenti. Aveva già riconosciuto in lei una larva, per via di alcuni dettagli.
   Eloisa sceglie sette Trionfi e poggia la Ruota della Fortuna sulla prima casa, l’Eremita sulla seconda casa,  la Giustizia sulla terza,  il Carro sulla quarta, l’Innamorato sulla quinta, il Gerofante sulla sesta ed infine il Diavolo sulla settima casa.
  Leda resta alquanto sorpresa dalla particolarità della combinazione. La settima carta, il Diavolo, unificava tutti e sei i Trionfi precedenti, che sommati (primo e sesto / secondo e quinto / terzo e quarto) davano sempre per risultato il numero 15. “Questa sequenza è scaturita, così com’è, davanti ai tuoi occhi? O è il frutto di una personale alchimia sui numeri? Devi essere sincera, perché con il Diavolo dei Trionfi non si scherza.”
  La cartomante parlava in tono fermo, quasi intimidatorio. Eloisa si sentiva scrutata, ma non si lascia intimidire. “Non vedo quale differenza faccia, Leda”
  “Fa differenza, Eloisa. E’ stata la prima combinazione uscita davanti ai miei occhi, quando mi stavo accingendo a intraprendere questo nobile mestiere. Consultavo le carte come viatico, per vedere cosa avrebbero detto sul mio futuro di cartomante.”
  “Me le ha messe davanti agli occhi un’amica.”
  “Che genere d’amica?”
  “Frequentavo una guaritrice, alcuni mesi or sono. A suo avviso questa combinazione avrebbe avuto il potere di guarirmi e il Diavolo ne era la garanzia, ma ho avuto paura e non sono più tornata da lei.”
  “Perché hai avuto paura?”
  “Quella donna era strana. Già il suo sguardo incuteva timore. Poi dovevo profanare alcuni simboli sacri. Non ho voluto farmi invischiare. Tu sei una cartomante professionista.”
  “Questa sequenza ha il potere d’attrarre il più potente degli Arcani. Funziona con ogni tipo di persona. Vuoi dunque evocare ora il Diavolo dei Trionfi? Non vorrei te ne pentissi.”
  “Oggi mi sento pronta e poi vorrei mostrarti questo particolare.”
  “Quale particolare?”
  “Ho intravisto qualcosa all’interno della lanterna dell’Eremita. Guarda! Si vede nitidamente, anche in questo mazzo.”
  “Io non vedo nulla.”
  “Ecco: vedi? Sembra un biglietto.”
  “Eloisa, io non vedo proprio nulla.”
  “E’ comparso adesso, proprio sulla carta del Diavolo. Il biglietto sembra destinato a lui.”
  “Mia cara, devo contraddirti. Comunque se c’è, come dici, sicuramente il Diavolo dei Trionfi, sarà in grado di vederlo.”
  A questo punto l’Eremita materializza la sua lanterna di fronte agli occhi sbigottiti della cartomante, la quale non riesce in alcun modo, anche tentando, a distogliere il suo sguardo, soggiogato e ipnotizzato dai flussi luminosi. Evocato dai numeri, Arcidiavolo accorre in aiuto della sua creatura prediletta, ma non riesce a potenziarle la volontà. Leda era letteralmente rimasta abbacinata dalla malia luminosa. L’Arcano, accortosi dell’inganno, parla per bocca della cartomante. “La mimetizzazione non ti servirà a nulla! Vieni allo scoperto! Ti ho riconosciuto! Del resto la tua lanterna è inconfondibile!”
  L’intonazione di voce di Eloisa muta in quella calma dell’Eremita. “Questa luminosa compagna può anche fare del male, se usata per scopi letali. Fissando troppo a lungo la lanterna, Leda potrebbe rinsecchire e perdere irrimediabilmente quella bellezza che tanto ti sta a cuore. Questa tenue luce fa perdere la nozione del tempo e riesce a concentrare, in una frazione di secondo, un’intera ora. Il calore irradiato provoca forti ustioni, pari a quelle del sole. Potrei, ma non voglio. Perché so che sarai ragionevole e verrai, senza fare troppe storie, all’assemblea degli Arcani maggiori, che s’incontreranno nella mia dimora, ove sei stato invitato.”
  “Per risparmiare la bellezza e la vita di Leda, accetto. Sei diventato il paladino di un bionico, insieme con altri fanatici, che si sono lasciati coinvolgere dalle tue macchinazioni. Verrò nel tuo eremo di montagna. Tuttavia sappi che qualunque cosa dovesse accadere a Leda, sarà fatta anche all’Uomo dei Tarocchi. Abbiamo un ostaggio a testa. Per ora siamo in parità. La partita vera comincerà domani.”
  L’Eremita abbandona la larva ed Eloisa torna alle proprie angosce mortali. Leda smette di fissare la lanterna e riprende il controllo della propria volontà. Nel frattempo avverte un’intensa arsura e sente il desiderio di dissetarsi lentamente, a piccoli sorsi. Mentre beveva e conversava, era attratta dal viso pallido e smunto della donna. Le sue attenzioni morbose non si fermavano di fronte a nulla. Non provava alcuna pietà per quella poveretta afflitta da un male incurabile. Avrebbe voluto liquidarla presto, più debole di quando era entrata. Il suo signore si era però interessato a Eloisa e incoraggiava la cartomante a trattenerla, per trasformarla in una sua creatura. “So che è difficile parlarne. Qual è la natura del tuo male?”
  “Una leucemia del sangue.”
  “Ascoltami bene: questa sequenza di Arcani evoca il Diavolo dei Trionfi. Di solito, lui sottrae le energie vitali. Io potrei aiutarti a guadagnare qualche anno in più; ma dovresti essere disponibile a darmi fiducia e a credere nella mia terapia alternativa.”
  “I farmaci non sono mai piacevoli. Spesso sono amari e disgustosi. Di quale terapia si tratta?”
  “Il mio rimedio ti sembrerà strano, forse anche inconsistente. Vuoi saperne di più?”
  “Vorresti tacere? Proprio adesso che hai sollevato la mia curiosità?”
  “Faccio qualche premessa, affinché tu possa capire il senso di quello che dovrai fare. Secondo un noto principio alchemico: il simile riesce a curare il simile. A un cliente, affetto da acufene, sono riuscita ad attenuare il fastidioso ronzio, semplicemente consigliandogli l’ascolto di buona musica classica. Lui ha selezionato i brani che gli procuravano maggiore sollievo e ha messo insieme una compilation musicale, la cui proprietà è di combattere con l’armonia la sua afflizione. E’ quasi del tutto guarito, dopo prolungate sessioni di musicoterapica. La stessa musica è in grado d’arginare alquanto la tua depressione. Dunque, come primo rimedio, ti darò una copia di quel CD artigianale, che raccoglie dei brani musicali veramente pregevoli.”
  “Non ho mai ascoltato con particolare attenzione nessuna musica. Potrebbe darmi una buona carica. E poi?”
  “Tu sei molto debole. Dovresti fortificare il tuo sangue. E’ d’obbligo un’adeguata alimentazione, a base di carne di cavallo, rape rosse e datteri, quattro volte la settimana.”
   “Oggigiorno si parla tanto di medicina alternativa. Le ho provate tutte. Chissà che non funzioni.”
  “Te l’ho già detto. Non guarirai. I due rimedi, uniti, ritarderanno solamente il tuo incontro con la signora vestita di nero. Sì può sempre rinviare l’ultimo viaggio e sorprenderlo con uno sberleffo in anticipo.”
  “E’ più che un incoraggiamento il tuo. Sei stata veramente una buona amica. Peccato non rivedersi più.”
  “Adesso che è nata questa sintonia, cara Eloisa, non voglio farla inaridire. Dobbiamo entrare più in intimità. Se vuoi, ho tante energie da trasmetterti.”
  “Io non posso permettermi il lusso di pagare sedute frequenti.”
  “Hai frainteso l’invito, perché ti sei già conquistata la mia amicizia, che non ha prezzo. Domani sarà venerdì. A pranzo possiamo stare insieme.”
  “Oh! Non so, come ringraziare.”
  “Allora ti aspetto qui, da me, a mezzodì.”
  “Certamente, ci sarò.”
  Le due donne si baciano amichevolmente e si abbracciano. E ognuna vagheggiava non so cosa. Incontrata un’altra adepta da iniziare, Arcidiavolo non voleva farsi sfuggire una nuova preda. 
 
 
42
Un viaggio attraverso il cosmo
 
L’Arcano delle Stelle aveva l’abitudine di rendersi visibile solo di notte e assomigliava vagamente a una donna trasparente, azzurrina e pallida, intrisa di costellazioni che il suo corpo esile e allungato riproduceva come un microcosmo in miniatura. Secondo alcune voci conosceva il segreto profondo dei corpi stellari, che aveva anche visitato; a detta di altre, era in grado di condurvi chiunque fosse meritevole e degno di tale viaggio. Secondo le credenze degli umani incarnava varie virtù e la sua presenza, durante una consultazione dei Tarocchi, era sempre considerata propizia. Trasmetteva equilibrio interiore, serenità. Accompagnava benevolmente la vita delle creature. Interferiva positivamente nelle vicende della loro tormentata esistenza. 
  Arcistelle, da poco, dal maggio del 2004, da quando il nuovo Planetario della Capitale aveva riaperto, bazzicava regolarmente gli ambienti del palazzo dell’EUR che ospitava anche il Museo della Civiltà Romana. Lì poteva ammirare il firmamento e approfondire i misteri del cosmo, ma soprattutto, a suo dire, poteva scegliere una persona speciale, per guidarla verso la salvezza eterna. Sulla base della corrispondenza tra macro e micro cosmo, fondamento delle ricerche degli alchimisti, ogni stella in cielo aveva la funzione d’osservare e guidare il cammino di ciascun individuo: dalla sua nascita alla sua morte.
  “Qui verranno molte scolaresche: quindi giovani di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali. Ancora non hanno una personalità definita. Coltivano dei sogni, delle illusioni.”
  “Allora in futuro questa sarà la tua nuova dimora?”
  “Qui selezionerò una persona e la seguirò per vagliare la sua idoneità al mio progetto. E in seguito l’accompagnerò per tutta la vita, facendole da angelo custode.”
  “E poi, Arcistelle, come la metti con la creatura celeste deputata a tale funzione da Dio? Riuscirete mai a mettervi d’accordo, a dividervi compiti e meriti?” L’osservazione era volutamente una provocazione.
  “Lo sai bene Eremita: quella dell’angelo custode è solamente una buona credenza, divulgata per fare sentire le persone meno sole e dare loro una certa responsabilità e un codice morale. Questa è stata la grande funzione della religione nella storia.”
  “Sono molto scettico Arcistelle. Gli umani ascoltano solamente le voci che fanno più comodo ai loro comportamenti. Oppure devi fare loro violenza mentale e imporre il verde, qualora sia il colore di tua preferenza. Ogni guida spirituale dovrà per forza scontrarsi col libero arbitrio.”
  “Io, sappilo bene, non ho mai usato poteri coercitivi. Adesso voglio interagire con l’animo candido degli adolescenti.”
  “Allora ciao, Arcistelle. E buona fortuna. Se però incontri la persona giusta, in qualche modo avvertimi; altrimenti, se mai dovessi cercarti, non saprei, dove mai andarti a scovare.”
  Non avendo nel frattempo ricevuto nessuna comunicazione, l’Eremita si reca di nuovo al Planetario, per incontrare l’Arcano delle Stelle che non abbandonava i suoi progetti per nessun motivo. Si presenta all’amico con l’invito ufficiale ancora nelle profonde tasche del suo mantello centenario, che non lasciava mai d’indossare, specialmente quando era impegnato a compiere missioni difficili dall’esito incerto e vi era sempre il rischio di essere influenzato da presenze ostili al fianco.  
  “Se posso essere d’aiuto, Eremita, sono sempre disponibile. Piuttosto dammi qualche altro ragguaglio. Ti vedo alquanto preoccupato.”
  “Lo sono. Ogni volta che incontro te, vengo assalito, quasi per risonanza, dal medesimo interrogativo. A che tante facelle?’
  “Anch’io mi sento stordita dalla volta celeste. Per la pochezza e finitezza dei nostri intenti, mi appare davvero incommensurabile.”
  “Se potessimo compiere un viaggio interstellare, vorrei tanto incontrare una stella e porle una domanda analoga a quella che il pastore errante, nel canto notturno di leopardiana memoria, sottopone al nostro satellite.”
  “Questo Planetario rende ciò possibile. Potremmo compiere un viaggio, grazie ai mezzi messi a nostra disposizione dalla tecnologia. Entrare in contatto con la stella prescelta e ricevere una risposta.”
  “Adesso, Arcistelle, stai esagerando con le tue corrispondenze magiche tra macro e micro.”
  “No, affatto Eremita! Un vero Planetario, se lo intendiamo nella sua essenza, può aiutarci a compiere un vero e proprio viaggio interstellare.”
  “E il prodigio avviene in virtù di quale occulta vibrazione?”
  “Il principio sembra sia stato scoperto abbastanza recentemente: esso renderebbe plausibile e possibile la telepatia, la telecinesi e il teletrasporto. Si chiama entanglement quantistico.”
  “Una materia complessa, che non padroneggio per nulla. Tu potresti darmene una spiegazione concisa?”
  “Certamente. Il termine inglese indica il legame indissolubile di due particelle separate anche milioni di anni luce, ma che originariamente erano una cosa sola.”
  “Allora non esistono barriere spazio-temporali, se siamo capaci di infilarci nella giusta direzione.”
  “Esatto. Comunque finora a me le Stelle non hanno detto nulla. Forse non vogliono, o forse non devono. Noi Arcani siamo emanazione degli umani. E come loro, siamo isolati dal contesto che ci circonda.”
  “Giacché siamo qui, scegliamo la Stella Polare, quella più luminosa, che da sempre ha indicato il cammino ai naviganti e ai viaggiatori di ogni tempo.”
  “Per me va bene. Vediamo se, questa volta, ci risponde.”
  Quel giorno l’Eremita era finalmente pronto a compiere il viaggio da sempre agognato; si sentiva emozionato come un bambino al suo primo viaggio in treno. La notte tersa. Il carnato stellato accogliente, quasi materno. E lui, parte del firmamento, mescolato nel pulviscolo. La Stella Polare accogliente sorride, ma non risponde a nessuno degli interrogativi dell’Eremita. Si limita a trasmettere sensazioni piacevoli. Invia suoni melodiosi, delicati, indecifrabili. 
  “Non ha detto nulla.”
  “Dotto Eremita, io ho sempre interpretato il silenzio in maniera logica. Siamo stati esclusi, banditi anche noi, per via delle nostre eterne scaramucce. Abbiamo voluto imitare gli umani nei loro difetti e non siamo stati capaci di liberarci dai grovigli dei loro sentimenti. Certo non tutti, vi sono anche delle felici eccezioni, ma non è bastato per rinfrescare e purificare la nostra natura egoista e prevaricatrice. La nostra lotta intestina per la supremazia ha il profumo della terra che ci ha visto nascere. Troppe volte la nostra esistenza si è incrociata con quella degli umani. Le Stelle sono silenti e non sono una guida per nessuno. Le Voci che non ascoltiamo, le abbiamo zittite nella nostra coscienza per sempre, irrimediabilmente.”
  “Strano: le uniche Voci che ascoltiamo sono quelle dominanti della dimensione celeste.” Per associazione l’Eremita pensava alle sgradevoli Voci che lo avevano condotto a fare la conoscenza della cartomante.
  Arcistelle ripete il proprio disappunto. “Sono Voci false, perché avallano gli accadimenti e non cercano di trasformarli. Vogliono apparire squillanti per quanto sono miserevoli. Fanno anche male e non sono amorevoli.”
  “Spero verrai al nostro incontro, che non va giudicato una bega come tante. E’ l’unico modo che abbiamo di farci ascoltare. Rispondere al silenzio con le nostre voci. Per dire al signore virtuale che ci siamo anche noi e non siamo rassegnati. E’ la nostra grande occasione. Gli Arcani a convegno. Il Folle ha anche insistito perché presentassi a tutti un invito.”
  “Quel buontempone escogita sempre modi divertenti. Comunque gli eventi vanno sempre accompagnati. Come i bambini a scuola. Quando sono accarezzate, anche le piccole beghe quotidiane diventano meno prosaiche. Purtroppo, proprio a ridosso di quest’assemblea, intravedo un futuro nebuloso per noi tutti. Saremo travolti da un soffio inatteso di vento.”
  “Allora valeva la pena compiere questo viaggio al tuo fianco. Potremmo essere noi, gli epigoni della memoria, ad attingere la consapevolezza. E insegnare a tutti la via.”
  “Pochi non cambiano il destino scritto di molti. Ognuno può, se vuole, se ne è capace, mutare la propria natura, migliorarsi ed evolversi a un gradino superiore. Certe trasformazioni non si possono insegnare, certe conoscenze superiori non si possono trasmettere. Manca sempre il mezzo per farlo. Me ne sono reso conto seguendo i giovani. Anche loro non mutano, hanno già ricevuto un imprinting nei primi anni di vita. Non ci sono innocenti da guidare.”
  “E allora perché continui a stare qui?”
  “Aspettavo te, per compiere l’ultimo viaggio. La crescita della coscienza è un apprendistato individuale, un faticoso cammino. Non si possono fondare scuole di questo tipo di filosofia. Irrimediabilmente chi ha fondato una setta e una religione è stato frainteso: celebrato come santo, o crocifisso come demone ed eretico. Il saggio, sentenzia un proverbio cinese, non fa proseliti.”
  Termina la sua argomentazione con una massima, Arcistelle. E l’Eremita finalmente riesce anche a leggere parole nel silenzio delle stelle. Tra lo stupore degli spettatori, abbagliati dalle lucine del firmamento di cartapesta.
 
 
43
Le mura ciclopiche della Città del Sole
 
Quando l’Eremita andava a trovare Arcisole era veramente in difficoltà. Il punto di partenza e di riferimento era la città di Erfoud, alle porte del deserto marocchino, perennemente avvolta da venti che cambiavano faccia ad un paesaggio di dune mutevoli e indecifrabili, al punto da disorientare anche il viaggiatore più esperto. Per non perdersi, l’Eremita doveva aspettare e affidarsi per forza all’istinto dei cammelli e al percorso millenario delle carovane che attraversavano quel mare di finissima sabbia rossa. Alle prime luci dell’alba, prima di partire, i beduini pregavano rivolti verso la Mecca e s’inchinavano a ricevere il sole. 
  Un’antica città abbandonata e dimenticata da tutti a volte s’intravedeva appena e in quella dimora millenaria Arcisole era rimasto confinato in solitudine, facendosi inondare di calore e di luce. Poi, un giorno, da quelle enormi pietre erano spuntate due creature innocenti, generate dal sole e dalla volontà dell’Arcano di darsi una compagnia festosa e giuliva. Così alla carta Numero 19 era toccato assumere un aspetto differente dall’originario, questa volta proprio per volontà espressa di Arcisole, che almeno voleva circolasse una fotografia veritiera della sua famiglia.
  Elios, più spontaneo e chiacchierone, con i capelli rossi un poco ricciuti, alcune lentiggini sul viso paffutello e un’aria da prepotente. Eliossa, più riflessiva e abitudinaria, dai capelli abbastanza lunghi e biondi, il volto sorridente e sereno e la fisionomia da adolescente. 
  Ultimamente l’Arcano aveva preso l’abitudine di fare visita alla litigiosa brigata dei Tarocchi. Talvolta incontrava pure qualche cartomante, più che altro per abituare i suoi figli agli oracoli e agli intrighi degli uomini; insomma per aprire loro gli occhi.
  Quando sopraggiunge l’Eremita, i due giovinetti giocavano spensierati e si rincorrevano all’interno di un giardino fiorito, protetto da mura spesse e imponenti. Salutano frettolosamente lo zio e tornano al loro passatempo preferito: il nascondino. Date le origini, i due ragazzini entravano e sparivano in una delle tante pietre, unite a formare le mura ciclopiche della Città del Sole, la quale, costruita attorno ad una minuscola oasi inglobata, sfruttava i ruderi abbandonati, e semi coperti in pratica dal deserto, di quella che un tempo era stata un’antica città fortificata e dimenticata da tutti. La porta d’ingresso, copia fedele dell’antica città di Micene, era sormontata da due leoni in bassorilievo. Prendevano vita e sbarravano il passo, ruggendo verso chiunque si avvicinasse, in attesa che qualcuno della casa arrivasse e riconoscesse il visitatore, eventualmente per farlo entrare.
  Prudentemente l’Eremita si ferma di fronte alla ferocia incontrollata di una belva, che neppure l’Arcano della Forza era riuscito ad ammansire. L’altra ruggiva, ma bastava una carezza per rabbonirla.
  Era rimasta celebre e passata agli annali la grande scommessa del Mago, secondo cui nessuno sarebbe mai riuscito a rendere mansueti i due leoni in pietra della Città del Sole. Avventatamente, la maggioranza degli Arcani aveva ritenuto che il Mago avesse già perso in partenza la scommessa e quasi tutti avevano puntato sulle facoltà della Forza, la quale notoriamente riusciva a controllare le reazioni istintive di qualsiasi belva feroce, ma si erano arresi di fronte all’evidenza. Virtualmente così il Mago poteva vantarsi d’essere il più ricco di tutti. I giocatori neppure un momento avevano pensato di lesinare sulla posta e quindi avevano impegnato quello che avevano di più prezioso. Avevano partecipato alla scommessa quasi tutti, tranne il Gerofante, il quale aveva lanciato il suo anatema contro il gioco d’azzardo e Arcidiavolo, abituato a fiutare gli inganni e maestro nel tesserli e nel raccoglierne i frutti. Se avessero vinto, il Mago sarebbe stato condannato a una sorta di peregrinazione perenne: ogni ventidue giorni avrebbe dovuto consegnare gli strumenti della sua professione a uno dei vincitori, che ne sarebbe stato il legittimo possessore fino alla fine dei tempi.
  L’Eremita aveva scommesso la lanterna, di fatto non più sua, e il Mago avrebbe potuto riprendergliela, in qualunque momento avesse voluto. In tal modo l’intraprendente Numero 1 era davvero diventato il padrone di quasi tutti i beni degli Arcani maggiori, ma non li aveva mai reclamati per benevolenza, anche se, ogni tanto, andava a sedersi, qualche ora, sul chiacchierato trono dell’Imperatore, scommesso e perso in quella famosa circostanza. In pratica il Mago aveva gabbato e ridicolizzato quasi tutti ed anche Arcisole si era impegnato con le mura e l’intera Città, non più quindi di sua proprietà. 
  Da quel giorno i leoni non avevano più ruggito al vincitore e lo facevano entrare, senza neppure scomodarsi. Ogni tanto il Mago andava a trovare i perdenti per stuzzicarli e rivendicare, per un tempo limitato, la posta. Poi finiva tutto con una grande risata tra amici.
  Ad accogliere l’Eremita, al suo arrivo, si presenta il Mago. “Mi sono detto, vado a vedere come sta la mia Città, insegno a Elios qualche nuovo gioco di carte, mi faccio servire e riverire e aspetto l’Eremita. Se arriva a intravedere i due leoni di pietra, vuol dire che ha superato tutti gli ostacoli peggiori incontrati lungo la strada.”
  “E se non fossi giunto sin qui, cosa avresti fatto Mago?”
  “Saremmo corsi in tuo aiuto. Dalla tua espressione vedo che non sei contento d’incontrarmi di nuovo?”
  “Avrei preferito trovare le cose al loro posto, Mago.”
  “Ho preso possesso definitivo del mio palazzo; anche perché ho bisogno di spazio, ed io non avevo finora una dimora mia.”
 “Questa è la Città del Sole!”
“Me la prendo. E’ mia, l’ho vinta al gioco.”
 “L’hai vinta tanto tempo fa.”
“Tuttavia è sempre mia.”
  “Sapevi che la Forza non avrebbe domato quella fiera.”
  “Certo che lo sapevo. Ne ero sicuro. Avete fatto male a scommettere contro di me. Era prevedibile che non avrei perso.”
  “E tanto spazio a cosa ti serve?”
  “Ci metto in bella mostra quello che ho vinto. Stiamo allestendo con Elios un padiglione. Per adesso ho cominciato con il trono dell’Imperatore.”
  “E l’Imperatore ti ha consegnato il trono senza fare storie?”
  “Un gentiluomo paga sempre i debiti di gioco quando perde. Ricordalo.”
  “Allora visto che ci sono, ti lascio la mia lanterna!”
  “Non te l’ho mica chiesta!”
  “Tanto, alla fine, me la chiederai!”
  “Non avere mai fretta di pagare i tuoi debiti di gioco, prima che questi siano pretesi. A volte il vincitore si accontenta di una soddisfazione morale.”
   “Pensavamo, infatti, che in fondo ti saresti accontentato solo della vittoria morale. Come mai stai cambiando idea, col trono e con la Città?”
  “Intanto mi diverto, solamente immaginando la faccia del Folle, quando vedrà l’Imperatore seduto sul mio sgabello. Gliel’ho donato, al posto del suo trono. Una cortesia.”
  “Il Folle ancora non ha fatto visita all’Imperatore? Già dovrebbe esserci stato. Io mi sono attardato, per via che sono andato a fare un giretto nel firmamento. Strano, dove mai sarà andato? Il nostro patto era chiaro. Forse gli sarà successo qualcosa.”
  “Risale sempre dall’abisso non ti preoccupare. Sta arrivando il padrone di casa. Vi lascio alle vostre private conversazioni.”
  Visibilmente agitata, frattanto giunge la parte adulta e responsabile del diciannovesimo Arcano, quella che prendeva le decisioni e curava le pubbliche relazioni. “Ciao Arcisole. Immagino che il Mago ti abbia già raccontato della nostra riunione.”
  “Benvenuto, Eremita. Il Mago possiede uno spirito faceto, ma è sempre meticoloso: mi ha anche mostrato il suo invito. Dammi il mio. Ci sarò, puoi contarci.”
  “Allora ciao. Mi rimetto subito in cammino. Ti saluto. Ho fretta. Se il Mago ti sfratta dalla tua Città, puoi sempre venire nella mia dimora, con i ragazzi s’intende.”
  “Grazie; sei un amico, Eremita. Non credo che abbia in testa d’arrivare a tanto. Sta farfugliando qualcosa che non ha detto e che tiene segreto. Secondo me vuole fare una beffa al Folle. Vuole fargli credere che sta rivendicando il suo armamentario completo: la bisaccia, il bastone con gli Zeri e la fibula d’oro. Gli verrà un colpo!”
   “E il Mago si è messo a fare il balordo proprio ora, con tutto il casino attorno al sito dell’Uomo dei Tarocchi?”
  “Secondo me ha i suoi motivi, per architettare questa messa in scena. Per quanto mi riguarda, sto pensando che in fondo questa Città è grande e fuori moda. Andiamo insieme a incontrare Arcimondo e poi, via difilato, verso la tua dimora. I ragazzi non li porto dietro. E’ roba da grandi.”
 
 
44
Un’orchestra di Angeli musicanti
 
Proprio al limitare del Giardino del Lago, a Villa Borghese, l’Appeso frattanto aspettava, nella consueta posizione, il ritorno del Folle e penzolava da un albero come un pendolo, avvinto alla fune che scandiva il tempo della meditazione. Quantunque lo Zero avesse tentato di risvegliarlo, restava con gli occhi chiusi e il corpo geometricamente composto nella posa preferita. “Non posso aspettare i tempi della tua purificazione. Quando percepisci la presenza peccaminosa dell’Innamorato, scendi dal trespolo e raccontagli la barzelletta del vecchio pipistrello. Lui conosce la strada che porta alla dimora dell’Eremita. Fate il cammino insieme ed anche quattro salutari risate. Addio.”
  Il Folle aveva deciso di andare a vedere se il Giudizio si era poi affacciato alla dimora dell’Eremita come promesso. Si accomoda sul tappeto dimensionale, che era in grado di trasporlo ovunque, in pratica in un tempo veramente infinitesimale. Senza farsi notare, con mezzo occhietto aperto, l’Appeso frattanto sbirciava lo Zero, mentre sistemava sul prato quel suo originale manufatto ellittico.
  Contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, la dimora non era assolutamente sobria e risaliva ai tempi in cui l’Eremita aveva un poco di ottimismo in più, una certa voglia d’essere considerato per quello che valeva e lo spirito meno volto ai costumi spartani. La vasta magione nasceva proprio nei sotterranei del Castello di Erasmo, non lontano dalle famose grotte carsiche di Postumia e sfruttava intelligentemente i vari cunicoli naturali che si estendevano per chilometri dalle stesse fondamenta del Castello, edificato proprio sfruttando parti della roccia. La parte centrale del palazzo assomigliava vagamente a una grande lanterna che immetteva in lucerne più piccole, comunicanti attraverso corridoi illuminati con lampioncini di vari colori, dai vetri smerigliati e finemente lavorati. 
  All’interno dell’Anfiteatro carsico, il Giudizio stava facendo eseguire, da una ventina di Angeli musicanti ispirati al Melozzo, uno dei famosi concerti per tromba di Telemann, con cui avrebbe dovuto accogliere l’arrivo dei convitati. Aveva letteralmente preso sul serio il suggerimento alquanto derisorio del Folle e stava semplicemente facendo le prove del brano. Sembrava di buon umore, tutto assorto dalla sua nuova funzione di mezzo anfitrione e mezzo maggiordomo. 
  Per rispetto alla buona musica, il Folle, prima di parlare, aspetta la pausa tra il secondo e il terzo movimento. “Allora Giudi, come stanno andando le cose?”
  “Zero, già sei qui! Hai già completato il tuo giro di visite?”
  “No. Mi restano i due Arcani più difficili, Giudi.”
  Il Giudizio ci teneva a essere chiamato con il suo nome completo e detestava ogni diminutivo, o peggio soprannome e nomignolo, ma dal suo amico Folle riusciva anche ad accettarlo, a patto che fosse pronunciato con rispetto e senza aria di sfottò. “Ovvero?”
  “L’Imperatore e la Papessa.”
  “E perché sono i più difficili?”
  “Lo so io, Giudi. Sarebbe troppo lungo parlarne.”
  “E perché li hai lasciati per ultimi, Zero, se sono i più difficili?”
  “Ho seguito scrupolosamente la cabala.”
  “La cabala? Non sono mai riuscito a capirla!” Il Giudizio alle domande del Folle rispondeva con altri quesiti, come fanno i bambini, per via che aveva scelto di vivere abbastanza isolato e provava per tutto un’infinita e ingenua curiosità.
  “Lasciamo perdere, Giudi. Piuttosto dimmi? Per caso ha fatto capolino qualcuno della famiglia? I Minori?”
  “No, sarebbe qui: seduto ad ascoltare questa musica meravigliosa.”
  “Potrebbe non gradire la musica, Giudi.”
  “E allora avrebbe chiesto di smettere, Zero. Proviamo ininterrottamente, di giorno e di notte. Dev’essere un’esecuzione magistrale. Dato che mi hai interrotto, riprendiamo il brano dall’inizio; voglio sapere assolutamente cosa ne pensi.”
  “Per me va bene. Ho già ascoltato alcuni passaggi e poi ho fretta. Te l’ho detto che vado a incontrare i più ostici.”
  “Raccontagli una delle tue barzellette, Zero. Così rendi l’atmosfera più conviviale!”
  “Purtroppo, Giudi, non sono tipi d’ascoltare barzellette!”
“No? E a me, perché le raccontavi sempre?”
  “Perché il tuo morale è sempre a terra, Giudi.”
  “E com’è invece il loro umore?”
  “Sono altezzosi, superbi. Se racconto loro una barzelletta, mi prendono a calci nel sedere.”
  “Vuoi un consiglio su come comportarti?”
  “No.”
  “E perché no?”
  “Perché conosco i miei polli.”
  “Adesso cosa c’entrano i polli?”
  “E’ solo un modo di dire, Giudi.”
  “E perché il tuo dire, mette sullo stesso piano Arcani dabbene e polli villani?”
  “Ora lo ammetto: hai ragione Giudi, a volte i modi di dire si complicano la vita da soli.”
  “Zero, lo vuoi un mio consiglio?”
  “Ebbene parla! E facciamola finita!”
  “Urla in faccia agli altezzosi figuri che, se non vengono, il ventesimo Arcano si arrabbia: evoca i quattro Cavalieri dell’Apocalissi, fa suonare la fatidica Tromba, e si va tutti a nanna!” Il Giudizio sentenzia convinto, col piglio del soldato vanaglorioso. Il Folle vorrebbe mettersi a ridere, invece gli concede un poco di credito e a sua volta mostra di avere gradito il consiglio.
  “Bene, se non accettano l’invito con le buone, vuol dire che passerò ai modi risoluti. Hai ragione tu, Giudi, forse usando le minacce si ottengono risultati migliori.”
  Lo Zero fa per andarsene lesto, ma poi, dopo i consueti ventidue passi, torna indietro, chiama il Giudizio a sé e sussurra. “Codesti Angeli dove li hai presi, Giudi? Sono tuoi?”
  “Certo. Cosa credi? Che li abbia rubati?”
  “Sei riuscito a farli tu? Così bene e in così poco tempo?”
  “Non ne sarei stato capace.”
“E allora dimmi per favore da dove vengono!”
 “Perché?”
  “Mi piacciono. Ne vorrei anch’io uno uguale.”
  “Per farne cosa?”
  “Oh, tutto! Pulizie in casa, grazie alle ali; farmi leggere poesie la sera, prima d’addormentarmi.”
  “Dopo l’assemblea, posso prestarteli tutti molto volentieri, Zero. Non saprei proprio che farmene.”
  “Tuttavia credo si saranno affezionati a te, Giudi. E non voglio gente triste attorno.”
  “Puoi sempre ordinarli, dove li ho presi io!”
  “E appunto è quello che vorrei sapere, Giudi.”
  “Alla teca degli Angeli.”
  “Non sapevo ne esistesse una.”
  “Oh! E’ la più antica e la più affidabile! Tutta la produzione, prima d’essere messa in vendita, è controllata personalmente dal Gerofante in persona.” Il Folle a sentirlo nominare fa una smorfia di disappunto. E il Giudizio rincalza. “Se non ti fidi del suo marchio, non saprei proprio dove indirizzarti. Di meglio non c’è!”
  “Non è questo il punto, Giudi. Non sapevo neppure che quel Santo vendesse Angeli.”
  “Come! Produce Angeli da secoli per conto delle Voci celesti e tu non sai niente?”
  “Cosa posso farci, ognuno ha i suoi limiti, Giudi.”
  “Insomma Zero, vai alla teca degli Angeli. A nome mio. Io tutti gli Angeli li ho sempre presi là. Mi conoscono. Ti faranno anche lo sconto.”
  “Strano, io pure girando un mondo, diamine, non l’ho mai visto questo posto.”
  “Non sai dov’è?”
“No, Giudi! Diamine! Non lo so!”
 “Veramente, mi sembra impossibile che non lo sai.”
 “Eppure non lo so. Sono un asino.”
  “Dentro la Fortezza delle Voci, diamine!”
  “Dentro la Fortezza?”
  “Si! E adesso che lo sai, Zero, non mi rompere più le scatole!”
  “Ora dimmi, per favore, Giudi, come sei entrato nella Fortezza delle Voci?”
  “Nel modo più logico. Dal portone principale.”
  “Dove ci sono quei figuri più simili a Demoni?”
  “Sì, allora ci sei stato anche te, Zero. Vedi che mi prendi in giro!”
  “E tu, come hai fatto a entrare, Giudi?”
  “Nel modo più semplice, Zero! Dicendo che entravo per acquistare degli Angeli.”
  “Per secoli io e l’Eremita ci siamo arrovellati su come entrare nella Fortezza. Io sono riuscito a violarla; una volta sola nella mia vita, grazie ad uno stratagemma, e tu, Giudi, da sempre, ci vai e ci vieni, come in sagrestia, e non ci hai detto mai niente. Mi viene la voglia di strangolarti adesso! Qui! Con le mie mani!”
  “Purtroppo sai che non puoi strangolarmi, Zero. Non sono umano!”
  “Lo so, Giudi, ma diamine fammi urlare la mia rabbia. Fammi illudere che possa strangolarti adesso, ora!”
  “Non ti arrabbiare! Ti ci porto io e ti faccio vedere com’è facile entrare. Uno dei guardiani cortesi ti accompagna la prima volta e la seconda neppure ti viene dietro, tanto sa già che conosci la strada!”
  “Per anni dunque, gli Angeli che ti facevano compagnia non erano tuoi, ma i prodotti di fabbrica dello sposo della quintessenza!”
  “Certo! Confermo!”
  “E tu, infingardo di un idiota, non ci hai mai detto niente!”
  “Detto, cosa?”
  “Che li avevi comprati. Li presentavi sempre come i tuoi Angeli prediletti.”
  “E lo erano, infatti.”
  “E così, in tutti questi anni, hanno ascoltato i nostri discorsi!”
  “Sì. Forse è probabile!”
  “Sei il più incosciente e il più pericoloso. Ancora una volta. Mi viene la voglia di strangolarti adesso! Qui! Con le mie mani!”
  “Non ti arrabbiare di nuovo!”
  “Fammi andare via! Altrimenti alla riunione non saremo più tutti. Lo giuro.”
  “Suonavano divinamente. Non potevano essere farina del mio sacco.” Il Giudizio interrompe la sfilza delle sue giustificazioni, perché il Folle gli aveva voltato le spalle e se ne era andato, senza neppure salutare.
 
 
45
L’Imperatore senza più trono
 
Appollaiato sopra uno scorticato sgabello, l’Imperatore sembrava essere preda di un’allucinazione. Osservava inebetito verso il punto esatto dove un tempo era sistemato il trono: imperituro e  inimitabile simbolo del suo potere. Il Folle dalla sorpresa non riesce ad apostrofarlo col consueto Supremo. Sgrana letteralmente gli occhi. Non crede a quello che vede e si mette a ridere a crepapelle. Poi gira attorno all’Imperatore lentamente, quasi a cercare una qualche reazione. Visto che il girotondo non sortiva alcun effetto, comincia a canticchiare una filastrocca infantile, come se dovesse risvegliare un bambino da un lungo sonno, provocato dai perversi incantesimi di una strega malvagia. Il mutismo imperiale raccontava di una tragedia che si era conclusa da poco. Lo sguardo era alquanto stralunato. Certo ancora non si era ancora ripreso dalla sgradita sorpresa che il Mago gli aveva riservato. In un attimo fatale si era ritrovato con uno sgabello sgangherato, al posto del trono, portato via da uno stuolo di servizievoli piccoli maghi, simili a gnomi e forti come giganti.     
  All’Imperatore tutto era parso incredibile. Doveva essere uno dei tanti scherzi burloni che il Mago aveva sempre tirato agli Arcani, specialmente a quelli più altezzosi, che facevano la voce grossa. Lui in fondo voleva bene a quello scavezzacollo e lo aveva sempre perdonato. E la grande scommessa l’aveva considerata sempre una burla intentata verso tutti gli Arcani, che poi avevano visto restituirsi il mal tolto. Adesso stentava a crederlo: dopo non so quanto tempo, il Mago aveva deciso di rivendicare la posta ed era un diritto che neppure l’Imperatore poteva negargli. Conformemente al suo carattere orgoglioso, non aveva fatto una grinza e aveva puntualmente pagato la scommessa, perché non si sarebbe mai abbassato ad elemosinare uno scambio di favori per riscattare il trono.
  “Allora Supremo! Hai per caso mandato il tuo trono in pensione?”
  “Finalmente ascolto un’anima pia che mi scrolla dal mio torpore. Sto qui, immobile, da alcune ore. Non so neppure io esattamente quante. Ti ringrazio, per avermi fatto tornare in me, Zero.”
  “Al trono cos’è successo?”
  “Non ci crederai, quando te lo racconto.”
  “Suvvia parlane, presto! Così ti sfoghi!”
  “Il Mago l’ha preteso. Sta esigendo da ciascuno quello che avevamo puntato ai tempi della grande scommessa, quando tutti credevamo nella Forza della Donzella, la quale non ha saputo domare quel leone di pietra.”
  “Il Mago dev’essere impazzito, all’improvviso. Gli parlo io e lo riporto alla ragione. Ti faccio restituire il trono, quanto prima.”
  “Non accetterei mai una tale mediazione, per quanto possa essere affezionato al mio trono. Ne scadrebbero la mia dignità, il mio decoro. Inchinarmi, per interposta persona, a domandare un favore. Mai! Sarebbe una grande umiliazione. Preferisco restare senza trono. Farmene un altro. Magari più bello di quello di prima. E poi tanto non ha più il valore di una volta. Era diciamo un simbolo, a cui ero veramente affezionato, questo sì. Dopo che l’Uomo dei Tarocchi l’ha messo sulla bocca a tutti, ha perso la sua esclusiva ed è diventato un patrimonio del mondo intero.”
  “Allora, non ne fai un dramma.”
  “Questa vigliaccata proprio non la digerisco. In qualche modo dovrò pure reagire. Tanto è perso, ormai. Né lo rivoglio più indietro: se mai dovesse farmi la grazia di restituirmelo. E’ suo, perché l’ha vinto!”
   “Su non fare il superbo; ma è logico; è un altro scherzo.”
  “Io non ho battuto ciglio. Mi sono alzato e ho fatto cenno ai suoi lacchè che potevano prendersi il mio trono.”
  “Vedrai che è uno scherzo. Giacché ci s’incontra tutti nella dimora dell’Eremita, metteremo come primo punto all’Ordine del Giorno anche la risoluzione pacifica della grande scommessa vinta dal Mago.”
  “Per quale motivo ci s’incontra?”
  “Ci sono tante questioni aperte sul tappeto. L’oracolo dell’Uomo dei Tarocchi. La gravidanza dell’Imperatrice. E poi le vicende del tuo trono. Tanti motivi per incontrarsi.”
  “L’Imperatrice gravida?”
“Pare dell’Innamorato. Anche se lui nega.”
  “Allora ci sarà un’atmosfera movimentata. Da vecchia gazzarra di una volta. Vale la pena vedere come andrà a finire.”
  “Io vado. Ciao.”
  “Vengo via con te, Zero. Se non ti dispiace.”
  “No, anzi, Supremo. Devo incontrare una persona poco simpatica. Forse, avendo te al fianco, riuscirò a digerirla. Comunque, a pensarci bene, il Mago ha avuto l’idea giusta.”
  “Stai bestemmiando! E’ molto grave quello che dici!”
  “No, rifletti bene un attimo. E rispondi, Supremo. Tu saresti venuto tanto facilmente all’assemblea degli Arcani?”
  “Assolutamente, no, Zero.”
  “Vedi: sei sincero! Avresti fatto mille problemi. Posto condizioni. Invece te ne vieni via tranquillo. Senza farti tanto pregare. Perché hai qualcosa da perdere, Supremo. Se è stato questo l’obiettivo del Mago, è stato semplicemente geniale. Dobbiamo tutti ringraziarlo.”
  Il Folle distende per bene il tappeto, proprio alla base di quello che un tempo era stato il complesso monumentale del trono dell’Imperatore, a cui era stato sottratto il cubo di marmo pario, tutto istoriato con i simboli alchemici d’oro della Terra, del Fuoco, dell’Aria e dell’Acqua.
  “Dove siamo diretti, Zero?”
  “Sul monte dove secondo la mitologia greca soggiornavano gli Dei.”
  “Ti affidi sempre al tuo tappeto per gli spostamenti?”
  “E’ il mezzo più rapido a nostra disposizione. Abbiamo i tempi contati. Hai qualcosa in contrario, Supremo?”
  “Diciamo, Zero, che finora sono sempre stato con i piedi per terra. Non ho mai volato. Non mi sento sicuro sospeso nell’aria.”
  “Questo mio tappeto è una versione più ricercata dell’aereo. S’insinua nei meandri dell’iperspazio e in pratica viaggia a una velocità prossima a quella della luce, per cui lo spazio tradizionale si riduce quasi a zero e il tempo di percorrenza è quasi istantaneo.”
  “E tu, Zero, sei riuscito a realizzare questo tappeto portentoso da solo?”
  “Quando ero andato in Iran per conoscere tutto sulla manifattura dei tappeti persiani, avevo portato con me anche un libro di fantascienza per distarmi nelle pause. Lo scrittore parlava d’iperspazio con una disinvoltura sorprendente. E allora mi sono dato da fare per realizzare un modulo dimensionale, disegnato secondo la tradizione antica.”
  “Allora non posso esimermi dallo sperimentare questo prodigio. Come si mette in moto?”
  “Semplicemente tirando questo filo.”
  “Inaudito!”
 

 

46
Il Folle pone tre quesiti alla Sfinge
 
Grazie al tappeto volante, i due Arcani sopraggiungono in un baleno, ma la Papessa non dava segni della sua presenza. Di solito presidiava la vetta del monte Olimpo da una postazione invisibile e si materializzava in cima alla scalinata che conduceva al Tempio della conoscenza, appena l’intruso metteva piede sul primo gradino.
  “Questa vacanza della zia simpatia proprio non ci voleva.” L’epiteto affibbiatole sintetizzava il suo carattere sdegnoso e schivo. Il Folle bisbiglia verso l’Imperatore per non farsi ascoltare dalla Sfinge, accovacciata a vigilare di fronte alla porta del Tempio. Il mostro alato, quieto, occhieggia verso i due viandanti sopraggiunti, senza scomporsi per la loro presenza. Neppure formula le tre fatidiche domande. Si limita a osservarli, in attesa che siano loro a palesare le intenzioni; così facendo vuole un poco tenerli in apprensione.
  I due compagni occasionali si guardano interdetti, quasi per darsi un suggerimento. Il Folle rompe l’indugio. “Sfinx, temibile guardiana, vorremmo conferire con la Papessa. Niente Tempio per oggi. Quello che sappiamo, ci basta per sopravvivere.” *
  La Sfinge mostra di sapere apprezzare le battute mordaci. “Si vede che non siete intellettuali. Io i sapientoni li detesto. Dimostro loro che non sanno niente e poi me li sgranocchio.”
  “E con i simpatici passanti come ti comporti, Sfinx?”
  “Mi faccio raccontare delle storie, per intrattenermi. Le favole per bambini sono le mie predilette. Tuttavia devono piacermi. Altrimenti sgranocchio anche i passanti senza fantasia.”
  Finora silenzioso, anche l’Imperatore, per non essere da meno del Folle, vuole fare la sua battuta, tuttavia non riesce a essere pungente come vorrebbe. “Insomma le buone abitudini non si dimenticano mai. Sfinx, dobbiamo raccontare una storiella a testa, o una in due, va bene?”
  “Non fate i furbi. Deve essere una storia originale, altrimenti non vale.”
  “Scusa, amica Sfinx, lo scherzo un poco mi piace, il dileggio meno! Noi siamo due rispettabilissimi Arcani. Io sono l’Imperatore e sto accompagnando il Folle in una missione delicata. Non puoi trattarci alla stregua degli altri e fare finta di non riconoscerci!”
  Stava per iniziare un bisticcio e interviene prontamente il Folle, per mettere un freno alle discussioni. “Quel che è detto, è detto. Leggo io una mia storiella inedita.”
  Sorpreso l’Imperatore vorrebbe subito esternare tutta la sua meraviglia, ma la Sfinge anche manifesta apertamente il suo stupore. “Dunque Zero, ti sei messo anche a scrivere! Suvvia, favella! Sono tutt’orecchi. Quando c’è una buona novella, entra subito a far parte della Biblioteca. Trascrivo ogni cosa in anteprima.”
  Il Folle tira fuori dalla tasca un foglio abbastanza stropicciato e comincia a leggere, dimostrando dal tono che stava prendendosi sul serio e non scherzava per niente.
  “A come Abbraccio.
  Ciao, sono il tuo vocabolario e sono pazzamente innamorato della prima lettera dell’alfabeto. Così aerea, affabile, allegra, avvenente. Posso abbracciarla e portarla con me, ovunque. Occupa poco spazio, è modesta, ma è sempre la prima, in ogni tipo di situazione. 
  Dopo la lettera A, nei miei affetti, ci sei sempre stato te: il mio studente preferito, che non scorderò mai; a cui sto dando preziosi suggerimenti perché possa attingere ampiamente da questa sapienza sparsa.
  Oggi, caro compagno, mi sento giù di morale, perché non mi degni di uno sguardo da giorni ed io invece ho bisogno d’aria, della linfa della mano che mi sfoglia e mi fa sentire vivo. Avrei tanti suggerimenti da offrirti, ma non ti sei reso conto pienamente di quanto io sia prezioso e indispensabile per la tua carriera. Da quando hai superato l’esame di maturità, non hai pensato a me neanche una volta; eppure potrei insegnarti tante cose che la scuola non ti ha saputo dare.
  Ti scrivo ogni giorno. Voglio essere assillante. Voglio farmi ascoltare. Tuttavia tu rimani indifferente al mio richiamo. E non sai che navigare nel mare informatico, dove tutto è così travolgente e confuso e le parole non sono ben distribuite. 
  Qui, dentro di me, l’ordine e la ragione regnano sovrani. Mentre in quel guazzabuglio della rete rischi di perdere le tue certezze. E ne resti preso, avviluppato, come un pesce giovane e inesperto. Qui, con me, potresti trovare quella sicurezza che ti manca e raggiungere un porto sicuro, ove ristorare le tue inquietudini. Aprimi un poco. Te ne prego. Fammi prendere aria ogni tanto. Cosa ti costa? Potresti degnarmi di maggiori attenzioni e non essere così indifferente.
  Sono invecchiato ed anche impolverato. Qualche timido pesce d’argento prova a farmi felice con un poco di solletico e mi fa ben sperare che tu possa accorgerti di me. Solamente la lettera A non mi hai mai tradito. Sempre prima, nei miei pensieri e nel mio cuore.
  Vorrei ricordarti del genio dannunziano. Ebbe modo di crescere grazie alla buona abitudine che non rinnegò mai nella sua gloriosa carriera: la lettura ogni giorno del vocabolario, fin da quando aveva frequentato la scuola media, dove fu istruito da professori non famosi ma dotati di grande buon senso e di solide basi culturali, se riuscirono ad inculcare nella sua zucca di ragazzo la curiosità di scoprire la vastità del mondo delle parole, da cui attingere spunti, emozioni, suoni. Il suo passatempo, mi ha riferito uno zio vocabolario, era saltare da una parola all’altra e riuscire così a spaziare in tutti i rami dello scibile umano, arricchendosi con uno strumento che compendia il sapere come nessun altro al mondo.
  Addio amico. Da uno scaffale di libreria, sono finito in una scatola che andrà in cantina e non vedrà più neppure un filo di luce. Tuttavia io, in questi anni, ti sono stato sempre fedele e ti ho scoraggiato dal prestarmi a qualche amico, perché la gente non rispetta le cose altrui in generale, e soprattutto non restituisce mai i libri.  Con la quotidiana dedizione sono riuscito a conquistarmi il tuo rispetto: mi hai sempre tenuto con cura e maneggiato senza mai stracciare una pagina, o peggio fare un’ineducata sottolineatura.
  Ciao, sono il tuo vocabolario sapiente. La lettera A mi ha insegnato ad amare, a soffrire, a perseverare. Mi ha portato sempre via con sé, nel suo cuore. Così rotonda, così affettuosa, così buona e compassionevole. Della mia fedeltà non ha mai riso, ma ha voluto condividere le sorti con me, fino all’ultimo giorno. Di sera, ci siamo coricati insieme e poi ci siamo addormentati dopo averti scritto quest’ultima lettera piena d’amore. 
 A come abbraccio.” 
  “B come bagattella.
  Il vocabolario la definisce una cosa frivola e senza troppa importanza.
  E’ parola apparsa nel lontano 1476. Giunge fino ai nostri giorni alquanto desueta, logora. Confinata nei salotti buoni, che apprezzano la musica e si dilettano lo spirito con qualche breve e semplice componimento musicale, detto in età barocca, appunto bagattella. 
  Designa anche un antico gioco di prestigio fatto con i bussolotti che nessuno praticherà mai più. Il suo sinonimo più appropriato è bazzecola, che definisce una piccola cosa di poco conto, senza valore. Bagattella e bazzecola fanno il paio, per affinità sonora, per stuzzicare l’orecchio col niente.
  Nell’edizione del nostro vocabolario, questa parola porta a lato un simbolo floreale, che assomiglia a un trifoglio ed indica un vocabolo di cui si sta perdendo l’uso, ma che va salvato, perché appartiene al nostro patrimonio linguistico, messo in pericolo dall’abuso di termini più piatti, prosaici e ordinari.
  Nel Quattrocento, in alcuni mazzi, il primo Trionfo dei Tarocchi veniva chiamato appunto Bagatto (da bagattella) perché mostrava un prestigiatore che sul suo tavolinetto, nella pubblica piazza, stava mettendo in scena qualche magica per attirare l’attenzione dei passanti.
  La frenetica modernità credo stia oscurando preziose antiche bagattelle, mentre dovremmo rivalutare l’apparentemente insignificante e ridare una dignità anche alle piccole cose quotidiane. Ci facciamo sorprendere troppo dall’eclatante, dal bizzarro, dallo straordinario. Se tutti fossimo più attenti al mite, lieve suono di una bagattella, riusciremmo a danzare tra le vocali e le consonanti, fino ad arrivare alla magica voce primordiale.”
  “La lettera C ancora deve trovare una degna parola che la rappresenti.”
  La Sfinge sorniona ascoltava, con un pizzico d’interesse, ma senza perdere la sua tradizionale compostezza. “Alla lettera B mi sarei aspettata una barzelletta, tratta dal tuo vasto repertorio. Vorrei ascoltarne una. Sono sempre stata un poco curiosa, da quando si è sparsa la voce sulle tue folli facezie.”
  “Questa tua richiesta mi rende onore, temibilissima Sfinx. Te ne racconto una sui santi irlandesi. 
  Un giorno stavo leggendo un libro di fiabe. Lo scrittore William Butler Yeats ha saputo raccogliere un’infinità di leggende sorprendenti tratte dalla sapienza e dalla superstizione popolare. La paternità è sua. Io l’ho arricchita, strada facendo. Bisogna premettere che i santi in Irlanda sono tanti, per via delle orazioni, e sono spiriti esigenti, dal carattere difficile. 
  Nella contea più devota del paese vi era anticamente un borgo chiamato Fonte Pia, dove era nato un cimitero riservato esclusivamente ai santi. Un tempo era sulla riva destra del fiume, quella più alberata e amena, ma un giorno, forse per sbaglio o per troppa fretta, alcuni stranieri e viaggiatori di passaggio, decisero di seppellirvi un brigante che li aveva assaltati ed era stato ucciso dal postiglione. Di notte l’intero cimitero passò sulla sponda sinistra più paludosa del fiume, lasciando il malfattore da solo. Sarebbe stato più semplice rimuovere solo il furfante, ma quelli erano santi irlandesi e dovevano agire con determinazione e con stile.”
   “Splendida, veramente arguta. Adesso che l’atmosfera si è più rilassata potremmo finalmente ribaltare la tradizione. Giacché siete due Arcani di alto spessore, potreste rivolgerle a me tre domande. Certo non quelle leggendarie che io sottopongo ai viandanti. Così difficili e finora rimaste senza risposta.”
  Il Folle e l’Imperatore tirano un respiro di sollievo e tornano a guardarsi, per suggerirsi su chi dovrà rompere gli indugi e accettare quella che sembrava una burla e una provocazione.  La Sfinge interpreta quei segnali. “Dico sul serio. Tre domande. Una volta tanto vorrei provare l’emozione di dovere rispondere.” I due però non accennano una parola. Hanno timore si tratti di un trabocchetto e poi non vogliono sembrare irriguardosi. L’essere mitologico allora li incalza e li irride. “Siete proprio dei viandanti di coccio. Avete fatto tanta strada per nulla?”
  Il Folle decide di rompere gli indugi. “Amatissima Sfinx, certo ho tante domande qui: sulla punta della lingua.”
  “Non temere. Sciogliti. Solo tre domande però. Sei sarebbero troppe. In fondo avete raccontato una storiella in due.”
  L’Imperatore s’insinua diretto nella leggenda e, proponendosi quale credibile interlocutore, vuole passare alla storia, con una domanda mitica. “Sfinx, pare, almeno così si racconta, che un certo Edipo ti abbia risposto: una volta, tanto tempo fa, quando andava verso Tebe e ancora disconosceva la sua vera identità.”
  La Sfinge non cade nel tranello e non si presta a una digressione di tanto spessore. Dovrebbe pronunciarsi su un mito troppo granitico anche per lei. “Tutte chiacchiere messe in circolazione da letterati scansafatiche. Se Edipo avesse veramente risposto, starei qui a fare cosa?”
  “A farti raccontare altre storie, Sfinx. In fondo la vita è fitta di pettegolezzi.” Risponde prontamente il Folle.
  “Allora Arcani! Non sapete tirare fuori dal cilindro tre domande in due? Se non parlate, Vi declasso al rango di Arcani minori!” Incalza la Sfinge, che non voleva mollare la tensione e aveva abilmente eclissato la vicenda di Edipo.
  L’Imperatore tentenna. Ogni domanda gli sembrava assurda, o fin troppo banale. Ne scarta diverse. Si sente impotente e battuto. Più rapido a prendere una decisione e a rischiare è ancora una volta il Folle, che poteva sempre rivendicare la paternità della storiella e quindi aveva tutto il diritto di riscuotere. “Chi è stato il vero ideatore dei Trionfi?”
  “Siete stati concepiti dalla fervida fantasia di un occultista, che si era rifugiato in Béziers per sfuggire alle persecuzioni degli eretici, prima che la città fosse rasa al suolo e perissero tutti i suoi abitanti. Il Papa Innocenzo III, una mattina, pensò bene d’estirpare la pericolosa eresia dei Catari, bandendo una santa crociata contro gli infedeli della Linguadoca. Baroni e scanna buoi ne approfittarono per guadagnare soldi, privilegi e qualche indulgenza per la loro anima. L’occultista travasò e filtrò il suo sistema filosofico esoterico nelle icone degli Arcani maggiori, poi prontamente rivisitate e modificate dagli attenti guardiani dell’Inquisizione. Per svuotare quelle carte dalla loro originaria patina eretica, condirono i Trionfi con diversi simboli religiosi che originariamente non c’erano. Il trucco funzionò e gli originali furono tutti bruciati negli anni immediatamente successivi.”
  “Quando fu realizzato il primo mazzo originario dei Tarocchi?”
  “Ovviamente qualche annetto dopo. Il progetto iconografico era piuttosto ambizioso e ci voleva una non comune abilità. L’ideatore Taro voleva restare a Béziers e morire come martire con i suoi abitanti, ma un suo giovane discepolo, un ebreo romano, lo convinse a lasciare la Linguadoca prima dell’arrivo dei Crociati e lo condusse con sé, facendolo passare per una vittima degli Albigesi. Insieme, con un trattato sui numeri che illustrava il significato dei primi ventidue Arcani maggiori, portarono a termine la difficile impresa e realizzarono, miniandolo a mano, il mazzo di carte completo. Poi, con l’aiuto di alcuni amici complici, architettarono una messa in scena per giustificare l’apparizione di quelle icone. Secondo la volontà dell’artefice scaturirono da una faccia di pietra, che il popolo romano credeva avesse poteri divinatori e fosse in grado di smascherare i bugiardi e le adultere.”
  “E i ventidue Trionfi, appena hanno messo il naso fuori dal mascherone di pietra, si sono messi a correre come vispi ragazzi tra i ruderi del Foro Boario. Io me la ricordo la scena. Nati così, già grandi in un attimo, con certe idee già fisse nella zucca. Il prodigio com’è stato possibile?”
  Alla terza fatale domanda la Sfinge non risponde. Il Folle, interdetto, con lo sguardo la pungola, a significare che si aspettava ancora altro. Allora l’Imperatore gli fa un cenno, per dire che era bene desistere, ma il Folle aveva la faccia brava e non si vergognava di pretendere quello che gli era stato promesso sul campo. Era spavaldo e non mostrava timori reverenziali verso nessuno. “Caro zio Zero, ti avevo concesso appunto l’opportunità di formulare tre domande. Non avevo promesso una risposta esauriente per tutte. Le Voci delle poderose entità vivono in sostanza a ridosso dell’occulto. Altrimenti non avrebbero un cantuccio, dove confondersi e rimescolarsi, un poco come fai te col Mondo di Sotto, dove trovi linfa e sostanza e motivi di rissa e di svago. Insomma, se proprio ci tieni a saperlo, siete scaturiti fuori per una mescolanza di magia, di cabala, d’alchimia. Partoriti durante un sabba in una notte di luna piena.”
  Adesso l’espressione della Sfinge pareva seria, e persino dolente. Si sentiva dal tono della voce che non scherzava per niente e non stava bleffando con le risposte. Simpatizzava con quei due Arcani volenterosi e intraprendenti, arrivati sino al Tempio della conoscenza solo per parlare con la Papessa di comuni problemi di famiglia. Il suo ruolo antico era stato sempre quello d’interrogare. In tutta la sua millenaria esistenza non aveva mai concesso un’intervista. Adesso, presa da uno scoppio d’improvvisa ilarità, aveva persino apostrofato il Folle, chiamandolo zio Zero. Quello che di lì a poco sarebbe successo, avrebbe sorpreso anche la Sfinge, che non aveva mai dato credito agli scartafacci polverosi, custoditi per dovere e per conto di altri.
  * Sfinx: in greco indica la Sfinge: il mostro dal corpo alato che secondo la leggenda proponeva indovinelli ai passanti. Le cinque lettere greche esprimono al meglio la natura della creatura che unifica i quattro elementi fondamentali della vita: Fuoco, Terra, Aria ed Acqua. In base alla seconda tabella (inserita alla premessa del romanzo, che mette in relazione lettere, numeri e Trionfi) abbiamo la sequenza: S-17, le Stelle; F-6, l’Innamorato; I-9, l’Eremita; N-12, l’Appeso; X-21, il Mondo. Sommando 17+6+9+12+21 otteniamo il numero 65, riducibile a 11 (6+5). 11, la Forza, a sua volta riducibile a 2. Yang e Yin strutturano Sfinx, essenza stessa della Forza che permea i 4 elementi fondamentali. 
 
 
47
Le origini della Sfinge egizia e il mito di Edipo
 
Quando Edipo aveva risposto ai tre quesiti esistenziali, la Sfinge, sospinta da un irrefrenabile moto di rabbia, si era gettata nella gola sottostante, ma poi ne era risalita con la forza delle sue ali spiegate. Neppure la disperazione l’avrebbe mai spinta al suicidio. Nessun eroe sarebbe stato in grado d’ucciderla. Non le era successo nulla di tragico e irreparabile, come invece qualcuno aveva raccontato in giro. Semplicemente aveva smesso di martoriare quella regione, riconoscendo a un greco coraggio e sapere. Edipo si era preso tutto il merito ed era stato acclamato re dai Tebani.
  Librata nell’aria fresca, al levar del sole, la Sfinge, nel vedere allontanarsi per i sentieri sassosi quel temerario, aveva ripercorso le fatali tappe che l’avevano condotta alle aspre contrade della Beozia.  Aveva mosso i primi passi in una remota alba, nell’ampia oasi della piana di Giza. Sua madre, ora di pietra, con la faccia dipinta di rosso, vegliava sul quieto eterno levar del sole. Rivolta verso est, poteva osservare la luce inondare il lontano scorrere del Nilo, navigato da bianche vele gonfie dal vento.
  Il prodigio alato conservava ancora negli occhi l’incanto delle verdi oasi, dove i faraoni avevano fatto erigere tre piramidi. Credevano che quei possenti simboli potessero combattere la morte sul piano magico, in virtù del fatto che le quattro facce triangolari ascendenti, costruite sulla base quadrata della piramide, si uniscono in un punto ideale: il vertice, sintesi alchemica dei quattro elementi fondamentali della vita, che fisicamente tornano a fondersi per l’eternità. A quei tempi erano nozioni riservate a pochi iniziati e solo i più ricchi potevano predisporre il proprio viaggio nell’aldilà, costruendo un possente tumulo così straordinario. Lei e sua madre abitavano oasi nascoste dal deserto ancora lontano che circondava quel paradiso, quasi preservandolo alla vista dei profani.
  Adesso nella necropoli silenziosa non v’erano più i guardiani armati a difenderla. Periodicamente passava ancora qualche carovana di predoni, che cercavano un varco per profanare le tombe e privarle dei tesori custoditi. La cupidigia degli umani non risparmiava neppure i morti. Il maestoso gigante di pietra, a ridosso del deserto, avrebbe dovuto atterrire e quindi impedire l’accesso alle piramidi. Era stato messo proprio lì, per vegliare sulle piramidi, dove veniva predisposto per il viaggio il corpo dei faraoni defunti.
  La giovane e portentosa Sfinge del deserto, ancora impotente, soffriva per la sua incapacità d’impedire quei periodici saccheggi. Il più delle volte terminavano tragicamente: trappole e labirinti erano sparsi dappertutto. Pochi profanatori tornavano indietro per raccontare quello che avevano visto. Secondo l’immaginazione fantastica della mostruosa creatura, sua madre per punizione era stata pietrificata in una sola notte dagli dei, proprio per non avere saputo preservare le tombe dei faraoni. Un tempo doveva essere stata per forza di carne viva e i sacerdoti, spettatori dal nulla della colossale Sfinge, per giustificare il prodigio, avevano messo in giro la voce che era stata costruita da migliaia di schiavi ed era il frutto d’innumerevoli sacrifici. Gli egizi aspiravano a essere gli unici uomini capaci di costruire simili colossi. Nessuno dei posteri doveva sapere quello che era accaduto. La giovane Sfinge era cresciuta con questa tenera convinzione. Amava troppo sua madre per pensare che fosse veramente di pietra.
  A dispetto dell’apparente, ottusa staticità, la Sfinge egiziana di Giza aveva una sua memoria. Al suo interno, milioni di cristalli di silicio costituivano una grande rete di consapevolezza. La portentosa creatura ne aveva ereditata l’impronta originaria ed era stata generata da una proiezione delle linee di forza distribuite in una catena di cristalli pensanti. La figlia del deserto ignorava ancora le potenzialità dell’infinitamente piccolo e non si sentiva figlia di una Sfinge pietrosa, ma di una creatura che in passato era stata di carne. Quella condanna eterna al silenzio faceva piangere sua madre di lacrime vere che trasudavano dagli occhi di pietra e sembravano due rivoli sgorgati dalla zolla. Aveva ereditato la natura tetramorfa della madre e lentamente era diventata un mostro alato con artigli e occhi che sapevano scorgere i movimenti più nascosti delle creature del deserto. Possedeva la forza del toro e l’agilità del leone. Perfida e bella, come sa essere una donna. Adesso che si era sparsa la voce della sua presenza, nessuno più osava avvicinarsi alle piramidi. 
  La giovane Sfinge aveva lasciato la piana di Giza e sua madre, quando aveva smesso completamente di piangere e il volto rosso di pietra era stato reso meno delicato dal vento del deserto. La sabbia nel tempo aveva creato dei piccoli fori e delle fessure e la sofferenza si era accumulata fino a sfinire anche la pietra che era diventata secca e asciutta per il calore. Il mausoleo della Sfinge egiziana sarebbe rimasto eternamente a rammentare al viandante enigmi senza risposta.
  La Sfinge vivente, stanca di quella plaga deserta, un giorno aveva spiccato il volo per andare a spadroneggiare in un'altra regione lontana, separata dall’Egitto dal mare. Si era posata nelle vicinanze di Tebe, nata in fondo ad una valle e circondata dai monti Citerone ed Elicona. Proponeva indovinelli ai viandanti e divorava gli sventurati che ovviamente non sapevano rispondere. Prodigio, intriso d’umano e d’animalesco, custodiva, come sua madre, verità esistenziali terribili.
  Per caso, un certo Edipo andava calpestando le strette vie sassose della Beozia. Non era neppure un valoroso eroe, o un re. Soltanto un anonimo giovane, salvato da due anziani pastori che lo avevano allevato. La Sfinge sapeva che il destino si sarebbe accanito sopra di lui. Da poco aveva ucciso suo padre Laio, senza saperlo e poi, ignaro, avrebbe sposato la regina dei Tebani, Giocasta, sua madre. Avrebbe potuto confonderlo e mandarlo verso un altro sentiero in maniera perentoria. Invece era diventata indifferente al dolore delle creature e a Edipo non aveva voluto risparmiare le sofferenze. Quel povero figlio, adottato da pastori, pareva un inviato dagli Dei e si era fatto notare, per la sua arditezza e prontezza, con una risposta concisa ed inequivocabile. ‘Siamo qui, per ricordare da dove siamo venuti e stiamo ritornando alle riviere di luce.’ Con quest’unica risposta, Edipo aveva unificato e risolto l’enigma esistenziale che la Sfinge proponeva agli incauti viandanti. 
  Poi gli abitatori dell’Olimpo avevano liberato dal morbo della peste i Tebani e chiamato la prodigiosa creatura presso di loro, accolta avventatamente come figlia di numi e riconoscendole il ruolo di guardiana del Tempio della conoscenza. Non potevano lasciare quel prodigio vivente imperversare sulle altre città della Grecia. Il flagello doveva essere assimilato e ricondotto alla ragionevolezza.
  La Sfinge, sottomessa di buon grado, subdolamente si era lasciata purificare dalle Grazie con i balsami divini. Poi, in una notte di plenilunio, quando tutti gli Dei erano riuniti per festeggiare l’iniziazione della guardiana, aveva potuto consumare la sua vendetta trasformandoli con l’inganno in comuni mortali. Il contatto, non solo fisico, con la Sfinge era stato fatale alle creature dell’Olimpo. Urlando di orrore e di rabbia, atterrite, riportate alla dimensione carnale, erano fuggite via, maledicendo in eterno la figlia di un prodigio di pietra che i faraoni avevano eretto a presidio dei tumuli funebri nel deserto.
  Il mostro scientemente aveva lasciato un solo unico sopravvissuto: il giovane innocente Eros che era partito per una scorribanda amorosa. Superstite della gloriosa schiatta, proprio perché maturasse nel dolore e rammentasse sempre quanto è dura la morte dei propri cari.
  Poi un giorno, su quelle pendici del monte Olimpo, era sopraggiunta una donna brutta ma sapiente, che diceva di essere la Papessa dei Tarocchi e ne era scaturito un inatteso sodalizio. La Sfinge aveva subito fraternizzato con quel misterioso Arcano dai natali incerti. Accolta nel gruppo dei ventidue prodigi viventi, ne era diventata l’autorevole antesignana, per essere figlia della pietra del deserto. Eros aveva trovato un suo padre adottivo nell’Innamorato e così i sodalizi erano diventati due, perché alla legge del dualismo universale si deve sempre rispetto.
  La Sfinge, memore del fascino delle oasi, disconosceva essere un parto scaturito dai cristalli di silicio, fusi in un grande blocco di pietra nel deserto egiziano. Nella notte in cui aveva trasmesso la carnalità agli dei, aveva giurato che sarebbe rimasta in eterno a vegliare sul Tempio della conoscenza e che non avrebbe abbandonato il suo presidio. Quando il minuto Eolo, soffiandole inutilmente contro i suoi venti, le aveva domandato con fierezza il perché di tanto accanimento contro gli Dei, la Sfinge aveva rammentato loro la colpa di avere trasfigurato sua madre di carne in un ammasso di pietra. E lui, irridendola, per nulla temendo di essere trasformato, aveva lanciato il suo anatema. “Un giorno, un uomo risponderà ai tuoi quesiti e ci vendicherà. E tu, lentamente, sarai trasformata in un monolito. Poi ti perderai inesorabilmente nei meandri dell’infinitesimo.”
  Aveva giudicato ingannevoli le parole profetiche di Eolo e avrebbe voluto cancellarle dalla memoria. In cuor suo ripeteva che gli abitanti dell’Olimpo erano falsi e bugiardi e aveva cercato di farne dimenticare agli uomini il ricordo, alimentando il fuoco sacro delle fedi monoteistiche, poi consolidate ed estese. Adesso sicura e possente vegliava sul Tempio di cui era guardiana. E la profezia di un nano, qual era diventato Eolo, appariva sempre meno fondata e frutto di un disperato istinto di difesa. Non contava neppure gli anni che erano passati, da quando gli Dei dell’Olimpo avevano lasciato i lidi di luce, per accollarsi il peso della carnalità nel tempo.
  La singolare figlia della Sfinge egiziana, scientemente coltivava la dolce illusione d’essere nata per vivere nell’eternità. Per anni aveva raccontato alla Papessa che Edipo, quasi cieco e vecchio, era tornato al Tempio per investigare tra i libri, ma poi improvvisamente si era tramutato in una statua di pietra imperitura. E alle insistenti domande di Cupido aveva risposto sempre che gli Dei si erano dileguati in una sola notte, inspiegabilmente, e che neppure lei sapeva perché. Per custodire la verità, la Sfinge aveva dovuto adoperare la menzogna, che gestiva con estrema naturalezza, apparendo persino sincera.
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  Accogliendo la sfida senza timore, quasi con naturalezza; dipanando all’istante i fili intricati dei misteri, l’ultimo dei figli di Edipo, da poco, ha risposto alle pressanti domande della Sfinge. Un ciclo era terminato. L’eterno ritorno dell’identico si era completato. Paradossalmente proprio la Papessa aveva condotto l’Epigono al Tempio, perché le profezie e le maledizioni dei giusti, in qualche modo, si concretizzano sempre. 
  La Sfinge avverte uno strano mutamento interiore. La sua natura tetramorfa vibra, come calamitata dal magnetismo dello Zero, ove dissolversi per ritornare al nulla originario. A ridosso intravede l’abisso e pensa di lasciarsi cadere dentro quella spirale vuota, dalla quale non risalirà più. Troppo gravi erano le questioni di cui era depositaria da tempo immemorabile. Il suo ruolo di guardiana, per custodire sottili inganni, le era stato a lungo indifferente. Adesso però era del tutto inutile. Non avrebbe interrogato più anima viva e nessun viandante sarebbe risalito fino al Tempio per sapere.
  In quel frangente fatale la Sfinge trova la forza di sorridere. La presenza del Folle le appariva quasi provvidenziale. L’origine dei Trionfi non era più un segreto, perché l’Uomo dei Tarocchi vi aveva scritto sopra un trattato che lei conosceva a memoria. Vuole togliersi la soddisfazione d’essere lei l’interrogata. Sente la sua natura scindersi in tanti granelli di sabbia, per andarsi a posare leggera nel fondo della clessidra. Improvvisamente, sotto lo sguardo allibito e impietrito degli interlocutori. Una vibrazione intensa da gelare il sangue dei due eroici Arcani, se ne avessero avuto. La figlia del deserto torna a essere una Sfinge monolitica, simile a quella che sta ancora nella piana di Giza, nell’alto Egitto. Il prodigio appare tanto poderoso, al punto che il Folle e l’Imperatore temono di restare pietrificati anche loro.
  La memoria dei cristalli di silicio adesso era cosciente e la Sfinge ascoltava la voce ferma di un nano di nome Eolo percorrere i reticoli ed esaurirne per sempre ogni energia. La materia diventava sempre più sofferente ed era avvolta dai granelli di sabbia in una grande tempesta. Il vento di Eolo seppelliva ogni ricordo e uccideva.
 
 
48
Gli interrogativi esistenziali della Sfinge
 
   Ridotta in granelli di sabbia, la Sfinge va a posarsi lievemente nel fondo della clessidra madre, dove i tempi confluiscono e si confondono nell’abbraccio del nulla. 
  La Papessa avverte un mancamento interiore, un dolore nelle fibre, simile a quello che provano gli umani nel momento che perdono una persona cara. La vede passare per un breve istante accanto a sé e sorriderle docile, come faceva quando si sottoponeva lieta alle sue coccole. Ascolta anche il batter delle sue ali, come quando prendeva il volo, per andare via. La Papessa ha la premonizione che non vedrà più troneggiare la Sfinge al posto dove era sempre stata, prima ancora della nascita dei Tarocchi. E per la prima volta teme di perdere l’abituale compagna della sua quotidianità. 
  Anche l’Uomo dei Tarocchi, che la Papessa sta riportando nella dimensione terrena, percepisce per un attimo la possente Sfinge attraversarlo, avvolgerlo, confondersi con le loro fibre e diventare un’unità indissolubile. La mitica creatura riesce nel suo ultimo abbraccio a trasmettere qualcosa di sé, tanto all’Uomo quanto all’Arcano: fusi in lei in una sintesi incomparabilmente sapiente, capace d’accendere anche l’animo dei più pigri a compiere epiche gesta. E questa effimera meraviglia dura una frazione di tempo infinitesimale e poi si sgretola lasciando intrisa di pianto una rimembranza. 
  Se è vero che il sonno tutto confonde e trascina via, una traccia indelebile era rimasta nella memoria dell’Uomo dei Tarocchi, ravvivata dalla forza di quel fatale contatto. L’oscura forza dell’inconscio, che domina incontrastato la scena dei sogni, questa volta non era riuscito a cancellare l’inconsueta visione della Sfinge. L’Uomo dei Tarocchi si sveglia di soprassalto con il cuore in gola e abbastanza sudato. Si era sentito trascinare indietro in quel particolare nodo del tempo e riprova tutto come fosse la prima volta. Aveva paura d’essere assimilato e temeva di non riuscire a uscire dall’incantamento. Si era aggrappato ai suoi cristalli invano, come ai legni che possono tenere in vita un naufrago. 
  Tutto era cominciato in una dimensione onirica dai colori assai vividi, dove regnava sovrano il silenzio e il corpo era leggero, come una piuma mossa da una brezza soave. Rammentava che la Papessa, con voce autorevole e suadente, lo aveva invitato a seguirla spontaneamente, richiamandolo più volte. Non era riuscito a resistere alla dolce malia; le era andato dietro, come se avesse udito il mitico canto delle Sirene. Non aveva respinto il tocco sapiente che lo guidava nelle pieghe dimensionali, attraverso atomi e stringhe invisibili. Si era trovato immerso in una strana aurora, lontano dai suoi cristalli che lo proteggevano dagli influssi maligni. La Papessa gli aveva mostrato i segreti del Tempio della conoscenza: il distillato della saggezza, prodotta in ogni tempo e in ogni paese, travasata su papiri, pergamene, carta finemente rilegata, opuscoli, appunti, incomprensibili scarabocchi, diari anonimi.
  L’Uomo dei Tarocchi era consapevole che in quella dimensione avrebbe avuto tutto il tempo necessario per leggere lo scibile sparso e tradotto in segni, ma non ne sentiva il bisogno. Il Popolo degli Scriventi aveva, infatti, trasmesso solamente quello che non serviva a capire. Il Popolo dei Parlanti doveva restare per sempre all’oscuro.
  Poi la Papessa si era fermata presso il sepolcro spartano, accanto ad Edipo, perché l’Uomo dei Tarocchi ne ascoltasse la voce attraverso i tempi e rivivesse la fatale interazione con la Sfinge.
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  Risolto l’enigma proposto dall’innaturale creatura, Edipo si era messo in cammino con un manipolo di fidati soldati. Tebe lo aveva riconosciuto Re della città liberata dal fardello dell’odioso mostro, che imperversava da anni in quelle contrade maledette dagli Dei animosi. Giocasta, la regina, aveva tanto insistito per accompagnare il valoroso eroe nel viaggio verso le pendici del monte Olimpo, dove i Greci avevano collocato la dimora dei numi sempiterni.
  Ancora non sapeva Edipo d’avere sposato sua madre. Quantunque non fosse più giovane, la donna possedeva del fascino, seducente per un ragazzo, abbandonato sui monti ancora in fasce e poi adottato da una coppia di pastori sterili. Secondo la volontà del re Laio, l’indesiderato nascituro doveva essere soppresso, come si faceva abitualmente con i figli deformi, o malati, che non potevano essere adeguatamente curati. Il neonato Edipo non era affetto da nessuna malformazione, ma un vaticinio aveva predetto a Laio la morte per mano di un figlio. Giocasta, madre amorevole, invece aveva predisposto la salvazione del predestinato. Così il fato si era compiuto; perché a nulla sono mai valsi i fiacchi tentativi di frenare il corso segnato degli eventi. Laio, padre di Edipo, e sua madre Giocasta: tre illustri vittime della grande Ruota del Divenire che stritola le creature impotenti. Gli eroi valorosi lo sanno, ma lottano egualmente con tutte le forze. E la loro grandezza sta proprio nella consapevolezza di partecipare a degli scontri impari, che eternano i deboli e rendono imperiture le gesta. Gli antichi Greci sapevano affrontare la morte con dignità e, solamente così, agli occhi degli Dei, potevano guadagnare un posto nel sopramondo.
  Edipo aveva ucciso il Re Laio e la sua scorta, per difendere la propria persona. Poi aveva risposto all’inquietante indovinello propostogli dal mostro alato. I Tebani lo avevano incoronato Re, dandogli come sposa la regina Giocasta. Nel breve volgere di una lunazione era passato dall’anonimato al duello fatale, dalla soluzione dell’enigma esistenziale al trono regale. Con la donna che gli stava accanto, consumava un inconsapevole incesto. Vittima ignara del diletto carnale, mentre il fato lo aspettava per strapparli tutto quanto aveva conquistato con tanta capacità e buona sorte.
  “Perché stai andando verso il monte Olimpo, amatissimo giovane sposo? Perché non rimani nella sicura Tebe ad approfittare degli agi della tua nuova condizione?”
  “Ricordi incancellabili scuotono il mio petto e mi agitano il sonno: gli uomini che, mio malgrado, ho dovuto uccidere e quel prodigio alato che, volteggiando, ha risalito la scarpata. Li vedo di notte. Ne ascolto le Voci e ne inseguo le ombre. Tu, dolce sposa, rendi i miei sonni meno inquieti e tanto più gradevoli. Se non avessi questi rei fantasmi nella testa, rimarrei volentieri accanto a te, a gustare le delizie dell’ambrosia che scende dalle tue labbra.”
  Lasciata la scorta più a valle, Edipo da solo aveva risalito le pendici sacre dell’Olimpo, dove nessuno osava andare e s’incontravano solo capre e cervi che si lasciavano anche avvicinare, perché non conoscevano la paura verso gli uomini. Il Tempio si materializzava all’improvviso, quando il sole tramontava e inondava di rosa il muschio adagiato sulle pietraie. Edipo aveva deposto a terra la spada e lo scudo e tolto via l’elmo. Si era spogliato volutamente d’ogni attributo potenzialmente offensivo e si era inginocchiato per purificarsi. Svolazzandogli attorno, quasi a dare un segno rassicurante, un alato, dagli occhi vivi e vigili, lo aveva preceduto fino alla porta del Tempio, che si era magicamente spalancata. 
  Al posto dei libri del sapere custoditi gelosamente, aveva scoperto una biblioteca con scaffali vuoti e una sola pergamena, dove non si riusciva a leggere nulla, perché senza scrittura. Poi lo sparviero gli aveva parlato e dato corpo alla sacra voce degli Dei, svelando l’incesto. Edipo si era messo subito a piangere e a urlare e si era strappato le vesti mentre scendeva da quelle balze scoscese e fatali.
  Sua madre Giocasta ancora non sapeva. L’impasto incestuoso di carezze e baci mai sarebbe stato cancellato e un altro fantasma si era incollato sulle sue carni. E a quel Tempio poi era tornato ancora, con tenacia e ostinazione, il vecchio Edipo, quasi del tutto cieco e mendico, forte di un diritto acquisito per sempre. E la porta, riconoscendolo, si era spalancata di nuovo, al volo dello sparviero che era rimasto rispettosamente muto.
  La Sfinge, furtivamente alle spalle, lo aveva seguito, mentre si aggirava in quel labirinto del sapere, dove Edipo finalmente aveva scoperto e preso a sfogliare gli occulti libri, che non avrebbe mai potuto leggere e per la vecchiezza e per l’incombente cecità. Sentendosi spiato, per la grande sensibilità sviluppata, Edipo si era girato e aveva parlato con la voce tremolante dalla fatica e dalla disperazione. “Chiunque voi siate, o demoni, o dei, mi avete ingannato! Avevo risposto ai grandi interrogativi e avevo tutto il diritto di sapere!”
  E la Sfinge, apostrofandolo e spingendolo con rabbia a terra, gli si era chinata sopra per raccoglierne gli ultimi sospiri. “Ai trasgressori delle leggi divine è concesso solo di entrare, ma non di leggere i sacri libri.”
  “Tenuto all’oscuro dal fato. Non sapevo che Giocasta fosse mia madre. Uno dei miei figli mi vendicherà e il fuoco sommergerà i vostri libri e il vostro Tempio. Che siate maledetti,  demoni e Dei spietati che non avete avuto pietà di un vecchio afflitto e solo.”
  Dopo essere stato toccato dalla Sfinge, Edipo, lentamente era stato pervaso da una metamorfosi. Il corpo si era irrigidito e la sua parola esalante si era fatta più scarnificata, anche se il tono fermo e sicuro aveva assunto i connotati di un terribile vaticinio. La voce di Edipo, impressa nell’eterna memoria della Sfinge, aveva superato ogni barriera temporale ed era giunta intatta e vitale alla coscienza della Papessa, la quale temeva che la maledizione si potesse avverare, perché le visioni del futuro passano sempre attraverso un grande dolore e nascono dal grande coraggio, dall’energia non comune che sprigionano sempre queste componenti che sanno imprimere alla grande Ruota del Divenire un andamento nuovo e imprevedibile.
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  Nel Tempio della conoscenza l’Uomo dei Tarocchi entra mentalmente in sintonia con la Papessa e s’intendono perfettamente. “Edipo aveva risposto agli interrogativi esistenziali proposti dalla Sfinge. Non aveva bisogno di leggere altro.”
  “Il greco cercava delle conferme. Dubitava di se stesso. Non credeva neppure lui di conoscere la verità. Gli Dei beffardi gli occultarono la vista dei Libri quando era in grado di poterli leggere. Non gli perdonarono l’incesto e vollero punirlo oltremisura.”
  “Per entrare nel Tempio, io non ho dovuto rispondere ai quesiti della Sfinge.”
  “E’ vero, ti sei confuso tra le mie fibre e la guardiana non ti ha visto. Quando uscirai dal Tempio, non ti potrai sottrarre a lei e dovrai fornire delle risposte. Ascolta la voce di Edipo, che è in te, per ispirarti.”
  “La Papessa conosce già le risposte. E’ venuta tante volte  presso questo mausoleo, per ritemprarsi e  meditare.”
  “No. Edipo è rimasto sempre silenzioso alle mie insistenti richieste.”
  Opportunamente la Papessa si allontana, affinché il professor Leandro possa ascoltare la voce di Edipo senza presenze estranee accanto. Ne era convinta, ma si sbagliava, perché dal tumulo e dal greco pietrificato non giunge nessun segno. In attesa, fuori dal Tempio, l’Uomo dei Tarocchi incontra Sfinx che, sbarrandogli il passo, l’apostrofa: “Ti sei mimetizzato con la Papessa, ma è stata un’astuzia che non ti ha sottratto dal compito di rispondere ai quesiti fatali.”
  Il professore rimarca senza esitare il suo punto di vista. “I nostri progenitori non hanno raccontato tutta la verità, anche se sapevano bene come erano andate le cose. Per questo dovevano infittire le origini di misteri; inventare speculazioni e credenze.”
  “Allora rispondi! Chi siamo?”
  “L’ampolla originaria ha le dimensioni del nulla, quando è vista dalla nostra prospettiva, ma è infinitamente grande come lo spazio cosmico che ci circonda, quando si è dentro. L’energia primordiale si propaga attraverso l’infinitesimo e si trasforma nella miriade di biosferoidi che costellano l’universo. Attraverso il tempo viaggiano i bioni, che introducono cambiamenti evolutivi nel programma.”
  “Da dove veniamo?”
  “Eravamo parte di un progetto collettivo, a cui hanno partecipato numerose essenze. Eravamo ingegneri in un laboratorio di un’altra dimensione esistenziale. Adesso siamo smarriti per la nostra stoltezza e abbiamo dimenticato le origini. Veniamo dal mondo delle essenze: dei e programmatori di questo e altri progetti di vita, dissimili dal nostro, contrassegnato dalla presenza fondamentale di acqua e carbonio.”
  “Dove stiamo andando?”
  “L’Apocalissi non sarà frutto del caso, o scaturirà  per volontà degli dei. Saranno gli umani con la loro stoltezza a provocare il collasso della materia. Hanno con migliaia di esplosioni nucleari indebolito gli equilibri alchemici e innescato un processo irreversibile. Altrimenti, secondo le regole della natura, dovremmo ritornare al punto di partenza, perché il percorso ciclico è parte integrante del disegno originario. L’esistenza di ogni creatura si conclude sempre con un ritorno alle origini e questo vale anche per la testarda guardiana del Tempio. Disconosce d’essere figlia di un prodigio di pietra, tuttavia  la sua metamorfosi è quasi imminente.”
  La Sfinge non appariva né stupefatta, né irritata dalla sconvolgente rivelazione, che invece viene raccolta con rassegnazione e quasi con indifferenza. Sapeva che l’effetto farfalla* avrebbe sconvolto il Mondo ed aspettava la notizia per bocca di uno dei figli d’Edipo, secondo quanto era stato scritto nei sacri testi.
  *L’effetto farfalla è stato descritto dal meteorologo Edward Lorenz, il quale formulò e fece circolare la tesi che il battito d’ali di una farfalla in Brasile può provocare una tempesta in Texas. Se estendiamo il concetto dal piano climatologico al microcosmo, ci rendiamo conto che una sola esplosione atomica può avere effetti apocalittici su larga scala. 
 
 
49
L’afflizione della Papessa
 
  Di fronte alla Sfinge pietrificata, il Folle e l’Imperatore restano a lungo ammutoliti, spettatori attoniti di una metamorfosi improvvisa e imprevedibile. 
L’Imperatore consiglia al Folle di tornare indietro e sostiene che non è il caso di recapitare alla Papessa il messaggio. 
“Zero, non vorrei che la Papessa aumentasse la sua antica ostilità nei nostri confronti e pensasse che siamo corresponsabili di quanto è accaduto.”
Lo Zero al contrario intende restare.
“E’ un rischio che devo correre, Supremo. Questa volta devo affrontare la situazione fino in fondo.”
L’Imperatore non abbandona il Folle nel momento del confronto diretto con la Papessa; si ricorda d’essere la guida simbolica di tutti i Tarocchi e, se gli voltasse le spalle ora, agirebbe come un sovrano vile che abdica e non riesce a svolgere degnamente la propria funzione di condottiero.  Così decidono d’attendere il probabile ritorno della Papessa. Se pur lontana dal luogo del terribile accaduto, qualche cosa doveva pure avere avvertito, perché la simbiosi di una vita crea dei legami indissolubili che, quando sono recisi, non passano inosservati.
In attesa che torni, i due compagni di viaggio restano seduti sul grande blocco di granito dove era abitualmente distesa la Sfinge e parlottano tra loro, in tono alquanto dimesso. Anche il solito buonumore del Folle era venuto meno: era addolorato per aver perduto un punto di riferimento, cronologicamente e idealmente considerato madre di tutti gli Arcani. 
“Prima che noi arrivassimo, dev’essere accaduto qualcosa di particolarmente grave. Non siamo stati certo noi a provocare con le nostre battute scherzose un tale cambiamento.” Su questo i due Arcani sono unanimi.
“Se ne stava qui divertita ad ascoltarmi. Ha voluto anche che le raccontassi una delle mie proverbiali barzellette. Non dico che si sia scompisciata dalle risa, ma l’aveva trovata divertente.”
“Dopo averti ascoltato, sono sopraggiunti, impellenti, la tentazione e lo sfizio di farsi interrogare, per una volta, anche lei. Io l’ho trovato subito strano.” A tutti i costi, l’Imperatore voleva dare una spiegazione a quella metamorfosi. “Ecco il suo ruolo si è ribaltato improvvisamente, forse è stato quello il momento chiave.”
Il Folle era di tutt’altro avviso. “Tutto è iniziato con una specie di mezza burla. Voleva solo scherzare. E interpretare il ruolo di colei che risponde e non interroga. Bisogna riconoscerle di essersi congedata con un pizzico d’ironia.”
L’Imperatore insisteva nella sua tesi. “Si è messa in discussione. Si è fatta interrogare, per porre l’accento sulla fine di un ciclo.”
“Forse avrai ragione, ma la sostanza non cambia. Guarda, Supremo: sopraggiunge zia simpatia. Il passo mesto, il capo chino. Scommetto che non ci degna neppure di uno sguardo.” Il Folle indica la Papessa, mentre si stava accingendo a percorrere la salita che conduceva al Tempio.
“Ha tutta l’aria di sapere quello che è avvenuto. Sembra avere partecipato all’evento, anche se non era qui, presente.” Osserva l’Imperatore.
“Non l’ho mai vista in questo stato.” Il Folle si mostra preoccupato.
“Andiamole incontro e porgiamole le nostre condoglianze.” L’Imperatore vuole subito scendere.
“Aspetta, Supremo. Decidiamo prima una linea comune. Noi dobbiamo comportarci come se non avessimo assistito alla terribile metamorfosi. Quando siamo arrivati, Sfinx era già di pietra.”
“Rispetto il tuo punto di vista, Zero, anche se lo trovo in qualche modo assurdo. In fondo noi con la sua metamorfosi non c’entriamo nulla. La Papessa lo sa perfettamente.”
“Supremo, non voglio farla ulteriormente innervosire. Potrebbe essere sfiorata dall’idea sbagliata che siamo venuti qui apposta, per provocare questa metamorfosi, approfittando della sua assenza. La Papessa, in questa fatale circostanza, potrebbe sragionare e quindi diventare più ostile. Voglio che partecipi alla riunione con tutti gli Arcani maggiori.”
Il Folle e l’Imperatore decidono allora di restare seduti sul blocco di granito e, simili a due ragazzini imbarazzati, lanciavano di tanto in tanto pietruzze sul sentiero: con l’aria addolorata ingannavano l’attesa e a tratti sfogavano la propria rabbia. Davano per scontato che la Papessa, vedendo cadere dei sassi in terra, sollevasse in alto lo sguardo e finalmente uscisse dal suo estraniamento.
La Papessa avanzava, ma pareva assente, indifferente ai detriti che cadevano e ai due Arcani. Nel suo dolore estremo, probabilmente non li aveva neppure notati, o piuttosto non voleva prenderli in considerazione.
Va difilata verso il Tempio e vi entra senza neppure chiudere la porta, lasciandola mezza spalancata. Il Folle a questo punto salta giù lesto e le corre dietro fino a raggiungerla. La chiama, ma la Papessa, quasi in trance medianica, non risponde. Allora la blocca e la scuote con forza, per farla reagire. 
Lei lo guarda ammutolita, ma i suoi occhi davano l’impressione d’intendere.
“Papessa, noi eravamo venuti per consegnarti un invito.”
“Vorrei essere lasciata sola.”
“Non riusciamo a capire quello che è successo. A un tratto, ci siamo visti di fronte Sfinx pietrificata. E ci siamo sentiti anche noi pietrificare dalla sorpresa.”
“Ripeto: vorrei essere lasciata sola. Vorrei capire anch’io quello che è successo. E per questo esigo tranquillità e rispetto.”
“Diamine, ne hai tutto il diritto, Papessa. Certo non è questo il momento adatto per importunare la tua sofferenza, ma vorrei dare un significato alla mia venuta qui. Tutti gli Arcani maggiori si riuniscono per prendere delle decisioni. Questo è il tuo invito: scritto apposta, in bella calligrafia, dalla mano sapiente dell’Eremita.”
La Papessa non lo prende neppure in mano. “Non m’interessa. Io non vengo.”
“Insisto nel dire che mi sento un vero rompiscatole. Tuttavia la tua presenza è indispensabile. Dobbiamo esserci tutti. Ci sarà anche l’Imperatore. E’ qui con me, per dimostrarlo e per invitarti personalmente anche lui a partecipare.”
Il Folle fa cenno all’Imperatore sopraggiunto di dire qualcosa per avallare il suo argomentare.
“Papessa, sono dispiaciuto per questa inopportuna invasione. Tutti noi riteniamo che potrai fornirci un aiuto prezioso, in virtù della tua esperienza e delle tue conoscenze. Io, per averti al nostro fianco, sono disposto ad abdicare.” L’Imperatore esagera con parole gravi che meravigliano e preoccupano persino il Folle, ma sul momento sembrava quasi sincero.
“Vedo molta disponibilità da parte vostra. Vi sento solidali, ma adesso vorrei essere lasciata sola nella mia sofferenza.”
“Papessa, celebreremo insieme, come si deve, la fine di Sfinx. Con una degna commemorazione funebre. Siamo rammaricati. Sinceramente sconvolti. Le nostre più sentite condoglianze.”
La Papessa ricambia anche l’abbraccio del Folle, cosa che non avrebbe mai pensato di fare in tutta la sua vita.
“Osserveremo insieme un lutto di alcuni giorni. Vieni con noi nella dimora dell’Eremita.”
“No. Voglio fare un bel rogo di tutti i libri presenti in questa Biblioteca e bruciare insieme con loro.”
“Rifletti. Aspetta. Adesso, sull’onda dell’emozione tutto appare distorto.”
“Nessuno può ostacolarmi.”
“Nessuno vuole impedirti niente. Se intendi porre fine ai tuoi giorni, sei libera di farlo, Papessa, ma puoi sempre partecipare alla riunione con gli altri Arcani. Dissetare la tua afflizione. Sviscerare le cause della terribile metamorfosi. Tornare poi qui e appiccare il fuoco. Per morire c’è sempre tempo.”
“Astutamente stai cercando di farmi tornare sui miei propositi.”
“Certamente; ho una grave missione da assolvere che coinvolge tutti noi. Nessuno ti porterà fuori dal Tempio con la forza. Innanzi tutto rispetteremo la tua volontà. Devi però assumerti le tue responsabilità nei confronti dei tuoi simili. Sfinx era parte di noi. Chi ti dice che non sia in atto un oscuro complotto delle Voci ai nostri danni e che questa metamorfosi non rientri nei loro piani per indebolirci? Io ho il dovere d’avvertirti, di risvegliare la tua attenzione e la tua intelligenza ottenebrata dalla disperazione.”
Tace il Folle e nell’occasione riconosce di avere bene argomentato. Così abbraccia di nuovo con vero trasporto la Papessa e le dà due baci sinceri sulle guance pallide. Anche l’Imperatore fa altrettanto.
“Lascio l’invito.”
Poi i due se ne vanno in silenzio, come si conviene quando si deve rispettare un dolore che le parole non riuscirebbero in alcun modo ad affievolire.
 
 
50
La Papessa svela i misteri che avvolgono la Sfinge
 
  La Papessa comincia ad andare sola e pensosa, a tardi passi e lenti, in quella biblioteca fitta di corridoi e intricata come un labirinto. 
Senza l’abbraccio provvidenziale del Folle, il suo fuoco interiore avrebbe arso il Tempio con i suoi libri e forse divorato anche il mondo sull’onda dell’emozione. 
Veleggiando sulle ali della memoria, ripassava le tappe cruciali della sua esistenza e perveniva sempre più alla consapevolezza che nessun complotto era stato ordito ai danni della Sfinge. 
Lei aveva condotto l’ultimo dei figli di Edipo al Tempio, per dargli l’opportunità di rispondere ai tre interrogativi della mitica guardiana. Lei aveva amplificato il ruolo di Edipo, il suo coraggio e la sua sofferenza. Accogliendo e filtrando il racconto della Sfinge, la Papessa aveva fatto di Edipo un mito, a cui aveva dato corpo attraverso il tempo, erigendo quel sepolcro per espiare il suo ruolo ingrato di guardiana del Tempio della conoscenza, condiviso insieme alla prodigiosa creatura. Entrambe accomunate da una dolente consapevolezza. L’inganno dei libri sapienti. La complice responsabilità di custodire un segreto atroce, pesante come un macigno.
Sovente l’Arcano, nel fondo della propria coscienza, riusciva a tratti a vedere abbastanza chiaro, poi, in un secondo momento, la consapevolezza stranamente si diradava e sopraggiungeva l’oblio. 
Conosci te stesso.
 Quel motto sapiente era stato da sempre il responso e il suggerimento dell’oracolo che parlava per conto dei numi. Eppure, inesorabilmente, alla luce prodotta dalla rivelazione divina, seguiva prima l’appannamento e poi la tenebra più assoluta, come se un demone si divertisse a generare una beffarda giostra di prospettive. 
Neppure la Papessa riusciva a darsi una ragione di quella strana alternanza d’ombre e di luci, di certezze e di rimozioni che si succedevano nella coscienza, rischiarandola, per poi farla ripiombare nell’oscurità più completa. Non intendeva se era un demone, o un dio, o una voce, a manipolare la sua coscienza e quella degli umani. A volte intravedeva un’identità per il volto dell’intruso, sempre astutamente nascosto e percepiva anche quella sua paura palpabile d’essere scoperto.
Tra tutti quei libri non poteva che esserci la risposta. L’agitazione le faceva percorrere freneticamente quel labirinto, ma, senza una meta precisa, sarebbe stato come pretendere di trovare un ago in pagliaio.
La Papessa si concentra per ascoltare l’estremo sussurro della sua prediletta compagna. Lei conosceva la risposta che affondava nella notte dei tempi. ‘Corridoio ventidue, ventiduesimo scaffale, posizione ventiduesima.’ La voce di Sfinx era riconoscibile. 
Nel punto segreto, la Papessa esamina il grande papiro egizio, ove i Sacerdoti di Iside avevano trascritto le formule magiche ed esoteriche che venivano così tramandate al momento della loro morte: un rituale volontario compiuto ogni ventidue anni, regolarmente, tutti insieme. 
Il numero 22 aveva un significato cabalistico ed esprimeva i 4 principi fondamentali della vita, separati 2 a 2, che si scambiavano reciproci influssi. Al posto dei suicidi, immolanti alla Sfinge, subentravano altri 22 giovani che avevano compiuto 22 anni, scelti tra quelli nati esattamente il giorno in cui si celebrava la cerimonia di transizione. Alla cerimonia partecipavano nello stesso tempo i prescelti nascituri, i neofiti e le future vittime. 
22 + 22 + 22 = 66  
Per un solo giorno sarebbero stati in 66.  
22 + 22 = 44 
Poi sarebbero tornati a essere in 44. 
Il doppio 4 faceva riferimento ai 4 principi fondamentali della vita e costituiva un omaggio alla natura tetramorfa della Sfinge, che ospitava nei suoi segreti sotterranei i cadaveri dei suicidi, i quali s’immolavano perché appunto preservasse il Tempio da ogni possibile invasione e profanazione. 
66 + 44 = 110 = 1 + 1 = 2
Il 2 esprimeva l’alternarsi del giorno e della notte e quindi il movimento stesso che consente all’energia di propagarsi nell’aria e nei corpi. 2 erano i rotoli che tenevano avvolto il papiro che personificava l’essenza stessa dei dualismi.
La Papessa srotola il papiro avvolto. Compie il gesto tenendo ben fermo in alto, con la mano sinistra, uno dei due rotoli contrassegnato dal numero 1, facendo poi scorrere in basso l’altro contrassegnato dal numero 2. Poi va a decifrare i corrispondenti 22 geroglifici che stavano esattamente davanti ai suoi 2 occhi.
“Le forze originarie hanno ispirato agli Egizi la costruzione di una grande Sfinge di pietra, capace di generare una Sfinge vivente. Il prodigio tornerà a essere di pietra, quando uno dei figli di Edipo risponderà ai tre grandi quesiti esistenziali.” 
Gli abitatori del mitico Olimpo avevano chiamato la Sfinge al Tempio e si erano dileguati misteriosamente in una notte. Di loro la Papessa aveva sentito favoleggiare nelle acerbe rimembranze di Cupido, che da sempre cercava una risposta a quell’improvvisa scomparsa. 
Stanco di rimuginare sul passato, un giorno, l’unico sopravvissuto, Eros, partito da solo senza l’ingombrante presenza dell’Innamorato, aveva risalito le pendici del monte per andare a interrogare la guardiana. Per l’occasione aveva anche lasciato a casa le piccole frecce che facevano sprigionare gli innamoramenti più repentini.
La Sfinge, sempre molto sensibile, era rimasta quieta. Eppure il vento della tormenta imminente agitava il suo corpo possente e immortale. La Papessa da spettatrice aveva osservato gli eventi in maniera neutrale, senza interferire e ancora rammentava con sorpresa l’indifferenza ostentata da colei che doveva sbarrare agli indegni l’accesso al Tempio.  
“Sfinx, tu sai cosa è successo agli Dei dell’Olimpo! Sempre però hai nascosto la verità!”
Il tono di Cupido era di aperta sfida. Aveva deciso di risolvere quel mistero definitivamente.
“Allora ti sia concesso entrare! Forse troverai una risposta ai tuoi legittimi interrogativi. Il Tempio appartiene alla tua gente. Frequentando quel debosciato dell’Innamorato non hai perso vedo lo sdegno e il coraggio dei tuoi antenati.” Erano state le parole della Sfinge, che aveva spalancato la porta e poi aveva spiccato il volo, come a significare che avrebbe lasciato a Cupido un tempo indefinito per trovare una risposta.
L’ultimo superstite degli Dei invece era rimasto nel Tempio per  poco. O era stato molto fortunato, o aveva inspiegabilmente desistito. Ne era uscito però fiero, con la consapevolezza stampata sul viso. La Papessa non voleva lasciarsi coinvolgere nella dolorosa vicenda e si era limitata a constatare il successo della breve visita. “Allora Cupido, grazie ad una poderosa intuizione, hai subito trovato la risposta che cercavi da una vita. Sono veramente contenta per te. Lo meritavi, perché mai ti sei rassegnato.”
“Sono andato nell’unico posto possibile. Nel ventiduesimo scaffale del ventiduesimo corridoio, alla posizione numero ventidue. Sfinx ci ha sempre mentito.” Non aveva aggiunto altro Cupido, lasciando la Papessa con un dubbio inquietante che non aveva mai voluto dissipare completamente. 
L’amorino alato aveva ragione. La Sfinge aveva sempre mentito: sulla scomparsa degli Dei e sulla morte di Edipo. Per vendetta si era accanita sugli Dei dell’Olimpo, trasformandoli in comuni mortali. Insensibile allo strazio di Edipo, forse aveva voluto punirlo per la sua presunzione. Per mantenere intatta un’illusione e conservare integro l’unico affetto, la Papessa aveva preferito seppellire dubbi e sospetti e con ostinazione si era guardata dal percorrere quel fatale corridoio della biblioteca che Cupido le aveva indicato.

 

51
Storia d’amore tra Lucio e Virginia
 
Virginia: un ricordo ancora abbastanza marcato nella vita di Lucio. 
 Intenzionalmente la ragazza vestiva in maniera modesta e poco appariscente e, sul momento, passava quasi inosservata, ma possedeva del fascino sottile. Col tono della sua voce, che prendeva alla gola, sapeva incantare soprattutto un certo tipo di persone. Ogni settimana metteva un annuncio su una rivista della capitale. Grazie a un semplice trafiletto, riusciva sempre ad avere molte risposte. Lucio le aveva inviato una email infarcita con i soliti luoghi comuni, ma senza volerlo aveva raccontato troppo della sua vita. Ne era scaturito lo spaccato dell’uomo timido e solo che non vede l’ora di corteggiare una bella ragazza giovane. Le sue parole schiette erano lo specchio del tipo che Virginia cercava.
  Sorrideva con la bocca larga e sensuale. Manifestava la sua  passione per la cartomanzia con la frase abituale. “Se vuoi, ti leggo i Tarocchi!” Nessuno sapeva resisterle e tantomeno le rispondeva con un diniego. “Al malato posso dare la guarigione. Devo compiere una missione su questa terra. Il mio Angelo guida mi ha insegnato tutto.”
  Di fronte alle presenze angeliche Lucio era del tutto impotente. Se avesse dovuto affrontare demoni, avrebbe dimostrato persino maggiore determinazione e fermezza. “Lasciati baciare.”
  “Che fretta! Prima leggo le carte. Voglio sapere chi sei. Ci conosciamo appena. Mi sembra che nascondi una sottile malinconia. Non mi piacciono le persone tristi.”
  Lucio replicava esagerando nei sorrisi. A tutti i costi voleva mostrarsi simpatico e audace. Senza volerlo palesava al contrario tutta la propria vulnerabilità. La guardava sorpreso, mentre scrutava in silenzio i Tarocchi, ostentando sicurezza e competenza. “Cosa dicono le carte?”
  “Dicono che sei un birbante! Non mi posso assolutamente fidare di te.”
  “Invece ti puoi fidare: sono sincero e romantico.”
  “Forse non lo sai, ma tutto dipende dallo spirito che ci portiamo appresso. Accanto a te sento una presenza negativa, che voglio cacciar via. Sarai più sereno. Dopo mi ringrazierai.” Così iniziava il trattamento: con la purificazione dell’anima dalla presenza negativa. “Vengono da me personaggi famosi, di cui non faccio neppure il nome. Non mi vanto di un’abilità che non dipende da me ed è solo un dono prezioso di Dio. Lui ci ha fatto incontrare.”
  La cartomanzia confluiva verso lo spiritismo e poi si saldava con le credenze religiose. Questa potente miscela di droghe, in un primo momento infondeva timore e rispetto, ma soprattutto abbatteva ogni barriera e poi finiva con lo stordire ogni tipo di persona, anche la più scettica e culturalmente preparata. Virginia evocava frasi significative, ascoltate da ragazzi, in chiesa, dai preti. Tutti gli adolescenti maschi sono andati a correre dietro a un pallone, all’oratorio, dove l’insegnamento religioso è coniugato insieme al gioco e al divertimento. ‘La vita è un dono prezioso di Dio.’ Frasi simili, possenti come macigni, rimangono scolpite in eterno nella fragile coscienza come i comandamenti. Se le metti in discussione, ti smarrisci. Per questo le conservi tra i moniti che porti sempre dentro di te. 
  La purificazione proseguiva, scrutando il profondo dell’anima. “Leggi questi salmi biblici, lentamente. Dovrai spalancare il cuore. Mettere a nudo le debolezze. Raccontami anche i tuoi peccati, se vuoi.” Simbolicamente, Virginia indossava le vesti del ministro di Dio. Rivendicava per le donne un ruolo nelle gerarchie religiose, da cui il maschilismo delle chiese le aveva emarginate. Strenuamente difendeva diritti calpestati per millenni. Nessuno poteva permettersi di mettere in discussione certe idee, tantomeno Lucio. Abbastanza generoso e poco malizioso, non aveva nulla da confessare e di cui vergognarsi. Poi erano venuti l’incenso e il concerto di Ravi Shankar per sitar e orchestra. Il ritmo e le percussioni ripetitive stordivano e annichilivano ogni possibile resistenza. Eppure nelle premesse doveva essere un semplice incontro d’amore. 
  Virginia sembrava infastidita dai baci che subiva senza ricambiare. Protetta dalla sua corazza mistica, non era minimamente scalfita dai ripetuti e goffi assalti. Trionfava però nel sentire Lucio alla sua mercé, intento a frugarle inutilmente tra le mutandine. Indifferente alla sfera della sessualità, si lasciava sedurre unicamente dalla musica. “Sei troppo intraprendente. Se non la smetti, te ne vai. Siete tutti uguali: quando vedete una donna, voi maschi pensate subito che sia una sgualdrina. Non sono quel tipo io!”
  Irritata, si era alzata dal divano. Aveva messo nella mano destra di Lucio il Trionfo della Temperanza e nella sinistra una candela, per purificare lo spirito e calmare il bollore del sangue. “Così impari a stare fermo con le mani!” Il tono era per metà canzonatorio e in parte punitivo.
  Lucio, comunque remissivo, accettava tutto. Le parole della sacerdotessa evocavano gli angeli del Paradiso e allontanavano il malefico. Imponeva le sue mani sulle tempie e iniziava una specie di purificazione mistica. La voce di Virginia diventava sempre meno trasparente e cristallina, fino a diventare profonda e roca. Era iniziata una visibile trance medianica. Tra i due non ci poteva essere competizione sul piano mentale. L’uomo, fragile e senza barriere difensive, era entrato in una strana sonnolenza e allora era sopraggiunto il cambiamento. L’inerme e sprovveduto Lucio era stato svuotato e ridotto a un involucro, dove un’entità intrusa poteva comodamente insediarsi. 
  Ridotto ad una larva vuota, ogni tanto, l’innamorato telefonava alla sua Virginia, ma lei rispondeva puntualmente che non voleva rivederlo più e lo lasciava afflitto e sconsolato nella sua depressione crescente. Soltanto dopo la simbiosi con il ventunesimo Arcano, Lucio aveva ricominciato ad avvertire una nuova ventata d’emozioni e aveva ripreso a vivere con un rinnovato entusiasmo. Ovviamente non ricordava più tutte le esperienze passate; vi erano dei vuoti che adesso l’Arcano stava cercando di ricostruire. 
  Prima d’allora Arcimondo non aveva mai interagito con una larva in una maniera tanto approfondita. Il suo rapporto con gli umani era sempre stato abbastanza superficiale. Erano dei mezzi per interagire con il mondo; ti trasportavano in località interessanti, ti davano il modo di provare emozioni. Sembravano fatti apposta per questo. L’Arcano per la prima volta stava vivendo un’esperienza del tutto nuova e insospettata e perciò aveva cominciato a stimolare la memoria di Lucio, per cercare di risalire al momento in cui era caduto nello stato larvale dal quale si stava riprendendo.
  Improvvisamente, una sera, giunge una telefonata dell’amata che era disposta a rivederlo dopo tanto tempo. Senza troppa dignità Lucio la invita questa volta a cenare nella sua casa. Viveva da solo e si era anche abituato a cucinare. Aveva messo le alici a cuocere, prima d’andare a prendere la ragazza alla stazione. In mezzo alla gente non si confondeva, si faceva notare per la bellezza indiscutibile, portata senza ostentazione: una falsa modestia che la rendeva apparentemente più fragile; espressione rara di una femminilità quasi ottocentesca, sparita insieme alla Roma disegnata nelle stampe vendute ai turisti sulle bancarelle. Nata in un paese di pescatori nel Salento, conosceva e apprezzava il buon pesce e ne percepisce l’odore subito, appena entra in casa. 
  Sul divano si lascia baciare, accarezzare. Ripete però sempre la medesima cantilena. “Non avere fretta. Non essere impaziente. C’è tempo. Rilassati. Mettiamo una musica per fare atmosfera. Ti ho portato il concerto per sitar e orchestra di Shankar. Adesso ascoltiamolo tranquilli. Rilassati.”
  Lucio comincia a sentirsi sempre più strano, come se, insieme al bicchiere di vino che aveva bevuto, avesse ingerito del sonnifero. Avvertiva una forte pressione alla tempia che lo invadeva dentro la mente. Non riusciva ad alzarsi, stava perdendo il controllo della propria volontà. Lentamente fluttuava sempre più verso la sonnolenza e l’incoscienza. Virginia era piuttosto indifferente verso la sfera sessuale. Si dedicava preferibilmente a un passatempo mentalmente molto più emozionante. Grazie ai tanti uomini soli che cercavano una compagna, o un’avventura, poteva avere a disposizione una gamma variegata di persone da selezionare e destinare al trattamento. Li faceva rilassare, li svuotava e li consegnava, indifesi, all’entità di turno che si portava appresso e che ospitava, in attesa di trovare un altro individuo di cui prendere possesso. 
  Neppure Arcimondo era riuscito a mettere a fuoco la natura ambigua di quelle entità misteriose, persino sordide, più simili a peripatetiche di strada, che a nobili alme, degne di rispetto e commiserazione.
  Lucio, del tutto ignaro, aveva accettato di rivedere la donna che lo aveva trasformato in una larva. Ancora non si rendeva conto esattamente di quello che gli era successo. Non sospettava della donna che amava e soprattutto non riteneva possibile che una ragazza giovane e bella fosse uno strano miscuglio tra un vampiro e un alieno. Questa specie di traghettatrice di spiriti vaganti invece si alimentava di energie altrui e cacciava le sue prede per consegnarle a un’entità che poi ne prendeva possesso.
  Arcimondo viene a sapere che tale fenomeno era noto solo a una nicchia ristretta di persone che avevano una certa dimestichezza con le discipline esoteriche ed anche ad alcuni cultori di un certo tipo di spiritismo, coinvolti direttamente o indirettamente. Nessuno di loro aveva ovviamente intenzione di rivelare un segreto custodito gelosamente. Anche se una persona autorevole avesse affrontato l’argomento su riviste di parapsicologia, o su qualche sito in internet, sarebbe stato facilmente sbugiardato e deriso, perché il fenomeno non poteva essere dimostrato e diagnosticato con i normali strumenti d’indagine. Coloro che controllavano e manipolavano l’informazione inoltre non avevano nessuna intenzione di preoccupare la massa, per la quale avevano confezionato divertimenti e nemici su misura, che alimentavano quotidianamente e ne assicuravano il controllo globale. 
  Quando Arcimondo, a caso, aveva scelto una delle tante larve, per utilizzarla come veicolo di comunicazione nel mondo degli umani, in fondo aveva compiuto un atto abbastanza comune e diffuso tra gli Arcani, che rientrava nella prassi della loro esistenza. Dava per scontato, nella sua istintiva bontà, che quelle creature erano già nate con quella specifica funzione; solo il contatto prolungato con Lucio gli aveva manifestato l’esistenza di una persona diversa con un suo mondo complesso, che improvvisamente un giorno era cambiata e diventata una larva. E poi, grazie al suo costante e incondizionato aiuto, quella larva si era lentamente trasformata e aveva ripreso i connotati di un uomo libero. Proprio vivendo intensamente quella simbiosi con Lucio, Arcimondo aveva maturato la convinzione che l’Uomo dei Tarocchi, con quel suo sito, doveva aver messo il naso in faccende che non lo riguardavano. Le Voci allarmate, quasi sicuramente parte in causa, stavano cercando di zittirlo per evitare la circolazione di certe idee. La vicenda invece meritava attenzione e non poteva essere lasciata a metà. Arcimondo era anche convinto che, da solo, non avrebbe potuto risolvere una situazione così ingarbugliata, neppure con tutta la sua buona volontà. 
 
 
52
Violare la Fortezza delle Voci
 
Usando traghettatori larve di ogni tipo, Arcimondo arriva al Castello di Erasmo proprio nell’ora in cui c’era un flusso ragguardevole di turisti. Ospite a più riprese della dimora dell’Eremita, già sapeva che per accedervi bisognava andare direttamente nei sotterranei.
  I valletti, che non erano autorizzati a sapere dove stesse e cosa facesse l’Eremita, lo portano direttamente a parlare con il Primo Famiglio: il vero factotum di casa. “C’è della musica nell’aria, Perimene.”
  “Non me ne parli, Signor Arcimondo! Sono giorni che il Giudizio con la sua orchestra ci delizia dello stesso brano musicale!”
  “Io sono venuto per incontrare l’Eremita.”
  “Non so, dove sia esattamente ora. E’ stato fumoso. Pareva che dovesse affrontare prove molto impegnative. Se lei vuole saperne di più, può domandare al direttore di questo interminabile intermezzo musicale.”
  “Dove sta?”
  “Suonano nell’Anfiteatro carsico.”
  “Allora la musica si sentirà praticamente in ogni angolo della dimora!”
  “La prego, Signor Arcimondo! Lo faccia smettere! Se lo porti con sé a fare un giro, con qualche scusa.”    
  L’immenso scenario naturale dell’Anfiteatro dava i brividi. L’acustica in ogni punto era perfetta. Fino a quell’occasione non aveva ospitato nessuna tragedia antica e certamente avrebbe offerto una degna cornice per la prossima assemblea degli Arcani  maggiori dei Tarocchi. Arcimondo, nel rigoroso rispetto della cabala, prende posto sullo scanno di pietra numero 21.
  Al suo arrivo, quelle che dovevano essere delle prove, s’interrompono. Tutta la truppa musicale in silenzio lascia l’Anfiteatro e s’inchina verso l’ospite. Dalle mani di un valletto, Arcimondo riceve un biglietto da visita, decorato con splendidi motivi floreali. ‘L’Eremita porge il benvenuto al ventunesimo Arcano. Lo invita a restare per qualche giorno suo gradito ospite, nel segno dell’amicizia e della solidarietà.’ Un anfitrione generoso e ospitale doveva avere organizzato il ricevimento alla grande, conclude tra sé l’Arcano che, dopo una breve attesa, vede tornare il Giudizio in veste di direttore, seguito da un complesso strumentale di venti orchestranti tra cui otto suonatori di tromba, tutti rigorosamente in abito scuro e splendide ali da Angelo.
  Stupefatto ascolta educatamente che il brano in suo onore sia terminato, poi applaude in direzione del Direttore. “Vorrei sapere, di grazia, come mai vengo ricevuto con tanta premura dal Giudizio? Non mi aspettavo d’incontrarlo qui nel ruolo, interpretato magistralmente, di anfitrione musicante.”
  “Grazie per i complimenti, amico. Era la prima esecuzione di fronte ad un convitato ed eravamo tutti un poco emozionati. Angeli e valletti compresi.”
  “Io, convitato? Nessuno finora mi ha detto nulla. Sono venuto di mia spontanea volontà.”
  “L’Eremita non è stato a parlare con te?”
  “No, sono venuto spontaneamente, appunto per scambiare quattro chiacchiere. Finora ho capito ben poco. Vorrei che fossi così gentile di non argomentare con nuove di cui non sono a conoscenza.”
  “Allora l’Eremita non ti ha riferito nulla?”
  “E’ quanto ho già detto. Non mi fare altre domande inutili. Cerca di raccontarmi cosa è successo.”
  “E’ successo che io ricevo gli Arcani maggiori con la migliore musica di Telemann e il miglior complesso strumentale che mai abbia suonato in queste grotte.”
  “Questo mi è chiaro. Dimmi altro.”
  “Tutti gli Arcani maggiori sono stati invitati a presentarsi nella dimora dell’Eremita per discutere sopra alcuni fatti che riguardano i Tarocchi e l’Uomo che ne ha raccontato le vere origini.”
  “Bene, adesso ne so più di prima. E’ arrivato già qualcun altro?”
  “No, sei il primo.”
  “Tu sei già qui e sei arrivato per primo.”
  “Comunque io non sono ancora arrivato nelle mie vesti ufficiali. Non sono stato accolto al suono melodioso e grandioso delle trombe di Georg Philipp Telemann. E neppure ho ancora ricevuto l’invito dalle cortesi mani del valletto.”
  “Non ci avevo pensato. Allora già che sono qui, posso immedesimarmi nei panni del direttore e puoi fare il tuo ingresso.”
  “Uno degli Angeli è stato già appositamente istruito per sostituirmi degnamente.”
  “Allora puoi prepararti al tuo ingresso trionfale. Che aspetti?”
  “Secondo le buone regole dell’etichetta a ricevermi dovrebbe essere il padrone della dimora in persona. E ancora non è qui. Queste sono semplicemente delle prove ufficiali: le prime in presenza di un invitato. Tuttavia la cerimonia vera ancora non è iniziata.”
  “Credo di aver capito. E hai per caso un’idea di dove sia adesso l’Eremita?”
  “In giro. A raccogliere consensi tra gli Arcani amici. Tornerà presto.”
  “Peccato, volevo parlargli subito!”
  “Allora deve trattarsi di un affare importante!”
  “Beh! Solo una cosuccia.”
  “Per una cosuccia, non si viene sin quassù.”
  “E’ un argomento complesso e potrebbe distoglierti dalle tue funzioni di anfitrione. Piuttosto toglimi una curiosità!”
  “Se posso, volentieri.”
  “Tutti questi Angeli musicanti te li sei portati appresso per l’occasione, o li hai trovati già qui?”
  “No, l’Eremita non ama la musica. Piuttosto il silenzio.”
  “Suonano bene però! Non li avrai istruiti tu, in pochi giorni. Non si raggiunge facilmente tale perfezione in breve tempo.”
  “Li ho comprati già musicanti di fabbrica. Ho chiesto se c’erano nuovi Angeli musicanti ed ho scelto due quartetti di trombe e due sestetti di archi: uno di violini e uno di viole.”
  “Dove si fanno i migliori affari, dimmi? Anch’io vorrei qualche Angelo.”
  “Alla teca degli Angeli. Quella che sta all’interno della Fortezza delle Voci celesti.”
  “Strano. Io ho sempre saputo che era inviolabile.”
“Almeno così dice anche il Folle, che si è pure arrabbiato e se n’è andato via, senza neppure salutare.”
  “E tu così sei entrato nella Fortezza e ne sei uscito, con venti Angeli musicanti!”
  “Certo, perché dovrei raccontare una simile fandonia? Per essere poi spernacchiato dagli amici?”
  “No! La mia è solo incredulità. Sciocca incredulità. E allora, visto che sei qui, e oramai i musicanti hanno imparato bene lo spartito, vorrei essere cortesemente accompagnato in quel luogo che già conosci, con le sue formalità, magari per aiutarmi a scegliere un Angelo di pregio.”
  “Certo volentieri, così avrai l’occasione di verificare quanto dico.”
  “Andiamo a fare quattro passi allora!”
  “Stai scherzando Arcimondo, li chiami quattro passi. Qui ci vuole il tappeto volante del Folle. Me ne ha regalato uno nell’anno 2000: allo scoccare del nuovo Millennio. Io festeggiavo per via del 20 e lui per via dei tre zeri.”
  “Lo so, a me ne ha promesso uno nel 2100. Non ama i numeri, ma rispetta la cabala!”
  “E’ un tappeto volante perfetto. Facile da usare e da riporre. Io lo porto sempre con me. Vedi: saliti e arrivati.”
  “Più che un tappeto volante sembra un teletrasporto. Veramente portentoso.”
  I quattro Demoni guardiani, seduti a terra, fuori dal portone, a due a due, stavano come sempre giocando a morra. E gridavano forte. “Cinque! Due! Tre! Sette! Morra! Ho vinto!”
  “E che sarebbe tutto questo strillare numeri a caso?”
  “Un gioco molto popolare. Facile da imparare.”
  “Spiegami il meccanismo.”
  “Per entrare alla teca degli Angeli devi giocare a morra celeste. E vincere. Io li ho battuti. Non sono andato oltre l’undicesima mano. Ne avevo a disposizione venti. Essendo il ventesimo Arcano.”
  “Ed io allora dovrei averne a disposizione ventuno, se non sbaglio.”
  “Bravo, sicuramente ce la farai a batterli.”
  I quattro guardiani continuavano a scommettere con le dita di una mano l’uscita di un numero: da uno a dieci. Ogni tanto si udiva un urlo di vittoria. Erano talmente presi dalla frenesia del gioco, che neppure avevano degnato gli sconosciuti sopraggiunti di uno sguardo e tantomeno d’attenzione.
  “Dimmi: perché dovrei partecipare a questo stupido gioco con codesti signori mostruosi e poco raccomandabili?”
  “Io lo trovo divertente, è un gioco che non richiede carte e dadi, che si finiscono sempre col perdere e non ricordi mai dove hai messo.”
  “Se io mi soffermo un poco a investigare sul meccanismo del gioco, codesti signori si spazientiscono?”
  “Ti sbattono sotto gli occhi, il regolamento. Lo Zero non è mai entrato per regolamento. Io glielo avrei pure spiegato, ma se n’è andato via arrabbiato, senza neppure salutarmi.”
  Il Giudizio allora si rivolge verso i quattro figuri ad alta voce. “Giovanotti, c’è un amico che vuole acquistare un Angelo. Vorrei distogliervi un poco dal vostro passatempo preferito.”
  I quattro educatamente tacciono e guardano verso lo smarrito Arcimondo, la cui aria di principiante era inconfondibile. “Presenta le tue credenziali! Dimmi che numero sei?”
  “Sono il ventunesimo Arcano.”
  “Tu hai l’aria di uno che non è stato mai qui.”
“Sì.”
  “Allora hai a disposizione ventuno mani. Se vinci, entri. Altrimenti torni a casa e puoi tornare solo dopo ventuno anni.”
  Il Giudizio insegna all’amico come si fa e lo spinge sotto. A turno deve giocare contro i quattro guardiani che lo aspettavano al varco divertiti e lo guardavano con sufficienza, proprio come si fa con un pivello. Arcimondo perde una sfida dietro l’altra. Non trova la concentrazione. Diviene sempre più prevedibile e nervoso. E risale sul tappeto disteso a terra del Folle, senza neppure dire una parola. Era la prima volta che giocava nella sua vita. Ed era la prima batosta mai incassata.
  Uno dei compari registra la giocata su una pergamena e poi la consegna al Giudizio, che la passa all’amico. “E con questa cosa dovrei farne? Restituiscila! Ci si possono pulire il sedere!”
  “Non essere scurrile e offensivo. E’ un documento. Lo devi custodire, per tornare qui tra ventuno anni. Nel frattempo avrai ottenuto maggiore confidenza col gioco e potrai rifarti.”
  “Insomma dovrei tornare a farmi prendere per i fondelli.”
  “Allora lo tengo io. Se mai un domani dovessi ripensarci.”
  “Tra ventuno anni avrò perso l’interesse per gli Angeli e poi ci scommetto che, se mai dovessi tornare, non riuscirei mai ad azzeccare le puntate giuste. Perché è chiaro che si tratta di un tranello, un filtro per fare entrare quelli che vogliono.”
  “Dici? Allora mi hanno fatto sempre vincere.”
  “Certamente! Di te si fidavano. Ti portavi gli Angeli a casa e quei cavalli di Troia sentivano tutti i fatti nostri e li riferivano poi in alto loco. Sei l’unico scemo e ingenuo della compagnia degli Arcani, per questo sei l’unico ad avere violato la Fortezza. E adesso riportami a casa, perché io non so pilotare questo tappeto.”
  Triste e silenzioso per i rimproveri, il Giudizio, con tanta voglia di piangere a stento trattenuta, si sistema al posto di guida e tira un filo che spuntava dalla trama del tappeto, puntando diretto verso la dimora dell’Eremita. 
 
 
53
Visita a casa di Lucio
 
Appena messo piede sul suolo amico, il Giudizio non se la sente di riprendere le prove con lo stesso entusiasmo di prima. Comincia a guardare i suoi Angeli non più con benevolenza, ma con un piglio cagnesco. Tra sé pensava di rispedirli a casa, anche se ciò vanificava tutto il lavoro fatto e rendeva sterili i preparativi musicali.
   Arcimondo, rimasto nei paraggi, osserva il Giudizio mentre cercava di fare stringere sul suo tappeto tutti gli Angeli musicanti, con l’intenzione evidente di fare un altro viaggio. Gli pone a bruciapelo la classica domanda retorica. “Cosa fai?”
  “Non lo vedi?”
  “Per metà. Dimmi quali sono le tue vere intenzioni.”
  “Voglio riportare gli Angeli indietro: alla teca da dove sono venuti.”
  “Ma non credo li rivorranno. Non sono più nuovi.”
  “Non mi fido più di loro. Adesso ho cominciato a sospettare il peggio.”
  “Ma lasciali qui, dove sono, alle loro funzioni. Che riferiscano pure alle Voci quello che vogliono. Tanto oramai la vicenda ha già preso una sua piega. E i loro pettegolezzi non ci fanno paura.”
  “Comunque il mio idillio con gli Angeli è finito per sempre! Sono dei traditori!”
  Il gruppo, nel sentirsi al centro di cotanto dibattito, si guardava interdetto e alcuni sussurravano frasi incomprensibili, nel puro dialetto degli Angeli. Uno degli alati musicanti, eletto beniamino tra i venti, prende la parola, dopo averla educatamente chiesta. Bisognava riconoscere loro classe e buona educazione. D’altronde erano stati concepiti in una fabbrica diretta dal Gerofante. “Veramente noi finora abbiamo solamente suonato. Con diligenza e con passione. Ti preghiamo di non riportarci indietro in quella fabbrica orribile, dalla quale abbiamo avuto la fortuna di uscire, grazie ai gusti musicali raffinati del nostro nuovo padrone. Promettiamo e giuriamo, tutti, solennemente, che non tradiremo il nostro signore, di cui saremo in eterno i fedeli prediletti musicanti.”
  Lieto della piega degli eventi, il Giudizio, anche se con qualche riserva e soprattutto in virtù della pressione di Arcimondo, accetta la promessa e i baciamani ossequiosi e deferenti degli Angeli, che sorridenti e felici se ne tornano ai loro strumenti a strimpellare arie originali, tutti presi dalla funzione gioiosa a cui il fato sembrava averli destinati.
  “Ti fidi veramente, Arcimondo?”
  “Per metà. E poi potrebbero esserci utili in futuro. Averli dalla nostra parte non è male. Hanno definito la loro casa natale come orribile. Forse hanno esagerato per commuoverci, ma potrebbero raccontarci cose che ancora non sappiamo. Le guerre sono fatte anche di spionaggio.”
  “Adesso cosa si fa?”
  “Tanto vale approfittare del tempo a nostra disposizione. Tu che idea ti sei fatto dell’Uomo dei Tarocchi?”
  “Nessuna idea. Ha studiato le nostre origini. Ha scritto un saggio filosofico esoterico.”
  “Non hai letto quello che dice su di noi? Su di te?”
  “No. Finora non ne ho avuto il tempo. Sono stato impegnato nei preparativi per l’accoglienza e poi ci sono state le prove.”
  “Tuttavia adesso sono finite, immagino.”
  “Sì, ma questi Angeli forse hanno ancora bisogno di me. Sono io ad animarli, a conferire loro grazie nelle movenze, a rassicurarli quando sono nervosi. Sono creature giovanissime e sensibilissime.”
  “Non mi sembra. Vedi come suonano bene da soli! Prima li vuoi riportare alla teca e adesso non riesci ad allontanartene. Dimmi che qui, nella dimora dell’Eremita, ti senti al sicuro e non vuoi affrontare le novità.”
  “Certo, adesso mi sono affezionato. Non vedo, dove potrei andare.”
  “Il punto è questo: sei un insicuro e un pavido. Vieni con me! E’ ora di crescere!”
  “Dove andiamo?”
  “A trovare un mio amico che conosce l’Uomo dei Tarocchi, di persona.”
  “Allora forse è meglio di no. Il solo pensiero d’incontrarlo mi rende nervoso.”
  “E perché? Non ti mangia mica. E’ un tipo simpatico.”
  “Il Folle mi ha detto che l’Uomo dei Tarocchi potrebbe seriamente aiutarmi a curare la mia depressione cronica. Dopo tanto tempo, non vedo come potrei cambiare. E se poi dovessi veramente guarire, potrei non essere più soddisfatto del mio nuovo stato. Il fatto è che permanentemente sono attraversato da stati di profonda ansia.”
  “Potremmo dare insieme una sbirciatina a quel suo sito. Magari potrai scoprire che ingigantisci la tua paura di fronte a nulla. Secondo me, tu sei stato solo per troppo tempo. Devi imparare gradualmente a crescere e non avrai più timori di sorta. Se hai fiducia in me, sarò ben volentieri la tua guida e il tuo leale consigliere.”
  “Di te mi fido.”
  “E allora cosa aspetti? Andiamo.”
Dispone le cose per la sua dipartita il Giudizio. Impartisce ordini e consigli ai suoi Angeli e ai valletti. Sembrava un bambino impaurito che usciva da casa. Avrebbe portato con sé qualche giocattolo, se ne avesse avuto uno. Arcimondo provava una certa tenerezza per quell’innocenza intellettuale, destinata a svanire di fronte ad una realtà inimmaginabile. Volentieri lo avrebbe lasciato nel suo cantuccio ad ascoltare note solari, o il crepitio della pioggia sui tetti, ma nessun rifugio sarebbe stato in grado di proteggerlo. L’onda maligna inesorabilmente, di lì a poco, avrebbe travolto tutti. 
  Quando il Giudizio, appena uscito dalla dimora dell’Eremita, improvvisamente, senza proferire parola, si volta e torna indietro, dà al suo compagno l’impressione di non trovare il coraggio per affrontare la realtà. Arcimondo, colto alla sprovvista, neppure ha il tempo per trattenerlo, tanto era sgattaiolato via rapido. ‘Adesso - pensa - sarà andato a ficcarsi in chissà quale stanza, ma non me la sento proprio di giocare con lui a nascondino.’
  Stava tornando indietro rassegnato e sconsolato, lentamente, quando lo vede schizzare fuori dal portone tutto trafelato. Aveva anche l’affanno e parlava come se avesse corso una maratona. “Avevo tralasciato d’impartire ai valletti l’istruzione principale: la più importante.”
“E quale sarebbe, di grazia, questa istruzione?”
  “Dire a chiunque si presenta che il Giudizio e Arcimondo sono andati a fare una visita al sito dell’Uomo dei Tarocchi. Saranno di ritorno al più presto, non appena possibile.”
  “Veramente si tratta di un sito virtuale, un luogo informatico, molto prossimo e si può vedere attraverso uno schermo.”
  “Allora deve trattarsi di una novità che non conosco.”
  “Da quanto tempo non visiti più il mondo degli umani?”
  “Dai tempi di Rasputin. Ero affezionato a quel santone barbuto. Faceva delle previsioni anche sulla fine dei tempi. Da quando l’hanno assassinato, non sono più disceso. Una perdita incommensurabile la sua. Quando leggeva i Tarocchi, pareva vedere accadere quello che raccontava.”
  “Rasputin. Un nome che non mi giunge nuovo. Giorni orsono stavo leggendo un quotidiano e in cronaca, alla pagina ventidue, ho letto un trafiletto sorprendente a proposito di questo signore, che pare avesse poteri sovrannaturali.”
  “Quanto ai poteri ci puoi giurare. L’ho ispirato e guidato personalmente, per anni, da quando era un contadino sconosciuto. Poi si è andato a cacciare in quel covo di vipere della corte. L’ho aiutato a guarire il neonato Alessio che soffriva di leucemia e mi è diventato anche amante della zarina Alessandra. Non gli bastavano le altre donne aristocratiche. Io cercavo di farlo agire con prudenza. Ma lui non era mai soddisfatto degli amplessi.”
  “L’articolo riportava questa notizia. 
L’organo sessuale del monaco Rasputin diverrà la principale attrazione del primo museo dell’erotismo che sta per essere aperto a San Pietroburgo. Il fondatore del museo, il sessuologo Igor Kniazkin assicura, in un’intervista al quotidiano Nezavisimaya Gazeta che ‘l’organo sessuale di Rasputin è un oggetto unico e prezioso’. Kniazkin dice di averlo acquistato alcuni anni fa per ottomila dollari da un francese. Questi lo avrebbe ottenuto da una dama di corte russa, amante del santone che divenne consigliere della zarina Alessandra e fu poi ucciso in una congiura.”
  “Vuoi sapere come sono andati veramente i fatti? Io c’ero.”
  “Certo dimmi. M’interessa.”
  “Quando l’hanno avvelenato col cianuro, io, dico io gli ho dato la forza di reagire. Ubriaco si era messo a suonare la chitarra e diceva solo di avere un poco di bruciore allo stomaco. Poi gli hanno sparato alle spalle, perché non avevano il coraggio di vederlo in faccia. E, poiché ancora aveva la forza di fuggire, l’hanno preso a coltellate e a randellate quei nobiluomini. Gelosi della sua virilità l’hanno pure evirato e gettato nudo in un canale gelato. Felix Jusupov, il suo assassino, per il suo crimine non fu neppure giustiziato e si giustificò: dicendo che voleva salvare l’Impero degli zar dalla sua nefasta influenza. Quando Rasputin consigliò alla zarina di non entrare in guerra, perché sarebbe stata una catastrofe per tutta la famiglia, non lo ascoltarono. Prevalsero gli interessi dei guerrafondai. I soldati stanchi di combattere tornarono a casa, portandosi dietro il fucile. L’intera famiglia dei Romanoff fu giustiziata. Fucilata dai bolscevichi. Più di qualcuno pagò con la vita, anche per l’atroce morte di quel poveruomo. Di Rasputin non rispettarono neppure il cadavere. E poi gli amici si meravigliano pure che da allora non abbia più bazzicato il mondo e mi sia venuto il voltastomaco.”
  “Il tuo disappunto lo trovo comprensibile. Comunque gli attributi di Rasputin oggi sono esposti al pubblico come una reliquia laica. C’è proprio da indignarsi. Vedi l’Uomo dei Tarocchi sostiene, a ragione, che delle entità negative esercitano una grande influenza sulle vicende terrene.”
  “Allora vengo volentieri a conoscere questo Tizio, perché mi sembra sensato quello che dice.”
  E così i due Arcani si dirigono, con i mezzi di locomozione classici, più adatti ad Arcimondo, verso la casa di Lucio, che viveva a Nettuno, in una viuzza del borgo medioevale, a pochi passi dalla stazione del treno. Durante il viaggio parlano un poco dell’influenza dei guaritori nella storia e su certe nuove strabilianti invenzioni tecnologiche del secolo XX. Il Giudizio non era poi così apatico, come in un primo momento si potesse supporre dal suo comportamento. Disconosceva quasi cento anni di storia, ma dava l’impressione di cogliere al volo la sostanza delle cose.
  “Conosci questo signore? Non bussiamo? Non ci presentiamo?”
  “Di solito noi Arcani siamo un poco invadenti e non chiediamo mai permesso. Specialmente quando si tratta di un amico.”
  “Vi conoscete da molto tempo?” Al solito le domande del Giudizio erano molto pressanti, ma, per fortuna, la sua attenzione si focalizza tutta di fronte allo schermo luminoso del monitor, che giudica la più grande invenzione, dal tempo del fuoco e della ruota.
  Lucio era rimasto seduto: immobile di fronte al computer, fin dalla sera prima. Nella pagina, ancora aperta in internet, compariva l’indirizzo del tanto chiacchierato sito. La pagina visualizzata avvisava l’utente che il sito era stato temporaneamente oscurato dalla polizia postale.
  Rimane deluso il Giudizio: aveva già fatto l’acqua alla bocca, al solo pensiero di entrare per la prima volta nelle meraviglie del web. Quasi subito è preso da una crisi di pianto e prende l’oscuramento del sito come un affronto personale. 
  Ci vogliono tempo e pazienza, per convincerlo che nessuno tramava contro di lui. Sosteneva che adesso gli Arcani non avevano più elementi concreti per valutare il caso di cui si stavano occupando e, quando si sarebbe sparsa la voce, la maggioranza non avrebbe messo il naso fuori dalla propria casa e la riunione sarebbe andata a carte e quarantotto. Il Giudizio stenta non poco a farlo riprendere e a convincerlo del contrario, sostenendo che la censura patita dal sito era una prova lampante che l’opera dell’Uomo dei Tarocchi andava incoraggiata e che, se non avesse avuto valore, non ci sarebbe stato nessun motivo per oscurarla e quindi assumeva un significato particolare, soprattutto ora che non era visibile.
  Alla fine il Giudizio, dopo avere ascoltato una sfilza di rassicurazioni e di ragionamenti, promette che sarebbe tornato a riprendere le prove dello squillante concerto di Telemann, scelto per salutare l’ingresso trionfale degli ospiti. Arcimondo però, nonostante tutto, si mostrava piuttosto preoccupato e il Giudizio se ne accorge. “Dimmi, qualcosa non va?”
  “Siamo arrivati troppo tardi.”
  “Comunque hai detto che ci sarà modo per esplorare il sito, quando sarà di nuovo visibile.”
  “Certamente! Non parlavo del sito. Mi riferivo allo stato di salute di Lucio.”
  “Oggi lo vedo piuttosto spento anch’io. E’ rimasto immobile per l’incredulità, di fronte al suo sito oscurato. Non si capacita di quanto è accaduto. Ecco tutto.”
  “Lucio infelicemente è piombato in un profondo stato vegetativo. Non reagisce più agli stimoli.”
  “Che cosa pensi sia successo?”
  “Qualcuno l’ha lasciato in questo stato. I nostri nemici hanno voluto mandarci un messaggio chiarissimo.”
  “Possiamo fare qualcosa per lui?”
  “Possiamo solo spegnere la sua vita per sempre. Certi strenui difensori dei valori sarebbero capaci di lasciarlo in questo stato per anni.”
  “Mi dispiace proprio per il tuo amico. Sono costernato.”
  “Lasciami un poco solo con lui.”
  Arcimondo accarezza la mano di Lucio e la sospinge sui tasti necessari a spegnere il computer. Il trillino giocoso, nunzio della chiusura del sistema operativo in uso dal computer, sarà l’ultima sequenza sonora che investirà i timpani della larva.
  Poi il nulla.
 

 

54
Nella Dimora dell’Eremita ha inizio l’Assemblea degli Arcani Maggiori
 
Nel giorno fissato per l’assemblea, il Primo Famiglio Perimene stava predisponendo tutto il necessario per ricevere nel modo più dignitoso gli ospiti presso la dimora dell’Eremita. Verificava ogni minimo dettaglio, perché la sua precisione maniacale non lasciava nulla al caso.
Andando indietro con la memoria, non rammentava di eventi altrettanto importanti. Una circostanza di rilievo si era verificata nell’Anno della Ragione 1717, quando la maggioranza degli Arcani si era riunita per tributare all’Imperatore il titolo di primus inter pares e mettere fine a una secolare guerra intestina scoppiata molto tempo fa, nel lontano Anno del Signore 1313. 
In occasione di quello storico convegno, Perimene ricordava d’avere inaugurato un piccolo obelisco di marmo. Lui stesso, tra gli applausi, aveva tirato via il velo azzurro che lo ricopriva fino al momento della cerimonia. All’ideazione e alla realizzazione del monolito celebrativo aveva provveduto lo stesso Perimene, nelle sue funzioni di primo architetto. Prima d’iniziare ogni opera si consultava sempre con l’Eremita, il quale si limitava a dare dei suggerimenti e a disegnare qualche schizzo, ma lasciava al suo fidato collaboratore la parola definitiva, dando credito alla perizia e al buon gusto sempre dimostrato.
Era fiero della sua funzione, né aspirava a un ruolo diverso, anzi si sentiva perfettamente realizzato. Il Primo Famiglio non conosceva cosa fosse l’ambizione e poteva dirsi felice, condizione invidiabile in un mondo contrassegnato da rivalità ed egoismi, secondo quanto era solito ripetere l’Eremita, durante le poche conversazioni con i rari ospiti, o anche quando, sorridendo, lo blandiva.  
‘Beato te, mio angelo; te ne stai tranquillo, in quest’aureo isolamento, lontano dal lezzo del quotidiano, fuori di qui.’
 La formula, divenuta rituale, era rimasta sempre la stessa, dai giorni incisi nella memoria del Primo Famiglio.
Alle origini l’Eremita aveva preso a girovagare, provvisto di un solo mantello con cappuccio e non aveva mai preso in considerazione l’idea di edificare una propria dimora. 
Nel corso delle sue interminabili peregrinazioni, per caso, si era imbattuto, attraversando le Alpi Giulie, nel Castello di Erasmo Lueger: una stravagante costruzione, risalente al XIV secolo, che si mimetizzava con la montagna e ne sfruttava gli antri naturali. Un signore lungimirante l’aveva destinata a propria magione per proteggersi dai nemici, che potevano aggredirlo solo affrontando un unico sentiero difendibile da pochi armati. Il Castello, in sostanza imprendibile, poteva resistere a un assalto per anni, grazie a delle buone provviste di cibo e all’acqua del fiume Lovka, che attraversava le cavità adiacenti. L’originale dimora fortificata aveva a tal punto affascinato l’Eremita che non era più riuscito a distaccarsene. Col passare degli anni, il nucleo originario, edificato negli anfratti della montagna, era stato ampliato, utilizzando le grotte e le gallerie naturali. Era sorto un piccolo Anfiteatro adatto per spettacoli e la dimora si era anche infittita di stanze e corridoi, con novantanove porte: un vero labirinto per qualunque invitato, che doveva essere sempre guidato per non perdersi.
Perimene conosceva quel dedalo carsico a menadito, perché aveva imparato a menadito e lo aveva gradualmente adattato alle nuove richieste dell’Eremita. Ogni tanto il Primo Famiglio doveva andare a recuperare qualche valletto un poco distratto, che, perso in quel labirinto, non riusciva a uscirne e non sapeva più tornare indietro negli alloggi comuni dove la servitù soggiornava. 
Alla sorveglianza e alla manutenzione giornaliera della dimora erano deputati novanta valletti. Sopra i garzoni comuni vi erano nove donzelli, i quali organizzavano i servizi e svolgevano una funzione di coordinamento e di controllo. Per rispettare la cabala anche i servitori dell’Eremita erano stati organizzati numericamente di conseguenza: 90 + 9 = 99 = 9 + 9 = 18 = 1 + 8 = 9 
Tutto immerso a svolgere le proprie funzioni, nel giorno fissato per l’assemblea, il Primo Famiglio, mentre vigilava, rammentava con piacere il suo ruolo antico non senza orgoglio e vanto, perché in tanti anni di servizio onorato non era mai stato rimproverato per una disattenzione. 
“Mio angelo! Al solito sei stato perfetto!” L’Eremita lo chiamava sempre con l’appellativo primordiale di mio angelo, perché il nome che gli aveva affibbiato, Perimene, lo usava solamente in pubblico e in circostanze ufficiali. 
Un giorno, quando il Primo Famiglio aveva domandato perché non lo avesse dotato delle classiche ali degli Angeli, l’Eremita aveva risposto mostrando tutta la sua saggezza conquistata negli anni. “Le ali servono per volare e tu non ne hai bisogno, perché devi restare con i piedi per terra. E poi coloro che per avventura sono dotati di ali per volare, in genere si montano la testa e credono di essere il padreterno.”
Convitati presso la dimora dell’Eremita, quasi tutti gli esponenti più insigni e titolati della grande famiglia dei Tarocchi si presentano, rispettando le raccomandazioni contenute nel biglietto d’invito, alle ore 19 del 22 di maggio, nell’Anno del signore 2005. 
Gli Arcani non arrivano alla spicciolata, ma quasi simultaneamente, memori degli antichi usi cinesi, secondo cui la puntualità deve contraddistinguere tutti i dignitari e i gentiluomini che partecipano a vario titolo a cerimonie ufficiali. Nel corso dei suoi viaggi periodici, Marco Polo aveva registrato fedelmente tutte le ritualità millenarie, confluite poi nel Cortigiano di Baldassarre Castiglione, il quale aveva delineato un modello ideale di comportamento per le corti italiane del Rinascimento. I Tarocchi, invero, erano molto rissosi e individualisti, ma rispettavano la forma e l’etichetta, anche per darsi un certo tono di conquistata nobiltà.
Per accedere al Castello di Erasmo bisognava percorrere un ponte levatoio di legno rinforzato e non più mosso forse da secoli. La singolare fortificazione aveva visto succedersi diversi proprietari; ora era adibita a Museo e accoglieva turisti provenienti da ogni paese, per ammirare una costruzione nata sfruttando le naturali cavità carsiche.
 Alle ore diciotto il possente portone veniva chiuso al termine delle visite, ma regolarmente, d’abitudine ogni sera prima di cena, proprio alle ore diciannove, il guardiano usciva da una porticina per prendere una boccata d’aria e fumare una sigaretta. 
La brigata dei Tarocchi ne approfitta per entrare di soppiatto e subito sono istradati dai valletti verso il cammino che portava direttamente alla dimora dell’Eremita vera e propria. La porta assomigliava a quella di una vecchia casa contadina ricavata con pezzi di legno di varie dimensioni e di poco pregio: non c’era neppure un paletto interno di sicurezza; nell’aprirsi cigolava e, al solo vederla, già si sapeva che chiudeva male. Sembrava fatta apposta per dare l’idea che tutti erano benvenuti e potevano andare e venire con molta facilità. Solitamente invece le dimore dei potenti si spalancano con possenti portali, azionati meccanicamente da corde mosse da argani che fanno accapponare la pelle e danno un tremendo fastidio alle orecchie.
All’ingresso della dimora frattanto si crea una fila inconsueta. Gli Arcani convenuti familiarizzano e si scambiano i soliti convenevoli. Due cortesi valletti fungevano da filtro e cercavano di fare osservare le stesse regole per tutti. L’ammissione avveniva rispettando rigorosamente il numero canonico spettante a ciascuno dei Trionfi, per non offendere nessuno e non creare rivalità in ospiti molto irascibili, innamorati delle proprie prerogative e vanitosi, puntigliosi al punto d’appigliarsi a una quisquilia per venire a diverbio. La polemica e la presunzione del resto facevano parte proprio dei caratteri ereditari degli Arcani. 
Ognuno, indistintamente, doveva lasciare fuori per così dire cappello, ombrello e mantello, in altre parole ogni oggetto estraneo e potenzialmente pericoloso, ogni amuleto mascherato con poteri.
Il primo incidente diplomatico avviene quando deve essere ammesso l’Innamorato. In pratica da sempre viaggiava in compagnia del fedele Cupido, il quale non dimenticava mai a casa la faretra, le frecce e l’arco. I valletti, cortesemente ma energicamente, esigono che l’Innamorato lasci fuori Cupido con tutto il suo pericoloso armamentario. L’Arcano indispettito dà subito in escandescenze e deve intervenire l’Eremita in persona, perché non c’era verso di fargli sentire ragioni con le buone e minacciava un’invasione di campo. “Suvvia, vediamo di trovare una via d’uscita. Già litighiamo prima di cominciare.” Il padrone di casa accoglie l’Innamorato con la massima disponibilità e vuole mostrarsi conciliante e persuasivo. “In casa mia gli ospiti devono rispettare certe regole. Se tu fossi qui da solo, Cupido sarebbe il benvenuto. Non temo le sue frecce ma oggi siamo in tanti, dagli umori differenti. Potrebbero rimproverarmi che le frecce del tuo compagno costituiscono una minaccia. Il fedele Cupido compagno ti seguirà, se lascierà in custodia, con tanto di talloncino di riscontro, le sue frecce e il suo arco. Al massimo, se proprio c’è affezionato, può portare con sé solo la piccola faretra vuota.”
Cupido, molto più pratico del testardo Innamorato, fa subito cenno di sì e lascia cadere al suolo l’arco, congiuntamente alla faretra con le sei frecce che abitualmente vi metteva dentro, poi, mostrando le mani vuote e svolazzando, entra sotto lo sguardo benevolo e rassicurato dell’Eremita, ma osservato con una certa preoccupazione dai valletti, impreparati a un’incursione dal cielo.
Arcitorre si presenta con quattro piccoli nani, che portavano a spalle un tavolo ottagonale. Capovolto, nascondeva la forzuta manovalanza e dava l’impressione di muoversi da solo. I valletti inizialmente pretendevano che il tavolo restasse fuori, ma poi convengono di poterlo accogliere nella dimora; giacché si trattava di un regalo per l’Eremita e l’invitato voleva fare una sorpresa al padrone di casa, che aveva tante sale imponenti e semivuote per sistemarlo degnamente. 
I due Arcani della Forza e del Carro, convolati insieme chissà dove, non si erano ancora presentati all’appuntamento. L’Eremita li aveva visti allontanarsi sul cocchio dimensionale guidato dall’Auriga e, in cuor suo, sperava potessero farsi vivi da un momento all’altro.
Tutti i Trionfi presenti vengono subito accompagnati nell’Anfiteatro carsico per prendere parte alla cerimonia di benvenuto. Ricevono dalle mani di un valletto una sottile candela accesa color porpora, che viene gettata nelle livide acque del fiume sotterraneo: un modo simbolico per ricordare la nascita leggendaria dei Trionfi, avvenuta a Roma nel lontano 1221. 
Le carte prodigiosamente erano scaturite dalla bocca di un monumentale mascherone di pietra, un tempo sistemato all’esterno del Tempio di Ercole Vincitore e destinato alla raccolta delle offerte votive che i gentili facevano abitualmente ai loro Dei. Il viso scolpito di un vecchio barbuto raffigurava la primordiale divinità fluviale che albergava nelle acque del biondo Tevere. 
L’Eremita aveva captato un’antica credenza, maturata nel ghetto di Roma, secondo cui i Tarocchi erano magicamente usciti proprio da quella bocca di pietra per volere di un Arcangelo biblico. Stando a quanto tramandato, quelle antiche e sacre icone erano state contaminate dai controllori dell’Inquisizione e ricondotte nell’alveo della religione cattolica romana, ma il loro significato profondo andava ascritto all’albero della vita e alle 22 lettere dell’antico alfabeto ebraico, emanazione diretta della voce di Dio. 
Terminata la cerimonia, come stabilito dal protocollo, il Giudizio in veste di direttore d’orchestra fa gli onori di casa, con tanto di Angeli musicanti, trombe e strumenti vari. Tutti sono invitati ad ascoltare il giocoso e leggiadro concerto di Telemann e accompagnati nell’Anfiteatro naturale. 
Gli Angeli, secondo le antiche regole, si dispongono ad arco nello spazio semicircolare sottostante. Nel rispetto della cabala ogni Arcano occupa posto nello scanno, in base al numero che lo contraddistingueva e che era stato scolpito nella parte bassa. I sedili in pietra erano stati ricavati utilizzando le più piccole stalagmiti esistenti che s’innalzavano dal suolo della grotta.
Alcuni Arcani vorrebbero limitarsi ad ascoltare qualche nota per educazione e poi rapidi preferirebbero passare oltre, per essere accompagnati dai valletti nella stanza loro riservata. Invece la melodia sprigionata riesce a toccare indistintamente anche i più distratti e i meno sensibili alle composizioni musicali. Alla fine tutti estasiati si complimentano con l’anfitrione per l’accoglienza e ascoltano per intero il brano, chiedendo anche un piccolo bis che dà modo alle trombe di liberare tutto il loro squillante clangore.
 Quando Arcitorre si sente avvolto da quelle note piacevoli che non conosceva, approfitta della sosta per cominciare a giocherellare con 4 pietre filosofali, facendone ruotare 2 nella mano destra e 2 nella mano sinistra, ora in senso orario ed ora in senso antiorario. 
Bisognava possedere un’indubbia pratica e abilità in quel passatempo, che aveva lo scopo di rilassare e di far trovare la giusta concentrazione. Secondo l’antica medicina cinese, due piccole sfere rappresentano simbolicamente i due principi attivi e antitetici yin e yang che sono alla base della vita e rendono possibile la circolazione dell’energia. Questo lo sapeva bene anche l’Arcano che, nel maneggiare il suo oro, ottenuto dal suo prezioso alambicco, sperava, anche con l’aiuto della musica, di trovare la giusta ispirazione. 
Il suggerimento del Folle, alquanto irriverente, trasmesso ad Arcitorre, di portare con sé tutte e 22 le auree sfere per farne dei segnaposti, in fondo voleva banalizzare la questione dell’oro alchemico riducendola ad una stravaganza, ma in esse v’era condensata la sapienza del metallo più prezioso di tutti che era comparso nella notte dei tempi e portava impresso nella memoria il percorso delle trasformazioni dell’energia primordiale.
L’intenzione di Arcitorre era di captare e concentrare sapienza ed energia, utilizzando 4 elementi sferici, ricondotti ai 4 elementi fondamentali della vita. 
Nel corso dell’esecuzione musicale, Arcitorre rafforza le sue intuizioni e si convince sempre più che quelle 22 sfere d’oro purissimo potevano rispondere alle ragioni profonde che avevano reso necessaria e improcrastinabile quella riunione straordinaria. 
Per decifrare il nucleo centrale della profezia di Federico II bisognava che ciascuna sfera fosse relazionata al proprio Arcano corrispondente. Questa circostanza poteva concretarsi solamente quando tutti i Trionfi fossero insieme. Tuttavia, al momento, all’appello mancavano Ermes e la Forza, saliti sull’aureo cocchio guidato dall’Auriga e partiti verso una meta lontana. I due viaggiatori, al corrente dell’Assemblea imminente, comunque avevano assicurato la loro presenza. Di conseguenza Arcitorre era ottimista e pure la musica ascoltata non faceva che rafforzare i suoi intenti e le sue attese.
Dopo l’accoglienza musicale, a tutti gli Arcani è concessa una pausa di riflessione individuale. Ciascun invitato è accompagnato nella sua omologa stanza da una coppia di solerti e sorridenti valletti, che saltellavano e canticchiavano beatamente. A ogni corridoio spalancavano una porta di foggia, disegno e colore differente. Tutti ne restavano meravigliati. 
Lo stupore del Gerofante presto si tramuta in stizza. “Vorrei sapere dalla vostra bocca ridanciana quante altre porte devo attraversare per arrivare a destinazione! Ammesso che sappiate dove dobbiamo andare!”
“Ancora cinque porte santità e siamo arrivati.”
“Lo spero.”
“Tra mezz’ora esatta veniamo a prendervi!”
‘E chi si muove! Da solo non saprei mai trovare la strada del ritorno. Questa dimora deve collezionare qualche migliaio di porte. Assomiglia a un labirinto. Siamo prigionieri di servigi di stupidi lacchè. L’Eremita non ha pensato che posso prenderne uno per un orecchio e farmi portare fino all’uscita, se voglio.’ Forse, perché infastidito dal dedalo percorso, il Gerofante aveva esagerato nella previsione sul numero delle porte. Per motivi cabalistici erano in realtà 99 (essendo 9 + 9 = 18 = 1 + 8 = 9).  Ogni porta era stata battezzata, in omaggio a tutte le creature che a vario titolo avevano cura della dimora dell’Eremita. Vi erano porte con delicati nomi femminili tratti dalla mitologia antica, come Nausica, o Circe; altre infine dedicate a eroi dell’antichità, come Ercole e Achille. 
   In cima alla porta della stanza che ospitava il Gerofante un nastro ligneo scolpito rammentava la biblica Erodiade. Costei aveva domandato e ottenuto dalla figlia Salomè la testa mozza di Giovanni Battista: il discepolo di Gesù che aveva osato condannare pubblicamente, per violazione della legge mosaica, il suo matrimonio con Erode, tetrarca della Galilea. La figura intrigante di Erodiade costituiva di per sé una sorta di messaggio in codice che l’Eremita voleva mandare indirettamente al suo acerrimo antagonista. Il Gerofante, nell’atto di accogliere la sfida, s’inginocchia per pregare, in attesa che abbiano inizio i lavori dell’assemblea previsti per le ore 22. 
 
 
55
L’Assemblea discute i primi due punti all’ordine del giorno
 
A sorpresa, all’inizio dei lavori dell’assemblea, il Primo Famiglio interrompe l’Eremita, mentre stava per prendere la parola. 
“Chiedo scusa, ma è accaduto un fatto inatteso. Poco fa si è presentato il Re di Denari, chiedendo d’essere ammesso a questa riunione, come osservatore imparziale. Pare che le Voci lo avessero informato ed esortato ad intervenire e chiedere udienza. Mostrando uno dei Vostri inviti, gli ho fatto osservare che l’evento era ristretto ai soli Trionfi. Poi ho aggiunto che il mio diniego non voleva costituire una mancanza di rispetto. L’ho indotto a credere che un’oscura minaccia stesse sovrastando tutti, pertanto era bene tenere fuori dalla contesa gli Arcani minori, per non coinvolgerli in una disputa più grande di loro. Se n’è andato via proprio adesso e sembrava persuaso dalle mie spiegazioni.”
L’Eremita fa i complimenti a Perimene per i modi diplomatici, usati per convincere il Re di Denari ad andarsene. Solo allora pronunzia un semplice discorso di apertura, ringraziando i presenti per la disponibilità dimostrata. Poi conferisce al Mago la facoltà di presiedere l’assemblea, in virtù del fatto che era simpatico alla maggioranza e non aveva mai litigato con nessuno. Tale scelta era ben vista e tutti potevano essere garantiti da una certa imparzialità.
Il Mago nomina come suo vice e segretario il Giudizio: con il preludio musicale aveva deliziato i presenti e si era quindi attirato i consensi del momento.
Entrambi parlottano un poco e concordano l’argomento prioritario di discussione da inserire all’ordine del giorno che viene letto dal segretario.
“Vorrei innanzitutto salutare i presenti e ringraziarli per il calore dimostrato verso la mia giovane orchestra al suo esordio. Il primo punto prevede la risoluzione pacifica della grande scommessa vinta dall’Arcano Numero 1 nell’Anno del Signore 1540.”
La scelta non era certo casuale. La maggioranza dei presenti era in apprensione perché aveva qualcosa da perdere. L’Eremita: la sua preziosa lanterna. L’Imperatore: il suo trono. Arcisole: la sua Città. Il Folle: il suo bastone impreziosito con gli Zeri e la fibula d’oro. Anche gli altri Arcani avevano impegnato beni a cui erano affezionati e dai quali non avrebbero voluto in alcun modo separarsi. 
Il Gerofante, anche se aveva avuto la tentazione di lasciarsi prendere dalla frenesia del gioco, aveva prudentemente atteso le reazioni di Arcidiavolo e, vedendo che era rimasto fuori e non si era lasciato abbindolare, ne aveva approfittato per lanciare una delle sue proverbiali scomuniche contro il gioco d’azzardo e ogni tipo di licenza ludica. 
Interviene per prendere la parola, in maniera polemica, proprio Arcidiavolo, che non aveva scommesso. “Secondo me è buona regola tra gentiluomini pagare sempre i propri debiti di gioco. Pertanto io sono del parere che il Mago ha ragioni da vendere a pretendere i suoi trofei. Che poi sia passato del tempo, non significa nulla. Una concessione benevola la sua, attendere sino a oggi, per richiedere quello che è legittimamente suo.”
Tutti sapevano che Arcidiavolo non aveva nulla da perdere e quindi era palese che stesse solo seminando zizzania, per animare la prima questione della seduta.
Interviene in maniera pertinente e appropriata la Giustizia. “Esiste una norma giuridica chiamata usucapione, secondo cui un bene dopo venticinque anni, se usato con continuità da una persona diventa di sua legittima proprietà e non può in alcun modo essere rivendicato, perché l’antico proprietario, non avendolo reclamato prima come suo, ha dimostrato che non ne aveva alcun bisogno. Perciò, estendendo questa norma degli umani ai nostri tempi, decuplicati a duecentocinquanta anni ed essendone trascorsi almeno trecento, ritengo che il Mago non abbia più nessun diritto su dei beni suoi, che per tutto questo tempo ha dimostrato di non avere la necessità di possedere. Chiedo che sia messa ai voti questa mozione, per arrivare appunto a una risoluzione pacifica della grande scommessa.”
Il Mago dimostra subito di condividere le ragionevoli osservazioni della Giustizia, la cui mozione è approvata all’unanimità, con la sola astensione di Arcidiavolo, che con il suo intervento si era più che altro messo in mostra.
Le votazioni avvenivano per alzata di mano. La conta dei voti è fatta dal segretario. “La mozione della Giustizia sui beni scommessi, che non possono più essere rivendicati dal Mago, in base alla legge dell’usucopione, è approvata a larga maggioranza dai presenti.”
Cupido stava accovacciato a terra, accanto allo scanno numero sei, dove era seduto l’Innamorato che si mette a ridere, per sottolineare lo strafalcione dell’usucopione scandito dal segretario a voce nitida. L’Imperatrice gli sussurra sottovoce di lasciare correre e di perdonare quel lapsus del Giudizio. Senza sentire ragioni, invece l’Innamorato vuole impartire una lezione al segretario, sia per mortificarlo ed anche per squalificarne la funzione agli occhi dei presenti. 
“Vorrei fare osservare al presidente di quest’assemblea l’errore grossolano commesso. Il termine giuridico usucarpione usato dalla Giustizia è diventato, alle orecchie volgari del segretario, usucopione. Chiedo che sia dimesso dalla sua funzione per essere inadatto a svolgere tale compito.”
Pallido per la vergogna, il Giudizio si giustifica. “Voglio chiedere scusa per la mia distrazione linguistica. Faccio osservare al dotto Innamorato che il termine giuridico esatto di origine latina è usucapione, la cui etimologia è usu capere, ossia prendere mediante l’uso. Ovviamente il verbo capere non va contaminato con il ben noto carpione, il quale è un pesce di lago commestibile.” 
Il Giudizio con queste dotte precisazioni dimostra d’essere idoneo al ruolo che svolge e palesa a sua volta la figura dell’ignorante fatta dall’Innamorato, che aveva capito fischi per fiaschi. Alla garbata precisazione ridono in molti e Cupido si mette le mani in faccia, per coprirsi dal ridicolo suscitato per quella gratuita e maldestra gaffe. 
Per giustificarsi dall’incauta sottolineatura con i più vicini, l’Innamorato commenta ad alta voce: “Ho solamente scherzato. Volevo dare un’imbeccata al Folle, per ampliare il repertorio delle sue barzellette.”
Il Mago tende a ridimensionare l’accaduto. “Il segretario nel correggersi ha dimostrato tutte le sue competenze. Solo l’emozione del momento l’ha indotto a commettere un lapsus del tutto comprensibile.” Poi ironicamente chiede all’Innamorato se intendeva svolgere il ruolo di segretario che era stato affidato al Giudizio, ma lui si limita a ripetere che aveva solo voluto scherzare e applaude al suo indirizzo.
Con un minuto di silenzio, presidente e segretario subito concordano di procedere alla commemorazione della Sfinge, messa al secondo punto all’ordine del giorno. 
A sorpresa e non senza commozione dei presenti, il Giudizio intona, insieme ai suoi angeli musicanti, divenuti per l’occasione anche cantori, alcune note del Requiem di Mozart debitamente riadattato.
Lacrimosa dies illa
Qua resurget ex favilla
Judicandus Arcanus reus.
Portata a termine la dolorosa formalità, il Mago si accinge a confabulare con il segretario per stabilire il terzo punto in discussione, quando, a sorpresa, con calcolato ritardo, si alza l’Arcano della Morte per prendere la parola. Questa volta aveva scelto d’assomigliare a un uomo anziano di corporatura e altezza media. Indossava mestamente un abito scuro, intonato al momento malinconico. A passo funebre procedeva verso il centro dell’Anfiteatro. Già si presagiva che avrebbe fatto sorprendenti rivelazioni, a corollario di quella commemorazione che avrebbe prodotto altre vittime sacrificali. Esordisce col tono teatrale dell’attore, come se stesse recitando l’Edipo Re di Sofocle, di fronte ad una platea stracolma e il luogo fosse l’Arena di Verona, in una notte calda e umida d’estate. “Sfinx non interrogherà più gli incauti pellegrini del sapere. Adesso chiunque potrà impunemente violare il Tempio della conoscenza e profanare quanto è custodito nei libri. Due Arcani erano presenti quando Sfinx è stata pietrificata. Costoro ci stanno nascondendo qualcosa, poiché il mio fiuto non s’inganna mai e accompagna sempre le dipartite più illustri. Ahimè, non ci fu spettacolo più triste di quello che sto ricordando. Questo il mio epitaffio, Signor presidente, in linea col secondo punto all’ordine del giorno.”
Il Folle e l’Imperatore si scambiavano rapide occhiate, per cercare d’intendersi su di una linea comune, poiché di lì a poco i loro nomi sarebbero comparsi sulla lavagna, dove il primo della classe col gessetto segna i cattivi, che hanno approfittato dell’assenza del professore per commettere le solite marachelle. 
A sorpresa si alza in piedi il Folle per ridimensionare la spettacolarità della rivelazione. “Eravamo presenti per caso, io insieme all’Imperatore, da poco invitato a questa riunione. Ero lì per conferire con la Papessa. Abbiamo assistito impotenti. Siamo stati quasi coinvolti da quella sorprendente metamorfosi. Paralizzati dal terrore. Attoniti e increduli.”
“Presidente, intenderei continuare. Sono stato interrotto. Il Folle ha raccontato a Sfinx una delle sue storielle per ammansirla, per irriderla, come fa sempre con tutti. E lei ha cominciato a sragionare. Si è fatta persino interrogare e poi è stata tramutata in pietra senza vita. Vittima di una malia subdola.”
Il Folle replica deciso. “Mi si accusa qui, di fronte a tutti, di avere una qualche responsabilità. Avrei sconvolto Sfinx con una delle mie storielle. Con il beneplacito dell’Imperatore. Lui si è limitato a ridere a crepapelle. Sfinx ne è rimasta pietrificata. E’ ridicolo.”
“Presidente, vorrei continuare. Sono stato ancora una volta interrotto. Espongo solo i fatti che so e riferisco. Sfinx, prima di ricevere la visita del Folle, aveva sorpreso l’Uomo dei Tarocchi mentre usciva furtivo dal Tempio della conoscenza, dove la Papessa lo aveva condotto per illuminarlo e dargli la possibilità di rispondere alle tre fatidiche domande. L’intreccio è chiaro. La presenza passiva dell’Imperatore doveva costituire una sorta di alibi. L’intrigo ordito dai compari è smascherato e voglio palesarlo a tutti. A corollario del secondo punto all’ordine del giorno, accuso i due figuri in questione di complotto contro gli Arcani e di essere responsabili della metamorfosi mortale di Sfinx.”
Sentendosi quasi accusata di matricidio la Papessa vorrebbe sbranare l’Arcano della Morte. Trattenendosi per la rabbia, ha una sorta di mancamento nervoso e sviene soccorsa dai valletti. 
La seduta a questo punto è interrotta per un’ora.
Dopo la pausa, la Giustizia prende la parola di fronte ad una platea ancora visibilmente emozionata e irrequieta. Inizia a parlare e s’interrompe per ben tre volte fino a ottenere il dovuto silenzio. “Capisco tanto brusio e tanta agitazione, ma non sono abituato a un pubblico vociante e distratto. Un complotto sarebbe stato scientemente premeditato in maniera meticolosa per opera di una triade perversa: nella persona dell’Uomo dei Tarocchi, unitamente al Folle in combutta con la Papessa. Verrebbe quasi da pensare a una delle tante storie partorite dalla fantasia scherzosa dello Zero, scopertosi oggi omicida. L’Arcano della Morte ha raccontato i fatti, ma nella sostanza li ha distorti, vedendo malafede nella Papessa. Essa interpreta solamente il suo ruolo, quando trascina l’Uomo dei Tarocchi al cospetto di Sfinx, per avere conferma delle sue potenziali conoscenze. Senza alcuna premeditazione il Folle stava completando il suo programmato incontro con la Papessa, per giunta in compagnia dell’Imperatore, a cui era stato portato via il suo trono.”
La Giustizia levita in aria per cercare la giusta ispirazione. “Otto probi viri verranno estratti a sorte tra i presenti. Eccetto il Folle e la Papessa: gli incriminati. Escludendo ovviamente la Morte che muove l’accusa e io che rappresento la difesa degli imputati. Giudicheranno i fatti già ascoltati ed esprimeranno un giudizio definitivo e inappellabile.”
I prescelti eseguono la tradizionale procedura prevista in questi casi. Il voto doveva essere palese e non segreto e non poteva essere accompagnato da alcuna dichiarazione.  
Arcidiavolo e il Gerofante si esprimono lasciando scivolare entro un vaso di vetro trasparente una biglia nera: segno di colpevolezza. Arciluna, Arcisole, l’Innamorato, l’Imperatore, il Mago, e l’Appeso scelgono la biglia bianca: simbolo d’innocenza.
Il Folle gongolante issa sulle sue spalle la Papessa e la porta in trionfo, a cavalcioni per fare un giro di campo, tra le ovazioni da stadio dei presenti, scesi quasi tutti in pista, ad eccezione del trio Arcidiavolo, Morte e Gerofante, i quali non avrebbe voluto assistere a quell’esagerato festeggiamento.  
 

 

 

56

Terzo punto all’ordine del giorno: la gravidanza dell’Imperatrice

 

Congiuntamente, presidente e segretario decidono di esaminare il terzo punto all’ordine del giorno: la gravidanza dell’Imperatrice. 

“Presidente, mi meraviglio! Com’è possibile che un lieto evento in questa tormentata famiglia dei Tarocchi, possa costituire argomento di discussione? Trattandosi poi di un fatto meramente privato non dovrebbe essere chiacchierato in pubblico.” Sentenzia in tono severo la Temperanza.

“Vorrei che questa gravidanza costituisse uno spazio mio, intimo. Non vedo l’utilità di soffermarsi qui a fare pettegolezzi e supposizioni. Mio figlio avrà una madre e questo basta. Se il padre vorrà riconoscerlo, sarò felice, ma corrergli dietro per metterlo di fronte alle sue responsabilità, questo mai!”

L’Imperatrice nel pronunciare la parola padre lancia uno sguardo fulminante in direzione dell’Innamorato, che la guarda senza battere ciglio, ma di fronte a tutti non può fare finta di niente. Era giunto il momento di decidere: o assumere la paternità, o negarla con decisione e andare a scovare l’impostore che aveva sedotto la Donzella, da sempre platonicamente amata per la sua purezza e la sua dedizione. Memore delle parole del Folle, l’Innamorato sta per fare l’annuncio della sua vita: immolarsi in nome della fedeltà e riconoscere come propria creatura un bastardo. Nel sollevarsi dalla dura pietra per prendere la parola, gli sembra di portare sulle spalle il peso del mondo intero e sotto di esso ricade, incapace di proferire parola alcuna.

Cupido lo guarda e si mette a mimare no, ripetutamente, col capo. L’Imperatrice, osservando la scena, riceve un indizio cristallino e trasparente della buona fede e dell’imbarazzo dell’Innamorato. Idealmente gli prende la mano e lo ama come non mai, perché capisce che avrebbe preferito mentire per non darle un dolore. Allora lui la guarda anche molto teneramente e va ad abbracciarla per corrisponderle affetto e solidarietà.

Poiché i comportamenti in pubblico assumono una valenza particolare, la maggioranza dei presenti, confusa e fuorviata, interpreta quel gesto come un chiaro segno d’assunzione di paternità. Qualcuno lancia un respiro di sollievo, perché il terzo punto era filato liscio e senza intoppi, qualcun altro si alza e applaude anche all’indirizzo dei due. 

Allora il Folle prende la parola al centro dell’Anfiteatro. 

“La gravidanza dell’Imperatrice meriterebbe d’essere un fatto meramente privato, concordo, ma a volte il privato, per forza di cose, diventa di dominio pubblico. Se per caso il figlio del Re di Vattelapesca dovesse essere un bastardo, non meriterebbe di sedere sul trono di suo padre. Mi risulta che l’Innamorato non ha minimamente sfiorato l’Imperatrice e che un astuto infingardo ha compiuto questo gesto spregevole, confondendo l’Imperatrice con l’obiettivo specifico di creare sconforto e sconcerto in noi tutti. Sì perché questa non è, e non sarà, un’amichevole rimpatriata tra ex compagni di scuola che si rivedono dopo alcuni anni. Sarà una battaglia, combattuta con tutte le armi possibili. La delazione e il sospetto già ci sono stati a ridosso. Ora è la volta della seduzione ingannevole e del millantato credito. Perché mai, noi Arcani, abbiamo sentito il bisogno di darci delle regole. Abbiamo imitato gli umani in quello che avevano di peggiore e non abbiamo loro insegnato nulla di buono. Qualcuno, già lo prevedo, sta per alzarsi e dirà che sono diventato un predicatore del cavolo e che devo smetterla di lanciare strali dal pulpito. In conclusione vorrei che il marrano gentiluomo avesse il coraggio di esporsi e di farsi vivo qui adesso, con la sua faccia, senza mimetizzazioni, per guardarci negli occhi. Come si faceva nei duelli di una volta, con tanto di padrini e di becchini fuori ad aspettare il morto.”

Pronunciate con severità, le parole del Folle sollevano una ridda di supposizioni e un fitto vociferare tra gli Arcani, inorriditi nell’apprendere che uno di loro aveva avuto l’impudenza di assumere le sembianze dell’Innamorato, per approfittare della ben nota debolezza dell’Imperatrice.

L’accusato, chiamato in causa, sente pesare l’ombra dell’intransigente giudizio dei presenti e ancor più quello della propria coscienza. Prova la tentazione di venire allo scoperto e d’accettare fino in fondo la provocazione calcolata del Folle, il cui unico obiettivo era di smascherarlo, facendo leva sul suo orgoglio. In un lampo d’ira non più trattenuto, stava quasi per alzarsi per prendere la parola, quando, per un nonnulla, è preceduto e quasi salvato dal provvidenziale intervento di Arcidiavolo che a sorpresa avanza verso il centro dell’Anfiteatro per prendere la parola. 

Per l’occasione aveva assunto le sembianze di un ragazzo molto effeminato dai capelli lunghi, biondi e fluenti. Coperto solo da un piccolo panno rosso, avvolto attorno alla vita, assomigliava a un santone indiano. “Quante volte, ahimè inutilmente, ho cercato di pervertire alle mie licenziose richieste l’animo candido dell’Imperatrice, alla quale ho offerto di essere la signora incontrastata di tutto il mio Regno. Tante invero, che neppure le conto. Usando astuzie inutili. Tuttavia, per nessun motivo, mi sarei fatto passare per un altro; perché sarebbe svanito tutto il piacere. L’Imperatrice, infatti, si sarebbe concessa al suo amato e la mia sarebbe stata un’effimera conquista.”

L’Eremita a sua volta prende la parola, con la ferma intenzione d’isolare il marrano. “Io, si sa, ho sempre fatto da padre e da guida a questa nobile e generosa Donzella. Quando ho appreso del coinvolgimento dell’Innamorato, ho voluto accertare i fatti. E l’interessato mi ha giurato sul suo onore che mai avrebbe approfittato di lei, per troppo amore e per non sentirsene degno. Questa seduzione ingannevole non è casuale. Rientra in un disegno. Avrebbe aperto una frattura insanabile entro il gruppo, alimentando sospetti, ripescando rancori e rivalità sopite.”

Il Gerofante, fino ad ora taciturno e assorto, lascia il proprio seggio naturale per andare al centro dell’Anfiteatro, al contrario dell’Eremita che aveva parlato molto semplicemente senza neppure alzarsi. “-Mai, noi Arcani, abbiamo sentito il bisogno di darci delle regole.- Pronunciata dal Folle, quest’affermazione suona quasi come un segno di pentimento. Fortunatamente abbiamo ascoltato le Voci della dimensione celeste e ad esse dobbiamo obbedire, perché occupano un gradino più in alto di noi. Sono pure e immacolate. Non conoscono il peccato originale che corrompe anche la nostra natura, per averlo ereditato come fardello di sventura dagli uomini, la cui malvagità si riflette ora in questa misera disputa. L’Innamorato insegue piaceri effimeri. L’amore vero comporta dedizione e comprensione. Una casta Donzella sedotta con l’inganno. La morte repentina e incomprensibile della Sfinge. Una coppia blasfema ci invita a una riunione carbonara per cospirare contro le Voci, a difesa del libero pensiero di un eretico, che ha persino osato cambiare la nomenclatura e le effigi dei Tarocchi per testimoniare la propria fede atea. Comunque i complotti dei miscredenti sono miserevoli, anche se subdoli e ben congegnati. Invito quest’Assemblea a pregare e al rispetto dei comandamenti delle voci celesti.”

La Forza, con un breve intervento, cerca di convincere l’Imperatrice ad accogliere benevolmente la maternità oscura, qualunque fosse l’origine.

La Papessa percorre la medesima via e pone l’accento su una fatale coincidenza: la scomparsa della Sfinge e la nascita di una nuova creatura.

La Ruota della Fortuna suggerisce che bisogna sapere leggere nel grande Libro dei Mutamenti col cuore e senza acredine.

Tutti i presenti sentono il bisogno d’intervenire su un argomento così delicato. 

Le parole dure e precise di Arcitorre considerano l’evento con spirito freddo, senza nulla concedere ai sentimentalismi e alla maternità. “Nulla ci dice che il nascituro provenga da questa nobile famiglia degli Arcani Maggiori. Anzi i primi indizi dicono tutto il contrario, perché l’Innamorato nega un suo coinvolgimento nella vicenda e dobbiamo credergli.”

Anche Arciluna vuole rimarcare l’anormalità della straordinaria gravidanza. “Tutto ciò che è difforme dalla natura e non segue il graduale processo di crescita, non è un segno benevolo del divenire, ma uno strappo blasfemo, dove la nequizia s’insinua e nasconde.”

L’Arcano delle Stelle vuole sottolineare l’assenza di un preciso segno di benevolenza astrale, per cui tutti debbono diffidare di quella subdola gravidanza.

L’antico spirito fazioso e battagliero sembrava far ripiombare i Tarocchi nelle tradizionali contrapposizioni di sempre e tutti avvertivano che l’aumentare della tensione non avrebbe prodotto nulla di buono. 

L’Appeso, consapevole della situazione, cerca di porre fine alle divergenze. Vuole trovare una soluzione per fugare ogni diffidenza e sanare la frattura; tuttavia, vergognandosi di prendere la parola in pubblico, sceglie di dire la sua, alzandosi sul posto, senza muoversi. “Grazie al mio penzolare indefesso, dovrei conoscere meglio di ogni altro qual è l’essenza della sofferenza. Dovrei possederla, per riuscire a trasmettere un poco di candore e bontà a quest’Assemblea divisa, che non ha mai smesso di fronteggiarsi in nome di fedi, alchimie e potere. Io ho rinunciato a ogni velleità terrena e dovrei essere il più adatto per indicare la via, per attingere non dico la santità, ma la dignità. Esistono le leggi di Dio, quelle trascritte sui Libri Sacri di ogni tempo. Esistono anche le leggi specifiche che gli uomini si sono dati. Sono state previste le pene, a volte severe per i trasgressori. Non sono servite però a produrre quel cambiamento profondo nella coscienza di ciascuno. Siamo rimasti intrisi nel fango dal quale siamo usciti. Io, nottetempo, sono sceso per trasmettere all’Imperatrice tutto il mio amore per Lei, ma non avendo trovato il coraggio di mostrarmi come sono, nella mia veste abituale, ho scelto il travestimento più ovvio e più semplice per conquistare il suo cuore e violare il suo corpo. Sono stato appeso a una trave per rimuovere le pulsioni che gli umani mi avevano trasmesso e non me ne sono riuscito a distaccare. Forse avrei semplicemente dovuto assecondarle per quello che erano, ma non le ho sapute riconoscere e le ho ricacciate indietro, come ci avevano tristemente insegnato predicatori e moralisti. Ho commesso un grande peccato contro me stesso, oscurando la mia natura e le mie pulsioni che si sono vendicate di me in una notte di plenilunio, quando le tentazioni, diventate più forti, hanno fatto di me un violentatore mascherato. Forse dovrei tornare a espiare, su una gogna, la giusta condanna. Credo però d’avere scontato già in anticipo il mio crimine, con tutto quel penzolare secolare e d’avere abbastanza mortificato la mia esistenza.” E, per il grande senso di colpa accumulato, l’Appeso si mette a piangere con le mani ripiegate sulla faccia, non riuscendo più a nascondere la propria vergogna. 

L’Imperatrice in silenzio gli si accosta e lo accarezza. 

Quel gesto conciliatore offre al segretario l’opportunità d’annunciare la sospensione della seduta per un'altra ora.

 

 

57

I poteri della lanterna dell’Eremita

 

Mentre ascoltava allibito la confessione dell’Appeso, l’Innamorato rivolge le sue attenzioni verso l’Imperatrice, accorsa a esprimere riconoscenza nei confronti del proprio seduttore. Ferito nel suo orgoglio d’eterno spasimante e assalito dalla gelosia, rimuginava una mozione per chiedere una pena esemplare nei confronti del reo, che aveva interrotto la secolare meditazione per attingere la voluttà proprio con la sua Donzella prediletta.

Frattanto gli Arcani approfittano della pausa concessa per darsi qualche piacevole distrazione; invece l’Innamorato rimane incollato al suo scanno di pietra a discutere con Cupido che voleva visitare l’ampia dimora. Non se la sentiva di gironzolare come un idiota, nel momento in cui la sua Donzella se ne andava a passeggio in pubblico con il nuovo spasimante, prendendolo amorosamente per mano. 

I suoi propositi di vendetta, in nome dell’onore, vengono interrotti da un buffetto alle spalle che lo fa sussultare dallo spavento. L’Eremita gli si era avvicinato, non con l’intento di scambiare quattro chiacchiere, o di chiedergli scusa per averlo ingiustamente sospettato di un gesto che non aveva commesso. “Insomma, oggi abbiamo ascoltato grandi rivelazioni!”

L’Innamorato guarda l’Eremita con rabbia e, senza rispondere,  torna ad assumere la posa riflessiva del pensatoredi Rodin: il suo scultore prediletto. “Allora non mi dire che hai bevuto la pubblica confessione dell’Appeso. Secondo te avrebbe lasciato il luogo del supplizio, per meditare improvvisamente di fronte al tabernacolo di una casta Donzella?”

“Perché mai dovrei dubitare delle parole di un gentiluomo che si è anche messo a piangere di fronte a tutti?”

“Perché l’Appeso è fatto così. Assume su di sé le colpe di noi tutti con la sua espiazione. Ha voluto alleviare il dolore della Donzella e si è sacrificato pensando che il vero colpevole mai si sarebbe assunto la pubblica responsabilità del suo gesto.”

“Pensi ancora che possa essere stato io, per caso?”

“No. Vedendo il tuo abbattimento, ora ho la prova tangibile della tua dichiarata innocenza. Nessun dubbio. Tu amavi l’Imperatrice di un amore platonico e mai avresti osato profanare questo sentimento.”

“Beh, allora se sei convinto, vattene fuori dai ciglioni che voglio stare solo.”

“Forse saresti meno malinconico, se ti dicessi che c’è uno stratagemma per incastrare il colpevole?”

“Non vedo come, tanto non ammetterà mai la sua colpa.”

“Lui non dirà nulla. Anzi è molto probabile che il colpevole sia tra quelli che poco fa hanno proclamato la loro innocenza.”

“E allora siamo punto a capo.”

“No, durante tutta la discussione ho pensato che doveva esserci una possibilità d’incastrare il colpevole. E vorrei il tuo conforto, per vedere se i miei conti tornano.”

“Parla.”

“Immagina d’essere te ad assumere le fattezze dell’Appeso, magari per andare a penzolare un poco nella sua posizione prediletta e vedere come si sta. Voglio che tu lo faccia adesso. Di fronte a me.”

“Qui? In pubblico?”

“Tranne il segretario, che continua a scrivere non so cosa, non vedo nessuno. Sono tutti a spasso. Anche i valletti sono via.”

“Bene, ti accontento. Come sto?”

“Sei perfetto, ma guardati gli occhi in questo specchio.”

“Non vedo cosa hanno di speciale. Sono i miei occhi.”

“Appunto, mentre quelli, a tratti fiammeggianti dell’Appeso, sono come la luce sulfurea del crepuscolo, per via dei riflessi patiti sulla bocca del cratere vulcanico che erutta lava .”

“Allora sono stato uno stupido a non trasformare anche i miei occhi, ma non avevo mai osservato a fondo l’Appeso.”

“E’ probabile che anche il nostro gentiluomo non abbia pensato al colore degli occhi, quando si è fatto passare per l’Innamorato. Anche i tuoi sono particolari. L’iride non è circolare, ma assomiglia alla stella di Davide.”

“Sì è vero. Comunque l’Imperatrice non ha guardato a fondo le pupille del suo seduttore. Era certo distratta da altro.”

“Tuttavia la mia lanterna può mostrare quello che hanno visto gli occhi dell’Imperatrice. Dobbiamo subito approfittare di questa sosta per coinvolgerla nel mio progetto.”

“Io non ho più niente a che spartire con l’Imperatrice. Oggi mi ha messo in ridicolo di fronte a tutti.”

“Che cosa volevi facesse? Ha espresso la sua visibile solidarietà. Non ti ha mancato di rispetto.”

“Questo è vero, non posso negarlo.”

“Allora, Innamorato, non vieni insieme a me a parlare con l’Imperatrice?”

“Scusa, ma io vado a fare un poco di cicoria. Forse è meglio.”

“Non fare l’idiota. Andiamo, alzati, altrimenti non scopriremo mai chi ti ha messo le corna!”

Nonostante la scarsa determinazione dell’Innamorato e grazie all’acume dialettico dell’Eremita, l’Imperatrice si lascia convincere dal progetto che aveva come perno centrale gli straordinari poteri della lanterna.

Appena riprende la riunione, l’Eremita chiede di poter parlare, per fare un annuncio importante. “Dopo l’accorata confessione dell’Appeso, non ho smesso un minuto di pensare a quanto deve essergli costata l’assunzione di responsabilità. Poi mi sono messo nei suoi panni ed ho capito quanto ci ama. Il suo sacrificio però, in questo caso specifico, non è giusto e soprattutto finisce col fare il gioco di un nemico misterioso che aleggia su tutta questa vicenda. La gravidanza dell’Imperatrice non è un accadimento casuale: il frutto di una pulsione secolare non più trattenuta. Ci siamo azzuffati per secoli, senza spuntarla, giungendo poi a una tregua che dura da molto tempo. Adesso è venuto il momento di fare tesoro della cabala e sfruttare le risorse che abbiamo. Io posso contare sull’ausilio della preziosa lanterna che deve le sue proprietà proprio ai numeri. La sua forma costituisce una visualizzazione del calcolo cabalistico e la sua luce, non solo illumina gli oscuri sentieri, ma la coscienza di coloro che incontra. Possiamo utilizzarla per dipanare la matassa di quest’oscura gravidanza. Solo l’Imperatrice è in grado di generare. L’evento non si è realizzato per più di settecento anni e si concretizza ora. Una creatura aliena cresce a vista d’occhio e potrebbe minacciare la nostra stessa sicurezza. Dobbiamo risalire con certezza alle radici di questa paternità. Ora, di fronte a questa platea, procederò a un esperimento. Sistemerò la mia lanterna su questa esile colonna di marmo e invito l’Imperatrice ad accostare i suoi occhi a questa faccia della lanterna. Non deve avere alcun timore, perché la tenue luce non ferirà in modo alcuno il suo sguardo.”

La convitata esegue le indicazioni e le raccomandazioni dell’Eremita, senza discutere.

“Bene così. Adesso chiamerò tre particolari triadi di Arcani con una forte valenza cabalistica e li disporrò sui tre spigoli della lanterna nel modo più appropriato: rispettando l’ordine crescente e il verso orario. Ciascuno dovrà semplicemente toccare la lanterna con il solo indice della mano destra. Le sequenze cabalistiche degli Arcani unitamente rafforzano i poteri della lanterna, quando è sfiorata da mani sapienti. Inizialmente sfrutteremo le proprietà della sequenza cabalistica 2 > 4 > 6 ed inviterò qui la Papessa, l’Imperatore e l’Innamorato. Dopo, in base alla sequenza cabalistica, 4 > 8 > 12 chiamerò l’Imperatore, la Giustizia e l’Appeso. Poi utilizzerò la sequenza  5  > 10 > 15 e scomoderò il Gerofante, la Ruota della Fortuna e Arcidiavolo.Quindi adesso procediamo all’esperimento illustrato. Ogni terna di Arcani si soffermerà per tre minuti, scanditi da questa piccola clessidra, al cui interno è stata collocata della polvere d’oro.”                                                

Facendo trasecolare di stupore i presenti, tutti i convitati, con la sola eccezione del Gerofante, riferiscono d’avere riconosciuto l’inconfondibile figura dello sposo della quintessenza, dall’iride simile a una stella a cinque punte. Costoro, infatti, senza essere influenzati dallo sguardo dell’Imperatrice accecato d’amore, potevano, grazie alla lanterna, vedere, senza camuffamenti, chi aveva ordito quella diabolica macchinazione.

Il solo Gerofante taceva con ostinazione e si sentiva giudicato dall’intera assemblea che aspettava una sua risposta. Sentendosi messo alle corde, l’accusato imperturbabile non pensava di sottrarsi alla prova che lo inchiodava alle sue responsabilità e con fierezza rivendica le proprie scelte. Le sue parole cadono come tanti macigni sul consesso degli Arcani, attraversati da un momento di comprensibile smarrimento. “Non è tempo di confessioni, perché non ci sono colpe da ammettere. Potrei negare valore a quanto abbiamo visto, dicendo che è un miraggio, un inganno sapiente prodotto dalla luce di questa lanterna. Potrei vanificare tutto lo stupore di questa platea scandalizzata. 

Legioni di Angeli addestrati attendono il mio ritorno. Ancora non sono in scacco, né sarò qui detenuto per sempre. I complotti s’intersecano, si elidono. Sembrerebbe un atto crudele il mio. Ci vorrebbe, a questo punto della tragedia, un siparietto musicale tratto dal Mefisto valzer di Franz Liszt. Eseguito con scrupolo dal nostro emerito direttore d’orchestra. Io sono dalla parte delle Voci della dimensione celeste, dalla parte di Colui che muove il sole e l’altre stelle. I miei atti sono ispirati e legittimati dalla fede. 

L’Imperatrice, casta e devota sposa, ha corrisposto l’unico vero amore della sua vita: l’Innamorato. Non avrebbe potuto concedersi ad altri. Io sono stato un tramite, un messaggero. Ho trasportato un seme e l’ho piantato nell’unico terreno fertile possibile. Ho eseguito un piano soprannaturale. Dovremmo inchinarci, pregare e ringraziare d’essere stati prescelti.”

L’Eremita era il meno sorpreso di tutti dall’argomentazione. Conosceva le astuzie del Gerofante e non si lasciava impressionare dalla sua strategia. “In sostanza l’Imperatrice, nella sua innocenza, è stata caricata di un fardello inimmaginabile, a cui non ha avuto la possibilità di dire no! In barba al libero arbitrio, ha dovuto accettare i progetti subdoli del Gerofante che dice di essere il tramite del Sommo Fattore. Oggi, è venuto il momento di palesare la vera natura delle Voci e tutti potranno finalmente conoscere il volto dei compari del Gerofante. Già ci ha diviso in passato, per imporci la sua morale, la sua dottrina e il suo potere; adesso si arroga il diritto d’essere infallibile e d’essere l’unico rappresentante di Dio in terra. 

Quando le Voci ci hanno invitato ad assistere al famoso oracolo, hanno fatto gli inviti personalizzati. Dovevano scomodare Arcani famosi. Io anche ho avuto l’onore di ricevere una preziosa pergamena, custodita gelosamente, come si fa con le reliquie. Un mio valletto è andato a prenderla per me, là dove l’avevo nascosta. E ora è qui. Vorrei illuminarla ancora, per sapere qualcosa di definitivo sulla natura di questo messaggio, consegnatomi da uno gnomo timido e schivo che non ha risposto a nessuna delle mie legittime domande.”

L’Eremita poggia la pergamena direttamente sul vetro della lanterna. Dopo un poco, le lettere cominciano a svanire e la carta diviene sempre più trasparente, fino a tramutarsi in un velo attraverso il quale si poteva intravedere nitidamente uno gnomo, all’interno della sua casa ricavata entro un tronco d’albero, mentre scriveva di proprio pugno, intingendo la penna d’oca nell’inchiostro. 

L’Eremita aumenta sensibilmente la debole luce emanata dalla sua lanterna, per vedere la fisionomia di chi stava alle spalle dello gnomo, ma riesce solamente a scorgere un’ombra eterea, molto vaga, simile a uno spiritello vagante, la cui voce era abbastanza fioca e intrisa di sofferenza e ansimava come quella di un vecchio stanco e affaticato e spesso biascicava le parole che non si capivano bene. Lo gnomo sembrava programmato a puntino nel suo linguaggio essenziale e si limitava a cantilenare. “Ripetere prego. Va troppo in fretta per me.”

L’Eremita produce più luce per vedere attraverso gli occhi dello gnomo e scorgere qualche altro particolare, ma la voce era senza spessore e senza un’identità precisa. Allora decide di mettere la pergamena dentro la lanterna e attenua la luce a un’esigua fiammella, che lentamente comincia a bruciare il prezioso messaggio da cui esce un sottile filo di fumo. Poi invita al suo fianco l’Imperatrice e l’Innamorato, a sfiorare insieme la lanterna per vedere di dare una fisionomia alla combustione della pergamena. 

Secondo la cabala, gli Arcani  3, 6 e 9 avevano il potere di mostrare l’indistinto e di conferire una dimensione all’incorporeo. Dentro la lanterna, il fumo prende sempre più consistenza, poi si materializza una sagoma somigliante a un frate, che indossava un mantello e un cappuccio, fatto apposta per nasconderne le sembianze. 

L’Eremita viene attraversato da un moto di disappunto.   Quella entità, vaga e indefinita, si manifestava solamente attraverso la Voce.  Il camuffamento, sotto il mantello, aveva tutta l’aria di un ulteriore beffardo messaggio, confezionato scientemente, prevedendo che la lanterna dell’Eremita, sempre a caccia di segreti, presto lo avrebbe captato.

Frattanto i tre Arcani disillusi si erano discostati dalla lanterna, per palesare l’abortita rivelazione, agli occhi increduli dell’Assemblea che mormorava e vociferava.

Proprio in quel momento, lo spettacolo è interrotto dal repentino sopraggiungere della Forza e di Ermes, che ancora non si erano fatti vivi e stranamente erano mancati all’appuntamento del giorno 22, nel quinto mese dell’anno 2005. Gli Arcani non erano soli, ma in compagnia di due strani personaggi che li seguivano un poco spaesati, di fronte a quel variegato pubblico mai frequentato prima d’ora.

 

 

58

Gl’Inferi danteschi e il filosofo Nietzsche

 

Guidati dall’Auriga e trascinati da un focoso destriero, Ermes e la Forza non erano convolati verso un indifferibile incontro galante, contrariamente a quanto aveva supposto un Eremita invidioso del loro affetto e slancio giovanile. Certo, a vederli così sorridenti e determinati, stretti per mano, chiunque avrebbe pensato al rinnovarsi di un antico amore. Per usare un paragone mitologico, i due invece stavano avventurandosi, come due Argonauti, verso la favolosa Colchide alla riconquista del vello d’oro. La sostanza dell’impresa era forse più audace e meriterebbe di essere immortalata e narrata da un aedo greco.

Ermes, salito senza esitare sul cocchio ad un cenno della Forza, domanda subito spiegazioni di quel viaggio, che sembrava non potesse essere in alcun modo rinviato. “Dove stiamo andando con tanta premura? E perché proprio ora, quando è imminente una riunione di tutti gli Arcani maggiori?”

“E’ proprio per via dell’Assemblea che dobbiamo andare agli Inferi. Tu sarai il mio testimone fidato. E poi, se è possibile, dobbiamo portare indietro qualche prova tangibile e credibile della nostra scoperta.”

“Gli Inferi? Non sapevo che esistessero. Adesso ci metti tutti in un bel guaio. Arcidiavolo e il Gerofante ci andranno a nozze con una notizia come questa.”

“Assomigliano molto agli Inferi letterari! Quelli partoriti dalla fervida fantasia dantesca. Adesso ti racconto i particolari. Non tanto tempo fa, stavo aggirandomi in una fitta boscaglia, in compagnia di un leopardo maculato, quando ho visto passare per caso l’unicorno alato, che di solito si fa messaggero solenne delle Voci. L’ho seguito a debita distanza, tenendomi avvinghiata al silenzioso felino. Era una grande occasione, perché speravo mi portasse direttamente dentro le viscere della Fortezza, che nel passato invano ci siamo sforzati di violare. Così, fiutando l’odore dell’unicorno, sono entrata in un antro che dava accesso agli Inferi. Parole di sapore oscuro, io ho visto scritte al sommo di una porta.

PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE,

PER ME SI VA NE L’ETERNO DOLORE,

PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

DINANZI A ME NON FUR COSE CREATE

SE NON ETERNE, ED IO ETERNA DURO

LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE.

Sotto i miei occhi stupefatti, gli Inferi danteschi si erano materializzati, forse in onore dei professoroni che avevano declamato ripetutamente quei versi famosi e della moltitudine di studenti che li aveva mandati a memoria per generazioni e vi aveva scritto sopra commenti. Così, sorpresa ed insieme alla mio compagno, mi sono avventurata per quella selva oscura, fino ad incontrare il ben noto traghettatore. Caronte stava seduto e si puliva le unghie con una pietra appuntita. Non si era accorto della nostra presenza. La sua barca, quasi ormeggiata sulla riva, pareva in disarmo e il vecchio, bianco per antico pelo, ci aveva buttato dentro il lungo remo che spuntava fuori. Io ero scalza e nuda. Quando gli sono quasi addosso, mi nota e mi apostrofa. ‘Così oggi, rivedo l’anima di una lussuriosa dannata. A pensarci bene non ti trasporto neppure dall’altra parte. Vacci a nuoto! Solamente per te non faccio neppure la fatica di affrontare la traversata e di riportare la barca qui!’ Poi si accorge pure della fiera maculata e diventa patetico. ‘L’animale devi rassegnarti a lasciarlo, lurida peccatrice. Siediti al mio fianco e raccontami un poco dei tuoi trascorsi.’ Frattanto mi accovaccio in terra, con la fiera accoccolata accanto che mi proteggeva. ‘Ultimamente ho fatto diversi viaggi con poche persone e una fatica infernale per governare la barca a causa della corrente dell’Acheronte, sempre più impetuosa in questi ultimi anni. Aspetta un poco. Tanto non c’è fretta.’

‘Dimmi con franchezza, vecchio Caronte, come mai da queste parti si vedono così pochi dannati?’

‘E che ne so. Io faccio la mia parte. Ti traghetto più tardi. Forse sono diventati tutti buoni.’

Il demonio con gli occhi di bragia ride forte e urla.

‘Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo

i’ vegno per menarvi a l’altra riva,

ne le tenebre eterne, in caldo e ‘n gelo.’

Al nocchiero della livida palude piaceva declamare i versi di Dante e pareva interpretare a memoria la sua parte. Si discosta dal suo legno, appena sfiorato dal fiume fangoso e negro, ribollente di gorghi. Canuto, spaventoso e sozzo, mi sfiora con la sua mano, l’occhio fiammeggiante e il fallo in erezione. Mi divincolo e in piedi lo redarguisco come una buona maestra. ‘Tu non vai mai a fare una visita agli Inferi? In fondo, è casa tua.’

‘No. Sono sempre stato fedele alle consegne. Se anche i Demoni si mettono a fare di testa loro, succede un vero finimondo.’

‘Da quanto tempo le visite sono cominciate a scarseggiare?’

‘L’ultima grande imbarcata l’ho fatta con dei soldati papalini, uccisi in un attentato, ordito da Monti e Tognetti, poi condannati a morte. Bestemmiava quella soldataglia, mentre quei due liberali, sopraggiunti qualche giorno dopo, mi sembravano dei veri gentiluomini. Pantalone scuro, camicia bianca, viso calmo. Non gridavano e non reclamavano. Ci siamo anche scambiati un cenno di saluto col capo.’

‘E questa mancanza di dannati non ti è sembrata un’anomalia?’

Non so. Faccio il traghettatore. Eseguo il mio incarico con scrupolo. Non ho mai lasciato nessuno su questa sponda. Non ti fare illusioni, peccatrice!’

Infuriato, perché non mi lasciavo sedurre, si alza di scatto e mi strattona verso la barca, ma deve lasciarmi per via della fiera che gli si era fatta contro minacciosa. Nello stringermi forte il braccio, si rende conto che non ero  un’animula. ‘Sei un Arcano. Traghetto solo le anime dei trapassati.’

Bestemmiando e imprecando contro gli Angeli, torna a sedere sulla pietra che abitualmente doveva ospitarlo e prende a gingillarsi con il suo coso peloso, sperando forse d’attrarre la mia attenzione; ma torno indietro facendo il cammino opposto."

“E adesso speri che sia disposto a ospitarci nella sua barca per conoscere gli Inferi?” Domanda sorpreso Ermes alla Forza che risponde: “In due riusciremo a essere più persuasivi.”         

 

Caronte stava assopito e poggiato alla fiancata della sua barca, rovesciata per farne una sorta di comodo appoggio. Il suo però era un dormiveglia molto leggero, perché percepisce quasi subito la presenza dei due visitatori. Spalanca solo un occhio sonnacchioso. 

“Ti riconosco, lussuriosa! Adesso ti sei portato appresso anche il tuo spasimante. Anche se in due, non vi traghetto. Non siete anime ma Arcani.”

“Ascolta Caronte – ribatte Ermes – Tu adesso ci traghetti e torni a visitare i luoghi dove hai condotto una moltitudine di dannati. Poi andiamo insieme a testimoniare a una riunione di Tarocchi quello che abbiamo visto. E metti un bell’avviso, proprio sotto alle famose parole della porta degli Inferi.

- Caronte lascia l’oneroso compito

e va a vivere con gli Arcani maggiori

ospite della dimora dell’Eremita.-

Qui sei sprecato. Se non viene più nessuno, ci sarà anche una ragione. Sei vecchio e forse un poco rimbambito dalla solitudine; ma sei sempre in tempo a venirne fuori. Se poi ti stufi dei tuoi nuovi compagni, puoi sempre tornare a vedere se nel frattempo è giunto qualcuno che magari t’aspetta. Insomma, da noi si viene e si va liberamente. Non è mica una nuova prigione. Poi ci sono svaghi che non conosci. Puoi conoscere tutti i diletti degli umani, senza immaginarteli.”

Convinto dal candore e dall’autorevolezza delle argomentazioni, Caronte si muove e i due Arcani gli vanno dietro, aiutandolo anche a rimettere nelle acque la grande barca, che poteva ospitare fino a quindici dannati alla volta.

Il trio camminava spedito, ma non incontrava anima viva. Ogni tanto Caronte, per farsi sentire, lanciava qualche richiamo e qualche imprecazione colorita, caratteristica della favella toscana: tipo Madonna Maremma e altre irriferibili.

La Forza, allibita, ogni tanto s’interrogava. “Dove saranno finiti tutti?” 

E ogni volta Caronte sentenziava la stessa risposta. “Sono stati inghiottiti tutti dall’abisso. Gli Inferi non hanno retto al peso.”

Ermes, conoscitore del capolavoro dantesco, dimostra d’essere un attento osservatore. “… ma questo non era il girone dei lussuriosi? Doveva essere il più gremito. Percorriamo tutte le bolge. E a passo rapido, fino in fondo.”

L’aura senza tempo tinta era oscuramente vuota e silente, senza lamenti e alti lai, senza parole di dolore e accenti d’ira. Percorrere quei lidi spettrali faceva veramente rabbrividire. Caronte non riusciva a capacitarsi ed esternava, indispettito, tutta la sua meraviglia. “Eppure io ce ne ho portata di gente. Forse i dannati hanno trovato una segreta via di fuga, perché di certo nessuno è mai tornato indietro.”

In una landa di cocente arena, battuta da incessanti lingue di fuoco, raggomitolata s’intravedeva una sagoma riottosa a farsi riconoscere, col braccio piegato a coprirsi il capo chino. In quella plaga ardente, destinata ai violenti contro Dio, strisciando all’indietro, si ritraeva per nascondersi, senza però trovare un riparo in grado di sottrarla alla vista acuta dei passeggeri, che scrutavano in ogni angolo per incontrare un interlocutore. “Non avere timore! Vogliamo solo sapere cosa è successo a tutte le anime che Caronte giura di avere traghettato a questi lidi infernali.” Così la Donzella rassicura il peccatore spaventato, protendendo una mano pia al suo indirizzo.

Dopo averci scrutato meglio e avere vagliato la situazione, il trapassato fa le sue sconvolgenti rivelazioni. “Un giorno è venuto un Arcangelo liberatore, con uno stuolo d’Angeli al seguito. Diceva che Domineddio perdonava tutti. E una moltitudine d’anime dannate a seguirlo verso la luce. Ed io pure, anche se titubante, gli sono andato dietro, travolto dal marasma di quella gioia incontenibile.”

“Perché mai eri titubante? E poi perché sei tornato?” Interroga sempre la Donzella.

“Avevo dedicato una vita intera alla causa della mia filosofia. Proteso a descrivere la nascita del superuomo e la morte di Dio. Non digerivo l’idea d’essere liberato in nome di Chi avevo con tanta decisione negato. Io sono Friedrich Nietzsche.”

“Allora sei in compagnia di buoni prodotti culturali. Due Arcani Maggiori dei Tarocchi. Ne sanno più del Diavolo. Tanto che sono stati loro a schiodarmi dalla mia barca e a condurmi quaggiù.” Caronte perorava la causa e l’attendibilità del suo piccolo seguito. “Non mi dire che ti sei stancato del Paradiso e sei tornato in questa solitudine infernale a testimoniare la tua coerenza, legato per l’eternità a una professione di fede atea?”

“Avrei voluto mille volte incontrarmi con le albe paradisiache, piuttosto che assistere a quello spettacolo invero tanto miserrimo e tristo. Ancora a pensarci, stento a credere a quello che ho visto! Ed anche voi, a sentirlo raccontare, giuro che sarete scossi nelle fondamenta delle vostre certezze e vacillerete, negando poi quello che sto per dirvi. Vorrei non essere mai nato, o misero mortale. Ho voltato le spalle a quello che ho visto, per testimoniare il mio rifiuto.”

Il filosofo Nietzsche si gira, quasi negandosi alla vista degli intrusi e sarebbe volentieri sprofondato in un altro abisso per portarsi con sé il pesante fardello che non voleva condividere con nessuno. Poi si volta e s’inginocchia ai piedi del trio e implora d’essere lasciato in pace, piangendo e tremando come un bambino. Da solo, in seguito, trova la forza di calmarsi e si sfoga raccontando meglio i fatti. “In ogni dove, a nostra disposizione v’era in bella mostra una genia di uomini vuoti. Potevamo riempirli a piacimento, per dare loro l’alma vitale che non erano più in grado di sviluppare. Gusci vuoti da rianimare, pronti ad essere indossati da fantasmi in libera uscita. Gusci di vecchi, di giovani, di belle donne. E le anime a entrare in competizione, per aggiudicarsi quello che ritenevano migliore. Il mio superuomo stava là nella vetrina delle occasioni. Pronto ad essere indossato come un abito di pregiata fattura. Mi sono scelto un signore elegante e sono pure andato ad ascoltare la mia opera lirica preferita al Konzertgebau di Amsterdam: il Tannhauser di Wagner. Poi sono messo a passeggiare tutta la notte sulle rive dei canali e di mattina mi sono fermato a comprare una pistola, nella prima armeria che ho incontrato. E dopo avere caricato l’arma, mi sono sparato in bocca. Ancora con quelle note nelle orecchie. Le sole cose buone che ricordo.”

Caronte si prende cura del filosofo e lo tira su da terra, giacché stava per ripiombare nella sua disperata angoscia; dopo quell’urlata confessione, lo mette sul groppone in un attimo e prende la guida del gruppo. “In quattro forse saremo più credibili.”

Gli unici sopravvissuti dell’Inferno percorrono ammutoliti il resto dei gironi danteschi e non vedono l’ora di riveder le stelle. Si fa per dire, perché i cunicoli parevano interminabili e si intrecciavano senza fine, fino a sfociare in un antro illuminato, dove un consesso di Arcani stava confrontandosi per dirimere questioni altrettanto intricate.  

 

 

59

Le rivelazioni di Caronte e Nietzsche

 

Tra lo stupore generale, dalle profondità degli abissi, utilizzando i cunicoli carsici e il senso innato d’orientamento della Forza, gli Arcani ritardatari senza preavviso piombano nel cuore dell’Assemblea, sbucando da un anfratto laterale. Non sono soli ma accompagnati dai due superstiti degli Inferi danteschi: Caronte e Nietzsche. 

In quel preciso momento l’Eremita stava raccogliendo i frutti del suo esperimento con la lanterna, congiuntamente all’Innamorato e all’Imperatrice, i quali increduli non sapevano se tacere per sempre, o gridare tutto il proprio disappunto. Il padrone di casa avverte un certo brusio, indizio che qualcosa stava succedendo e, nel rivedere al suo fianco nuovamente gli amici nei quali confidava molto, prova della gioia e si sente tranquillo, perché adesso i ventidue Arcani erano proprio tutti e l’importanza del momento non ammetteva frizioni di sorta.

Interpretando lo stato d’animo della maggioranza, il presidente rivolto ai nuovi venuti chiede un chiarimento. 

Interrotto, di tanto in tanto, dalle doverose puntualizzazioni ed esternazioni colorite di Caronte, Ermes racconta la visita agli Inferi danteschi con dettagli e impressioni personali.

“A conferma del nostro viaggio abbiamo condotto qui Caronte, il traghettatore delle anime dei dannati e il miscredente filosofo Friedrich Nietzsche: unico testimone dei trapassati, ospitati in quei luoghi di tenebre. Chiedo che i due al seguito siano ascoltati al più presto, sia per il rispetto dovuto agli ospiti, sia per quanto devono riferire.”

La legittima richiesta subito è osteggiata da Arcidiavolo, giacché Caronte e Nietzsche potevano essere ingegnose proiezioni create dai medesimi Arcani e la loro presenza di per sé non poteva costituire una prova. Essi stavano tenendo il mestolo per il manico in quella vicenda e quindi non c’era da fidarsi.

A seguire, la Morte suffraga quei sospetti e aggiunge che, dal punto di vista del diritto, non avevano titolo a partecipare a quella riunione ristretta ai Tarocchi, spostando a loro piacimento l’ago della bilancia nella direzione voluta.

Il Gerofante puntualmente fa la sua analisi concisa e spietata. “Conosco le vicende di Nietzsche: ha avuto il coraggio di proclamare a gran voce la morte di Dio e, dopo aver dato alimento al vuoto della propria coscienza, si è appisolato in una follia, intervallata da mugugni e silenzi. Cosa mai potrebbe raccontarci la sua anima dannata, se non i concetti blasfemi per cui si è distinto?”

Anche la Giustizia formalmente concorda che Caronte e Nietzsche non avevano i requisiti per essere ammessi ai lavori dell’assemblea, al più potevano essere ascoltati, se la maggioranza lo riteneva legittimo; senza per questo influire nelle decisioni finali. La sua mozione è subito sottoposta al voto e ottiene il consenso quasi unanime degli Arcani.

Il presidente chiede di soprassedere al cerimoniale e di omettere l’esecuzione musicale per ricevere ufficialmente Ermes e la Forza. Il segretario discute animatamente e minaccia di dimettersi dalla sua funzione. Alla fine il Mago deve cedere alle pressioni e il cocciuto Giudizio convoca gli orchestranti, con la soddisfazione del bambino che l’ha spuntata sul più grande e sul più prevaricatore. 

Caronte, un poco ballonzolante, con la sua mole maestosa e terrificante, divertendosi fa di nuovo il suo ingresso alle costole di Ermes, avanti a tutti; mentre l’impassibile direttore d’orchestra dava il via alle note trionfali di Telemann, perché rigorosamente ogni Arcano doveva essere accolto con quella musica prevista dal protocollo. 

Poco avvezzo all’intermezzo musicale, Caronte dà fiato a una trombetta dantesca, che per fortuna non incrina più di tanto l’euforia del momento. Il filosofo Nietzsche, dal gusto musicale raffinato, va a complimentarsi con tutta l’orchestra.

L’anima dannata, trascinata per mano dalla Forza, appariva a tutti come la più fragile e la più sensibile. Faceva una grande fatica a comparire in un consesso per molti versi ignoto ed era stato strappato a fatica dalla sua condizione di simbolo sbiadito della pena infernale. Le note di Telemann però lo avevano trasfigurato alquanto e il segretario, nell’accomodarsi accanto al presidente, gli sussurra all’orecchio le proprie ragioni. “Nietzsche era un estimatore della buona musica. Da una vita non si deliziava. Le mie note di benvenuto hanno reso più credibili questi misteriosi frequentatori dell’aldilà.”

Per primo prende la parola Caronte, scusandosi del suo peto. Non voleva offendere nessuno e faceva parte di lui da quando era nato. Per secoli si era affaticato a traghettare alme dannate instancabilmente. Un giorno era disceso anche un certo Dante con il poeta Virgilio, per realizzare il primo grande servizio giornalistico della storia. Il traghettatore, nei secoli, non si era fermato un minuto, fino a quando, improvvisamente, le anime erano cominciate a scarseggiare, a diradarsi e a diventare una rarità. L’ultimo traghettato era stato proprio Nietzsche. Se ne rammentava perfettamente perché, mentre attraversava l’Acheronte, intonava alcune note musicali quasi trionfali e se ne era meravigliato molto, perché nessuno dei dannati si presentava agli Inferi canticchiando con tanta dignità.

Nietzsche stava dietro a Caronte e quasi cercava una protezione dietro quella stazza poderosa. Si rende conto che deve prendere la parola, perché la sua testimonianza era quella che più contava. “A un tratto, nel solito luogo delle mie passeggiate, a Torino, in piazza Carignano, intravedo un nobile cavallo, lo stesso che Caligola aveva fatto incoronare senatore. E il bieco cocchiere me lo fustiga a sangue. Allora l’abbraccio per soccorrerlo e mi metto a piangere e a urlare, come se avesse battuto me.  Un atto pietoso che mi costa il ricovero coatto, mentre il gesto violento passa inosservato. E poi, imprigionato in un edificio pallido e osceno, improvvisamente ti senti sopraffatto da pensieri non tuoi. Ascolti Voci. Ti confondono e scivoli lentamente nell’abisso. Resisti, poi soccombi, poi ti riprendi. Alterni momenti di lucidità, al persistente oblio, ma non dici nulla, perché hai già scritto tutto. Vogliono cancellare memoria e coscienza. E tu, memore della trascorsa grandezza, ti ostini a resistere per quasi undici anni. Le Voci temono possa parlare ancora, ma l’indifferenza e il mutismo le preoccupano di più della parola. Vivere in silenzio per non essere più frainteso. E così, al riparo da ogni spia, riesci a scrivere una nuova enciclopedia. Sai di essere un isolato, senza amici, tradito anche dall’amato Wagner, con una musica che oscura il tragico dell’esistenza. Vai verso il tuo appuntamento con il nuovo millennio: il 25 agosto del 1900. Aspetti l’alba del nuovo giorno. Non accade però nulla d’apocalittico. Io sono tutti gli uomini nati e sono l’ultima anima ad avere attraversato l’Acheronte. Sono ritornato nell’oltretomba a testimoniare il nulla e il vuoto e la solitudine infinita. Muore così il superuomo, perché l’idea di Dio ancora persiste nelle menti di una miriade di fedeli. Quando l’Angelo liberatore ci ha ricondotto alla luce terrena, gli uomini non erano più in grado d’evolversi spiritualmente. Erano involucri biologici. Potevano ospitare chiunque volesse provare l’emozione della vita. Io sono stato lo spartiacque del tramonto della specie più debole, il simbolo vivente della sua fine. Non potevo confondermi in quel guazzabuglio d’intrecci con corpi alieni. Eludendo Caronte sono tornato di soppiatto all’Inferno, per testimoniare in solitudine, fino a quando sono stato strappato e quasi costretto a forza a raccontare quello che avrei voluto dimenticare, o rammentare come una macchia dell’umana follia. Solamente musica, vorrei ascoltare per la mia alma fiaccata: vibrando insieme alla musica si recupera il senso delle origini che abbiamo smarrito.”

Detto questo, inchinandosi all’assemblea, il filosofo Nietzsche saluta intonando per sé un passaggio del concerto da poco ascoltato. Nessuno tenta di trattenerlo. Nessuno osa chiedergli nulla. Tutti rispettano la sua estrema volontà. Caronte decide di seguirlo, per tornarsene in un mondo suo e conosciuto, forse ad aspettare un altro epigono, da traghettare in quelle plaghe infernali. L’alma candida di Nietzsche così svanisce, oscurata dalla mole imponente di Caronte che gli stava dietro. Tra il silenzio generale escono dal palcoscenico, nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale improvvisata dal destino. I due lasciano dietro un grande vuoto, un silenzio rispettoso che nessuno osa infrangere. 

La drammatica confessione di Nietzsche ad alcuni sembrava autentica. Ad altri appariva come una montatura nichilista. I dannati erano stati chiamati per dare nuova linfa a una popolazione d’anime in via d’estinzione. Nel passato la forza delle idee collettive aveva dato corpo agli Inferi, dove i peccatori erano approdati seguendo la propria coscienza. Per secoli, tutti, uomini e Arcani, avevano ascoltato solo Voci misteriose, senza volto e un’identità precisa: voci di fantasmi appunto, a cui la fantasia popolare e i pittori avevano dato i volti più disparati.  

Nella lanterna dell’Eremita, dal filo di fumo e sotto quel cappuccio beffardo, si era intravista una sorta d’animula vagula blandula, che la sensibilità dell’imperatore Adriano aveva saputo eternare in un verso immortale. Piccola anima vagante, protesa a blandire la vita, un poco malinconica nel suo anelito verso l’eterno. Carica di sofferenza per avere smarrito la luce. Discesa in luoghi pallidi e spogli, dove la tenacia di Nietzsche era tornata per non smarrirsi del tutto.

In maniera anche goffa, le oscure Voci si mascheravano e mimetizzavano; incapaci a darsi una nuova forma luminosa e smagliante, a cui ogni dimensione esistenziale non può sottrarsi.

 

60

Il Folle svela all’Assemblea il segreto per risalire dall’Abisso

 

Esibendo la sua bellezza giunonica, l’Imperatrice discende dal suo scanno di pietra per andare nel mezzo dell’Anfiteatro. Lentamente e con dolente ironia prende a carezzare la gravidanza odiosa che si portava in grembo. 

“Nel mio ventre si nasconde il figlio di un ignobile sotterfugio. Sedotta da una sembianza. Non prova vergogna lo sposo della quintessenza, anzi si bea di sentirsi portavoce della dimensione celeste. Mi ha tratto con l’inganno questo fardello, che mai vorrei vedesse la luce. Siano maledetti per avermi ingannato! Vorrei trovare il coraggio di cadere nel vortice del nulla. Trascinarvi il non-figlio che non voglio far nascere.”

Mentre parlava l’Imperatrice non aveva smesso di carezzare il suo fardello. Il nascituro si agitava nel suo grembo e s’intuiva sarebbe nato di lì a poco. Non si capiva dal suo tono, se stava esagerando, o era sincera. 

Il Folle tra sé fa una considerazione elementare. - Chi è veramente risoluto, non fa dichiarazioni, ma si limita ad agire.- Tale riflessione lo rincuorava e nel frattempo si preparava ad assecondare i propositi suicidi della puerpera.

Lo Zero presto raggiunge l’Imperatrice e l’affianca, poi, con l’aiuto del suo bastone nodoso, traccia un cerchio perfetto nel terriccio che ricopriva la parte centrale dell’Anfiteatro.  

Era un gesto naturale e rituale che compiva ogniqualvolta intendeva spalancare un portale verso l’abisso. 

La circonferenza cominciava a prendere lentamente fuoco, prima sviluppando delle fiammelle esigue che via via avvampavano sempre di più, poi il terreno fumante si sgretolava, crollava con un rombo spaventoso e spariva in una voragine abissale. Di tanto in tanto alcune fumarole di zolfo scaturivano dalle viscere della terra ferita.

Orez, Rezo, Zore.”: scandisce reiteratamente il Folle. 

In quell’occasione si esibisce in una magica filastrocca nata dall’esigenza teatrale di contornarsi da un alone misterioso. 

La platea osservava con occhi curiosi quello che considerava un portento orrendo e inimitabile, che un solo Arcano aveva il potere di scatenare, infondendo in ciascuno un sacro terrore.

“Ti ci puoi sprofondare dentro, anche subito, ne hai tutto il diritto. Se vuoi, ti aiuto anche ad affrontare questa dolce morte. Anch’io, al tuo posto, farei lo stesso. Un gesto disperato ha una sua logica e va rispettato. Però prima contiamo fino a ventidue. Io in genere lo faccio, quando devo prendere una decisione importante. Per via che la cabala va sempre rispettata.”

Il Folle lascia l’Imperatrice sola e prossima all’abisso. 

Compie ventidue passi, lentamente, in modo plateale, poi le torna accanto e prosegue la sua argomentazione. 

“Al tuo posto, io prima vorrei vedere l’infante in faccia. Se è bello, se è brutto, se ha i baffi. Perché in sostanza è l’unica occasione che abbiamo per osservarlo da vicino. Allora conosciamo questo neonato portentoso, che potrebbe già miracolosamente parlare e raccontarci la sua versione dei fatti. Poi dopo potremmo anche rispedirlo al mittente, come si fa con un pacco postale indesiderato, che l’Imperatrice non si era mai sognata di ordinare.”

Nonostante l’invito del Folle volesse imprimere saggezza e pazienza, l’Imperatrice appariva sconvolta e, senza ascoltare ragioni, va verso l’abisso invocato, adesso lì tentatore, a pochi passi. Tutti sospiravano e già la piangevano, quando improvvisamente comincia a barcollare e cade a terra in preda alle doglie. Un segnale piovuto dal cielo; probabilmente il frutto della volontà del nascituro.

La Forza e la Papessa accorrono prontamente. 

L’Eremita non si lascia distrarre da attenzioni dettate più dall’istinto materno che dalla ragione. “ Il bastardo credo abbia tutta l’aria di presentarsi con la faccia del bambinello sorridente e paffuto per strappare qualche consenso. 

Voglio usare la mia lanterna, per fare luce su questo parto. Potremo vedere l’essenza stessa di chi sta per nascere, senza essere ingannati dalle apparenze.”

L’Assemblea accetta per buona l’idea di sottoporre il nascituro all’esame della lanterna. Tutti i Trionfi così possono vedere oltre le sembianze ingannevoli della creatura e rimangono senza fiato. L’Imperatrice istintivamente vorrebbe solo abbracciare quel figlio indesiderato, che somigliava a un tenero amorino del Seicento, con biondi boccoli, dalla carnagione rosa del sole al tramonto.

Il Folle, senza lasciarsi confondere dallo sgomento e pensarci su un secondo, sorprendendo tutti, strappa la lanterna dalle mani dell’Eremita e trascina Imperatrice e infante verso l’abisso. 

In diversi gridano per fermare quel gesto, ma inutilmente. 

Il Folle è rapido, deciso e spietato.

Nell’abisso le stringhe del nulla cominciano a ghermire i suoi ospiti, strangolandoli in un abbraccio soffocante.

Il Folle intendeva mostrare all’Imperatrice la natura malefica di quella strana creatura, apparsa nel modo più ingannevole ci potesse essere per una madre. Tuttavia, con il suo abbraccio istintivo, la puerpera non se la sentiva di abbandonarlo senza difenderne l’integrità, perché si era lasciata irretire dall’apparenza iniziale e non ne voleva vedere la sostanza. Pertanto lo Zero si vede costretto a strapparle via il nascituro; poi si mette a piroettare e a creare un vortice per proteggere l’Imperatrice dal viluppo delle stringhe, lasciando l’infante al suo destino. Il nulla faticava ad assimilarlo. La natura camaleontica del nascituro si trasformava in continuazione, insinuandosi fin nelle scalfitture che l’Eremita aveva prodotto sulla lanterna, quando vi aveva annotato quella formula misteriosa per rammentarsi di una scoperta importante.

Dinanzi all’Assemblea ancora sbigottita, il Folle risale dall’abisso, tenendo per mano l’Imperatrice come un’innamorata e stringendo nell’altra la preziosa lanterna.

La maggioranza applaude e tira un respiro di sollievo. 

La Forza e la Papessa abbracciano l’Imperatrice per confortarla.

Il Mago concede una breve pausa, affinché tutti possano trovare la giusta concentrazione per continuare serenamente i lavori.

Il Folle al contrario era alquanto preoccupato: paventava di non essersi liberato dello scandaloso pargolo, perché non aveva sentito il vento del nulla socchiudersi sopra di lui.

Subito richiama l’attenzione dell’Eremita e gli domanda d’osservare con attenzione la sua preziosa lanterna, per vedere se era cambiata, o se in lei era sopraggiunto qualcosa di strano. 

Il suo padrone, lieto di vedersela riportare indietro, perché per un attimo non aveva sperato più di riaverla, rimane stupito per quegli enigmatici graffiti scomparsi nel nulla, tanto che ogni cristallo della lanterna era ritornato immacolato.

“Manca quel crittogramma che non siamo riusciti del tutto a decifrare.”

“Allora, Eremo, dovrai fare a meno della tua lanterna. La riporto subito a fare compagnia all’Abisso, ahimè credo per sempre. 

Rallegrati e consolati: avresti dovuto consegnarla al Mago, per averla persa al gioco.”

 Di nuovo il Folle si getta a capofitto nell’abisso per risalirvi nudo, senza indumenti e berretto e senza neppure la lanterna, che lascia dietro di sé. 

Ritorna stremato e interpreta al meglio le dinamiche dello spettacolo. Crolla a terra, simulando un momentaneo svenimento, come si conviene nelle rappresentazioni tragiche, poi si rialza nudo e, senza alcun imbarazzo per la propria doppia sessualità, fa anche un triplice inchino alla platea che lo applaude, con qualche eccezione illustre, come il Gerofante, Arcidiavolo e la Morte che erano diventati compari.

“Signori – urla il Mago – aspettate! Per meritarsi queste ovazioni il Folle, questa volta, deve dirci come si fa a entrare e a risalire con tanta facilità dall’abisso.”

“Il segreto è non avere esitazione. Se conti fino a ventidue e poi ti tuffi dentro, non riesci a uscire fuori dai gorghi del nulla. E’ lapalissiano. Devi buttarti dentro d’istinto, senza riflettere, quasi cogliendolo alla sprovvista.”

“Se non sbaglio, tu hai anche usato una breve magica formula. Se ben ricordo, assomigliava a una specie di anagramma ritmato dello Zero.” 

Il Numero 1, attratto naturalmente verso ogni intruglio magico, voleva scoprire i segreti altrui ad ogni occasione propizia. 

“ Orez, Rezo, Zore: volevo fare colpo sulla platea. Per capire la complessa natura dell’abisso c’è voluta tutta la mia esperienza.”

“Raccontaci questa esperienza.”

“Con un chiromante, tanto tempo fa. Quando era all’apice della notorietà, sono andato a trovarlo nelle vesti dell’Eremita. Lui praticava anche l’alchimia e leggeva i Tarocchi. Mi sono  materializzato, uscendo fuori dalla carta che aveva sotto gli occhi.”

“Vai avanti. Siamo tutti orecchi.”

‘Ci sono segreti che non conosci e che l’abisso custodisce.’

L’uomo mi guardava come un prodigio e sapevo che avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avessi chiesto. Ai suoi occhi ero un Trionfo vivente ed era avido d’imparare ogni incantamento dalle forze della natura. Sapeva evocare le entità che gironzolavano sulla sua persona come delle mitiche Erinni. 

‘Là dove finisce la vita, puoi trovare la chiave dell’eternità, scritta sui filamenti del doppio codice elicoidale’.

Solamente allora gli ho spalancato il portale dinanzi. 

‘Ti voglio confessare il segreto per entrare e risalire dall’abisso. Gli devi fare ventidue passi attorno e poi prendi a contare il mazzo dei Tarocchi per catturarne tutta l’energia. Solamente allora sarai pronto alla sfida. E per risalire semplicemente devi lasciare in pegno le carte sapienziali che ti sei portato dietro.’ ”

“Ebbene?”

“Non è più ricomparso. 

Così sono andato a trovare anche la moglie del chiromante, di cui ora rammento anche i nomi: Cosimo e Corinna. Piangeva dalla disperazione la poveretta ed io, per consolarla, le ho indicato la via da seguire. -Se vuoi rivedere tuo marito, devi gettarti giù a capofitto nell’abisso senza mostrare alcun timore, come se si trattasse di un’amena distesa di lago e portare con te un mazzo di Tarocchi per risalire.-  Lei ha seguito le mie istruzioni alla lettera.”

“E allora?…”

“Ne è venuta fuori viva e vegeta. Anch’io non ci credevo a vederla. Con un logoro manoscritto in mano, che il vecchio aveva portato con sé, per paura che qualcun altro lo leggesse. La donna mi ha dimostrato scarsa riconoscenza e della sua avventura si è limitata a dire poco. - Quel dannato se ne era andato via con tutte le sue alchimie, per questo piangevo questo concentrato di sapienza. Il vecchio l’ho lasciato dov’era e non l’ho neppure cercato.- Per atavica avarizia mi ha lesinato queste poche parole ed è tornata nella sua abitazione, quasi sbattendomi la porta in faccia, per decifrare da sola i segreti di cui era avida.”

La storiella aveva tutta l’aria di essere una burla. Eppure non era verosimile che lo Zero, venuto fuori da una situazione eccezionale, trovasse lo spunto per confezionare una delle sue barzellette, magari improvvisata e ritagliata a misura. Il Folle, in un momento di grande emozione, aveva raccontato la pura verità, quasi senza accorgersene. In effetti, la sua conoscenza sulla natura dell’abisso era avvenuta a spese di un vecchio chiromante e della sua megera, disposti anche a morire, pur di scoprire i segreti nascosti, seminati a bella posta per fare uscire dal senno.

L’amara giornata termina allegramente. 

Quasi tutti gli Arcani ancora ridevano nel raccontarsi di nuovo la storiella e nell’immaginarsi la faccia impunita e imperturbabile del Folle che gabbava il vecchio e poi premuroso risollevava dal pianto la sua compagna.

 

 

61

Le origini della lanterna dell’Eremita

 

L’unico a non ridere era l’Eremita. 

Aveva perso irrimediabilmente la sua lanterna, anche se in compenso avrebbe potuto rallegrarsi per i crediti guadagnati nei confronti dell’Imperatrice, alla quale aveva mostrato la scomoda verità. La scomparsa della preziosa luce era acuita dal fatto che ancora stava cercando di decifrare quella criptica iscrizione, tuttavia i motivi dello scoramento e dell’abbattimento erano altri e rendevano il danno ancora più doloroso. Finora tutti davano per scontato che l’Eremita sarebbe riuscito a fare una nuova lanterna del tutto simile all’originale e tutti opinavano che fosse opera della sua sapienza.

“Non ti rammaricare. Ne farai un'altra più splendente, con più poteri dell’antica.” Il Folle lo aveva rincuorato così, prospettandogli la più logica e degna soluzione per l’inaspettata perdita. L’Eremita sapeva perfettamente che tali parole consolatrici erano vuote e inutili, perché solamente lui conosceva i segreti della lanterna costruita sulle proprietà della cabala.

Anticamente, molti secoli fa, tra gli uomini delle Langhe, un semplice contadino di nome Bertoldo si era vantato di possedere conoscenze che molti gli invidiavano. La sua fama era corsa per il mondo intero ed era giunta fino alle orecchie dell’Eremita. Tutto era cominciato con la nota specialità della regione: il tartufo bianco d’Alba dalle proprietà afrodisiache, che triplicavano le prestazioni sessuali mascoline e stimolavano anche il desiderio delle donne meno giovani. L’uomo, unico tra i valligiani, senza l’aiuto di animali da fiuto, era in grado di tornarsene a casa un’ora dopo, con il cesto ricolmo d’enormi tartufi. Soltanto la luce di una lanterna gli illuminava il cammino e andava per i sentieri del bosco sempre di notte, per non farsi seguire da nessuno.

Nel giorno 22 dicembre dell’anno 1520, l’Eremita si era presentato, sotto le mentite spoglie di un Principe savoiardo, per strappare al villico i segreti di cui era l’unico depositario, promettendo in cambio terre, titolo nobiliare e una grande fortuna in pietre preziose che si era portato dietro.

Il contadino, non più giovane, aveva ceduto alle lusinghe della ricchezza e soprattutto aveva pensato che quel nobile avrebbe potuto anche usare le maniere forti per convincerlo a svelare le misteriose abilità che lo portavano a dissotterrare i tartufi più belli e più grandi. 

Il valligiano aveva raccontato all’Eremita che un giorno, nell’aprile del 1517, aveva attraversato quei lidi un certo Leonardo da Vinci per fare una scorta d’elisir afrodisiaco. Il geniale inventore era stato chiamato in Francia dal re Francesco I e, in cambio del prodotto acquistato, gli aveva lasciato, poiché non aveva il denaro per pagare, una preziosa lanterna dai grandi poteri, che avrebbe poi ripreso sulla via del ritorno alla sua città natale. Secondo Leonardo, quella luce, nelle mani dei potenti, avrebbe potuto provocare grossi guai ed era meglio affidarla a un uomo buono e timorato di Dio. La lanterna aveva il potere di realizzare gli obiettivi che il suo possessore si proponeva e neppure doveva essere strofinata come la lampada d’Aladino, in scacco di un genio balzano, imprigionato dentro.

Nel frattempo Bertoldo, alcuni mesi dopo l’evento luttuoso del maggio del 1519, aveva saputo che Leonardo era morto vicino ad Amboise, nel castello di Clous-Lucè, forse per avere esagerato alla sua età con quella scorta di afrodisiaco.

L’Eremita si era limitato a lasciare a Bertoldo le pietre preziose e, quando il contadino si era recato dal Principe savoiardo per reclamare titolo nobiliare e terre, era stato preso a calci nel sedere e rispedito a casa con una scorta armata, a cui aveva dovuto riconsegnare tutto quanto aveva ricevuto. Infine i soldati, per ringraziamento, gli avevano bruciato anche la casa. L’Arcano millantatore, mai a nessuno, aveva raccontato i contorni di quel vile raggiro, dando anzi ad intendere che la lanterna era il frutto della sua progressiva ricerca sulle proprietà della cabala, mentre sapeva benissimo che non poteva essere neppure opera del genio leonardesco, infatti sotto la base vi era un’incisione, A.D. MCCXXI TARO FECIT, sulla quale, per occultare l’inganno, aveva colato sopra del rame. L’Eremita era consapevole che unicamente l’ideatore dei misteriosi Tarocchi avrebbe potuto progettare quella lanterna e incidervi il proprio nome Taro. Inoltre, a rafforzare la sua tesi, aveva anche formulato una spiegazione logica della parola Tarocchi: emanazione degli occhi di Taro e summa iconografica della sua visione del mondo. 

Frattanto il Gerofante reagiva al momento avverso e considerava con molta attenzione tutta l’evoluzione drammatica del parto dell’Imperatrice. Non si era affatto stupito, quando aveva visto il Folle confabulare con l’Eremita e strappargli via dalle mani la preziosa lanterna, per riportarla quasi subito nei gorghi dell’abisso, da cui poi era risalito nudo, senza neppure l’ombra del suo stravagante abito variopinto, fatto apposta con differenti pezzi di stoffa cuciti insieme. La sua intuizione gli aveva suggerito che il Folle si era accorto di un quid celato nel manufatto scaturito dalla sapienza infinita dell’Eremita. Per liberarsene, lo Zero aveva dovuto riportare nell’abisso la lanterna e le sue cose, perché l’inviato del cielo era riuscito a fondersi in una mirabile metamorfosi con la materia inorganica, per sfuggire alla lenta assimilazione del nulla. Altrimenti il Folle avrebbe agito d’impulso e in maniera stravagante, ma ultimamente non aveva commesso una benché minima leggerezza e sempre si era mosso con estremo raziocinio e cautela.

Adesso dunque l’Eremita era un soldato senza munizioni e mai sarebbe riuscito, senza la sua preziosa luce, a provocare quella barriera protettiva contro le forze del male che si era vantato di sapere creare. La magica circonferenza, che metteva in comunicazione con le stringhe invisibili del mondo infinitesimale, era rimasta tracciata, proprio quasi nel mezzo dell’Anfiteatro, dove il Folle aveva messo in piedi il degno scenario per il suicidio dell’Imperatrice insieme al suo odiato fardello.

Finora nessuno degli Arcani aveva mai frequentato quei gorghi tenebrosi, perché non sapevano come controllarli e temevano che non sarebbero riusciti a risalire. La comunicazione con l’abisso era appannaggio del Folle, che spalancava la voragine, in virtù della sua natura di Zero originario. Poteva accedervi in qualunque momento e a suo piacimento, con un semplice rituale, tracciando una circonferenza sulla terra. La porta tornava naturalmente a chiudersi dopo esattamente ventidue ore e un'altra se ne apriva, in un punto imprecisato del globo che restava così sempre in bilico sullo spaventoso precipizio. Il Gerofante lo aveva saputo solo da poco, da quando il Folle aveva straparlato a ruota libera, per mettersi in vista, perché il ruolo dell’esibizionista era quello che si ritagliava in ogni circostanza. 

Mentre il presidente si accingeva a introdurre la discussione del quarto punto all’ordine del giorno, il Gerofante ne approfitta per prendere la parola e sorpresa, volendo inscenare a sua volta una tragica dipartita. “Oggi mi sono sentito infinitamente fragile. Per questo mi congedo e vado a fare penitenza, nella speranza d’essere perdonato. Se ho offeso l’Imperatrice, l’ho fatto in buona fede, per servire una causa nobile. Adesso anche le mie certezze vacillano e sprofonderò nell’abisso per sempre, a espiare i miei peccati. Mea culpa, mea culpa. Dio abbia pietà di me. E l’armonia possa tornare di nuovo tra voi tutti.”

Il Mago si limita ad ascoltare quel breve commiato, tra lo sguardo sorpreso dei presenti che vedono il Gerofante affrontare l’abisso con stoica determinazione. Nessuno cerca di trattenerlo e di fargli cambiare proposito, perché in fondo era sempre stato di peso a tutti e forse pensavano di essersene liberati per sempre. 

“Al quinto punto all’ordine del giorno, gli Angeli musicanti intoneranno le note del Requiem di Mozart. Per salutare degnamente il fatale congedo del quinto Arcano.” 

Il freddo comunicato del presidente non è seguito da nessun’altra manifestazione di cordoglio, per cui la seduta prosegue come stabilito dal protocollo.

“Bene. – Esordisce il segretario. – Ora il quarto punto prevede la discussione circa le quattro virtù ermetiche possedute dall’Uomo dei Tarocchi, che ha saputo rispondere ai quesiti esistenziali proposti dalla Sfinge. Gli interventi saranno rigorosamente scanditi dalla sequenza naturale degli Arcani maggiori, per cui inizierà a parlare per primo il Mago e terminerà Arcimondo. Non sono ammesse interruzioni. Chi non rispetterà le regole sarà allontanato da quest’assemblea e vi sarà riammesso solo quando avrà calmato i suoi bollenti spiriti. Non ci saranno quindi approfondimenti, sofistiche distinzioni e battibecchi. Abbiamo voluto esemplificare e ridurre al minimo una serie di distinguo senza fine. Interminabili diatribe potrebbero solo provocare un effetto sicuro: i futuri lettori del verbale si romperebbero i ciglioni e lo butterebbero nel cestino.” 

L’Eremita è immediatamente espulso per intemperanza dal vivo dell’Assemblea, per essersi opposto al cerimoniale del Requiem. Era rimasto però a ridosso dell’Anfiteatro e in virtù dell’eco poteva ancora distintamente ascoltare la voce del segretario.  

“Gli Arcani maggiori sono chiamati ad assumere una posizione sulle trame ordite dalle Voci, nella vicenda legata all’Uomo dei Tarocchi e al suo sito informatico.”

Le pubbliche ammissioni di colpa del Gerofante, seguite dal suo gesto clamoroso, non tranquillizzavano l’Eremita, anzi lo avevano irritato, innescando le sue esagerate proteste. Secondo il suo istinto, quel piccolo proclama cercava solamente di rendere plausibile una nuova messinscena. Fa chiamare subito il Folle da uno dei solerti valletti e gli riferisce il suo punto di vista. “Ascolta: il Gerofante secondo me sta tramando qualcosa. Chiede perdono, vuole fare penitenza, sceglie volontariamente il supplizio dell’abisso. Troppe fandonie da teatrante.”

Il Folle si limita ad annuire e l’Eremita, confortato dagli stessi dubbi del compagno, prosegue nella sua analisi. “Non ha senso la sua uscita di scena. Non si lascia l’aula nel momento topico del confronto.”

“Almeno che non sia allontanati, com’è avvenuto con te. Concordo con la tua analisi. Il Gerofante vuol farci credere che sceglie un esilio volontario nell’abisso. Forse è una scorciatoia per andare ad allertare le sue schiere di Angeli, adesso che siamo in sostanza più vulnerabili, per via della lanterna, che non c’è più. Devo chiederti scusa, Eremo. Ho fatto una grande minchiata: mi sono voluto liberare per sempre dell’alieno partorito dall’Imperatrice e ho dato una mano vincente a quel marrano matricolato.”

“Io giudico ancora peggiore la situazione. Secondo me è andato a cercare la lanterna. E’ unica e non sono in grado di farne una simile, con gli stessi poteri.” Lamenta l’Eremita disperato.

“Tuttavia il Gerofante dovrà risalire dall’abisso! E non sarà facile.”

“E lo farà. Perché gli hai svelato il segreto di Pulcinella: tuffarsi dentro senza esitare e portarsi dietro un mazzo di Tarocchi! Sei stato un ingenuo a raccontare i fatti tuoi, in pubblico senza pensare alle conseguenze. Adesso come la mettiamo, se ritorna qui con la lanterna?”

“Eremo hai un vantaggio: non immagina che non sei in grado di farne un’altra, con gli stessi poteri. Devi farne presto una, perlomeno che assomigli all’originale. Non dovrebbe essere così difficile. Potremmo in tal modo sbattergliela sul muso, o sostituirgliela. Non sarà del tutto facile, ma per lo meno resterà intimorito dalla nuova lanterna.”

“Allora non hai capito ancora! Non riuscirò a fare una lanterna magica con gli stessi poteri. E neppure una simile con qualche potere in meno.”

“Però lui non lo sa. Ripeto sarà comunque intimorito da un’altra lanterna. E’ probabile.”

“Potrebbe anche accadere, ma senza la mia fida compagna non mi sento sicuro, ma allo sbaraglio. Siamo prossimi tutti allo scacco finale.”

“Non fare previsioni tetre. Piuttosto gli corro subito dietro.  Così andrò nell’abisso per recuperare la tua lanterna. Se per caso incontro quel menzognero, lo strapazzo e lo riporto di nuovo a galla. Parola dello Zero. Ci puoi scommettere, magari il mantello, perché qualunque sarto saprebbe confezionartene uno migliore.”

E il Folle, preso congedo dall’Assemblea, ancora nudo, perché non si era più rivestito, ripiomba nel portale sull’abisso, che ancora non si era chiuso, tuffandosi dentro con uno stile quasi perfetto.

L’Eremita, nell’attesa, ogni tanto, si riaffacciava e sbirciava l’Assemblea e fischiettava per farsi notare dal presidente, che, per castigarlo delle sue intemperanze, voleva ancora tenerlo fuori dalle scatole e farlo cuocere nella propria rabbia.

 

 

62

Il Folle sfida il Gerofante

 

Le plaghe, sempre più tenebrose, toglievano il respiro e avviluppavano in un progressivo annichilimento. La verga cruciforme squarciava gli spazi angusti e a tratti riusciva a illuminare meandri oscuri. Il Regno dell’invisibile si restringeva. Il Gerofante, inesperto di voragini abissali, stentava a muoversi in quei gorghi soffocanti. Stava per desistere, quando improvvisamente, più per sorte che per abilità, riesce a intravedere la lanterna dell’Eremita. Stranamente aveva preso a brillare di tanto in tanto, per richiamare l’attenzione su di sé, dimostrando di possedere una sua volontà superiore al caso; sospinta in quello strano imbuto, che si rimpiccioliva sempre di più e finiva con l’assimilare e divorare tutto quanto vi cadeva dentro.

Nel tornare alla luce, dopo molti sforzi, lo sposo della quintessenza subito s’inginocchia per ringraziare la Provvidenza e depone la lanterna in terra, perché cominciava a bruciare e non c’era verso di tenerla in mano. Ogni tanto le gironzolava intorno e la osservava per capire da dove proveniva quello straordinario calore, ma non riusciva a darsene una ragione e se ne doleva molto, perché sapeva che, se non fosse riuscito ad addomesticarla, non gli sarebbe servita a nulla.

A un tratto si meraviglia, perché, all’interno del manufatto che aveva preso a esaminare più minuziosamente da vicino, intravede la presenza scandalosa del Folle. 

Le dita dello Zero zufolavano un marameo infantile che non prometteva nulla di buono. Poi era la volta della filastrocca. ‘Oh! Quante belle figlie, madama Dorè. Oh! Quante belle figlie.’ Il dileggio sarebbe continuato, se il Gerofante non fosse uscito dal suo silenzio e dalla sua espressione sempre severa, che manteneva di proposito anche nelle circostanze più irrituali. “Vi prego di mettere fine alla vostra spavalderia.” Anche nelle occasioni più particolari non dimenticava mai di dare del Voi a tutti.  Se avesse usato un tono meno conciliante e remissivo, le invenzioni derisorie del Folle si sarebbero potute protrarre indefinitamente. “E abbiate rispetto per un avversario sconfitto, uscendo dalla lanterna. Per non costringermi a stare in ginocchio, come un bambino di fronte al suo giocattolo.”

Il Folle torna alle dimensioni naturali, raccogliendo da terra la lanterna e prendendo sottobraccio la sagoma derelitta dello sconfitto. Pallido e rigido per quel contatto inatteso, si lascia guidare e neppure tenta uno scatto brusco per divincolarsi, per via delle frequentazioni tenebrose dell’abisso che lo avevano svuotato di ogni energia.

“In questo frangente, Zero, come siete riuscito a entrare nella lanterna senza farvi vedere?”

“Vi ero entrato prima che tu la recuperassi. E se non fosse stato per i bagliori intermittenti, non saresti riuscito nel tuo intento.”

“Dunque eravate disceso nuovamente nell’abisso.”

“Logico. Più lesto e più esperto di te. Nel mio territorio non ho rivali. Rassegnati a questa sconfitta. Immagino che invano avrai cercato la tua creatura, senza trovarla.”

“In verità sono disceso per lei. Era mio diritto cercare di salvarle la vita.”

“Comunque devo comunicarti una notizia alquanto dolorosa: la tua prole stava abilmente mimetizzata all’interno della lanterna, ma ora non lo è più. Il nulla ha individuato dove era nascosta e così è riuscito a risucchiarla via; ed io gli ho dato una mano. Infatti, come vedi, è ricomparso la crittografia dell’Eremita di cui non v’era più traccia.”

“Zero, voi sarete dannato in eterno, per avere osato ostacolare i disegni delle supreme Voci.”

“Le tue minacce non mi spaventano. Sei arrivato al capolinea. Ti resta solo il tempo per digerire la sconfitta.”

“Zero, voi siete un blasfemo ricettacolo di frasi fatte. La vostra nudità, oltretutto, m’irrita.”

“Per la fretta non ho avuto il tempo di cucirmi un nuovo abitino su misura. Piuttosto non divagare marrano. Che cosa racconterai, quando dimostrerò che volevi coglionarci tutti?”

“Dirò che volevo salvare la mia creatura e che voi mi avete tratto su a forza, insieme alla lanterna dell’Eremita che volevate recuperare.”

“Fin da ora mettiti l’animo in pace. Sei stato smascherato.”

“Ridicolo sarebbe processarmi, perché non ho fatto nulla di cui debba rimproverarmi. Forse ho solamente sbagliato nell’ascoltare le Voci. In tutta buona fede.”

“Torniamo spediti nella dimora e vedremo come va a finire.”

“Certo vengo, non ho mica paura.”

“Allora, strada facendo, ti racconto una storiella.”

“Per prendermi anche in giro? Non la voglio ascoltare.”

“Ed io te la racconto lo stesso. In fondo ti faccio un favore, per misurare il tuo stato d’animo. Dovresti affrontare questo test. I medici sostengono che il riso può curare qualunque male.”

“Oltre che blasfemo, offendete anche il mio dolore. Voi, Zero, siete un’aberrazione scandalosa e immonda.”

“E tu sei un borioso senza fantasia. Non riesci a tenere in mano nemmeno una lanterna e vuoi dare a intendere che in vita tua non ha mai riso per un’arguzia spiritosa.”

A questo punto il Folle comincia a srotolare il suo famoso tappeto volante.

“Monta.”

“Montare?”

“Monta sopra il tappeto. Siamo sbucati distanti dalla dimora dell’Eremita, dove saresti tornato con le tue schiere angeliche al seguito; ma hai fatto male i tuoi conti. Niente storiella e sia! Si viaggia con il mio modulo volante. E in un battibaleno ci si ritrova a ridosso degli amici.”

Così cala per sempre il sipario sulla storica conversazione tra il Folle e il Gerofante, che si affaccia dentro l’Anfiteatro col viso contrito di circostanza.

L’Eremita stava ancora fuori dall’assemblea e andava avanti e indietro nervosamente, in attesa di potere esservi riammesso. Quando vede sopraggiungere il Folle insieme al Gerofante, esterna la sua soddisfazione. “Dunque lo hai riportato all’ovile!”

“Sono stato di parola. Tu piuttosto, ti sei fatto ancora una volta cacciare per intemperanza?”

“No. Il Mago, nelle vesti di presidente, ha preso la parola e ancora non ha terminato il suo chilometrico intervento. Ha cominciato un minuzioso esame del sito creato dall’Uomo dei Tarocchi. Lo sta illustrando in lungo e in largo, con mille chiose e considerazioni. Neppure io avrei saputo fare meglio. Però è oltremodo prolisso e pedante. Entra e riporta la pecorella smarrita. Forse nel rivedervi il Mago proverà una scossa salutare; così illuminato, ricorderà anche di avermi espulso.”

Restituito all’Assemblea, il Gerofante si accomoda al suo posto senza battere ciglio, come se non fosse accaduto nulla, mentre il Folle torna sui suoi passi, perché vuole parlare a quattr’occhi con l’Eremita.

“Zero, allontaniamoci e andiamo in un posto sicuro, senza timore che i nostri discorsi siano ascoltati da chicchessia.”

“Eremo, se qui non ti senti sicuro, andiamo.”

“Il mio forziere rupestre è un nascondiglio naturale: una quercia millenaria enorme con delle cavità. Stavo in montagna, quando sono stato avvicinato da quel solerte gnomo, sceso a valle in tutta fretta, senza rispondere alle mie domande.”

“Bene, così avrò tutto il tempo per ragguagliarti sulla lanterna.”

“Piuttosto restituiscimela, Zero. Te la tieni stretta, da quando sei arrivato. Vuoi forse tenerla per te, come si fa con chi recupera i relitti di un naufragio in mare aperto?”

“Non ne ho nessuna intenzione, Eremo. Anzi, vorrei restituirla con piacere, ma non riesco a staccarmi da lei. La mia mano vi è rimasta appiccicata, in qualche modo.”

“Fammi un poco vedere. E’ strano, con me non era mai successo. La lanterna ti ha eletto nuovo padrone e forse non vuole più distaccarsi da te per riconoscenza, perché sei tornato nell’abisso a riprenderla.”

“Io non la voglio, Eremo. Non so che farmene. Non è di mio gusto.”

“Voglio esaminarla meglio, Zero. E’ riapparsa l’incisione nel ferro battuto: A.D. MCCXXI TARO FECIT.L’avevo coperta con una colata di rame brunito, scambiato per macchie di ruggine.”

“Non sono stato io a scorticarlo via per passatempo. Se lo è ripreso il nulla, come tutto ciò che era estraneo al corpo della lanterna. E’ riapparsa anche la tua crittografia, Eremo.”

“Sì è vero, si legge chiaramente. Potremmo tentare di decifrarla.”

“Non è il momento, Eremo. Adesso devi cercare di separarmi da questa lanterna invadente. Ho l’impressione di essere un forzato della Cayenne con una palla al piede. Riprenditi questa benedetta luce dei miei stivali.”

“Devi rimanere calmo, Zero. Lei è molto sensibile.”

“Allora le chiedo scusa. Mi metto in ginocchio, ma fa qualcosa, Eremo.”

“Dobbiamo farci aiutare dalla cabala per decifrare gli eventi.”

“Io non digerisco la cabala. Sono uno Zero allergico ai numeri.”

“Taro fecit. L’artefice dei Tarocchi è stato anche l’ideatore della lanterna. E’ passata di mano in mano, attraverso i tempi. Ha conosciuto quelle geniali di Leonardo, quelle contadine di Bertoldo, le mie. Poi è finita nelle mani del Folle e le predilige sopra le altre, perché non se ne vuole distaccare. Dobbiamo darle tempo, assecondarla. Zero, devi mutare atteggiamento mentale nei confronti della lanterna.”

Lo Zero non smetteva d’andare nervosamente avanti e indietro, contando i ventidue fatidici passi. In fondo aveva ripreso la lanterna strappandola all’abbraccio mortale dell’abisso, e lei lo aveva adottato ed eletto a compagno preferito.

Le argomentazioni ponderate dell’Eremita alla fine tranquillizzano il Folle. “Ascolta Zero, secondo me non passeranno 22 ore, non un minuto di più, da quando sei venuto fuori dall’abisso. Pazienta e soprattutto fai finta di niente. Mostra agli altri la lanterna, come un segno tangibile della tua vittoria personale. Sorridi e la sollevi in aria. Benedici gli Arcani, come fa il Gerofante, quando ostenta la sua verga cruciforme. Tutti resteranno colpiti dal gesto e nessuno ti farà domande.”

Accomiatatosi dall’Eremita, il Folle riprende posto al centro dell’assemblea, per potere meglio attirare su di sé l’attenzione, da vero esibizionista quale amava essere.

Frattanto il Mago continuava a dare alimento alla sua rigorosa disamina, senza lasciarsi distrarre dalle esibizioni circensi del Folle e dal suo bofonchiare sussurrato al vuoto. Proseguiva in maniera appassionata senza esitare e finalmente termina la sua prolusione con un’ammissione. “Avrei voluto dare più di una tirata d’orecchi al nostro amico Zero, il quale, a sua insaputa, ha avuto il merito, con la sua vivacità scolare, di mantenere desta una platea che ho sentito oltremodo stanca e disattenta. Il sito tarocchi-origini.it è stato inopinatamente oscurato. Come Numero Uno ho sentito il dovere morale di ricostruire l’opera dell’Uomo dei Tarocchi, che si è interrogato sulla nostra genesi.”

Il Mago riceve l’applauso indistinto di tutti, per il rigore e la precisione con la quale aveva condotto l’excursus e torna soddisfatto a occupare il suo posto di presidente. Solamente allora fa un cenno di rientrare all’Eremita, il quale non aveva smesso di farsi notare ai bordi dell’Assemblea.

Tutti i presenti chiedono ed ottengono dal presidente una pausa di puro svago ludico, per potersi riprendere dopo quell’estenuante intervento. Approfittando di questo provvidenziale momento d’inaspettata vacanza, il Folle va ad addormentarsi sotto le fronde della quercia millenaria. Al suo risveglio può constare felice che la lanterna stava in piedi da sola, accanto alla sua mano, libera finalmente da quell’invadente compagna. 

 

 

63

L’esperimento e ventidue pepite alchemiche

 

Alla ripresa dei lavori dell’Assemblea, Arcitorre invita i valletti a sistemare nell’Anfiteatro il tavolo ottagonale che i suoi fedeli servitori avevano trasportato fin dentro la dimora e affidato alle cure dei donzelli. I quattro forzuti lillipuziani, incaricati della consegna, erano frattanto ritornati al Castello di Federico II, utilizzando lo stesso mezzo di locomozione dell’andata. Un’impresa di trasporti di Adria periodicamente viaggiava verso Lubiana, per consegnare olio pugliese e altri prodotti tipici del Tavoliere e ritirare carne di selvaggina congelata, miele e prodotti tartufati della nascente industria alimentare slovena. La tappa, non prevista in quella sconosciuta località carsica, era stata suggerita da Arcitorre alla mente svagata del camionista. Non si sarebbe mai fermato nei pressi di un castello, se non fosse stato attratto da una locanda che pubblicizzava, con un appariscente cartellone di legno, sostenuto da due simpatiche marmotte imbalsamate, polpettine di maiale e torta di mele al mirtillo.  

Raccontata dalla Giustizia, la storiella del regalo sorpresa aveva funzionato e il tavolo ottagonale aveva superato l’ispezione scrupolosa e le resistenze dei valletti. Il Folle, riconoscendolo, subito alza d’istinto la mano per prenotare un intervento, quando Arcitorre inizia a parlare: “Ha visto bene il Folle. Esatto: sono stato l’ispiratore del manufatto seicentesco, poi finito nelle mani esperte della cartomante Leda. Nessuno si meravigli! Ci siamo impicciati con la storia degli umani, dando suggerimenti e creando confusioni nelle piccole cose quotidiane e nei grandi eventi. Abbiamo indirizzato ricerche scientifiche e contribuito alla scoperta di farmaci. Alimentato buone azioni e soffiato sulle cattive imprese. Essendo l’ideatore dell’originale capolavoro, ne possiedo anche il prototipo. Volevo che i Tarocchi fossero interpretati sopra l’unica forma geometrica in grado di accoglierli degnamente: un ottagono simbolo d’equilibrio. Quanto sto per mostrarvi, travalica le nostre consuete contrapposizioni. Si è già sparsa la voce di queste ventidue sfere d’oro purissimo. Sono state distillate sulla mia torre, utilizzando un procedimento assai complesso che non posso certo banalizzare con rapide formule. La mia ricerca alchemica è durata secoli e merita rispetto. Neppure se volessi, potrebbe essere sintetizzata in una stringata lezione. Ciascuno di voi potrà riconoscere l’oro alchemico corrispondente captandone le vibrazioni. Vorrei invitare i presenti a toccare tutte le sfere, nell’ordine sparso in cui io le ho deposte sopra questo tavolo, e a sceglierne una: quella con cui si sentirà di essere più in sintonia. Inizierà per primo il Mago, per terminare infine con Arcimondo. Intendo eseguire un esperimento abbastanza semplice e intuitivo. Dimostrerò che ciascuna sfera aurea interagisce con il suo Arcano corrispondente.”

Il maestro supremo degli intrighi, Arcidiavolo, avanza subito un’obiezione legittima. “Quale assicurazione abbiamo che non si tratti di una trappola e che questo tuo oro alchemico non abbia il potere d’indebolirci  e di renderci vulnerabili?”

Il presidente vorrebbe mettere tutti d’accordo con la sua proposta e tranquillizzare gli animi già agitati. “Se, come penso, nessuno sta correndo pericolo, inizierà per primo Arcitorre a darci una dimostrazione del fenomeno, poi verrà il turno dei volontari. Ciò dovrebbe convincere gli scettici che non v’è inganno. Inoltre invito pubblicamente il maestro delle alchimie a fare dono dell’aurea sfera a ciascuno dei presenti, perché possano conservarla nei tempi, come ricordo di questa giornata che dovrà restare impressa nella nostra memoria.”

Dimostrando grande generosità, Arcitorre accetta molto volentieri il suggerimento del Mago, ma l’assemblea è ancora divisa. A sorpresa la Morte mette fine a ogni esitazione e si avvicina alle auree meraviglie alchemiche. “Posso percepire ogni influsso potenzialmente pericoloso. Sono sfere innocue, trasmettono sulle dita un piacevole formicolio, infondono euforia e la mia omologa, come potete vedere, segue docile i movimenti della mano, quasi voglia farsi riconoscere.”

A questo punto gli Arcani si lasciano convincere dalla dimostrazione visiva offerta dalla Morte. Senza indugi ciascuno sfiora le auree sfere e rimane quasi calamitato dall’energia che la propria omologa riusciva a sprigionare. Unico assente il Folle, addormentatosi sotto le fronde della quercia millenaria e rimasto in quei paraggi, accanto alla fedele Lanterna che non smetteva di rimirare. Per fortuna lo Zero si fa vivo per ultimo; quando già si sussurrava che volutamente stava boicottando l’esperimento per mettersi in mostra ancora una volta. 

Quel piacevole contatto sorprende tutti, perché improvvisamente si sentono più solidali, più vincolati a un comune progetto ed anche le antiche rivalità paiono al momento essersi assopite, alla luce dell’aurea sapienza precipitata nel distillato. 

Approfittando del momento propizio, Arcitorre prosegue a esporre le proprie intenzioni e tutti l’ascoltano molto attentamente, consapevoli che parlava con il cuore e con la sapienza accumulata negli anni e ne riconoscevano la supremazia intellettuale, per averla dimostrata sul campo, proprio col frutto della sua ricerca. “Finalmente oggi, grazie al prodigio dell’oro alchemico, tutti insieme, uniti attorno al tavolo ottagonale, potremo decifrare il significato profondo della sequenza dei sette Trionfi che ha messo in agitazione le Voci e ci ha condotto tutti qui: nella dimora dell’Eremita. Utilizzerò un mazzo di Tarocchi e disporrò i sette Trionfi in alto. Le restanti carte le sistemerò più sotto, nel verso contrario.

               9       2       15       4       5       6       21

20 - 19 - 18 - 17 -16 - 14 - 13 - 12 - 11 - 10 - 8 - 7 - 3 - 1 - 0

Invito tutti a formare attorno al tavolo due cerchi ideali concentrici, uno minore e uno maggiore, rispettando l’ordine delle carte. Gli Arcani del primo cerchio, sistemati in senso orario, stringeranno nella mano destra l’aurea pepita distillata sulla Torre. Gli Arcani del secondo invece si disporranno in senso antiorario, stringendo l’oro nella mano sinistra.”          

L’unico a non partecipare alla metamorfosi era Cupido. Si era sentito escluso dall’esperimento e aveva espresso sottovoce le sue preoccupazioni all’Innamorato, giacché Arcitorre si era presentato solo con ventidue pepite. Gli era stato risposto con parole tranquillizzanti e perentorie che non ammettevano replica.

La dolente memoria di Cupido era tornata indietro nel tempo: quando gli Dei dell’Olimpo si erano volatilizzati, senza motivo e senza lasciare una traccia. Nel vedere approntare quel rituale attorno al tavolo ottagonale provava una profonda mestizia, come se temesse di vedere partire per sempre tutti i suoi amici. La sua fobia del distacco lo avrebbe spinto a correre ad abbracciare il suo padre adottivo per dirgli di non allontanarsi. Così, per ingannare la tensione, si era messo anche lui a girare attorno al tavolo, imitato pure dai venti angeli musicanti che si erano accodati nel girotondo. 

Per interrompere quell’intrusione scherzosa deve intervenire personalmente Perimene, che conduce via Cupido e gli orchestranti ad ascoltare la musica sprigionata dalle grottesche di cui era stato l’ideatore.

Nel corso dell’esperimento i sospetti reciproci, i rancori, le cieche prospettive personali, tuttavia ostacolano una vera comunione e prevale l’individualismo originario dei Tarocchi, ancora una volta divisi da obiettivi contrastanti e dalla voglia di primeggiare. Il conflitto per la supremazia era continuato sottilmente, persino in quel frangente. L’oro alchemico non era riuscito a compiere il miracolo sperato e apparentemente sembrava che non fosse accaduto nulla di rilevante. Nessuno aveva ascoltato una Voce e neppure v’era stata una sensazione particolare da parte di chicchessia.  

Mentre Arcitorre, deluso, stava per riordinare i Trionfi adagiati sul tavolo, si sente attratto dalla carta del Mago, che sembrava assai diversa da quella arcinota e soprattutto appariva ingigantita rispetto alle altre, più piccole. Sul momento pensa a uno scherzo di prospettiva, ma il Trionfo Numero 1 aveva assunto anche una coloritura più accesa, più viva, come se fosse uscito proprio in quel frangente dalle mani sapienti del pittore. Stranamente nessuno finora aveva incrociato e contemplato un Mago così dignitoso, intento a compiere un prodigio con tanta calma e attenzione. Estremamente concentrato, riusciva con le due mani aperte a tenere in piedi un tavolinetto tipo fratino, alquanto singolare, perché privo di una gamba. Inoltre, con la sua lunga bacchetta magica, l’aristocratico personaggio stava incidendo sul tavolo due numeri speculari: 1202  2021.

Gli Arcani, incuriositi, subito vanno ad ammirare il fenomeno. Quei numeri, non certo casuali, trovavano una loro corrispondenza fisica nelle gambe del tavolino: rispettivamente una, due, zero, due, se viste nella loro prospettiva naturale. Il tavolinetto, sottostante al Mago, non era un semplice, anche se funzionale arredo, ma diventava elemento sostanziale per intendere meglio la natura del Trionfo. 

Il primo numero aveva un significato inequivocabile. Tutti sapevano bene che nell’anno 1202  aveva visto la luce il Liber Abaci del dotto matematico Nicola Pisano, il quale, grazie ai suoi viaggi in Oriente, aveva avuto modo conoscere il sistema numerico decimale degli Arabi. Il numero 2021 invece aveva tutta l’aria di essere una specie di squarcio nel futuro: un esplicito invito a considerare attentamente un dato momento storico che avrebbe visto il compimento di un ciclo, iniziato simbolicamente dal Mago che ne prediceva anche la fine. 

 

 

64

Il Folle si misura con i poteri occulti della lanterna

 

Ancora basiti dalla metamorfosi del Trionfo Numero 1, distintosi nel corso dell’esperimento alchemico, e pure fiaccati per aver speso energia nel corso della meditazione, gli Arcani, all’unanimità, chiedono una pausa di ventidue ore ai lavori dell’Assemblea. Tutti dichiarano di sentirsi stranamente stanchi ed esauriti, un poco come gli umani dopo una settimana di stressante lavoro. Perché bisognosi di svago e di riposo, ritengono opportuna una pausa collettiva al fine di ritrovare lucidità e determinazione. 

Il Folle imputava la sua fiacchezza all’andirivieni nei gorghi dell’abisso, nonostante la sua dimestichezza con quelle riviere senza luce. Era convinto, infatti, d’avere esagerato nella frequentazione così ravvicinata delle stringhe infinitesimali. Avendo lasciato la lanterna dell’Eremita nella fenditura della famosa quercia, torna a riprenderla, per restituirla doverosamente al legittimo proprietario e godersi una meritata vacanza. Giunge esausto alla pianta millenaria, preda di una debolezza estrema ed esagerata. Cerca un contatto positivo, per rinvigorire la sua tempra inspiegabilmente vuota e fiacca. Sa di dovere riportare il prezioso manufatto al suo legittimo proprietario, il quale tutto preso dal susseguirsi degli eventi non lo aveva ancora reclamato e rivoluto indietro. 

La lanterna adesso stava lì: di fronte allo Zero, seduto a terra con la schiena poggiata sulla quercia. Quell’opera ingegnosa e antichissima, secondo l’Eremita, era appartenuta al vero ideatore dei Tarocchi, che nel ferro battuto aveva inciso la sua inconfondibile firma: 

A.D. MCCXXI TARO FECIT

Curioso per natura, lo Zero voleva capire se, quanto gli era stato raccontato, aveva un fondamento di verità. A suo avviso la fedele compagna di Eremo forse nascondeva segreti che neppure il suo possessore aveva intuito. Intendeva approfittare di quell’occasione unica che non si sarebbe mai più ripresentata. Non si fidava delle interpretazioni lineari. Aveva appreso che le verità non sono individuate da un ragionamento logico, ma sovente si celano nelle manifestazioni più evidenti e spesso non le vediamo, proprio perché giriamo loro attorno come degli idioti, senza volere guardarle in faccia. 

Il Folle era convinto di sapere risolvere ogni tipo di enigma. Non era un Arcano qualunque. Lui era lo Zero: il primo scaturito dal caos originario. Sfiora la lanterna. La tocca. La ritocca. La rimira dalle varie possibili prospettive. L’alza. L’abbassa. Poi gli viene in mente di risvegliarla con un bacio, come fa il Principe nella fiaba della Bella Addormentata.

Senza arrovellarsi troppo, ha la sensazione d’essere stato attraversato dall’intuizione giusta. La lanterna, come in tutte le fiabe che si rispettano, prendeva vita quando era pronunciata la formula magica, questa volta neppur tanto segreta. La frase stava già ben scritta e stampigliata! Il Folle la scandisce ad alta voce.

Anno Domini mille duecento ventuno Taro fecit.

La lanterna improvvisamente s’accende in maniera tenue e al suo interno comincia a prendere forma un fantasma informe, che piroettava leggiadramente su di sé come una ballerina. Il Folle quasi sussulta di fronte al prodigio e un poco meccanicamente pensa di ripetere la formula che ridava vita allo spirito celato nella lanterna. 

“Anno Domini mille duecento ventuno Taro fecit.”

In cuor suo sperava d’accelerare il processo, ma, al contrario, il portento si attenua e svanisce in un esile filo di fumo. Il Folle esulta di gioia. Riprende le forze e si sente in grado di sfidare ancora l’abisso. Torna a scandire la formula, ma adesso non interrompe la genesi completa del prodigio e gli concede tutto il tempo che vuole per manifestarsi.

Il genio all’interno della lanterna somigliava moltissimo all’Eremita, per via dell’abito di panno, con tanto di cappuccio fratesco e una certa aria di filosofo, tipo Diogene. Interrogato dice d’essere stato un seguace perseguitato di Pietro Valdo che aveva vagato per mezza Europa, traversandola in lungo e in largo, fino ad approdare nella cittadina di Béziers: una roccaforte dell’eresia dei Catari, destinata alla distruzione per volontà del Papa Innocenzo III, il cui nome era già di per sé una sfida e un proclama alle genti senza fede. 

Il Folle invita il genio ad uscire liberamente dal suo nascondiglio per approfittare di quella straordinaria occasione. Fortunatamente, dall’epoca delle crociate molte cose erano cambiate, e, con un poco d’astuzia, i migliori riuscivano a sopravvivere, in barba alle persecuzioni che avevano cambiato volto ed erano più raffinate di un tempo, ma non erano certo del tutto finite.

Rigetta con decisione l’offerta, il genio. Fuori dal calore della lanterna non sarebbe riuscito a sopravvivere e sarebbe morto poco dopo, perché l’incantamento originario lo legava a quel manufatto, da cui era prematuro distaccarsi. 

Il Folle ripete l’invito una seconda volta, ma lo fa senza convinzione, per dimostrare d’essere educato.

Il genio replica con una proposta, magnificandola, ed esorta lo Zero a visitare la sua casa, che racchiudeva un piccolo spazio in apparenza ma infinito nella sostanza. E la tessitura delle proprietà portentose della lanterna, nelle parole del genio, diveniva sempre più accattivante e attraente. “Basta adeguare solo le misure e puoi entrarvi e sentirti perfettamente a tuo agio. E poi, al suo interno, potrai tranquillamente ripassare le epoche della tua vita. Rivivrai come in un film i momenti più piacevoli. O potrai percorrere altri cunicoli temporali del passato di tuo interesse, dal 1221, da quando la lanterna ha visto la luce.”

Il Folle non aveva alcun motivo per resistere alle lusinghe. Confessa candidamente di conoscere a memoria tutta la storia della genesi dei Tarocchi, per averla appresa dal professor Leandro: un’autorità in merito, di cui si sarebbe parlato proprio di lì a poco, nel prosieguo dell’assemblea.  

Il Genio della lanterna, sorridendo, osserva che tutte quelle rivelazioni straordinarie le aveva suggerite all’Uomo dei Tarocchi, proprio lui. Si chiamava Taro e aspirava definitivamente ad abbandonare la dimensione terrena con l’aiuto degli Arcani.   

Il Folle, nel frattempo entrato nella lanterna, istintivamente gli va incontro per abbracciarlo, come si fa col proprio padre, dopo una lunga separazione. Appena gli si stringe addosso, lo Zero, tornato a sentirsi forte, si scopre incapace di sottrarsi ad una stretta che diventava sempre più soffocante. Il Genio della lanterna stava assimilando le sue energie con una rapidità sorprendente, senza dargli la possibilità d’allontanarsi. L’Arcano, come folgorato, cominciava effettivamente a ripassare le epoche della sua vita, ma quei ricordi, come lampi, fiaccavano ed esaurivano la sua memoria, che diventava sempre più inconsistente e frammentaria. 

Lentamente e dolcemente, il Folle si sente scivolare verso le bianche riviere del nulla. La lanterna dell’Eremita, forse, con sé aveva trascinato l’abisso e il Folle vi si lascia andare lieve, come faceva la sabbia nel fondo della clessidra della cartomante. L’ultimo tenero ricordo che accarezza fino alla fine, mortificandosi per essersi lasciato fuorviare da un’iniziativa più grande di lui e sfuggita al suo controllo. Anche la fisionomia di Leda svanisce e se ne rende conto, perché non ricordava più il colore dei suoi occhi nei quali per tanto tempo aveva dolcemente navigato. Gli restava nitido solamente il frammento della colonna, col suo Zero inciso sopra. L’allegro viaggio nella memoria si rivela essere come un vero e proprio naufragio nell’abisso. Un naufragio consapevolmente sereno.

 

 

65

Il Mago incontra il matematico Fibonacci

 

 Frattanto il Mago, in virtù del suo ruolo di presidente, continuava a tenere d’occhio il gruppo e si era accorto della scomparsa del Folle, il quale abitualmente era sempre agitato come un grillo, e andava e veniva, ora di qua, ora di là, raccontando barzellette e prendendo in giro tutti. 

Soltanto il Giudizio era rimasto inspiegabilmente preso dal suo ruolo di segretario e non si era mosso dal baldacchino colorato che era stato eretto all’ingresso dell’Anfiteatro.

“Giudi, che fai ancora lassù!”

“Registro gli eventi straordinari. Se ce ne saranno.”

“Rammenta che siamo in pausa per ventidue ore, Giudi! Rimani solo di fronte all’Anfiteatro vuoto, tutto questo tempo?”

“Ingannerò il tempo facendo disegni a caso. Ti dà fastidio forse?”

“No, se vuoi. Un consiglio Giudi: nella parte alta dell’Anfiteatro forse staresti meglio. Domineresti la situazione e potresti seguire i movimenti di tutti quelli che passano.”

“Grazie, hai ragione tu. Per questo sei il presidente! Non ci avevo pensato!”

“Ciao allora, e non mollare la postazione, Giudi.”

Così il Mago ne approfitta per sgranchirsi le gambe. Attribuiva il suo torpore soprattutto alla sedentarietà di quelle ore. Voleva esplorare ogni angolo della dimora e vedere se, per caso, riusciva anche ad incrociare il Folle. Chiede qualche informazione ai donzelli, per non perdersi in quel dedalo carsico. Mentre interroga, osserva un valletto che parlottava e ridacchiava con un suo pari. “Vorrei conoscere l’ubicazione della famosa quercia dell’Eremita: dove ha ficcato la pergamena con l’invito delle Voci.”

‘Da chi mai avranno preso tanta ilarità? Certo non da quel musone del loro padrone. Paiono sempre lieti e giulivi.’ Si domandava il Mago.

“Ti ci accompagniamo noi, signore Presidente. E’ un piacere essere cortesi alle richieste degli ospiti.” Anche in quella circostanza i valletti tra loro continuavano a parlottare e ridacchiare per un nonnulla. ‘Risus abundat in ore stultorum’: pensava il Mago, concordando con quel detto latino che associava l’eccessivo riso alla stoltezza. L’Eremita volutamente si era voluto contornare d’idioti che spalancavano porte e facevano inchini. 

Così, mentre attraversava una porta dopo l’altra, il Mago domanda una ragione plausibile di tutti quegli ostacoli artificiali. “Me lo sapete dire, perché mai l’Eremita ha messo tante inutili porte nella sua dimora?”

“Forse ama la quiete e non vuole essere disturbato dai rumori altrui. Coltiva il silenzio in maniera maniacale!”

‘Beh, tanto stupidi poi non sono. E’ l’unica spiegazione logica, anche se paradossale.’

“Ecco signore Presidente, quella è la quercia. Lo Zero vi sta appisolato accanto e russa come un treno.”

“Grazie donzelli. E’ stato un vero piacere!”

I due garzoni tornano indietro e spariscono alla vista del Mago, il quale deve urlare una vita, per svegliare il simulacro dello Zero dal torpore profondo. Il genio, impossessatosi della lanterna dell’Eremita, aveva restituito alla nostra favola postmoderna, per consentirle di andare avanti, un Folle cinico e malvagio ma, nel resto, del tutto eguale all’originale

“Sembravi un orso in letargo!”

“Quell’andirivieni nelle riviere dell’abisso mi ha veramente spossato. Avevo ben diritto a un poco di riposo. Non ho forse riportato indietro l’Imperatrice, senza quel neonato malefico?”

“Neppure ti avrei chiamato, se non fosse stato per la lanterna  incustodita al tuo fianco. Qualcuno di nostra conoscenza, approfittando, avrebbe potuto rubarla. Non tutti siamo gente onesta, purtroppo!”

“Ehi! Magico, guarda cosa ho trovato in quel guazzabuglio di stringhe, d’atomi e d’oggetti smarriti! La tua bacchetta! Quella autentica! Non quelle che lasci in giro per burla. Io le so riconoscere, perché i numeri sono d’ottone e sembrano incollati con la colla cinese, che costa novantanove centesimi e non vale un cacchio!”

“Hai ragione, Zero! Sembra proprio la mia! Dovrebbe essere custodita e guardata a vista dai valletti dell’Eremita che ci hanno svuotato le tasche quando siamo entrati! Però questo non è mica corretto. Dovrò presentare le mie rimostranze al padrone di casa. Forse ignora quanto siano inaffidabili i suoi servi.”

“Comunque Magico i numeri d’oro ci sono ancora tutti. E piuttosto devi sincerarti se ha conservato ancora i suoi poteri. Io non so che farmene. Te la restituisco, senza neppure farci un incantamento divertente. Da onesto compare della compagnia degli Arcani, quale sono.”

“Sei uno Zero di nome, ma sei pieno d’idee e di propositi. Grazie amico, so che potrò sempre contare su di te.”

Così il simulacro del Folle riconsegna al Mago la verga di noce, su cui erano istoriati dei piccolissimi numeri d’oro dall’Uno al Dieci, quelli appartenenti alla tradizione indiana-araba. Nel 1202, Leonardo Fibonacci li aveva fatti conoscere ai dotti del mondo occidentale, grazie al suo trattato: il Liber Abaci

Al Mago, mentre riceveva dalle mani del simulacro del Folle la lanterna e la bacchetta magica, sembra di vivere un momento portentoso. Quasi per associazione d’idee ascolta la voce del dotto Fibonacci, che nella favella latina dissertava sulla natura dei numeri. D’istinto guarda verso la lanterna e vi scorge il profilo del matematico, seduto in cattedra, di fronte ad una platea arroccata sulla classica gradinata di legno circolare, dove gli studenti occupavano posto. Si affaccia il desiderio improvviso e impellente di partecipare a quell’occasione storica. Il Mago con la sua verga magica penetra dentro la lanterna e si siede davanti al Maestro in prima fila. Adesso può riconoscere nei presenti la fisionomia dei ventuno Arcani maggiori e anche quella dei cinquantasei Arcani minori: tutti seduti, uno accanto all’altro in quell’aula, per prendere lezioni di numeri arabi dal primo grande divulgatore della storia della matematica.

Il Mago schietto, sempre pronto al sorriso e al dialogo, voleva mostrare al Maestro Fibonacci il prodigio dei numeri sulla sua verga magica e allora si alza in piedi per prendere la parola. Non trova però la forza necessaria, anzi si sente mancare. I preziosi numeri d’oro cominciano improvvisamente a cadere via dalla sua bacchetta: uno dietro l’altro e il Mago cerca invano d’inchinarsi per raccoglierli. Il Maestro cortese invita due inservienti a farlo in sua vece. Assomigliavano ai valletti, perché ridacchiavano in faccia al Mago senza alcun rispetto e sembravano volerlo prendere in giro, per l’inazione da cui non riusciva a uscire. 

Fibonacci sulla grande lavagna rettangolare (con numeri microscopici) argomentava di cabala.

1 = 1

2 = 1 + 2 = 3

3 = 1 + 2 + 3 = 6

4 = 1 + 2 + 3 + 4 = 10

5 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 = 15 

6 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 = 21

7 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 = 28

8 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 = 36

9 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9  = 45

10 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10  = 55

11= 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10  + 11 = 66

12= 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10  + 11 + 12 = 78

13= 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10  + 11 + 12 + 13 = 91

14 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10  + 11 + 12 + 13 + 14 = 105 

15= 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10 + 11 + 12 + 13 + 14 + 15 = 120 

16= 1 + 2 + 3 + 4 + 5 +6 + 7 + 8 +9 + 10+11+ 12 + 13 + 14 + 15+16 = 136

17= 1+ 2 +3+ 4 + 5 + 6 + 7 + 8 +9 +10+11 +12+ 13+14+15+16 +17 = 154

18= 1+2+3+4+5+6+7+8+9+10+11+12+13+14+15+16+17+18 = 172

19 = 1+2+3+4+5+6+7+8+9+10+11+12+13+14+15+16+17+18+19 = 191

20=1+2+3+4+5+6+7+8+9+10+11+12+13+14+15+16+17+18+19+20= 211

21=1+2+3+4+5+6+7+8+9+10+11+12+13+14+15+16+17+18+19+20+21 = 231

22=1+2+3+4+5+6+7+8+9+10+11+12+13+14+15+16+17+18+19+20+21+22=254

A un certo punto, sulla lavagna, tutti quei numeri di gesso bianco vengono inspiegabilmente amputati, forse da un’invisibile girella di cimosa. Il Mago si volta indietro verso i suoi compagni, i Tarocchi, per cercare conforto e aiuto. Stavano svanendo anche loro, congiuntamente al polverio del gesso in cui i numeri si dileguavano. L’aria diventava irrespirabile e il pulviscolo biancastro soffocava il Mago. Solo il numero Uno sulla lavagna resisteva imperterrito. 

Allora il Maestro Fibonacci personalmente, anziché soccorrere il Mago in difficoltà, va verso la lavagna e prende il cancellino rotondo di stoffa per fare sparire anche quell’Uno resistente che campeggiava imperterrito, come un ultimo soldato sopravvissuto e ferito, prossimo alla mattanza finale. 

Il Mago, nel suo innato ottimismo, aveva ancora tanta voglia di sorridere, nonostante l’oro della sua bacchetta stesse perdendo l’antico splendore e i suoi ricordi svanissero a ridosso del nulla, ove era risucchiata allegria e buonumore. Gli Arcani minori si volatilizzavano, lasciando fanti sbiaditi e cavalli senza testa, montati da orribili cavalieri senza braccia. Anche i Re superbi stavano perdendo corona e trono.

 

 

66

La Papessa visita la Cripta dei Tesori

 

Nell’Anno del Signore 1221 l’artefice dei Tarocchi aveva realizzato la lanterna dell’Eremita, marchiata con i numeri in latino, come d’uso nelle iscrizioni che contrassegnavano i monumenti nell’antica Roma. Al momento un genio misterioso e camaleontico, celatosi proditoriamente in quella lanterna, cercava d’assimilare l’energia dei Trionfi, impossessandosi dei loro poteri occulti. Improvvisamente il prodigio maligno rispunta fuori dal nulla assumendo le fattezze del Mago, nello stesso modo in cui prima aveva assunto le sembianze dello Zero. Il simulacro del Numero 1 incrocia la Papessa, mesta e meditabonda in un cantuccio. Le sorride e le racconta brevemente che insieme al Folle hanno ispezionato la lanterna dell’Eremita, poi affidata alla custodia neutrale e attenta dei valletti. Le suggerisce di fare altrettanto, per sincerarsi se vi fosse qualcosa che non andava e potesse costituire un qualche motivo di preoccupazione per l’esistenza stessa dei Tarocchi.

L’invito resta lettera morta. La Papessa, priva di stimoli e d’iniziativa, mostrava uno sguardo apatico e assente. “Non so, se sia vero. Il Folle, pare si sia imbattuto in un frammento svolazzante alquanto singolare e somigliante a un granello, forse appartenuto alla Sfinge. Ancora vagava attraverso le maglie e l’intreccio dell’infinitamente piccolo. E, secondo quanto racconta, l’ha raccolto e portato via. Ora potrebbe giacere dentro la lanterna dell’Eremita. Io andrei a dare un’occhiata. Non costa nulla. Ti farà bene per distrarti.”

Stanca di coltivare passivamente il proprio dolore e pungolata nei modi giusti, la Papessa reagisce, s’incammina verso la Cripta dei Tesori e chiede lumi ai valletti, per non perdersi in quel ginepraio di porte e corridoi infiniti; finalmente decisa a farsi accompagnare da un donzello, perché da sola non avrebbe mai trovato il corridoio segreto dove era custodita la lanterna. 

Nella Cripta erano presenti altri manufatti storici e leggendari: come la spada Excalibur, appartenuta al re Artù e la biblica Arca dell’Alleanza, poi custodita dall’Ordine dei Templari. L’Eremita, da vero collezionista e forse anche insospettato ricettatore, li aveva accumulati nel corso dei tempi nei modi più disparati. 

Stando alle direttive ricevute, i valletti non avrebbero mai dovuto ammettere nessuno nella Cripta, ma lo spirito anarchico e burlone dei valletti aveva preso il sopravvento sulla responsabilità e il rispetto delle proprie funzioni. I due custodi, infatti, stavano giocando a ruba mazzo: forse il passatempo più elementare e dinamico, caro a tutti i bambini che prendono in mano le carte per la prima volta.

Allibita dalla scoperta, la Papessa avrebbe volentieri scambiato quattro chiacchiere riservate con l’Eremita per avere delle spiegazioni, tuttavia lascia i chiarimenti alle spalle e va a confrontarsi con la lanterna sistemata sopra una colonna di porfido, abbellita da un capitello corinzio tutto ricoperto di foglie d’oro. Tante opere prodigiose scomparse, in possesso del morigerato padrone, non potevano che indurre a dubitare dell’integrità morale di chi custodiva solo per sé tesori dal valore incalcolabile.

Frattanto l’Eremita, allertato da un meccanismo inconscio, proprio in quel frangente, piomba alle spalle della Papessa a sorpresa. “Custodisco questi tesori per evitare che i malvagi possano farne un uso improprio. La volontà d’egemonia dei bionici non ha limiti. Ecco la spiegazione. Anche noi Arcani ci saremmo scannati per averli. Tra questi portenti ho pensato d’usare un solo prodigio, da tutti creduto frutto della mia ricerca. Questa lanterna, opera di un eretico perseguitato, è passata anche per le mani di Leonardo da Vinci. Vedi, qui si legge bene l’iscrizione originaria, che avevo cancellato via con una colata bronzea, ma ora è tornata visibile dopo la frequentazione delle stringhe dell’abisso.”

La Papessa s’accontenta della doverosa spiegazione, tuttavia cerca di sapere qualcosa di più sull’Arca appartenuta al popolo ebraico. “Confesso molto chiaramente che non so cosa l’Arca custodisca. Si dice un candelabro a sette braccia, dotato di grandi poteri. Essi non ci appartengono. Già è stato così difficile addomesticare una lanterna del 1221. Immagina tu quali insidie potrebbe nascondere la Menorah originale, fatta interamente di un solo blocco d’oro.”

“Dotto Eremita, saprai certo che il candelabro, simbolo della religione ebraica, è stato trafugato dai soldati romani, quando nel 70 dopo Cristo saccheggiarono il Tempio di Gerusalemme. L’episodio venne registrato nei bassorilievi dell’Arco di Tito, eretto sui colli del Palatino dove si celebravano le gesta imperiali.”

“Così documentano i reperti archeologici. Quest’Arca potrebbe essere un’imitazione, lasciata incustodita dai Templari.”

“Illuminato Eremita, grazie all’Arca dell’Alleanza, potremmo comunicare con Dio. Mosè lo faceva e, secondo quanto racconta la Bibbia, il signore si sedeva su di un trono, tra due statue di cherubini d’oro ad ali spiegate.”

“Papessa tu custodisci molti segreti, ma non ti bastano vedo. La tua sete di conoscenza rimane infinita. Comunque, secondo altre testimonianze, dall’Arca scaturirebbero lampi di luce divini, capaci d’incenerire chiunque. L’Arca non ci appartiene. Abbiamo altri mezzi per interagire con l’Onnipotente.”

“Rispetto la tua posizione, dotto Eremita. Sono venuta qui su suggerimento del Mago. Secondo lui, nella lanterna potrei incontrare tracce della Sfinge.”

“Io, per prudenza Papessa, non inseguirei le pratiche dei negromanti.”

“Perché sei diffidente verso la tua fedele compagna di viaggio, che ha illuminato i sentieri più oscuri e risolto le situazioni più ingarbugliate?”

“Perché non sarà mai più quella di prima! Tanto è che voglio lasciarla nella Cripta dei Tesori per sempre!”

“Non capisco. Spiegati meglio.”

“La frequentazione dell’abisso ha alterato la sua natura. Avrà cambiato anche i poteri. E’ stata contaminata. Non sarà mai più quella di prima, ripeto.”

“Sei sospettoso per natura.”

“Sono prudente. Comunque, se lo desideri, sei libera di fare la tua ispezione personale. Io vado e ti lascio tranquilla. Tuttavia rifletti bene, prima d’entrare nella lanterna. Potresti non uscirne mai più.” Di solito le raccomandazioni gratuite, anche se fondate, vengono male interpretate e spesso sembrano inutili. La sordità non coinvolge i bambini, ma soprattutto gli adulti, che sono più presuntuosi e più temerari. 

All’improvviso la Papessa scorge la sagoma di una Sfinge alata, svolazzante all’interno della lanterna, subito l’insegue per non perderla di vista, attraverso le maglie dell’infinitesimo. Sperava in cuor suo di riabbracciarla, dandole un poco della sua energia. Dolce illusione che il genio camaleontico della lanterna le stava infondendo, per impedirle d’avere piena coscienza di quanto stava accadendo. Appena riesce a toccare l’amata creatura, avverte l’onda di un’orribile metamorfosi. Le spuntano le ali dell’Aquila, e le mani, sottili, diventano pelose come zampe di Leone; il corpo, esile e arrotondato, diventa tozzo e muscoloso come quello di un Toro; ed anche il viso, oblungo e pallido, si trasforma in quello di una bella, giovane Donna.  

Per un certo tempo la Papessa assomiglia alla mitica Sfinge. Poi subentra un nuovo cambiamento: sente la propria lingua indurirsi e ogni muscolo del viso irrigidirsi, fino a che l’intero corpo tetramorfo si tramuta in un monolito granitico, incapace di muoversi e d’agire. Infine, inerte, scivola inesorabilmente nel fondo dell’abisso. La sua fine tormentata le rammenta la drammatica metamorfosi della creatura amata, oramai troppo lontana per essere sfiorata.

 

 

 

67

I poteri dell’anello nuziale

 

Il genio proteiforme della lanterna questa volta rispunta fuori assumendo le fattezze della Papessa. “Il Mago mi passa accanto e in un orecchio mi suggerisce d’andare a visitare la famosa Cripta dei Tesori, accumulati dall’Eremita a nostra insaputa.” Solitamente altezzoso, l’Imperatore si ferma ad ascoltare e presta molta attenzione alle confidenze del simulacro della Papessa, di solito poco propensa alle chiacchiere. “Io allora, incuriosita, mi faccio accompagnare dai valletti, perché in questa dimora, senza una guida al tuo fianco, ti perdi e ti ritrovi allo stesso posto.”

“Hai ragione, mia buona amica. Dovrebbe essere chiamata Labirinto. E poi non sapevo che esistesse una Cripta dei Tesori. Tutti i saggi ne raccontano una ai famigli e ne tengono cento per sé.”

“Sei stato informato; nelle vesti di primus inter pares su questi tesori privati dovrai esprimere il tuo parere autorevole.”

 Così anche l’Imperatore vuole mettere piede nella Cripta per non essere da meno e soprattutto in virtù di un diritto all’egemonia conquistato sul campo. Mentre un donzello giocherellone, con una pallina elastica che rimbalzava di qua e di là, faceva strada; gli si affaccia alla mente l’idea di prendere tutto con la forza e di portarlo via, perché sarebbe riuscito a sopraffare gli innocui valletti e a farsi da loro obbedire, ma poi avrebbe avuto contro tutti gli Arcani e il suo Impero sarebbe stato ostacolato sul nascere. Il sogno dell’Imperatore di dominare incontrastato il mondo era un mito e un vizio che gli umani gli avevano trasmesso e non era riuscito a togliersi. Di questa sete di potere un poco si vergognava. Ogni volta che sentiva nascere l’impulso malvagio lo ricacciava indietro, nel limbo delle tentazioni che aveva imparato a controllare.

I valletti guardiani gli intimano un perentorio altolà e gli spiegano che per entrare bisognava attenersi ad alcune procedure. “La Papessa non ha fatto menzione di formalità. Vuol dire che vado prima a fare quattro chiacchiere con l’Eremita.”

“Non serve. E’ solo un piccolo passatempo. Qui, per ingannare le ore, ci si diverte con le carte e con i rari visitatori che per ventura passano qui.”

“Bene donzelli, allora vi accontento. Dite cosa devo fare.”

Il valletto accompagnatore spiega tutto perbene. “Devi recitare la filastrocca: 

Donzello, bel donzello, 

quanti passi devo fare 

per presto avvicinare 

la cripta del castello, 

senza fede e senza anello?”

L’Imperatore si sente preso in giro, tuttavia sta allo scherzo, per non suscitare malanimo e sospetti. Vorrebbe urlare la propria rabbia, ma tra sé ripete l’adagio Parigi vale bene una Messa!, attribuito all’ugonotto Enrico di Navarra, destinato a diventare futuro re di Francia. Fa dieci passi avanti, poi due indietro e così di seguito avanza, dai ventidue passi, al solo, unico passo agognato; alla fine riesce ad avere accesso alla Cripta dei Tesori. Fa un simpatico buffetto ai valletti e chiude la porta dietro di sé, per contemplare quelle meraviglie con calma.

Nuovamente si sente ad un passo dalla realizzazione di tutti i suoi sogni. Brandisce Excalibur. S’inchina di fronte all’Arca dell’Alleanza. Torna a più miti progetti. 

Prende la risoluzione di studiare, nei minimi dettagli, la lanterna, per poterla poi riprodurre. Stava progettando un trono più attraente del precedente, oramai sulla bocca di tutti. Pensava che la lanterna potesse ispirare un capolavoro, degno simbolo della nuova Era che stava per nascere. 

I cambiamenti innescati da quella consultazione dei Tarocchi, per opera del suo studioso più stravagante, non potevano essere disattesi, neanche dall’Imperatore. L’interesse smanioso per il potere però viene rinnovato da un’improvvisa visione. All’interno della lanterna compare il trono in miniatura. L’Imperatore gli si fa incontro. Vagheggiava una mirabile fusione, per dare concretezza alla sua volontà di potenza che il genio della lanterna era tornato ad attizzare in lui. Dopo il contatto fatale viene tramutato in una statua di marmo, candida come la neve, in virtù del solito processo dell’irresistibile assimilazione. Per ironia della sorte, proprio accanto al suo inimitabile trono, l’Imperatore vede svanire tutti i sogni di dominio e sente la pietra sgretolarsi e gli atomi sminuzzarsi come tanti sassolini dentro una grande macina cosmica.

Il perfido genio della lanterna si divertiva ad attrarre gli Arcani, alimentandone le aspirazioni più segrete e inconsce. Era soddisfatto delle vittorie ottenute sinora, anche se tutti gli Arcani accostati erano parsi sin troppo remissivi e arrendevoli, senza più voglia di lottare, incapaci di fiutare il tranello, ingenui ad avere ospitato nella propria dimensione un manufatto che era spuntato dalle voragini del nulla e si era insediato, come un cavallo di Troia, nelle mura fortificate del nemico, con i suoi soldati invisibili nascosti dentro. Il genio comunque era fiero di avere appreso tutte le astuzie più segrete degli Arcani, fino a vanificarle.

 

 

68

Disputa tra il Gerofante e il Giudizio

 

Anche il Gerofante è attratto verso la Cripta dal simulacro dell’attiva Papessa. “Sono stata con l’Eremita a fare quattro passi. Riportava la sua lanterna, dove sono custoditi tutti i nostri effetti, che abbiamo dovuto consegnare ai valletti. Così, non vedendo la tua verga cruciforme, ho domandato ove mai fosse. E allora, in un angolo oscuro, ho notato l’Arca del Dio d’Abramo.”

“Non è possibile che l’Arca sia finita nelle mani di un agnostico. Dobbiamo liberarla da questa ignominiosa prigione e trovarle una più degna sistemazione.” Il Gerofante manifesta l’intenzione d’indire una Santa Crociata, per liberare l’Arca finita nelle mani degli infedeli. Così lascia che sia la Papessa a precederlo in quel labirinto di porte e corridoi tanto fastidiosi. 

Mentre parlottavano e procedevano, proprio nell’ultimo corridoio, il Giudizio passa di lato a razzo, come un fulmine, senza salutare, o dire nulla, precedendoli sulla direttiva d’arrivo. Due valletti, tifosi nella circostanza, applaudono all’indirizzo del sopraggiunto vincitore.  

“Signor Arcano segretario, per accedere alla Cripta bisogna indovinare dove si trova il Re di denari. Le mani a disposizione sono tre e bisogna vincerle tutte.”

Il Giudizio sorridente riesce, sotto lo sguardo sorpreso e divertito dei valletti, a prevedere la posizione esatta del Re per tre volte consecutive e quindi si guadagna un bonus d’ingresso nella Cripta, con tanto di firma dell’Eremita. Prende il talloncino e fa per entrare, ma il Gerofante stizzito lo richiama, ad alta voce. “Dove intendete mai andare, segretario? Rispettate le priorità, giacché ero davanti. La buona educazione, prima di tutto.”

Il Giudizio si blocca e si giustifica, dicendo di avere premura per via della sua funzione. “Il presidente ha concesso all’assemblea una pausa di ventidue ore. Anche quel vostro trascrivere tanto importante, sulle nostre dotte dissertazioni, può aspettare.”

 Come un cane bastonato, con la coda tra le gambe, tornato lento sui suoi passi, il Giudizio si vede strappare il bonus da una perfetta zampata del Gerofante. “Questo è vostro! Lo so, ma ora è mio! Così mi risarcite del gesto maleducato! E poi cosa credete, segretario, che io giochi con questi sciocchi inservienti? Ho sempre tuonato contro le attività ludiche e licenziose. Potrei pietrificare questi due donzelli, con un solo sguardo. Agendo così, fate anche del bene segretario. Datemi strada.”

La Papessa intima ai valletti di tacere e come risposta spalancano la porta al Gerofante. Lo invitano ad accomodarsi e rendono omaggio con un deferente baciamano, nel ritirare il bonus. Poi guardano il Giudizio in faccia, con aria interrogativa. 

“Non sono una spia. Torno più tardi e vi batto di nuovo.” Ostenta dignità il segretario. In genere era sempre il più lesto e il più furbo ad averla vinta, ma quelle abitudini non andavano certo prese ad esempio e aveva ragione quel pedante a voler imporre delle regole, specie nel momento in cui gli faceva comodo. Sanno i potenti gestire la propria immagine a meraviglia e riescono anche ad apparire schietti e simpatici, proprio perché la menzogna è il loro forte e sanno anche ritagliarsi spazi di virtù che non hanno mai posseduto. 

Di fronte all’Arca dell’Alleanza, il Gerofante s’inginocchia come fa il chierichetto che passa tante volte in un giorno di fronte al Santissimo dell’altare maggiore. Una genuflessione frettolosa, appena accennata, perché la partita che stava giocando era un’altra. Nella Cripta semi buia riusciva a scorgere la sua verga cruciforme. Essa risplendeva, dove le due traverse s’intersecavano e prendeva vita il vortice della quintessenza. 

Nel mezzo della stanza campeggiava, con aria di sfida, quella beffarda lanterna. Non era riuscito a domarla e voleva renderla inoffensiva. Forse l’Eremita doveva averla sottratta ad un occultista, intrugliando sapienza e imbrogli da rigattiere, scambiandola con qualche oggetto senza valore, se paragonato alla preziosità avuta in cambio. Lo sposo della quintessenza lamentava di non avere con sé la verga cruciforme che, unita al possesso della lanterna, gli avrebbe dato il dominio su tutti gli Arcani buoni, un poco anche con la complicità dei cattivi.

Il genio proteiforme quasi sembrava ascoltarlo e fa brillare all’interno della lanterna la sua verga poderosa, inducendo il Gerofante a miniaturizzarsi per prenderla.  In breve riesce a ghermirla e ne esce vittorioso. Adesso, con l’arma cruciforme stretta nella destra, il Gerofante fa anche per afferrare, con la sinistra, la lanterna, convinto di poterla domare completamente, ma innesca una sorta d’imprevedibile reazione a catena. Sente le proprie fibre vibrare intensamente, come se una corrente elettrica impetuosa lo attraversasse: dalla mano sinistra alla destra. Istintivamente fa per liberarsi, sia della lanterna, sia della verga, ma la scarica lo teneva saldamente incollato a loro. Interpreta quanto stava accadendo alla luce della cabala: 

9 < 5 < 4 = 1 + 1 + 1 + 1

La luce prodotta dalla lanterna fiaccava la quintessenza e gli elementi primordiali erano scissi in Aria, Acqua, Terra e Fuoco. Intuisce troppo tardi quanto stava per accadere: una parte della sua verga cruciforme liquefà, una si polverizza, una prende fuoco, una s’invola; e nel centro, dove stava la quintessenza, si spalanca un vortice che lentamente attrae e risucchia il Gerofante verso il nulla. 

Era stato uno sciocco a entrare in quella trappola che l’Eremita aveva ordito contro di lui, chissà da quanto tempo e forse tutta quella sceneggiata, costruita insieme all’Uomo dei Tarocchi, faceva parte di un unico piano magistrale. Soffre terribilmente l’Arcano del Gerofante e, in ultimo, chiede perdono a Dio per tutti i peccati, per ritagliarsi un angolo di futura vita beata. Attinge a tutti i suoi poteri, ma invano, per non affogare nei gorghi del nulla. Invoca anche aiuto e spera che la sua voce all’interno della Cripta possa essere udita.  Purtroppo quei bighelloni dei valletti non facevano altro che passare il tempo a parlare, a raccontarsi stupidate e a ridacchiare su tutto, senza sapere perché. E la sua ultima maledizione è proprio rivolta verso di loro.

 

 

69

Breve idillio tra l’Imperatore e l’Imperatrice

 

Frattanto un galante e impertinente simulacro dell’Imperatore, di ritorno dalla sua passeggiata, s’accosta all’Imperatrice, facendole la proposta più incredibile della sua vita. Non le era mai piaciuto quel condensato di virtù, eterna madre e poco attraente, casta e pura per inseguire un amore impossibile: l’Innamorato: un vanesio dongiovanni, senza arte né parte. Dopo quel parto odioso, però, a vederla, sembrava più desiderabile e soprattutto più vulnerabile, perché non aveva più difetti da nascondere ed era meno aristocratica e quasi tollerabile.

“Nobile Imperatrice sposiamoci. Oggi sono rimasto folgorato dalla tua divina bellezza.”

“Mio Imperatore, non è certo questo il momento più opportuno per valutare una proposta così importante.”

“Voglio un matrimonio regale, con il cerimoniale più sfarzoso e tutto il resto; anche la musica; con il Gerofante che ci incorona. Fin dagli inizi della nostra storia, un matrimonio sarebbe stato il vincolo più logico e sacro per unirci. Io sono il quarto Arcano, l’Imperatore, consorte ideale del terzo Arcano: l’Imperatrice. Eccoti il mio anello: pegno del mio amore.”

L’Imperatrice lo prende e non lo getta sdegnosa a terra, come avrebbe fatto un tempo. Poi lo pone al dito anulare della mano sinistra, quello dei fidanzati. Rivolge un pensiero al suo tradizionale spasimante. Da impenitente aveva smesso di pensarla e si era mosso a corteggiare la Forza, sicuramente la più bella Donzella del gruppo.

L’Imperatrice s’accomiata dal simulacro dell’Imperatore, per cercare l’ispirazione e una risposta definitiva nelle sue stanze. Sarebbe tornata presso di lui, a breve, perché l’amore non è giusto che soffra l’attesa: la peggiore tra tutti i tormenti erotici, quando si protrae oltre i limiti.

Così, nell’appartamento riservatole, comincia ad assopirsi, per via dell’anello, come accadeva nelle fiabe scritte per i bambini. L’Eremita, quando era giovane, le leggeva storielle, per farla rilassare, osservando quanta saggezza sparsa s’incontrava in quei sermoni, che si leggono per i più piccoli, quando ne hanno meno bisogno. V’era una favola, in particolare, che gradiva sopra le altre e tentava di far riaffiorare dai meandri della memoria. 

Tuttavia il suo tempo impietoso fuggiva via. Rammentava solamente sprazzi della trama. E allora cercava di ricostruire il filo della storia, partendo dal suo inizio. Poi si smarriva nell’intreccio e non riusciva ad intravederne la fine. Che ne sarà stato poi del Gatto con gli stivali, si domandava. Non ricordava in alcun modo che, in maniera inattesa e sorprendente, il Gatto era diventato nobile ed era servito e riverito. E non correva più dietro ai topi, se non per divertimento.

 

 

70

L’Antro della Musica e i dodici zecchini d’oro dell’Appeso

 

Nel volersi accollare la paternità del nascituro, l’Appeso aveva dimostrato d’essere disposto al sacrificio personale, ma non aveva ancora ricevuto quei tangibili segni di gratitudine che forse avrebbe meritato. Triste e malinconico, in disparte, rimuginava sul suo inutile coinvolgimento, poi smentito dai fatti. Per troppo tempo era rimasto isolato da un mondo che stentava a capire e non sarebbe mai migliorato. Era deciso a tornare all’eterno supplizio, dove perlomeno non giungeva l’eco dei contrasti insanabili e degli egoismi soverchianti tutto. Stava cercando di guadagnare l’uscita, con la ferma intenzione di lasciare l’assemblea, quando si sente attratto da una musica che sopraggiungeva inattesa da un angolo imprecisato della dimora. Poiché in quei cunicoli correvi sempre il rischio di perderti e i valletti parevano essersi concessa una vacanza, l’Appeso si lascia guidare dalla melodia che aveva il potere di sedurre. Improvvisamente sbuca in una cavità maestosa, costellata da superbe stalagmiti e stalattiti, dove il Primo Famiglio Perimene aveva ricavato ventidue grottesche veramente mirabili. Fantastici giochi d’acqua mettevano in moto strumenti musicali e delicati carillon. Lo spettacolo era pressoché continuo; perché quando la musica di una grottesca si zittiva, subito dopo cominciava quella adiacente e così l’ospite poteva deliziarsi con ventidue brani, tra i migliori mai scritti al mondo. Alcune rudimentali panchine in pietra, poste a ridosso delle grottesche, davano modo d’apprezzare le note scaturite dalla forza di caduta dell’acqua, perennemente alimentata dal fiume sotterraneo che aveva scavato quelle gallerie carsiche. L’antro della Musica era l’ultima creazione di Perimene. La composizione una piccola notte musicale di Amedeus Mozart al momento sintetizzava l’estro geniale e felice dell’autore. La seducente e sognante atmosfera notturna induce l’Appeso a sostare e abbandonare l’idea di un’improvvisa partenza.

Sulle tracce dell’Innamorato, il simulacro dell’Imperatrice vagava frattanto alla ricerca della prossima vittima sacrificale. Anche lei si lascia guidare dalle note e va a sedersi accanto all’Appeso, che neppure ne avverte la presenza, perché era tutto immerso in quella mescolanza giocosa d’acqua e di musica. Il sussurro che ascolta, in un primo momento, gli sembra faccia parte dello spettacolo che prevedeva anche una simbolica presenza femminile al fianco. Ne riconosce poi i lineamenti, in virtù delle parole carezzevoli e amorevoli. “Ti ho portato quest’anello, che vorrei fosse tuo, come pegno di riconoscenza. Tienilo. Un giorno potrai ricambiare il dono, se, come spero, desidererai essere il mio compagno ideale. Sei il migliore di tutti noi e meriti una presenza accanto che possa riempire la tua solitudine antica.”

Nel sentirsi amato l’Appeso non riesce a nascondere l’emozione: gli occhi gli s’illuminano di gioia, il carnato del viso arrossisce un poco per la vergogna e i capelli lunghi e arruffati, intrisi ancora di zolfo, diventano più elettrici e prendono ad agitarsi, come fossero mossi dal vento. Prende l’anello tra le mani e lo stringe, come avrebbe fatto con l’innamorata, se ne avesse avuto il coraggio e non fosse stato sopraffatto dall’innata timidezza.

Se il simulacro dell’Imperatrice fosse rimasto nell’antro, ad ascoltare i brani musicali scaturiti dalle grottesche, sarebbe stato trasfigurato da quella fonte miracolosa. A detta di Perimene ‘la voce prodotta da sette note ha il potere di trasformare e tutta la genesi e pure l’Apocalissi può essere descritta da una sequenza di la e di sol; e l’armonia, insita nella programmazione, permea il tutto’. Della massima andava fiero il Primo Famiglio: unico in tutta la dimora a possedere un suo gusto musicale raffinato, che si era concretato nell’opera più straordinaria. 

Neppure l’Eremita si era degnato di fermarsi a gustare tutto lo spettacolo nella sua pienezza, per la troppa fretta d’inseguire frammenti di filosofi, epigrammi enigmatici e altre diavolerie dell’esoterismo. E questo era il cruccio più dolente per il Primo Famiglio, a suo modo incompreso, anche da chi gli aveva trasmesso la vita. 

In quella circostanza, grazie alla presenza della truppa angelica, Perimene sperava di far apprezzare al Giudizio, vero talento musicale, la sua creazione. Benché fosse stato invitato a passare una giornata nell’antro della Musica, Giudi aveva sempre accampato scuse strampalate di prove, o non so cosa, per cui il Primo Famiglio aveva rinunciato definitivamente all’idea di aver trovato un suo degno compagno di gusti musicali e si era limitato a constatare che ‘la fretta e i progetti individuali impediscono d’ascoltare la voce della sapienza sparsa che le note racchiudono’. 

“Vado a meditare per dodici giorni. Quest’anello potrebbe cambiare la mia vita. Non voglio farti aspettare molto. Già hai troppo sofferto le indecisioni dell’Innamorato.” L’Appeso sceglie un albero, nella millenaria foresta pietrificata e vi si arrampica sopra. Vi si lega, utilizzando la fune portata con sé e annodata alla vita. Dai valletti era stata scambiata per un comune cordone francescano, facente parte del suo abbigliamento, altrimenti sarebbe stata sicuramente requisita. Con l’anello d’oro al dito, preposto ai legami nuziali, l’Appeso si lascia penzolare a testa in giù, per trarre ispirazione sulla sua scelta futura. 

Dopo esattamente dodici minuti, perché anche i geni malefici devono rispettare e rafforzare la cabala, l’anello, tiepido, secondo la logica dell’Appeso, per essere stato stretto dalle mani appassionate dell’Imperatrice e invece tale perché animato, diviene sempre più freddo e un gelo progressivo comincia a propagarsi attraverso il corpo penzolante, trasformandolo in una statua di ghiaccio.  Conseguentemente la fune congelata perde consistenza e non regge più al peso, fino a che la vittima impotente cade al suolo e l’impatto ne frantuma il corpo in dodici tronconi. In questo caso anche il dolore vuol mettersi in sintonia con la cabala, che, attraverso i numeri, misura l’energia presente nei fenomeni: sintesi dei suoni primordiali, da cui il mondo visibile ha avuto origine.

L’anello dell’Imperatrice improvvisamente sviluppa lingue di fuoco e tutti i tronconi ghiacciati dell’Appeso prendono a liquefare, fino a che lentamente vengono assorbiti dalle zolle della terra. Abituato da secoli al sacrificio, l’Arcano non oppone alcuna resistenza, ma patisce stoicamente questa dolorosa trasformazione, perché il Genio gli sussurrava l’idea che l’Imperatrice volesse metterlo alla prova e vedere se fosse disposto anche a dare la vita per amore. Vagheggiava che, all’ultimo momento, sarebbe apparsa accanto a lui, per riprendersi l’anello incantato. Così si sottopone a quel tormento, in attesa di scorgere la mano amata della sua Donzella portargli la salvezza. E l’innamorata impietosa, finalmente giunge al suo capezzale, non per risanarlo, ma per assistere da vicino al trapasso dell’Appeso con cinica indifferenza.

 

 

71

La curiosità di Arcitorre

 

Quando il corpo liquefatto dell’Arcano penetra del tutto nella zolla, confondendosi in essa per sempre, il simulacro dell’Imperatrice raccoglie il suo pegno d’amore. Poi compiaciuta, pensa d’incontrare l’Innamorato, per fare un’altra illustre vittima. 

Costui frattanto stava cercando di fare colpo proprio sulla Forza e si era seduto al suo fianco spasimando. I giardini della foresta pietrificata, abbellita con panchine liberty, erano diventati il luogo ideale d’ogni incontro. La Donzella, piuttosto visibilmente, pativa quel corteggiamento inopportuno a cui avrebbe voluto sottrarsi.

Il simulacro dell’Imperatrice voleva creare una barriera che dividesse per sempre quei due mezzi colombi, perché provava gelosia nel vedere l’Innamorato a fianco di una bella ed energica pulzella. Sebbene il terzo Arcano fosse svanito nelle recondite anse del nulla, il suo simulacro aveva assimilato in tutto e per tutto la sua personalità per apparire credibile, affinché nessuno sospettasse di quello che stava succedendo.

Un’irrefrenabile, astiosa rivalità sospingeva l’Imperatrice dritta verso l’Innamorato, ma improvvisamente incrocia l’Eremita e l’abbraccia, come si fa col proprio vecchio padre al quale si dà un ultimo saluto, prima del definitivo commiato. Non voleva essere lei a causarne la morte e per questo gli racconta che stava cercando invano l’Appeso, per ringraziarlo in privato del suo gesto, ma che non era riuscita a incontrarlo. 

L’Eremita la rassicura dicendole che l’avrebbe trovato presto e glielo avrebbe riportato indietro più ammorbidito.

All’Innamorato, l’Imperatrice rinnova tenere promesse d’amore. “Sono venuta per darti l’anello nuziale, con incisa la data del nostro incontro.” Il simulacro fa il gesto di porgergli l’anello, ma lui, indelicato, lo lascia volutamente cadere a terra, come se fosse uno schifoso e nauseabondo insetto, o una serpe della peggiore specie. Vuole rompere definitivamente con Colei che non aveva più ragione di desiderare, perché non era più illibata. Insegue un altro amore che pure non sarebbe crollato ai suoi piedi tanto facilmente, ma questo avrebbe reso il corteggiamento più appassionante. L’Innamorato spudoratamente voleva mortificare l’Imperatrice con un gesto volgare, proprio per non averla più tra i piedi. La Donzella inorridisce di fronte a tanta mancanza di sensibilità e sta per chinarsi e riconsegnare l’anello all’Imperatrice, la quale è però più lesta nel riprenderlo e si lascia umiliare; non vuole che l’anello magico cada in mani estranee e perda così le sue proprietà, perché ogni tipo d’incantesimo funziona solamente se viene in contatto con coloro per i quali è stato pensato. In questo caso l’anello poteva funzionare solamente con gli spasimanti di tipologia maschile: come l’Appeso e l’Innamorato.

Frattanto l’Eremita giunge proprio al limitare della foresta pietrificata, dove penzolava l’Appeso in meditazione. Aveva lasciato cadere al suolo inopinatamente i dodici zecchini che si portava dietro, perché le tasche del giubbetto si erano capovolte e avevano generosamente dato tutto il meglio si sé. Sul momento l’Eremita neppure li scorge, ma il simulacro malvagio glieli fa notare, pregandolo di raccoglierli. “Fammi il favore di custodire per me queste dodici rarità. C’è un andirivieni strano di Tarocchi e valletti e non mi fido di nessuno. Sono monete più antiche e preziose delle tanto pubblicizzate pepite alchemiche, distillate da Arcitorre. Senza l’aiuto d’alambicchi e di fuochi, sono il frutto spontaneo dei miei primi dodici anni di costante meditazione. Ogni anno, dodici gocce del mio sudore cadevano al suolo e ne germinava una moneta grezza del peso di dodici grammi con su inciso il dodici, in numeri romani.”

“I Tarocchi sono una famiglia veramente prodigiosa. Peccato che sappia pubblicizzare poco se stessa. E sia nota a tutti solo per predire il futuro, che poi è quello che conosciamo meno. Ognuno tiene nascosto per secoli il migliore di sé, purtroppo.” Mentre fa parlare l’ironia unitamente alla saggezza, l’Eremita strappa un pezzo di panno del proprio mantello e con estrema cautela, senza toccarle, raccoglie le dodici monete; poi le sotterra, proprio a un lato dell’albero, sotto gli occhi strabiliati dell’Appeso.  

“Non hanno mica la peste bubbonica! Sono autentiche.”

“Lo so, per questo sono così pieno di cautela. Nulla di aureo, estraneo a me, può interferire con la mia persona, perché io ne assimilo l’energia e l’oro poi si trasforma in rame. Dodici zecchini d’oro sono una fortuna di cui non voglio appropriarmi. Li sotterro qui, accanto a te, e te li riprendi, quando ti decidi a scendere. L’Imperatrice va in giro dicendo che non riesce a trovarti. Vorrei che tu le facessi visita quanto prima.”

“Rimango qui, ancora per poco. Tutta questa confusione mi sta dando fastidio.”

L’Eremita quindi toglie il disturbo e lascia il mistico alla sua abituale meditazione. Osserva compiaciuto tutto quel pullulare di Arcani che gironzolavano per scoprire le tante curiosità della sua dimora, meno sobria di come l’avevano immaginata quelli che non la conoscevano bene. Voleva riferire all’Imperatrice e la ritrova ancora inviperita e intenta a ricoprire l’Innamorato di tutti gli improperi possibili e immaginabili. Allora torna sui suoi passi; preferisce non immischiarsi in quella lite, per non dovere prendere partito. Più avanti incontra Arcitorre mentre bighellonava senza meta e, in tutta buona fede, lo spedisce a far visita all’Appeso. “Avete in comune qualcosa voi due: la ricerca alchemica sopra di tutto.” E gli racconta che aveva sotterrato in terra dodici zecchini d’oro purissimo.

Sospinto dalla curiosità, Arcitorre ha un moto d’interesse verso il meccanismo fisiologico da cui era germinato naturalmente l’oro non coniato dell’Appeso. Così ha inizio una dotta dissertazione sull’oro degli alchimisti e il suo significato spirituale, oltre che fisico. L’elevato grado di perfezione morale raggiunto dall’Appeso era dimostrato dal fatto che il suo sudore poteva far germinare dalla Terra degli zecchini d’oro purissimo. 

Con spasmodica passione Arcitorre prende a dissotterrare le dodici auree monete con il consenso benevolo dell’Appeso, ancora nella sua posizione consueta, con una gamba piegata a rombo sull’altra, distesa per formare un simbolo alchemico. Prende a esaminarle a una a una, calamitato dalla lucentezza del conio purissimo. Basito, le tocca e le ritocca, le gira, ne ispeziona il bordo filettato e il numero dodici visibilmente in rilievo sulla testa della moneta. Quegli zecchini avevano soprattutto il potere di trasformare chiunque li toccasse in oro purissimo, ne assimilavano l’energia e si dissolvevano poi in una miriade di granelli di sabbia. Per un verso, rimandavano alle vicende del leggendario Re Mida, punito per la sua sete di ricchezza da Dioniso e costretto poi a bagnarsi nelle acque di un fiume per cancellare gli effetti dei suoi poteri straordinari e non morire di fame e di sete, perché le sue mani trasformavano tutto in oro, desiderio che il dio aveva esaudito alla lettera, costringendo il Re di Frigia e i suoi emuli a una riflessione sulla propria cieca cupidigia.  

 Arcitorre è invaso dalla frenesia di possedere il segreto della natura racchiuso nei metalli. Lo stato smanioso d’eccitazione non si placava mai, ma anzi trasmetteva una voglia spasmodica di toccare ancora tutte le monete che si polverizzavano nelle mani, penetravano nei pori e scorrevano come linfa nelle vene. La strategia del Genio malefico era oramai davvero collaudata e sempre la medesima: incantare e ingannare gli Arcani, solleticando quella che era la loro aspirazione più profonda. Era questione di tempo. Nessuno sarebbe riuscito a resistere.

Arcitorre avrebbe potuto svelare il sapore del metallo più prezioso, perché anche la sua lingua si era trasformata in oro. 

Il simulacro dell’Appeso, disceso dall’albero dal quale penzolava, spalanca uno squarcio profondo nella terra, entro cui getta l’oramai inutile fune del supplizio, proprio per anticipare e mostrare quello che sarebbe di lì a poco successo. La vittima, sebbene trasformata in una torre alchemica tutta d’oro, ancora manteneva una propria consapevolezza. Prigioniero del proprio oro e della propria mole, Arcitorre non riusciva a muovere un passo e neppure a chiamare aiuto, quantunque tentasse, mentre la fenditura della terra diventava sempre più profonda e prossima.

L’aurea monumentale creatura è inghiottita di schianto, abbattuta impietosamente da una folgore scaturita dal nulla. Terrorizzata, sente vacillare ogni certezza e rivede la carta dei Tarocchi della tradizione iconografica consolidata, con sopra la dicitura: la casa di Dio. Il Trionfo mostrava una torre medioevale che crollava miseramente, colpita da un fulmine poderoso, partorito dalla mano della Provvidenza. 

Arcitorre, sconvolto e sconquassato, sprofonda sotto il pesante fardello di un improbabile giudizio supremo e maledice il destino avverso, ma, per coerenza, non s’abbandona alle facili lusinghe del pentimento. Tradire il proprio credo nell’ultimo istante, sarebbe equivalso veramente a sparire per sempre nell’oblio. Imperituro sarebbe stato invece il messaggio per le genti future, se mai qualcuno avesse narrato quegli ultimi istanti fatali e il suo mancato ravvedimento. Ripeteva con determinazione i versi di Dante:

“Sta come torre ferma, che non crolla

già mai la cima per soffiar di venti.”

Ne riceve del vigore effimero, per resistere ancora inutilmente. Poi le infinitesimali stringhe levigano a poco a poco Arcitorre, fino a fare sparire tutte le iscrizioni che vi campeggiavano sopra e così, insieme all’Arcano, vengono anche per sempre inghiottiti tutti i segreti dell’alchimia, inseguiti per tanto tempo, con tanta dedizione e passione, perché il nulla rivoleva tutto indietro per sé e lo sigillava come un avaro nel suo forziere, per non condividerlo con nessuno.

 

 

72

Gli scherzi demenziali del Folle

 

Cinque simulacri: Mago e Folle, con la complicità della Papessa, dell’Imperatore e dell’Imperatrice, decidono d’architettare una trappola ingegnosa per avere ragione degli Arcani simbolo del macrocosmo che sovrasta le umane sorti: Arcistelle, Arciluna e Arcisole. I tre poderosi predestinati vengono presi per mano e accompagnati personalmente dal Folle, per scommettere contro le note qualità di prestigiatore del Mago, il quale sopra un piccolo tavolino sgangherato mischiava e mostrava le tre classiche carte. Il giocatore doveva indovinare in quale posizione era andato a nascondersi il famoso Re di denari, danzante tra una Dama e un Fante dello stesso seme, a tempo di polka e mazurca, suonate per l’occasione dai disponibili valletti, che improvvisavano una simpatica orchestrina paesana e sapevano ricreare l’atmosfera conviviale di un villaggio medioevale in festa.

L’Imperatrice e l’Imperatore mostravano di divertirsi un mondo. La Papessa, abbandonata la sua postura aristocratica e distaccata, era entrata appieno nel ruolo dell’accanita giocatrice che faceva da esca. Alla fine, indovinata, per tre volte, la posizione del Re di denari, il vincitore guadagnava una statua di gesso senza valore: il classico premio ottenuto al parco dei divertimenti, dopo avere centrato una serie di bersagli con un fucile ad aria compressa. 

Anche i tre Arcani cosmici, travolti da quell’atmosfera festosa, decidono di fare la loro scommessa. Chi perdeva per tre volte, doveva andare in una gogna e prendersi in faccia un lancio di pomodori e uova marce: un classico demenziale, ispirato alle feste paesane.

Ideato dallo Zero, questo trabocchetto voleva essere anche il più divertente di tutti e non sarebbe stato superato da nessun altro. Il premio era sempre lo stesso: la statua di gesso del Folle, che ridacchiava e stringeva tra i denti la carta corrispondente a chi aveva fatto la scommessa e vinto la posta in palio.

Il primo vincitore, Arcistelle, s’allontana contento d’aver guadagnato il trofeo, a ricordo di quella giornata. Dato che era abbastanza ingombrante e non voleva lasciarlo incustodito, decide di portarlo all’interno della propria stanza. Dopo averlo poggiato a terra, con grande sorpresa, vede la statua del Folle animarsi, con scatti e scricchiolii. Ben presto quell’infernale balocco riesce persino a esibirsi con movenze leggiadre e grazia femminile, danzando sulle punte come nel balletto classico e agitando la carta delle Stelle divenuta per l’occasione un ventaglio.La coreografia termina con un inchino e un bacio sonoro sulle gote della donzella rivestita dal firmamento. Poi, improvvisa e beffarda, spunta una forbice, tratta fuori dal taschino del giubbotto variopinto del Folle. L’icona numero 17 viene sminuzzata con mano ferma e dispettosa perfidia. Quei gesti fatali, come nei sortilegi magici, poco dopo si riflettono dalla carta all’Arcano, reciso in altrettante parti da una forza misteriosa. Istintivamente la vittima predestinata fa anche il gesto di fermare il Folle, ma era del tutto inutile, perché il braccio sollevato in aria, della meravigliosa ragazza piena di stelle, è tagliato di netto e cade al suolo. Annichilita, subisce passivamente diciassette amputazioni, innescate dal perverso incantamento, tante quante il numero corrispondente al Trionfo delle Stelle, perché fosse rispettata la cabala. Alla fine il Folle raccatta diligentemente il tutto con una scopa. Apre uno spiraglio dell’abisso sul pavimento e vi getta dentro la donzella stellata, immota e sospesa tra ilarità e orrore.

Anche Arciluna viene recisa, diciotto volte però.

Arcisole soffre di più, perché il Folle tagliuzza con precisione da certosino solamente le parti adulte della carta e risparmia i due fanciullini spensierati, che giocavano nel giardino della Città del Sole, difesa da ciclopiche mura.

Il rituale magico aveva sempre un occhio di riguardo per la cabala e mai si sarebbe permesso di offenderla. Gli Arcani più importanti, che condensavano le energie del macrocosmo, erano stati imbrigliati da una stregoneria: sorprendentemente assimilati alla propria carta corrispondente, perché solo lei poteva subire un qualche tipo di danno e di maleficio. Senza quella carta tra le mani perfide del Folle, gli Arcani cosmici erano in sostanza immortali e nessun altro sortilegio avrebbe mai potuto far breccia nei loro poteri. Erano finiti nel modo più inglorioso di tutti: a terra e poi erano stati spazzati via e gettati nella spirale del nulla. Davvero non avevano avuto modo di reagire; perché il Folle, nella sua azione, era stato rapidissimo. Erano suoi amici in fondo e non voleva farli soffrire troppo.

 

 

73

L’Innamorato sulle tracce di Cupido

 

Trasformatosi in batrace, il simulacro della Luna prende consistenza da un piccolo laghetto sotterraneo, dove Cupido si divertiva a saltellare da una roccia all’altra e ogni tanto finiva con lo scivolare giù in acqua perché non aveva preso la corsa giusta. 

Quando, dopo un’ennesima ricaduta, la mitica creatura, aggrappandosi a uno sperone sporgente, mette il naso fuori dall’acqua, si trova faccia a faccia con una ranocchia parlante, la quale si mette ad implorare un bacio appassionato, per essere trasformata di nuovo in una bella principessa dalle chiome bionde e fluenti. Cupido non se lo fa ripetere due volte, perché era galante e sensibile agli spasimi degli innamorati ed anche molto semplice e ingenuo e non pensava che quel bacio potesse essergli fatale. Non fa a tempo a rendersi conto di nulla, perché all’istante è trasformato in una piccola statua azzurrina, trasparente come il cristallo. Affonda lentamente nelle acque del laghetto, dopo avere baciato la ranocchia, quando aveva messo la testa fuori dall’acqua e se la era praticamente trovata davanti e non avrebbe potuto fare diversamente dall’accontentarla. Anche l’animale gli va dietro, per accompagnare con diletto sadico il lento scivolare nel fondo del limo, da dove poi Cupido riaffiora immoto e senza vita, col suo corpo nudo paffutello e tanto carino. Faceva tenerezza a vederlo così e avrebbe mosso a compassione anche la più insensibile tra le creature, ma non commuove quel miscuglio d’incantamento e di nulla, che stava facendo strage dei Tarocchi più illustri senza pensarci sopra, anzi divertendosi un mondo.

 

Frattanto l’Innamorato, respinto dalla Forza, stava pensando di trovare uno sfogo e una consolazione nel suo fedele Cupido. Cerca dappertutto e riesce a scorgerlo, quando oramai ha perso ogni speranza e borbottava le solite cose spiacevoli e irripetibili. Apparentemente Cupido sembrava essere scivolato per gioco nelle acque livide e limacciose del laghetto, forse ingannato e incantato da un anomalo chiarore ivi riflesso, di un’improbabile luna che non poteva certo specchiarsi in quel teatro carsico di cavità infinite.  

L’Innamorato richiama più volte l’attenzione del suo compagno, insensibile ai rimproveri e agli improperi. “Pezzo di scemo! Ti sei anche messo a fare il morto a galla! A quest’ora di notte! A corteggiare la luna! Che non ti vuole, perché sei piccolo e asino!”

“Se mi costringi a prenderti e a bagnarmi ti riporto a casa, anche con le cattive!”

Poiché non c’era verso di farsi ascoltare, alquanto irritato, l’Innamorato è costretto a immergersi nel laghetto anche lui. Lo strattona con forza per un piedino e vede con orrore il suo Cupido liquefarsi nella conca lacustre, per essere inghiottito dal viso sorridente e ironico della luna piena riflessa. Lancia un grido di spavento e si tuffa dentro l’acqua per andare a recuperare il suo adorato compagno. Immergendosi, sperava di riuscire a salvargli la vita mentre stava affogando, ma presto si sente inghiottito da quella luna livida, sempre più possente e insensibile al dolore dell’Innamorato.

Il simulacro della Luna trasmette ogni sorta di spiacevole sensazione, accentua disperazione e angoscia, suscita le visioni più spaventose. L’Innamorato, negli ultimi istanti fatali, conosce tutti gli orrori possibili e immaginabili. Trascinato in un anonimo laghetto, dal profondo affetto nutrito verso Cupido. Di notte, da solo e senza nessun conforto. Liquefatto tra ingannevoli bagliori lunari.

 

 

74

Nuovo cimento tra la Donzella e il leone di pietra

 

Posseduto dal genio malefico ogni Arcano ordiva con cinismo e freddezza una trappola perfetta. Sembrava quasi in atto una sfida tra chi riuscisse a ideare il misfatto più eclatante e involvente il maggior numero di vittime.

Con la consueta flemma e naturalezza il simulacro di Arcisole, per non suscitare sospetti, si accosta alla Donzella, personificazione dell’icona della Forza. “Vorrei essere accompagnato alla mia Città. Sono stanco d’aspettare che il Mago si decida a riprendere i lavori dell’assemblea. Ero rimasto d’accordo con Elios ed Eloissa che mi avrebbero raggiunto qui. Volevano trascorrere qualche giorno fuori, nella dimora dell’Eremita, per distrarsi.”

La Donzella accetta volentieri l’invito, anche perché non voleva più essere corteggiata e importunata dall’Innamorato, che aveva la faccia di bronzo e non si vergognava di niente, nemmeno delle brutte figure collezionate. 

Due cortesi valletti accompagnano i due Arcani verso l’uscita e  spalancano la porta nel rispetto del cerimoniale. Arcisole per gli spostamenti utilizzava le particelle di luce, ma, dovendo portare con sé l’undicesimo Arcano, si era fatto prestare per la circostanza il tappeto volante dal Folle.

“Se tiri il filo con delicatezza, si può anche viaggiare a una velocità moderata ed è possibile ammirare il panorama spettacolare dall’alto.”

Mentre chiacchierano amichevolmente, Arcisole suscita nella Forza la voglia di cimentarsi nuovamente con uno dei famosi leoni. L’altro era un pacioccone e si limitava solo a ruggire. Essi  impedivano l’ingresso nella Città agli estranei e in passato la Donzella aveva invano tentato di domarli senza riuscirci. 

Il padrone di casa carezza il leone feroce per ammansirlo e lui docile si trasforma in una creatura di pietra, che muoveva solo gli occhi e annusava l’aria. “Adesso vado a chiamare i ragazzi, ti presento. Io non basto, sentono il bisogno di una madre e dei suoi preziosi insegnamenti.”

Timida e schiva, la Donzella un poco arrossisce a quell’esplicita proposta fatta con tanta naturalezza. Arcisole le stava offrendo l’opportunità di trovare una dimora finalmente stabile, dopo tanto andare a zonzo senza una meta precisa.

Nell’iconografia ufficiale dei Tarocchi, la Forza, con le sole  mani, rendeva inoffensiva una fiera con le fauci spalancate. In sintonia con l’icona corrispondente, la Donzella aveva incarnato il ruolo della vergine che riesce con la propria energia interiore a domare ogni reazione istintiva e irrazionale dell’intero regno animale. 

Tutto era andato secondo copione, fino al fatidico giorno della grande scommessa, quando il Mago era entrato prepotentemente in scena con un’idea bizzarra. “Metto in gioco la mia verga magica di noce, ricoperta di numeri d’oro. La Donzella non riuscirà a domare il leone in pietra della Città del Sole.” 

La sfida aveva interrotto le continue scaramucce che gli Arcani stavano combattendo tra di loro, per stabilire chi dovesse avere il primato. L’idea di poter disporre in una guerra dei poteri del Mago, neutrale e indifferente alle beghe interne di famiglia, aveva subito fatto scattare un’opportuna tregua. Quasi tutti avevano dato per certa la vittoria della Forza, le cui mani d’acciaio sarebbero riuscite a domare il leone. La fiera invece le aveva amputato metà delle braccia, poi rigenerate dall’energia interiore dell’Arcano.

Nuovamente di fronte al rivale, la Donzella prova l’incontenibile tentazione di ripetere la prova che non era riuscita a superare. Approfittando del fatto che Arcisole era andato a recuperare Elios ed Eloissa, vuole sfruttare l’occasione propizia per iniziare un nuovo cimento, a cui si era preparata da qualche tempo, confidando nella forza erculea delle sue nuove braccia.

Quando fiutava l’approssimarsi di una minaccia, o una presenza ostile e competitiva, l’animale si animava improvvisamente. Anche questa volta il leone dimostra d’essere più forte della Donzella e le dilania le braccia portentose, che improvvisamente prendono a sanguinare come quelle di una creatura umana. La vittima lancia urla strazianti e grida soccorso paventando d’essere divorata. Momentaneamente la fiera sadica si placa e prende a lambirle il sangue che esce dalle ferite e ne osserva il viso, mentre impallidiva dall’orrore e diventava sempre più cereo per l’emorragia.

La Forza cerca invano di trovare le energie per contrastare la malia incomprensibile, perché non aveva senso né il suo sanguinare, né il suo dolore. Neppure sospettava che un genio malefico si fosse impossessato anche del potente Arcano del Sole, di cui tutti conoscevano l’onestà e la bontà. La Donzella, agonizzante e incapace per la debolezza di proferire parola alcuna, invano aspettava che giungesse l’atteso aiuto.

Frattanto la belva tranquillamente si dirige verso la scalinata monumentale di diciannove gradini, dalla quale scendevano festosi Elios ed Eloissa, che al solito amavano scambiare le consuete coccole con la fiera, verso di loro sempre mansueta ed obbediente. Sotto gli occhi impassibili e compiacenti del simulacro paterno, il leone infierisce con alcune zannate sui due giovinetti. Gli artigli penetrano nelle tenere carni dilaniandole. Ricevono diciannove colpi mortali. Il sangue zampilla copioso dal petto di Elios e dalla schiena di Eloissa. Indifferente allo strazio, Arcisole non impedisce che il leone, dopo averli ferocemente dilaniati, li sbrani e li divori, mentre erano ancora vivi e agonizzanti.

 

 

75

Vano miracolo 

 

Dopo il cruento spettacolo, il simulacro fa ritorno alla dimora dell’Eremita e cerca la complicità di un altro malvagio, senza il quale non sarebbe riuscito ad avere ragione di uno tra i Tarocchi più temibile e poderoso: la Morte. “Presto, aiutatemi! Ve lo chiedo in ginocchio! Ahimè non sono riuscito a fermare il leone di pietra. E’ fuori da ogni controllo. Ha sbranato Elios ed Eloissa, davanti ai miei occhi. Solo Voi due uniti, il Gerofante e la Morte, potete fare qualcosa. Ridare loro la vita. Annullare il maleficio e uccidere il leone assassino.”

Dimostrando compassione, prontamente i due subito accorrono in aiuto di Arcisole, perché non resistono allo strazio e alla disperazione.

“Sento i loro corpi ancora muoversi nelle viscere. Dobbiamo far vomitare il leone.” Con la sua verga cruciforme spuntata dal nulla, il quinto Arcano disegna sulla nuda terra una grande stella a cinque punte racchiusa entro un cerchio perfetto. “Riuscirò a ridare loro la vita, quando i brandelli saranno stati deposti entro il simbolo della quintessenza.”

La Morte brandisce la sua temibilissima falce e costringe il leone ad acquattarsi entro il pentacolo e a vomitare il fiero pasto. Il miracolo portentoso avviene esattamente com’era stato previsto: Elios ed Eloissa si ricompongono e vispi corrono verso i loro salvatori, in segno di giubilo e di ringraziamento. Il Gerofante però solleva alta la sua verga e i due fratellini sono tramutati all’istante in statue di sale. Anche la Morte, mentre stava di spalle ed era andata loro incontro per abbracciarli, viene all’istante e a tradimento tramutata in un simulacro salino. Il tredicesimo Arcano è colpito proprio nel momento che era più vulnerabile, quando aveva trasmesso e speso tutta la propria energia per ridare la vita ai due giovanetti. Uno dei pochi gesti nobili e generosi della sua vita assassina.

 

 

76

Una catasta di vecchie scope da ardere

 

Fedele alle consegne ricevute, solamente il Giudizio era rimasto all’interno dell’Anfiteatro, in attesa che i lavori dell’assemblea riprendessero, per terminare la discussione sul quarto punto all’ordine del giorno. La pausa di riflessione concessa dal Mago gli sembrava davvero lunga e per ingannare l’attesa si era messo a vergare strani disegni, ispirati alla cabala e ai Tarocchi, che regolarmente appallottolava e gettava poi a terra. Così, mentre stava perfezionando quello che riteneva essere il migliore dei suoi pentacoli, il simulacro del Folle spunta da dietro per fargli uno scherzo e formula, con la curiosità di un ragazzo, la più banale delle domande per mettersi in sintonia con la personalità del suo interlocutore. “Giudi, che fai?”

“Mi annoio.”

“Non stai forse disegnando, Giudi?”

“Sto facendo solo qualche scarabocchio, per ingannare l’attesa, proprio perché sono annoiato.”

“Potrei raccontarti una delle mie storielle, per ammazzare il tempo.”

“Non la voglio sentire perché mi distrarrebbe. Devo restare concentrato.”

“L’avevo previsto. Ho scommesso con il Mago che ti saresti fatto indietro. E ho vinto.”

Il Giudizio lì per lì non fa una grinza e continua a disegnare. Il Folle, per farlo parlare, lo punzecchia ancora un poco. “Giudi, non sei neppure un poco curioso? Non vuoi sapere cosa ho vinto?”

“Che cosa hai vinto, Zero?” Ripete meccanicamente allora l’Arcano quasi seccato.

“La bacchetta del Mago, istoriata con i numeri d’oro.”

“E che te ne fai? Giacché non sei Mago?” Puntualizza per ripicca, come un ragazzino dispettoso.

“E’ una bacchetta con dei poteri. Mi voglio divertire. Te la senti di darmi una mano, Giudi?”

“Non saprei proprio come, Zero. Non sono capace di divertirmi con nulla.”

“Invece io scommetto il contrario.”

“Aspetta: io non possiedo nulla. Oltre al tumulo di pietra vuota, dove ogni tanto vado a meditare, in attesa della prossima fine dei tempi.”

“Va bene il tumulo, Giudi. Non è di molto valore e conforto, ma quello che conta è il simbolo.”

“E tu, cosa scommetti?”

“Il mio bastone nodoso. Quello con gli Zeri.”

“E’ di molto valore, anche se il simbolo conta poco.”

Scimmiotta e ironizza il Giudizio all’indirizzo del Folle. 

“Come posso essere d’aiuto, se non riesco a fare ridere nessuno?”

“Devi limitarti a dirigere l’orchestra, Giudi.”

“Vuoi dire che, quando dirigo, faccio ridere?”

“Al contrario. Sei impeccabile. Per questo abbiamo bisogno della tua orchestra. Il resto lo farà la bacchetta del Mago.”

“Non accetterò mai di dirigere con una bacchetta che non è la mia. L’orchestra neppure la seguirà.”

“Tu dirigerai con i tuoi strumenti preferiti. La bacchetta ci farà ridere tutti.  Riesce a trasformare gli Arcani in scope.”

Il Giudizio esige una pronta precisazione. “In scope volanti, immagino, quelle predilette dalle streghe.”

“No, quelle comuni, sudicie e consumate, usate per ramazzare.”

“Allora quella che hai vinto non è una vera bacchetta magica. Nelle favole che ho letto i maghi riescono a fare volare le scope comuni.”

“Appunto, Giudi, simili cose succedono solamente nelle favole. Le scope volanti non esistono che nella fantasia degli scrittori. Hai mai visto una scopa volare?”

“Finora no, devo ammetterlo Zero.”

“Prima di tutto Giudi, proprio grazie all’atmosfera della scommessa, ci rinfranchiamo lo spirito. In fondo siamo tutti un poco sotto tono. Facciamo uno scherzo che passerà agli Annali e poi ci guadagna anche l’assemblea. Li riportiamo tutti qui, grazie alla musica e alla bacchetta del Mago. Tu devi dirigere l’orchestra. Ti divertirai. E ti cimenterai anche con una composizione celebre di Paul Dukas.”

“Come s’intitola?”

“L’apprendista stregone. Ha ispirato la musica in un film molto famoso.”

“Non so cosa sia un film.”

“Una specie di libro, raccontato attraverso immagini, musica e parole.”

“Dev’essere meraviglioso.”

“Domani, quando sarà finita questa benedetta assemblea, ti porterò a vedere i film migliori. Io li ho visti tutti. Non ne ho perso nessuno.”

“Tuttavia dovrò studiare lo spartito. Dovrò fare delle prove.”

“Niente prove. Tutto in diretta. Sono poche note facili, per bambini e del tutto orecchiabili. Ascolta.”

“Zero, le note sono indispensabili.”

“Allora ti vado a prendere lo spartito. Convoca i musicanti. Io chiamo a raccolta gli Arcani. I primi sette che incontro li trasformiamo in tante scope che ballano.”

“Perché solamente sette?”

“Perché gli altri vengono per divertirsi. E gli sciocchi li prendiamo in giro.”

“Strano, perché solamente sette sciocchi e non otto?”

“Perché la bacchetta del Mago manifesta i suoi poteri solo sette volte.”

“Non ha senso. Non può esaurire i poteri solo dopo sette tocchi.  Questo mi fa veramente ridere.”

“Ottimo. Sei entrato già nello spirito del gioco. Quanto ai limiti oggettivi della bacchetta non so risponderti, lo devi domandare al Mago. Gli Arcani, tramutati in scope, cominceranno tutti e sette a ballonzolare e io li guiderò verso la pira di fuoco e infine si trasformeranno di nuovo nei cari vecchi nemici di sempre. L’incantesimo sui Tarocchi dura solo sette minuti. Con gli uomini settanta anni.”

“Accipicchia!” Il Giudizio sospira e parte per schierare l’orchestra, fischiettando le poche note decifrate.

 Frattanto i simulacri del Folle, del Gerofante e dell’Appeso, cantando l’aria del Trovatore di quella pira, l’orrendo fuoco, cominciano a predisporre una catasta monumentale con tutte le scope di saggina in dotazione ai novantanove valletti. “L’Eremita ne ha ordinate delle nuove. Queste sono vecchie e non servono più.” 

Il donzello magazziniere non era del tutto stupido e, inseguendo le povere scope, faceva osservare che erano indispensabili e del modello antico e che non se fabbricavano più come quelle di una volta. All’ennesimo urlato “Non ci rompere più i ciglioni!” si allontana, dicendo che avrebbe fatto rapporto.

I simulacri dell’Imperatrice e dell’Imperatore prendono sottobraccio, a uno a uno, sette Arcani da sottoporre all’incantesimo. Lei, dal lato destro, consigliava d’ascoltare un brano musicale straordinario preparato dal Giudizio, il quale smaniava per eseguirlo a tutti i costi, minacciando, in caso contrario, di lasciare vacante il ruolo di segretario. Lui invece informava l’orecchio sinistro del convitato sulla strombazzata millanteria del Mago, il quale scommetteva di riuscire a tramutare centenari insigni Arcani in vili scope comuni. Quei sussurri incrociati avevano il potere di stordire la volontà dei malcapitati che, immersi in una nebbia soporifera, e ottenebrati nella coscienza si lasciavano guidare senza sapere neppure dove…….……a sentire una musica, suonata per via di una scommessa che aveva il suo fulcro in una vara magica di legno, capace di sospingere sette scope a danzare nel fuoco.

Sull’aureo cocchio, trascinato dall’animale mitologico, Ermes immaginava un ritorno verso la serena Eusfera. 

In levitazione sulla sua colonna, sospesa in aria, la Giustizia, con gli occhi bendati, vagheggiava di presiedere un tribunale per giudicare il reo incappucciato che aveva osato ingannare la Donzella. 

L’Eremita sognava di tornare in possesso di una lanterna immacolata, restituita alla sua primitiva funzione, proprio dalle mani sapienti di Taro: l’artefice dei Trionfi. 

La Temperanza veleggiava in mare aperto verso l’isola misteriosa, capace d’attrarre la fantasia dei narratori e dei ragazzi.

Il Diavolo, eccitato da quella trama ludica, contava finalmente di piegare la volontà dei suoi rivali. 

Arcimondo confidava che quel convegno giocoso avrebbe migliorato l’umore della brigata e messo fine alle divisioni. 

La Ruota preconizzava un grande cambiamento storico che avrebbe segnato il trionfo del bene sul male. 

L’incantesimo veniva scandito da note musicali, dispettose e irriverenti, a tratti ironiche e divertenti. Tra le risa sbellicate degli astanti, allegre scope danzanti affrontano il fuoco e ne escono tutte un poco fumanti e barcollanti. Alcune cadono al suolo sfinite e poco dopo si risollevano, per ripiombare nella pira, attraversata con qualche difficoltà in più.

Quella sfida suicida avveniva sotto gli occhi un poco preoccupati del Giudizio, che serioso non si divertiva, mentre i simulacri, quali spettatori malevoli, facevano da testimoni al trionfo dell’ilarità. 

Trascorso il tempo dell’incantamento, il direttore d’orchestra si accosta alla catasta fumante e si sente rincuorato solo quando vede tutti e sette i suoi compagni lasciarla rigenerati, dicendo che si erano divertiti a partecipare in prima persona a quella grande magia. Il Giudizio riceve così le calorose strette di mano degli scampati, che uscivano dal rogo solo un poco accaldati e con della fuliggine addosso, spolverata diligentemente dai valletti. Tuttavia a ogni mano che serrava, il Giudizio si sentiva sempre più fiacco, in maniera del tutto imprevista e inspiegabile. Prima chiede a un valletto di portargli una sedia, perché non riusciva a stare in piedi. Poi non è più in grado di restare seduto e scivola in terra. Anche disteso continuava a ricambiare l’attestato di stima degli Arcani, i quali non lesinavano ripetuti applausi e le congratulazioni rituali per la magistrale esecuzione musicale.

Preoccupato il Giudizio chiama al suo fianco l’unico vero amico che conoscesse: il Folle. “Zero, non mi hai fatto ridere. Ho vinto la scommessa. Devi darmi il tuo bastone nodoso.”

Il Folle, senza opporsi, fa il gesto pietoso di lasciarglielo stringere e il Giudizio vi si aggrappa con tutte le forze che aveva, perché non voleva andarsene senza il clangore delle trombe che annunciavano l’Apocalissi. Sperava che gli Zeri del Folle gli trasmettessero l’energia che in sé non riusciva più a trovare. 

“Giudi, avresti fatto meglio ad ascoltare la favola che avevo in mente per te. Non avresti riso, ma ti saresti addormentato felice.”

“Che sciocco sono stato a non averti dato retta, Zero.” Le ultime parole pronunciate dal Giudizio, mentre lascia anche di stringere quel bastone a cui si era aggrappato disperatamente, prima d’affondare nell’oblio.

 

77

I simulacri smarriti nel labirinto carsico

 

Dopo avere domato tutti gli avversari, soddisfatti per la vittoria ottenuta, con aria trionfante, quasi a volere irridere i rituali dell’Assemblea, tutti i simulacri degli Arcani riprendono il loro posto abituale, come se nulla di eclatante fosse accaduto, con l’intenzione di continuare a discutere il quarto punto all’ordine del giorno, che aveva per oggetto il sito creato dall’Uomo dei Tarocchi, le sue presunte rivelazioni e i suoi poteri divinatori. 

Tutti sono concordi nel ritenere che il sito blasfemo trasmettesse idee eretiche e pericolose. Decidono che ne avrebbero arginata la divulgazione e ridotto l’Uomo dei Tarocchi a una larva. Definiscono anche una comune strategia: partecipare uniti alla prossima consultazione dei Trionfi, fissata per il giorno ventisei maggio nello studio della cartomante Leda. 

Più attento di tutti, verso la fine della discussione, il Folle fa notare all’Assemblea la strana assenza dei valletti, che un tempo gironzolavano e vigilavano su come andavano le cose.

Il Mago osserva logicamente che la scomparsa del padrone di casa aveva esaurito ogni loro energia e non potevano più svolgere quelle funzioni per le quali erano stati programmati.

L’Assemblea quindi è sciolta e tutti s’incamminano parlottando verso l’uscita, scambiandosi impressioni, soddisfatti e ottimisti sul futuro della prossima spedizione punitiva.

“Ci si vede.”

“Cerca d’essere puntuale.”

“Lo sarò.”

“Ciao. Sei stato formidabile.”

“Anche te, complimenti.”

Poi una voce stonata incrina i saluti. “Strano.”

“Strano, cosa?”

“La porta non si apre!”

“Oh! bella Namorado! Oggi sei un tantino debole!”

“Ha proprio ragione, non si apre.”

“Ragazzi, niente panico! Abbiamo la forza erculea della Donzella a nostra disposizione!”

Questa volta la Forza è certa di non fallire, ma deve ammettere la propria sconfitta di fronte ad una semplice porta dal nome delicato e amorevole: Nausica. “Non riesco ad aprirla nemmeno io.”

“Allora proviamo con un'altra! In un altro corridoio!”

Tutti dietro: a provare altrove. Anche le altre porte, misteriosamente e tenacemente, si ostinavano a restare chiuse.

“Non eravamo soli! I valletti dell’Eremita spalancavano gli usci.”

“Adesso i valletti dove sono?”

“Cerchiamo quei cretini.”

Ne incontrano uno, ma pareva caduto in letargo.

“Dobbiamo riuscire ad animare questi deficienti.”

 Ne trovano un altro, ma sembrava pure lui in catalessi.

“Non reagiscono. Non c’è verso di scuoterli.”

“Proviamo di nuovo!”

“Un mezzo ci deve pur essere.”

“No! L’ho detto perbacco! Erano emanazioni dell’Eremita!”

“Adesso non c’è più. Non possiamo farlo risuscitare.”

“Siamo caduti in una trappola sicuramente.”

“Bisogna riconoscere che siamo stati messi in scacco dall’Eremita e dalle sue porte!”

“Stiamo tranquilli e non facciamoci prendere dal panico.”

“Non è possibile che tutte le porte della dimora siano così.”

“Forse abbiamo scelto la via sbagliata.”

“Dividiamoci.”

“Sì, forse è meglio. Cerchiamo la strada per uscire.”

“E’ un vero labirinto.”

“Dividiamoci in gruppi.”

“Sì, avremo più probabilità.”

“Chi riesce a uscire avrà avuto più fortuna degli altri.”

“Tutti dobbiamo impegnarci a dare una mano e fare uscire i meno fortunati.”

“Speriamo che non prevalga il nostro individualismo.”

“Dobbiamo essere solidali per forza.”

“Altrimenti non saremo tutti, il giorno ventisei prossimo, a fare la festa all’Uomo dei Tarocchi.”

“La festa per tutti già l’aveva ben apparecchiata l’Eremita.”

“Sei il solito pessimista! Certamente riusciremo a trovare un modo per uscire dalla dimora.”

“Tentiamo.”

“Ciao.”

“Ciao.”

“Buona fortuna.”

“Buona fortuna, anche a te.”

Tutti avanti, non alla spicciolata, ma ben organizzati. Due gruppi di undici Arcani prendono a perlustrare la dimora, ma tutte le porte erano bloccate. L’unico tentativo realistico era percorrere i cunicoli carsici, che forse conducevano verso un'altra uscita naturale. E tutti i simulacri degli Arcani scelgono un cammino differente, dopo essersi divisi ancora in spauriti e sparuti gruppi di tre e di quattro.

Solidali per una volta, si separavano per arginare una sconfitta. Più passava il tempo e più si sentivano impotenti. Paventavano di non rivedere più brillare in cielo il chiarore di una stella. Erano terrorizzati dall’idea di non trovare la via per tornare indietro. Stavano perdendosi in quel labirinto carsico infinito e sempre eguale, dove si sentiva ogni tanto una voce lontana e disperata che chiamava aiuto.

Irrimediabilmente, prigionieri dei cunicoli carsici. per l’eternità.

 

 

78

Il ritorno di Perimene

 

Al momento stabilito, quando l’Assemblea aveva cominciato a discutere il secondo punto all’ordine del giorno, con discrezione Perimene aveva lasciato la dimora con altri famigli per compiere una delicata missione nelle Terre di Sopra e obbedire a una precisa richiesta dell’Eremita.  Solo il Primo Famiglio, nel massimo segreto, prima d’essere congedato, era stato edotto sul pericolo incombente ed educato per reagire a una simile eventualità. L’Eremita, essendo soprattutto un veggente, aveva previsto l’arrivo di un’oscura minaccia in seno alla propria dimora e quindi aveva preso le ovvie precauzioni e contromisure. Nelle sue intenzioni quella vacanza di una parte delle servitù voleva essere più di un semplice diversivo.

Al suo ritorno Perimene deve fronteggiare una situazione critica. L’intera servitù se stava inerte e immobile e tutti gli Arcani sembravano essersi volatilizzati. L’unica traccia visibile di una battaglia silenziosa era una pira ancora fumante. Per terra, sparsi qua e là, vi erano fasci bruciacchiati di steli d’erica e pezzi, per metà carbonizzati, di manici di legno. Il Primo Famiglio suppone trattarsi di manici di scopa, anche se trovava assurdo approntare cataste di legno e servirsi di scope per ramazzare su dei carboni ardenti. 

Gli altri donzelli, che lo avevano accompagnato nella spedizione nella Terra di Sopra, vengono sguinzagliati alla ricerca d’altri indizi e riferiscono che la Cripta dei Tesori era rimasta inspiegabilmente spalancata. Anche il verbale dei lavori dell’Assemblea era rimasto interrotto e non vi era stata annotata la conclusione della riunione, sospesa per ventidue ore, per futili motivi. Perimene fiuta aria di complotto e diligentemente studia le altre stranezze sotto gli occhi. 

Sopra un tavolo ottagonale vede disposte due sequenze d’Arcani: una di sette carte e un’altra delle restanti quindici. Il prodigioso Trionfo del Mago frattanto era tornato ad essere quello raffigurato nei mazzi più popolari: in piedi, con la bacchetta magica, di fronte ad un tavolo su cui stavano adagiati gli strumenti del suo potere: la coppa di cristallo, la spada e la moneta d’oro.  Per il Primo Famiglio quel tavolo inconfondibile non era del tutto nuovo; ne aveva visto uno identico in casa della cartomante Leda e non apparteneva all’arredo della dimora che conosceva a menadito: quindi era stato introdotto lì quasi sicuramente da uno degli ospiti. Le uniche tracce del passaggio dei Tarocchi erano quelle carte disposte secondo la fatidica sequenza che conosceva.

Gli altri famigli piangevano e apparivano disperati, perché avvertivano la gravità della situazione. Perimene li allontana e ordina loro di fare il censimento di tutti i valletti e di riportarli nei rispettivi alloggi. 

Si reca nella Cripta dei Tesori. La serra a tripla mandata e ne esce con la famosa lanterna dell’Eremita. Poi comincia a leggere tutto il verbale dell’assemblea stilato dal Giudizio, per ricostruire l’esatta successione degli eventi. Apprende, così, alcuni indizi significativi. Il tavolo ottagonale era stato ideato da Arcitorre, alla ricerca di una forma perfetta per interpretare i Tarocchi. Ventidue sfere d’oro purissimo erano state distillate in virtù di una laboriosa ricerca alchemica. Dopo avere interagito con le rispettive auree sfere, gli Arcani all’unanimità avevano chiesto l’interruzione per ventidue ore dei lavori dell’assemblea. Tutti avevano dichiarato di sentirsi stranamente stanchi; bisognosi di svago e di riposo, avevano ritenuto opportuna una pausa collettiva proprio per ritrovare lucidità e determinazione. 

Perimene, nel corso degli anni, aveva sviluppato spirito d’osservazione, capacità intuitive e logiche non comuni. Gli Arcani presenti apparentemente si erano volatilizzati, ma certo non erano riusciti a uscire dalla dimora dell’Eremita, perché il meccanismo difensivo da lui stesso progettato impediva a qualsiasi entità nemica di varcare porte apparentemente innocue.  

Il Primo Famiglio pone la prodigiosa lanterna dell’Eremita al centro del tavolo ottagonale, dove erano disposte le due sequenze di Tarocchi. Perimene confidava che, dopo ventidue giorni, naturalmente, gli Arcani avrebbero ripreso in pieno la loro vita disordinata e trovato il modo per uscire indenni dall’aureo isolamento delle ventidue sfere alchemiche scomparse, dove, certamente, in virtù dei loro poteri, si erano volontariamente confinati. Altrimenti l’esperimento proposto da Arcitorre sarebbe stato solamente una vana ritualità.  L’essenza d’Arcani quasi millenari non poteva dileguarsi in una notte, senza lasciare una traccia. Perimene, nel suo connaturato ottimismo, non paventava una tragica fine e confidava nel ritorno di quella combriccola perennemente in disaccordo, esibizionista, talora volgare e odiosa, anche a lui che ne conosceva i difetti e qualità, più d’ogni altro.

 

 

79

Indagini sull’epistola del pastorello leggiadro

 

Melissa, la segretaria della cartomante, assorta in dolci fantasie, sussulta al trillo del campanello e la sua mano scivola sull’apriporta elettrico. Fuori orario, compare un uomo d’altezza media, dal fisico robusto, di circa quaranta anni.

“Buongiorno. Non ho preso un appuntamento, ma vorrei essere ricevuto lo stesso.”

“Buongiorno, signore.”

Dal taschino della camicia bianca lo sconosciuto tira fuori un biglietto da visita. La segretaria distrattamente non lo legge; si limita a lasciarlo cadere sul vassoio ovale d’argento, dove abitualmente era messa tutta la corrispondenza. Quest’atteggiamento di noncurante indifferenza viene scambiato per maleducazione e suscita nell’uomo una risentita reazione. “Ci vorrebbe un tantino di stile, signorina. Anche un biglietto merita del rispetto.”

Melissa risolve di mostrarsi più cortese. “Mi scusi! Qui la mia persona non conta nulla. Neanche volendo, potrei perorare la sua causa. La cartomante è rigorosa. Tutti quelli che vengono a farsi leggere le carte devono prendere un appuntamento. Pertanto non so se avrà tempo e voglia di riceverla, signore.”

Il sopraggiunto cliente, irritato, non si sentiva tranquillo. In cuor suo paventava di dovere tornare indietro. Subito esterna i suoi timori. “Con l’ascensore rotto, non vorrei essermi fatto inutilmente cinque piani di scale a piedi.”

“Deve attendere con pazienza; la cartomante non vuole essere disturbata durante la lettura delle carte. Gradisce da bere? Un aperitivo, per rinfrescarsi?”

“Sì, grazie. Un analcolico va bene.”

Quando Leda termina la seduta e la segretaria le mostra il biglietto da visita dell’intruso, non rimane per nulla seccata, o stupita, anzi gli va incontro per riceverlo personalmente. 

Di solito non si scomodava per nessuno. 

 “Si accomodi pure. Sinceramente mi sento onorata di fare la sua conoscenza. Prima però la invito a non calpestare i miei preziosi tappeti persiani. Lasci in quest’angolo le scarpe.”

“Le lascio qui, volentieri.” 

 “Oggi è una giornata un po’ speciale. Lei è il primo Padre che ricevo. Non ne ricordo altri. Dev’essere una questione importante.” Leda fa accomodare il sacerdote sul divanetto stile luigi XV e gli si siede accanto: un poco voleva intimidirlo e vedere come reagiva di fronte ad una donna. Comunque l’uomo appariva molto sicuro di sé e per nulla a disagio. Parlava in tono severo, condito da un leggero accento straniero.

“Gli eventi non mi hanno consentito di prendere un appuntamento e mi dispiace. La Santa Sede di solito non ha bisogno di consultare i Tarocchi.”

 “Padre Julius, le confesso, stavo aspettando la sua visita, anche se non annunciata. Sono a completa disposizione di chi fa indagini sul paranormale.”

“Come fa a sapere di questa mia attività?” L’uomo trasudava meraviglia e sul viso anche qualche goccia di sudore. 

“Sono una sensitiva e anche una veggente. Non rimanga meravigliato, Padre. Venga al motivo della sua visita.”

“In Vaticano ultimamente è accaduto un evento singolare.”

“Non so niente. Mi dica lei. Mi sembra che le cronache non abbiano riferito nulla.”

“Nelle mie mani è giunta una strana lettera. Una suora, all’interno dei Musei Vaticani, è stata sottoposta a una pubblica violenza. L’autore del crimine ama definirsi, in modo sprezzante, pastorello leggiadro.”

“Però! L’espressione pastorello leggiadro è comunque divertente: rende il misfatto meno grave, oserei persino dire, gradevole.”

“A me non sembra. Suona come una sottile amplificazione. Per fortuna i frequentatori del museo sono stati tenuti alla larga. Solo per circostanze favorevoli l’evento non ha avuto risonanza sulle pagine dei settimanali scandalistici. In episodi come questi ci  inzuppano il pane.”

“E’ il loro mestiere. Chi mai può volere offendere la sacralità dei luoghi?”

“L’intenzione era di colpire un simbolo, di macchiarlo. Ciò che è avvenuto lo trovo incredibile. Perlomeno singolare poi che qualcuno abbia trovato anche il tempo di ritrarre i fatti con questo disegno che descrive l’accaduto e le voglio mostrare per andare dritto al sodo.”

Leda osserva e riflette un poco prima di rispondere. 

“Questo disegno impudico fa gridare al sacrilegio! Vuole forse raccontarmi che lei, padre, ha visto questa suora così? In pubblico? E nessuno si è accorto di niente?”

“Salvo che io sia stato suggestionato da qualcuno. Comunque ai miei occhi la scena era del tutto reale.”

“Certo, capisco. Intravedo il suo volto scandalizzato, la sua riprovazione. E lo scopo?”

“Tutto sarebbe incomprensibile, se non ci fosse questa scrittura autografa della suora. Io, Leda, vorrei sapere chi può avere ispirato questa sordida macchinazione, dove più volte vengono menzionati i Tarocchi.”

“Dove si parla di Tarocchi, certo potrei essere d’aiuto.”

“Ho qui anche un dattiloscritto, consegnatomi qualche ora prima da un signore che frequentava la Biblioteca Vaticana, dove vado abitualmente. I fatti descritti poi si sono avverati.”

“Interessante e sorprendente: sapevano con anticipo quello che sarebbe accaduto!”

“Pare di sì. A scrivere materialmente l’appunto è stata certamente la suora.”

“Lo afferma con indubbia certezza. Ne è sicuro?”

“Certo. Io le sono stato dietro fino alla Casa madre. Ho incontrato la superiora, le ho presentato le mie credenziali e ottenuto che la suora rispondesse per iscritto ad alcune domande sulla visita da poco effettuata ai Musei Vaticani, dove stavano accadendo fatti a dir poco singolari. Le persone coinvolte erano sempre dei religiosi ed io stavo indagando per conto dell’Ordine dei Penitenti.”

“E la suora non si è meravigliata della sua strana visita e richiesta?”

“No. Subito si è mostrata collaborativa. Nel corso dell’intervista non è parsa né turbata, né particolarmente sospettosa. Pareva non ricordasse nulla.”

“Che cosa vuole che le dica, Padre Julius, di casi insoliti ne capitano tanti. E non sempre si trova una spiegazione. E per fortuna! Casi come questi fanno comodo alle cartomanti: sono il nostro pane quotidiano.”

“Vorrei saperne di più. Le sue carte possono mostrare quello che gli occhi non riescono neppure a intravedere.”

“Spesso i Tarocchi sono un valido aiuto.”

“L’episodio è riconducibile alla sfera occulta. La mia visita qui s’inserisce in quest’ottica. Pagherò dieci volte l’onorario che la gente le corrisponde.”

“Posso onorare la mia professione anche senza ricevere un compenso esagerato, che lei Padre devolverà a qualche opera pia. Aiuto sempre il prossimo, come posso.”

“Questo le fa veramente onore, Leda. Ecco il messaggio. Mi raccomando, lo maneggi con cura. E’ l’originale autografo.”

“Perché non si è rivolto ad inquirenti qualificati?”

“Io non ho mostrato il messaggio ad anima viva. Nessuno ha la licenza per fare indagini sul paranormale.”

 “Certo. Allora questo è quanto ha scritto la suora. Ha fatto bene a conservarlo per il bene della ricerca.”

“Questa parrebbe una prova che spazza via ogni tesi scettica circa l’esistenza di fenomeni paranormali.”

“Mi dia il biglietto. Lo voglio studiare un poco. A volte bastano le mani di una sensitiva.”

16 rintocchi di campane. 

14esimo giorno del Signore.  

Maggio dell’anno 2005.

Nelle umili vesti di un pastorello leggiadro, suggerisco queste note alla suora che mi sta ascoltando estasiata. Protetta da ampie e pietose ali, la religiosa sosta nel bel mezzo della Galleria delle Carte Geografiche tra l’indifferenza dei passanti e del personale preposto alla sorveglianza.  

Sul suo taccuino d’appunti sta scrivendo 22 messaggi tutti identici: uno per ogni Trionfo dei Tarocchi. L’arrivo di Padre Julius metterà fine alla malia di cui Suor Chiara è preda. Lo spettacolo inverecondo lascerà il sacerdote impietrito. 

Il fatto però resterà circoscritto, perché oscurato da 7 angeliche creature. Tale macchia di un incomparabile luogo d’arte è un avvertimento. Perché episodi più crudeli non si ripetano all’interno della Città del Vaticano, l’Autorità dovrà fare oscurare il sito blasfemo partorito da un eretico professore. 

Speriamo che la mala pianta tarocchi-origini.it  venga estirpata e non riveda la luce per sempre. L’offesa mossa ai Trionfi ha superato ogni limite e non può essere oltre sopportata.

Il Pastorello Leggiadro

Mentre leggeva, la cartomante si limitava a sottolineare ad alta voce i numeri e il contesto più prossimo. “Sedici rintocchi. Quattordicesimo giorno. Anno 2005. Ventidue messaggi. Sette angeliche creature. Calligrafia femminile curata, quasi leziosa, le vocali i paiono come accentate. Immagino che avrà individuato la mala pianta e agito di conseguenza. Lei, Padre, sarà subito intervenuto in prima persona. Del resto cosa avrebbe potuto fare per fronteggiare tali avversari?”

“Certo mi sono dato da fare. Dovevo prevenire altri crimini. Piuttosto, Leda, vediamo cosa dicono le carte. Le disponga sopra la lettera.”

“L’accontento subito, Padre Julius. E’ venuto per questo.”

“Leda, mi sono affaticato anche a formulare molte ipotesi. Nessuna tesi si regge in piedi.”

“Non si affanni tanto in ipotesi affascinanti. Piuttosto Padre, perché non mi fa il piacere di fermarsi a pranzo con me?”

“Avrei una certa fretta. E non vorrei disturbare.”

“Scuse. Faccio sempre venire il cibo dalla trattoria qui vicina. Ignora forse che a Trastevere ci sono ancora buone cucine?”

“Non lo metto in dubbio. Penso che accetterò il suo invito. Dopo l’aperitivo è bene mangiarci su.”

“Fanno tutto espresso. Su ordinazione. La mia segretaria apparecchierà per due. In attesa del pranzo vediamo di leggere le carte.”

“Che cosa ordina da mangiare?”

“Oggi è giovedì. Gnocchi di patate, fatti in casa, al pomodoro fresco e basilico. Involtini di carne. Insalata di rucola. E macedonia di frutta al vino bianco. Per lei va bene?”

“Sì, mi trattengo a mangiare e condivido la sua scelta.”

Leda invia un messaggino alla segretaria. “Non se ne pentirà. Qualcun altro, oltre lei, ha toccato questo foglietto?”

“No. Da quando mi è stato affidato, è rimasto sempre nelle mie mani.”

“Dispongo i Tarocchi sopra e vediamo cosa dicono. Dipende da loro, non da me. Io sono soltanto il tramite.”

“Dicendo questo si sminuisce un poco. Pare che lei sia considerata una delle cartomanti migliori della città.”

“I clienti esagerano alquanto. Ascolto la voce dei Tarocchi e riesco a percepire le loro interferenze nella dimensione terrena.”

“Io sono abbastanza scettico al riguardo. Piuttosto mi limito ad ascoltare la voce di una donna seducente.”

“Detto da lei, Padre, mi fa sentire imbarazzata; ma dall’uomo accetto il complimento. Prendo un mazzo di Tarocchi nuovo di zecca. Lo apro davanti a lei. Il caso merita dei Tarocchi vergini, mai usati per nessun altro scopo. Scelgo i Tarocchi Visconti, i più antichi, che in parte sono stati ricostruiti, perché non tutti gli originali si sono conservati completamente.”

“Una degna cornice. Vedo che ha una collezione di mazzi veramente sorprendente.”

“Cerco di averne a disposizione sempre ventidue. Li cambio a ogni consultazione per via degli influssi. Il cliente, se vuole, può tenere il mazzo che è stato aperto per lui. Il giorno dopo, ne faccio acquistare un altro. Quando esce si faccia dire dalla segretaria quanto costa. I loro prezzi variano molto ed io non li rammento. Questo mazzo quindi sarà suo dopo la consultazione e potrà farne quello che vuole. Se si sente imbarazzato a portarlo con sé, in Curia, potrà gettarlo nel cestino.”

“Che dice mai! Lo terrò come ricordo, con tutto il rispetto che si deve ad un’opera dell’ingegno.”

“Guardiamo bene la sequenza degli Arcani che è comparsa. Appeso: prima casa. Morte: seconda casa. Temperanza: terza. Gerofante: quarta. Folle: quinta. Giudizio: sesta. Imperatore: settima casa. Le consiglio di scrivere la combinazione per non dimenticarla.”

“La sto annotando e se mi permette prenderò anche degli appunti preziosi.”

“Queste sequenze di tre carte consecutive, seguite dal 5, capitano assai raramente. Vede: l’Appeso 12, la Morte 13, la Temperanza 14 e poi il Gerofante 5. Noi cartomanti non possiamo interpretarle. Sono come un tabù. Cadono sotto il dominio dell’inesprimibile.”

“Scusi Leda, ma si spieghi meglio!”

“Purtroppo non posso dirle altro. Questa sequenza è muta, sigillata.”

“Muta? Sigillata? Non comprendo!”

“Ci sono delle combinazioni di Arcani che vanno considerate mute. Non posso leggerle. Se le raccontassi qualcosa a caso, non sarebbe serio. Io sono una professionista. Gli Arcani non vogliono che parli. Ed io devo rispettare la loro volontà.”

“Sta scherzando, o mi prende in giro? Come sarebbe a dire, non mi legge le carte?”

“Vede Padre Julius, in ogni attività ci sono delle regole. Io posso suggerirle di portare con sé questo mazzo di carte e provare a consultare un altro cartomante disposto a leggerle. Vedo che ha già trascritto.”

“Sono piuttosto meravigliato. Non sapevo dell’esistenza di tutto questo.”

“L’occultismo è pieno di nodi complessi. Non sono tenuta a svelare questa combinazione. Forse un altro cartomante potrebbe non avere queste mie limitazioni.”

“Non voglio assolutamente forzarla. Rispetto la sua volontà, Leda. Comunque, lo confesso, sono un poco disorientato.”

“Dovrebbe essermi riconoscente per la mia onestà. Avrei anche potuto inventarle una lettura senza alcun fondamento.”

“Ah, certo che sì e l’avrei presa per buona.”

“Deluso? Sì, lo vedo. Le leggo le sue carte. Vuole?”

“Beh! Non ne vedo la necessità!”

“Perché mai! E’ qui! Non sta in sagrestia! Ne approfitti!”

“Certo e poi ho fatto le scale a piedi! Sono alquanto sudato. Poi non voglio perdere il pranzo cucinato da una trattoria di Trastevere!”

“Bravo. Prendo un altro mazzo!”

“Un altro?”

“Ogni mazzo ha la sua situazione da svelare.”

“Ha ragione Leda: del resto perché averne così tanti, se non si usano!”

“Allora procediamo, Padre.”

“Leda mi sia consentita un’osservazione!”

“Dica pure!”

“Io sono qui per risolvere il caso della suora. Non sono qui per altri motivi. Tutto ciò interferirà nella lettura delle carte.”

“Lei è qui anche per motivi personali. Lei sta indagando sul paranormale, non lo dimentichi. E i Tarocchi possono aiutarla a comprendere meglio quei fenomeni con cui si sta confrontando.”

“Va bene. Questa lettura delle carte potrebbe essermi in un certo senso di aiuto. Le do ragione.”

“Questi sono i Tarocchi di Marsiglia. Sono forse i più popolari di tutti.”

“Sembrano più comunicativi di quelli Visconti.”

“Ha ragione. I Visconti erano destinati a una famiglia ricca e potente. L’aria di nobiltà doveva essere essenziale.”

“Posso esimermi dal tagliare il mazzo?”

“No! Il suo tocco è essenziale, indispensabile.”

“Bene.”

Mentre la cartomante scopre le carte, Padre Julius chiude gli occhi per alcuni istanti e recita tra sé un’orazione. Sperava che lo scudo della preghiera lo proteggesse dall’offensiva degli Arcani. In cuor suo li temeva, non voleva che entrassero a frugare nella sua vita. Aveva cercato d’evitare quella lettura, ma la cartomante era stata convincente e poi era talmente bella,  che non meritava d’essere lasciata troppo presto, per timidezza, o paura. Il sacerdote riteneva che in quella circostanza avrebbe dovuto dimostrare più carattere, anche se non sottovalutava la donna che invece possedeva un grande temperamento.

“Su padre! Mi sembra assorto.”

“Stavo pensando tra me.”

“Ora ascolti. Nella prima casa, la più importante, è uscito il Mondo. Di solito indica per il consultante sempre un cambiamento profondo e improvviso. Nella seconda casa, considerata la carta antagonista, incontriamo l’Appeso. Lei sta entrando in contrasto con la sua vocazione spirituale che l’ha condotta ad abbracciare il sacerdozio. La terza casa è occupata dalla Temperanza. Una virtù cardinale s’addice al profilo morale di un sacerdote come lei. Nella quarta casa sopraggiunge il Carro: una carta positiva e vincente, specialmente in questa posizione. Qualcuno, da una dimensione ultraterrena, verrà in suo aiuto e le risolverà i suoi problemi. Il Mago nella quinta casa ci svela che la chiave di questo intrigo sta appunto nella magia, intesa nel suo significato più ampio. E’ una carta benevola, ora occupa il posto che spetta al sacro. Nella sesta casa campeggia il Giudizio. Ha tutta l’aria di un  giudice severo e inappellabile e rimanda alla sua coscienza. E’ una carta statica per la posizione che occupa. Secondo me riflette la sua ansia e il suo turbamento. Il modo severo col quale si giudica. Infine, nella settima casa, la Forza annuncia l’arrivo di una donna piena d’energia che cambierà la sua vita. Sono carte tutte molto positive. Il suo futuro è brillante e riuscirà anche a risolvere tutti i problemi personali e di lavoro. Non ho mai visto una situazione più rosea di questa, che si adatta perfettamente anche al suo caso. Padre non ha fatto le scale per nulla, oggi. Ogni nostra decisione è sempre importante e questa sua visita sembra ispirata. Il campanello: Melissa mi avverte che il pranzo è pronto. Su, andiamo, Padre Julius”

La voce della cartomante diventava più suadente, più intima, più profonda. Non c’era verso di resisterle. Era mescolata al coro delle Sirene di Debussy e confusa con la risacca del mare. La musica accattivante e piacevole era scaturita fuori come dal nulla e l’ascoltatore irrimediabilmente si lasciava confondere dal  canto delle mitiche creature. I naviganti del mondo antico, storditi, perdevano l’orientamento e non facevano più ritorno a casa. Leda prende sotto braccio l’uomo e gli si stringe con un fare amichevole, disinvolto, quasi sfrontato. 

Vilnius, irretito, non riusciva a resistere al fascino della donna. Sapeva perfettamente che, alla fine del pranzo, lei lo avrebbe condotto nella sua stanza da letto. Neppure voleva opporsi alla tentazione della carne. Avrebbe infranto i voti, dannato forse l’anima. Una confessione poi avrebbe cancellato la macchia del peccato. Quella cartomante meritava d’essere conosciuta meglio.

 

 

80

Colloquio tra padre Julius e Leandro

 

Leandro, come d’abitudine, ogni giorno controllava e leggicchiava email senza interesse, che occupavano spazio e dovevano essere cancellate per non appesantire la memoria del computer. Un rituale che lo accumunava alla comunità dei dipendenti dalla rete informatica, alla quale apparteneva ed era vincolato da legami che nessuna rivoluzione futura sarebbe più riuscita a spezzare. L’homo informaticus, più macchina che creatura biologica, aveva preso il posto dell’homo sapiens sapiens, sparito dalla scena della storia, quasi senza neppure accorgersene, tra l’indifferenza d’esperti e di filosofi che scrivevano libri solo per vanità e presunzione d’essere i migliori nel loro campo. Il popolo degli scriventi, mostrandosi accondiscendente verso i centri di potere, non voleva incidere sul corso degli eventi, ma si limitava ad assecondarli per interessi personali e si era docilmente affiliato alle varie sette massoniche proliferate e trasformiste che assicuravano visibilità e successo.

Egregio professore, ci rivolgiamo a Lei, con l’auspicio che trovi il tempo e la buona volontà di corrispondere alle nostre attese. Anche se partiamo da prospettive diametralmente opposte alla sua, Noi La stimiamo come studioso e quindi riteniamo che sia la persona più qualificata per un’indagine che stiamo svolgendo a ridosso del paranormale. Avremmo urgente bisogno di un suo parere autorevole su una sequenza di Arcani collegati ad uno spiacevole e singolare episodio avvenuto all’interno dei Musei Vaticani. 

Siamo disposti a onorare la sua consulenza con un assegno di 2.200 euro. Tale cifra potrebbe compensare in parte il torto subito. Nostro malgrado, per motivi che Le saranno chiariti, ci siamo dovuti adoperare per fare oscurare il suo sito sulla vera natura dei Tarocchi. Nella speranza che perdoni le nostre indebite interferenze, voglia gradire i nostri distinti saluti.

                                                      Padre Julius Vilnius

Lieto di ricevere un’inattesa riparazione per l’ingiustizia subita, Leandro viene a sapere che coloro che avevano chiesto l’oscuramento del sito per vilipendio alla religione, adesso gli offrivano del danaro in cambio di una consulenza. Un poco era tentato dall’assumere un atteggiamento intransigente e di ricusare ogni forma di dialogo e di conciliazione; ma, in base anche a un sano realismo, accetta l’invito, soprattutto perché era l’unico modo per conoscere da vicino i suoi nemici, ora interlocutori. Anche per amore della ricerca non poteva gettare al vento forse l’unica occasione propizia per fare luce su una vicenda oscura di cui non conosceva le trame.  

Qualche ora dopo incontra il sacerdote in uno studio notarile ubicato nei pressi di Castel Sant’Angelo, a ridosso del Vaticano. “Da un certo tempo stiamo svolgendo indagini sui fenomeni paranormali. L’Ordine dei Penitenti ha ricevuto un cospicuo finanziamento da un anonimo mecenate. Tutto il materiale raccolto giunge qui. Il notaio archivia le varie pratiche, le digitalizza e le invia a destinazione. Noi siamo stati scelti per la nostra fede e per il nostro connaturato scetticismo e quindi per la nostra imparzialità. Voglio essere sincero: quello che lei sostiene nel suo sito non ci lascia del tutto indifferenti, anche se, fino a pochi giorni fa, noi non sapevamo neppure della sua esistenza. Ci siamo imbattuti in lei in maniera del tutto casuale e alquanto traumatica, come potrà ben presto constatare.

Pochi giorni orsono, in circostanze surreali, mi è pervenuto questo scritto che le leggerò e che lei stesso potrà poi esaminare personalmente.

16 rintocchi di campane. 

14esimo giorno del Signore.  

Maggio dell’anno 2005. 

Nelle umili vesti di un pastorello leggiadro, suggerisco queste note alla suora che mi sta ascoltando estasiata. Protetta da ampie e pietose ali, la religiosa sosta nel bel mezzo della Galleria delle Carte Geografiche, tra l’indifferenza dei passanti e del personale preposto alla sorveglianza. 

Sul suo taccuino d’appunti sta scrivendo 22 messaggi tutti identici: uno per ogni Trionfo dei Tarocchi. L’arrivo di Padre Julius metterà fine alla malia di cui Suor Chiara è preda. Lo spettacolo inverecondo lascerà il sacerdote impietrito. 

Il fatto però resterà circoscritto, perché oscurato da 7 angeliche creature. Tale macchia di un incomparabile luogo d’arte è un avvertimento. Perché episodi più crudeli non si ripetano all’interno della Città del Vaticano, l’Autorità dovrà fare oscurare il sito blasfemo partorito da un eretico professore. 

Speriamo che la mala pianta tarocchi-origini.it  venga estirpata e non riveda la luce per sempre. L’offesa mossa ai Trionfi ha superato ogni limite e non può essere oltre sopportata.

Il Pastorello Leggiadro

“Allora oggi finalmente conosco il vero motivo per cui il mio sito è stato ingiustamente oscurato. Un pastorello leggiadro svolge il ruolo perverso dell’inquisitore.”

“Qualcuno professore non gradisce quello che ha scritto. A quanto pare lei ha offeso la sacralità dei Tarocchi.”

“Ripeto il concetto. Ho subito un trattamento di stampo inquisitorio.”

“Non posso negarlo professore. Date le circostanze, noi ovviamente ci siamo adeguati. Io ora agisco in via del tutto autonoma, svincolato dall’Ordine. Giorni or sono, ho voluto svelare l’intrigo. Allora mi sono recato personalmente da una nota cartomante. Lei all’inizio è stata cortese e disponibile, anche se non avevo preso un appuntamento. Dopo però non ha voluto leggere le carte. Le avevo mostrato il messaggio della suora, chiedendole lumi.”

“Strano e quale motivo ha addotto per il suo rifiuto?”

“Una sorta di tabù partorito negli ambienti degli occultisti. Quella sequenza non andava decifrata, perché il Gerofante si trovava dopo una sequenza di tre Tarocchi usciti nel loro ordine numerico.”

“Mi giunge nuova. Ogni sequenza può essere letta. Probabilmente è una scusa che la cartomante ha architettato. Farà sempre così, quando vuole esimersi dal leggere le carte e quando ha di fronte un caso che non vuole analizzare, per non esporsi.”

“Anch’io mi sono dato in un secondo tempo questa spiegazione. Comunque sul momento è stata molto abile e convincente. Mi aveva quasi convinto.”

“Adesso, prima d’iniziare l’esame dei Tarocchi, Padre, vorrei una risposta sincera: il nome della cartomante che non ha voluto leggerle le carte.”

“Non ho nessuna difficoltà a farlo. Si tratta della cartomante Leda: riceve nel quartiere Trastevere. Quel giorno stesso mi ha letto altre carte: le mie. Infine col suo fascino è riuscita persino a sedurmi. Ho infranto per lei anche il voto di castità.”

“Immagino eserciti il suo fascino su diversi clienti. Sono già stato da lei ed ho pure fissato un nuovo appuntamento. Anch’io, francamente non saprei come resisterle.”

“Lei non ha fatto un voto! E’ un laico e può permetterselo!”

“Se si sente violentato faccia una denuncia, intenti una causa.”

“Lo ritengo un percorso lungo e insidioso e poi finirei in pasto alla cronaca.”

“E allora si limiti a una confessione. Usi il sacramento.”

“Mi sto confidando con lei. Non ho nessuna intenzione di  comprare la sua amicizia, sia ben chiaro. Lei è l’unica persona di spessore, che conosce i Tarocchi, di cui possa fidarmi. Vorrei la sua lealtà e ovviamente la sua discrezione. Quanto le sto svelando, deve restare un segreto.”

“Può starne sicuro, Padre! Le do la mia parola d’onore.”

“I nostri destini dunque si sono incrociati. Gli eventi hanno voluto farci incontrare, a dispetto della diversità.”

“Qua la mano Julius. Una stretta rassicurante. Diamoci del tu. Facciamo un altro passo in avanti. Lasciamo cadere certe barriere.”

“Va bene. Perdonami Leandro, per avere abusato d’amicizie complici e influenti.”

“Capisco. Hai agito per difendere un’istituzione.”

“Ora, per favore Leandro, esamina le carte. Questa è la sequenza: Appeso, nella prima casa, Morte: seconda, Temperanza: terza, Gerofante: quarta, Folle: quinta, Giudizio: sesta, Imperatore: settima casa. La cartomante pare tenesse molto a sottolineare la posizione degli Arcani.”

“Julius, voglio essere esplicito. Secondo i cartomanti i Tarocchi svelano l’occulto. Io li ho studiati spiegando l’Arcano con il numero corrispondente. Il numero esprime la natura dell’Arcano, ne racconta gli aspetti più oscuri. L’intera successione dei 22 numeri descrive in chiave cabalistica il disegno logico dell’artefice dei Tarocchi. Se il numero svela l’Arcano e lo rende esplicito, nello stesso tempo l’Arcano tende a sua volta a diventare criptico, rivuole la propria essenza.  

Il dualismo è intrinseco. Benefico e vitale da un certo punto di vista. Fatale diventa la lotta che si combatte tra chi svela e chi si nasconde: da un lato la filosofia, dall’altra la fede; da un lato la ricerca scientifica, dall’altra l’Inquisizione. Guai! Non devi mettere in completa luce l’Arcano. Devi sempre serbare un angolino anche per un finto segreto. Sei paradossalmente più credibile e soprattutto più interessante. Gli uomini sembrano aver preso il vezzo degli Arcani. Coltivano giardini segreti, anche se non vi nascono fiori. La sintesi di questo complicato intreccio porta a un univoco risultato: non devi scoprire apertamente nessun tipo di gioco. La vita sposa il mistero, il segreto per iniziati. Così si scrivono libri e si edificano cattedrali per ospitare i sacerdoti della verità. Se tenti di guardare in alto, come fa il filosofo, scopri d’essere stato ingannato. L’atto blasfemo, il peccato, consiste nell’avere svelato l’Arcano. Devi restare nella condizione di non sapere. Dio ti ha riservato il mistero. E la creatura mortale deve fare penitenza e inginocchiarsi. Quando t’interroghi, il sistema di Arcani si sente minacciato e tu devi essere espulso. I libri che non serbano segreti sono proibiti e messi all’Indice. Se sveli l’inganno originario e affidi il messaggio al fluttuare informatico, hai più probabilità di fare circolare le tue idee. Comunque riescono a fare oscurare il sito, grazie alla complicità di forze reazionarie. Certi episodi dimostrano purtroppo che il nostro paese è stato ridotto a un bordello, dove imperversa la vile razza dannata di cortigiani che si vendono e si comprano, tra l’indifferenza della massa senza cervello.”

“Professore, hai detto qualcosa d’interessante, che mi sono permesso di registrare. L’invadenza rientra nella lauta parcella che riceverai oggi. Comunque sorvoliamo sui complotti. In questo paese alla fine i potenti e i ricchi escono assolti per insufficienza di prove, o perché sono scaduti i tempi dei processi. Limitiamoci al nostro ambito esoterico. La politica è fin troppo depravata, anche se vi sono responsabilità e omissioni a vari livelli.”

“Certamente. Allora Julius, vediamo quanto scritto. È fatto un riferimento esplicito alla mala pianta, perché venga estirpata. Non troppo velatamente si vuole coinvolgere la Città del Vaticano. La minaccia è esplicita. La Chiesa è il luogo ideale. Ascolta i peccatori. Li guida verso il Paradiso. Stando a quanto si legge, la suora è stata irretita dalle voci di sette simboliche creature angeliche, che poi, secondo l’Apocalissi dell’apostolo San Giovanni, annunciano la fine dei tempi. La firma mi pare coerente. 

Se facciamo la somma dei numeri degli Arcani usciti, anche la cabala conferma che l’intero progetto ha una sua firma.

Appeso 12 + Morte 13 + Temperanza 14 + Gerofante 5 + Folle zero  + Giudizio 20  + Imperatore 4  = 68 = 6 + 8 = 14  e 14 fa l’angelica Temperanza. 14 è anche il giorno. Comunque questi Angeli sono degli strumenti. Agiscono per conto dei Tarocchi vilipesi e irritati.

Ora esaminiamo la sequenza: nel mezzo, idealmente, come spartiacque, c’è il Gerofante nella casa quattro. Il Folle nella casa cinque indica che il caso non va analizzato alla luce della ragione. L’Imperatore nella casa sette pone l’accento sull’ordine perentorio. Bisogna obbedire senza discutere.”

“Fino a prova contraria i Tarocchi restano delle carte poliedriche, molto enigmatiche e intriganti. Tuttavia ti pare credibile, Leandro, che siano in grado d’agire e d’ordire complotti?”

“Beh! Certamente no, Julius, se partiamo da una prospettiva razionale. Però in questi ultimi tempi stanno accadendo fatti strani. E il paranormale dovrebbe esserti quasi familiare. Il Folle nella casa cinque è un indizio chiaro di lettura.”

“Dunque, Leandro, pensi che il piano sia stato concepito da Tarocchi che frequentano gli ambienti vaticani?”

“Lo dice la lettera che abbiamo sotto gli occhi. Non dimenticare che il Gerofante nella casa quattro è lo spartiacque autorevole che domina la scena. I Tarocchi nascono come carte, ma negli anni hanno ricevuto energie considerevoli da parte di coloro che le hanno maneggiate. Forse affiorano quando alcuni cartomanti cadono in trance. La parapsicologia rientra nella tua sfera d’indagine.”

“A volte pare quasi che qualcuno voglia prendermi in giro. A volte sembra tutto tremendamente vero.”

“Ricordati della regola Julius. Non devi sapere! Socrate ci era arrivato molto vicino, non gli hanno dato il tempo di fare luce completamente, processandolo. Si è salvato solamente il messaggio conoscere è ricordare. Un frammento parziale del pensiero originario di Socrate, molto più profondo. L’ignoranza e il mistero sono l’architrave del sistema di controllo esteso a tutte le coscienze. Dio è ineffabile anche per gli ebrei. Si giustifica l’ignoranza, sublimandola nell’infinita sapienza dell’Essere Supremo. Il poderoso si mimetizza; lo fa da sempre, dalla nascita del primo uomo.”

“Questa in sintesi, Leandro, è la storia della filosofia.”

“Il sito Julius è stato oscurato proprio perché trasmetteva questa idea fondamentale che ho cercato di spiegare e di divulgare.”

“Rifiutandosi d’interpretare i Tarocchi apparecchiati di fronte alla lettera, Leda mi disorienta, ma non riesce a sviare le mie indagini. Probabilmente si aspetta che vada a interpellare proprio l’artefice del sito che abbiamo fatto oscurare; vuole tenerlo in apprensione.”

“E’ molto probabile che abbia voluto coinvolgere anche me in questo intrigo, di cui già faccio parte. Comunque sia, questa vicenda Julius ruota attorno ai Tarocchi. Tutto è cominciato quando sono andato dalla nostra cartomante e mi sono seduto davanti a quel tavolo ottagonale. E proprio allora, in quella sala indimenticabile ho sentito la presenza di un’energia differente, molto più potente degli Arcani, che ha sorpreso anche me.”

“Io ho prestato poca attenzione all’ambiente. Cercavo di controllare le energie della donna, eppure mi sono lasciato confondere ugualmente.”

“Julius, chi vuole oscurare il mio sito teme la propagazione del messaggio. E’ un antico rituale a cui la Chiesa si è affidata per secoli. Bruciare i libri insieme agli eretici, in nome della fede.”

“Ti confesso Leandro che in un primo momento ho avuto la forte tentazione di bruciare anche questi miei fogli. Ho passato le ultime notti senza prendere sonno.”

“Considera questo Julius: lo stile del pastorello è il medesimo. Un sito non si può bruciare. Si fa oscurare. La logica è sempre quella dell’Inquisizione. La mano di Dio in terra che difende la Santa Fede.”

“Caro Leandro, da uomo di Chiesa, ne ho sempre dubitato. Chi ispirava quei roghi non poteva essere Dio, quanto piuttosto Satana. Domani lascerò l’Ordine con una lettera. Mi libererò dal vincolo dell’obbedienza e dagli altri voti. Solo così potrò andare liberamente avanti a svolgere l’incarico che mi è stato affidato dall’Ordine dei Penitenti.”

“Potrai anche tornare da Leda, senza il peso dei vincoli religiosi. Forse è quello che lei stessa ti ha suggerito di fare.”

“Certo non avrò più barriere. Forse avrò ancora bisogno dei servigi della cartomante. Il tuo contributo è stato più che illuminante, Leandro. Ah! Dimenticavo di dirti la cosa più importante. Personalmente mi sono già mosso perché il tuo sito sia nuovamente reso visibile. E’ un doveroso atto di giustizia.”

“Ti ringrazio. Allora gli puoi dare un’occhiata imparziale. In forma mitica racconto quanto tutto sia maledettamente complicato, ma fai presto. Forse uscirò dal web, quando scadrà il contratto d’affitto annuale che ho stipulato. Non vale la pena spendere più soldi.”

“E perché mai questa decisione radicale, proprio ora che la tua libertà d’espressione ti è stata restituita?

“Penso che, in genere, i visitatori dei siti web siamo frenetici e poco riflessivi. Nessuno mi ha scritto nulla d’interessante al riguardo. Se trasmetti idee gratuite, sono scambiate per i pareri di Perpetua. Ho l’impressione che entrare in libreria e comprare un libro sia differente. Perlomeno chi spende dei soldi sa che la lettura deve essere proficua. Le riflessioni gratis sono scambiate per merce di poco conto.”

“A patto che tu Leandro riesca a trovare una Casa editrice... Di questi tempi mi sembra un’impresa titanica...”

“Certo non sarà facile...sarà più di una impresa titanica. Bisogna avere dalla propria parte la benevola sorte e finanche l’aiuto di Dio, che non sarà certo al mio fianco.” 

“Finora, Leandro, abbiamo sempre pensato che l’uomo fosse l’unico essere capace di plasmare il mondo; esistono altre entità invisibili che possiedono poteri superiori all’uomo.”

“Secondo la fede, Julius, tali entità hanno un nome e si chiamano Angeli e Demoni. Lo sai meglio di me. Questa è proprio materia tua.”

“Leandro, adesso devo andare. Ecco qui, il tuo onorario riparatore.

“Te lo avrei ricordato.”

“Era qui, già pronto, un assegno a tuo favore.”

“Grazie Julius. Sei un vero gentiluomo.”

 

 

81

L’Ordine dei Penitenti investiga sul paranormale

 

Sulla scia dell’emozione, Padre Julius aveva preso l’affrettata decisione d’inoltrare per iscritto all’Ordine dei Penitenti il fermo proposito di tornare allo stato laicale. Nello stesso tempo auspicava di mantenere l’incarico di direttore della Fondazione di studi sul paranormale, almeno fino al completamento delle indagini iniziate. 

Decide pertanto di fare partecipe delle sue sofferte decisioni il proprio confessore abituale, suo amico di vecchia data; entrambi originari di un’antica repubblica baltica, la Lituania, tornata all’indipendenza dopo il crollo del comunismo. Nato in pieno regime sovietico da genitori cattolici, Julius Vilnius aveva frequentato le scuole russe di stato e completato gli studi grazie alle sue eccellenti capacità. Laureato in psicologia, in occasione di un convegno di studi a Berlino Est, era scappato nella parte occidentale della città e aveva chiesto ed ottenuto asilo politico. Era iniziata l’epoca della fuga dei cervelli eccellenti che non accettavano le pesanti restrizioni alla libertà, imposte agli intellettuali nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il risveglio del fervore religioso aveva spinto Julius Vilnius a chiedere d’entrare a fare parte dei Penitenti, anche allo scopo dichiarato d’imbrigliare il proprio spirito ribelle. Completati gli studi teologici a Roma, era entrato in Curia. 

“Fratello, devo confessare il disagio profondo che mi attanaglia da alcuni giorni.” Padre Marco stava andando a prendere i paramenti sacri della confessione, ma Padre Julius gli fa cenno di desistere. “Sono stato frainteso. Vorrei avere il conforto e il parere di un amico prezioso. Ti parlo fraternamente.” 

“Non avere reticenze con me.” Risponde in lituano il sacerdote che aveva assunto il nome di Marco. Con Julius aveva in comune i giochi, il curriculum scolastico e universitario e l’insofferenza verso il regime comunista. Insieme avevano progettato la fuga in occidente ed erano entrati a far parte dell’Ordine dei Penitenti. 

Anche Padre Julius decide di preferire una lingua che nessuno in Curia era in grado d’intendere. Non si fidava degli ambienti chiusi. Era stato allevato nella diffidenza verso la polizia politica. Sospettava che in Vaticano potessero nascondersi personaggi ambigui e partigiani del Demonio. “Marco, andiamo a fare una passeggiata nei giardini pontifici. Qui si respira aria di muffa.” Nella Russia sovietica era la frase d’obbligo in circostanze particolari.

“Sì Julius, passeggiamo per ricordare la nostra infanzia, quando innocenti giocavamo a palle di neve nei boschi di Kaunas.”

“Un giorno giurammo che avremmo condiviso comuni ideali, come l’onestà e la verità. Grandi parole per degli adolescenti ignari.”

“Julius è vero, ma in virtù di quel giuramento abbiamo combattuto insieme significative battaglie.”

“Certo Marco. Io non pavento tu possa rivelare quanto andrò dicendo. Peggio, ho la sensazione che questo sia l’epilogo di due esistenze parallele. Una comunione fraterna d’intenti, spezzata da una forza poderosa che mi ha spinto oggi a rinunciare ai miei voti, solennemente espressi nella Chiesa del Gesù Nazareno.”

“Che Nostro Signore possa guidare le tue azioni e riportarti in seno alla Chiesa.”

“E’ quello che chiedo Marco. Per questo t’invito a pregare per me.”

“Quale peccato, che non posso assolvere, ti ha mai spinto a prendere quest’odiosa soluzione?”

“Succede fratello d’essere tentati, anche dopo anni di studi, astinenze e preghiera. A me, in un frangente di poche ore, è successo di tutto. Una sequela di scelleratezze e d’errori che non potrei fare a meno dal ripercorrere.”

“Sembra quasi, a sentirti, che non ci fosse altra via.”

“Tutto è cominciato con un fatto scandaloso accaduto di recente nei Musei Vaticani.”

“Non ne ho saputo niente! Dimmi.”

“Io non ne ho finora parlato con nessuno. La natura dell’accaduto esigeva la massima riservatezza.”

“Spiegami meglio come stanno le cose Julius.”

“Uno sconosciuto in Biblioteca si presenta con questo messaggio e mi coinvolge in una vicenda assurda. Fammi il favore di leggerlo.”

Marco l’esamina con attenzione e sorpresa. A ogni periodo lanciava un’occhiata interrogativa all’amico.

“E’ inquietante. Tu hai vissuto l’evento e certamente sarai stato attraversato da domande di ogni tipo.”

“Marco ho accettato la sfida del paranormale e mi sono assoggettato alle richieste. Anche se a malincuore.”

“Non ti crucciare; anch’io avrei fatto lo stesso, Julius.”

“Però, Marco, voglio metterti al corrente di altro. Fino a poco tempo fa non mi occupavo di paranormale. Dicerie. Poi l’Ordine dei Penitenti mi chiama, per presiedere una Fondazione di studi sui fenomeni paranormali. Un incarico che non ho rifiutato. Mi consentiva di allargare i miei orizzonti cognitivi, di mettere a frutto le mie conoscenze di psicologia.”

“Come mai l’Ordine si é messo a fare simili ricerche?”

“Non lo so. Non mi hanno dato spiegazioni. I lavori sono finanziati da una persona molto influente e ricca, di cui nessuno conosce l’identità. Tutto è avvolto nel maggiore segreto, nel senso che io raccolgo del materiale inedito e poi, lo invio, attraverso uno studio notarile, al patrocinatore dell’iniziativa. Possiamo permetterci spese anche esagerate, pagare gli esperti del settore profumatamente. Tutte le iniziative, le filtro io. Ho ricompensato l’autore di un sito dei Tarocchi con duemila e duecento euro, per averlo danneggiato ingiustamente, tanto per farti un esempio dei miei poteri discrezionali.”

“E’ perché mai tale cifra?”

“Gli Arcani maggiori sono ventidue. Un risarcimento simbolico di cento euro per ogni Arcano. Nel fargli oscurare il sito sapevo che commettevo un’azione indegna per la mia rettitudine intellettuale. Confesso un altro peccato di questa storia.”

“Perché mai l’Ordine accetta d’indagare sul paranormale per conto di terzi?”

“Ripeto: è nata una Fondazione, di cui l’Ordine è il beneficiario. Ci sono molti soldi in ballo. Noi siamo come dei soldati abituati a obbedire.”

“Tu però nutrivi qualche sospetto. Come mai?”

“Le indagini erano tenute segrete a tutti gli ecclesiastici. I nostri esperti sono dei laici. Abbiamo sottoposto alcuni prelati all’esame di un sensitivo. Pare fossero disturbati da presenze malevole.”

“L’Ordine dei Penitenti sta indagando anche su dei prelati!”

“Quello che stava accadendo era la prova, forse di uno scontro sotterraneo dai connotati oscuri. Io, quale umile servo del Signore, ho sempre obbedito alle direttive del mio diretto superiore.”

“Perché non hai lasciato la fondazione a suo tempo, quando hai avuto dei sospetti?”

“La materia mi affascinava. Volevo capire realmente verso quale direzione stesse andando l’Ordine.”

“Secondo me, Julius, l’Ordine si è affidato a uno straniero, perché non si fidavano dei sacerdoti italiani presenti in Curia.”

“Probabilmente è così. Sapevano che non avrei parlato.”

“L’Ordine vuole conservare, o vuole sovvertire?”

“Dipende da come userà il materiale. Non so se sarà mai divulgato. Il mecenate vuole essere informato, ma ci lascia carta bianca.”

“Sei stato reticente Julius.”

“Posso dirti onestamente, come se questa fosse una confessione, che abbiamo finora incontrato solo energie negative.” 

“Julius non voglio indagare in una sfera delicata e occulta. Torniamo a esaminare l’oscura minaccia che abbiamo dinanzi!” Marco agita il messaggio rimasto nelle sue mani. “Questa carta parla di angeliche presenze. Le hai viste con i tuoi occhi?”

“A tratti. Forse una visione, frutto di una suggestione. Avevo con me anche una fotocamera digitale. Ero partito con l’intenzione di mettere nel sacco delle prove. Poi non l’ho usata.”

“E la suora dei messaggi?”

“La calligrafia era della suora, senza tensione e forzature. Ha risposto per iscritto ad alcune mie domande. Non ricordava nulla di strano durante la sua visita ai Musei Vaticani. Mi è parsa sincera.”

“Quindi la suora è stata solo uno strumento?”

“Sì, secondo l’autore del sito incriminato, è in gioco una forza non umana. Lui ha fatto riferimento agli Arcani maggiori, che vengono del resto menzionati nel messaggio.”

“E tu lo credi?”

“Nessuna persona fisica avrebbe potuto costringere la suora a scrivere quel messaggio. Nei Musei Vaticani, con un via vai di gente. L’obiettivo finale era fare oscurare un sito che spiega i Tarocchi con i numeri. La suora mi ha giurato che non ha mai visto un mazzo di quelle carte in vita sua.”

“Quali altre indagini hai svolto?”

“Vado da una cartomante per vederci chiaro sulla natura della lettera e di chi l’ha ispirata.”

“Tu da una cartomante?”

“Si vuole oscurare un sito sui Tarocchi. Non appiccare il fuoco al Parlamento. E’ stata una scelta logica.”

“Va bene. Ti seguo. E poi? Come fa una cartomante qualsiasi ad accumulare sufficienti titoli in un caso complesso come questo?”

“Facevo quattro passi nel rione Trastevere, quando ho visto una targa d’ottone, sul portone di uno stabile dove lavorava una cartomante. Allora ho pensato che una professionista potesse darmi un aiuto concreto. E’ riuscita subito a stupirmi, già sapeva che stavo svolgendo indagini sul paranormale. Sul mio biglietto da visita non è scritto.”

“Potrebbe avere tirato a indovinare. Lo sconosciuto che ti ha avvicinato in biblioteca sapeva. Forse i due si conoscono e sono in combutta. Hai preso in considerazione questa ipotesi?”

“Anch’io mi sono dato la stessa spiegazione; credibile, se tra i due ci fosse un qualche tipo di rapporto. Comunque io ho scelto quella cartomante a caso.”

“E lei poi ti ha sorpreso con altre rivelazioni?”

“Dispone le carte accanto alla lettera, ma non le legge, adducendo una scusa plausibile. Ne apparecchia altre per me e finisce col predirmi il futuro. M’invita a pranzare con lei ed io accetto, sottovalutando le sue intenzioni. Poi mi seduce, senza che io abbia saputo oppormi.”

“Deve essere soddisfatta: induce in tentazione un sacerdote e compie un sacrilegio.”

“Una donna, credo posseduta da Satana, in pochi minuti, ha fatto crollare il mio voto di castità! Avrei dovuto avere la forza di piantarla in asso. Questa mattina ho chiesto per iscritto di essere svincolato dai miei voti.”

“Perché questa improvvisa decisione? Molti sacerdoti per debolezza commettono peccati carnali.”

“La decisione non scaturisce dalla concatenazione degli eventi. Viene da lontano: dalle indagini che svolgo da oltre un anno. Di casi che non posso svelare. Quanto è accaduto ai Musei, è solo un corollario.”

“Il tuo legame con Dio non può essere cancellato semplicemente con una lettera di dimissioni, come potresti fare in qualsiasi altro lavoro. Lo sai bene. Non pensi che Leda potrebbe averti ispirato anche questo stolto gesto?”

“E’ possibile, ma così potrò essere più libero di continuare le mie indagini.”

“Sono diventate più importanti della tua vocazione?”

“Forse uscendo dall’Ordine non vado nella direzione giusta, ma sto cercando d’intendere i disegni oscuri del Maligno.”

“Dio già conosce il progetto satanico fin dall’inizio dei tempi, non ha bisogno della tua indagine. Tu stesso mi hai confessato di esserti imbattuto in presenze malvagie. I camuffamenti del Maligno possono sorprendere solamente chi non ha fede.”

“Il paranormale finora investigato ha messo in crisi i miei convincimenti religiosi.”

“Quella cartomante emana un fascino perverso, a cui non sai resistere. Stai correndo il rischio di perdere la tua anima.”

“Se restassi nell’Ordine, profanerei l’abito che indosso indegnamente.”

“Pensi che l’Ordine ti lascerà andare via e che, nello stesso tempo, riuscirai anche a conservare il tuo incarico?”

“Certo. Ne sono convinto, Marco. Non possono più permettersi il lusso di mettermi da parte. So troppe cose.”

“Per questo non devi credere di essere al sicuro. Incontrerai nuovi nemici insospettati, quando meno te lo aspetti. Devi essere prudente.”

“Il nostro popolo ha conosciuto guerre, eccidi, deportazioni e fucilazioni. Non abbiamo più niente da imparare.”

“Questa Chiesa, fondata dall’apostolo Pietro, sta in piedi da duemila anni, Julius. Non sarà certo una ricerca sul paranormale a farla tremare. Piuttosto sarai tu a vacillare in un attimo, di fronte ad un ostacolo inaspettato.”

“Ne sono convinto. Però, con i miei convincimenti attuali, stento a restare in questa Chiesa.”

“Rispetto le tue idee. Comunque, Julius, torniamo in cappella, a pregare un poco. Desidero essere illuminato dal Santissimo Sacramento.”

Dopo aver recitato le orazioni, Marco si dirige verso il proprio confessionale a prendere la stola violacea: il colore della penitenza. L’appoggia attorno al collo e torna verso Julius, con l’intenzione di assolverlo.

“Continua la ricerca, senza macchiare la tua anima. Non lasciare il sacerdozio. E’ questa la volontà del Signore.”

“Non è la mia volontà.”

“Comunque io, in nome del Signore, vorrei assolverti ora. Non gli voltare le spalle. E’ un peccato dal quale nessuno potrà assolverti.”

“Va bene: se insisti, posso anche accettare il sacramento. Tuttavia sto cercando di dirti qualcosa di differente, che hai certo capito. Ti ringrazio per l’amore dimostrato per me e per la cura testimoniata verso la mia anima.”

“Allora vado a riporre il paramento che non serve.”

Nel congedarsi i due sacerdoti si abbracciano fortemente. Non era più successo da anni. Si guardano negli occhi e si danno anche un fraterno bacio. Erano attraversati dalla spiacevole sensazione del venir meno di un sodalizio, sbocciato fin dai giochi dell’infanzia, cementato nei comuni ideali politici e unto infine dal vincolo sacerdotale.

In quel preciso frangente se ne rendevano conto, entrambi, forse per la prima volta; quando stavano per separarsi. Tuttavia non riescono a esternare questo comune stato d’animo apertamente, in maniera diretta.

“Oggi, nel radermi, Julius, ho rivisto, nella bianca spuma del sapone, le palle di neve che per scherzo ci lanciavamo, riparandoci dietro i sottili fusti delle betulle.”

“Ed io, Marco, ho sognato di tornare bambino, quando giocavamo nei boschi a nascondino. T’inseguivo a lungo e non riuscivo mai a prenderti. Poi, improvvisamente dietro un albero, ho afferrato un’ombra scura che lasciava cadere sulla neve la carta dell’Appeso dei Tarocchi.”

 

 

82

La Confraternita dei Bamboccianti

 

Dopo essersi confidato con il fraterno amico Marco, Padre Julius riceve nel suo ufficio una lettera recapitata da un corriere e sigillata con della ceralacca, marchiata da una piccola stella di Davide racchiusa entro un cerchio: lo stesso logo della Fondazione di studi sul paranormale da lui presieduta. L’indirizzo era stato scritto a mano, in uno stampatello accurato.  

ALLA CORTESE ATTENZIONE

DI PADRE JULIUS VILNIUS

                                          S.P.M.

Il mittente suonava alquanto strano: Confraternita dei Bamboccianti. Con una certa perplessità il sacerdote osserva la lettera, ma preferisce non aprirla nel suo studio. Ne esce per fare quattro passi in Via della Conciliazione. Si sentiva osservato da un occhio occulto. Qualcuno lo stava usando, muovendolo come un pedone su di una scacchiera. Si ferma a un chiosco di bibite per degustare quattro fettine di cocco. Terminato il fresco spuntino, in strada, legge il messaggio.   

La vita è sogno, secondo il drammaturgo Pedro Calderon de la Barca. Forse un incubo crudele che ci spinge a fare scelte, ora dolorose, ora inattese. Sei arrivato in Via delle Zoccolette e cerchi la nota insegna del negozio di giocattoli Castelli di cartapesta. Domandi della commessa Saramila.  Con aria scherzosa ti fai riconoscere dicendo: “Sono il Mago. Per caso è ancora in vendita il Gioco dell’Oca?”La donna ti risponderà con la frase: “Il Gioco dell’Oca, signore, non è più in vendita”. Poi ti consegnerà una piccola busta. Ti suggeriamo di aprirla. A chi si occupa di fenomeni paranormali la nostra conoscenza dovrebbe interessare. Sei atteso. Sarai il benvenuto.

Padre Julius, proprio per quel logo inconfondibile, non pensa a uno scherzo. Non poteva ignorare l’esplicito richiamo al paranormale e al Mago dei Tarocchi.

A passo svelto attraversa il ponte sul Tevere, per  recarsi, attraverso una serie di stradine che ben conosceva, fino all’indicato negozio di giocattoli. Lungo il percorso si mette a osservare le persone con occhi diversi, come non aveva mai fatto prima d’allora. Assordata dai rumori del traffico, avvolta dallo smog degli scappamenti, la gente passava indifferente. Non sapeva, non immaginava quello che stava succedendo. Sommersa da una marea soffocante di parole, di messaggi, di comunicati pubblicitari trasmessi ogni giorno dalle radio e dalle televisioni. 

Le due commesse del negozio Castelli di cartapesta erano entrambe biondine ed anche piacenti. Indossavano un abito alquanto infantile, in sintonia con il nome del negozio. Padre Julius le osserva a fondo. In quello strano gioco vuole indovinare quale fosse Saramila. Poco dopo una ragazza gli si accosta e lui, quasi a volerla tacitare, le dice che stava solo curiosando.“Faccia con comodo signore. Sono a sua disposizione quando ha scelto. Il mio nome è Saramila.” Adesso l’identità della donna era svelata.

Padre Julius esita nel pronunciare la frase convenuta di riconoscimento. Si sentiva alquanto ridicolo. Tuttavia era troppo tardi per non partecipare al gioco verbale che gli era stato apparecchiato. Parla alquanto sottovoce, per non essere ascoltato dalle persone accanto. “Sono il Mago. Per caso è ancora in vendita il Gioco dell’Oca?”

“Il Gioco dell’Oca, signore, non è più in vendita”.

La commessa sorride. Poi gli prende la mano destra tra le due palme quasi voglia, con un gesto confidenziale poco consueto, trasmettere una sensazione piacevole di persona affabile, ma del tutto particolare. La stretta si protrae a lungo. Il sacerdote volentieri si abbandona a quella comunione inattesa e si sente trasportare in un atmosfera irreale, senza tempo tinta, come immerso in una fonte battesimale di luce che lo avvolge e lo culla. Padre Julius associa Saramila alle parole, quasi premonitrici, ascoltate qualche giorno prima in casa della cartomante: nella settima casa, la Forza annuncia l’arrivo di una donna piena d’energia che cambierà la sua vita.

La commessa gli consegna una piccola busta chiusa con la ceralacca, marchiata con lo stesso logo della Fondazione. Poi aggiunge una precisazione, per rispondere alla precedente domanda del cliente. “Qui da noi, però, signore può trovare un Gioco dell’Oca usato, di quelli antichi, di cartoncino, anni Cinquanta, quando il gioco andava di moda.”

Padre Julius ringrazia, saluta e poi esce dal negozio. In strada percorre le note viuzze del centro storico. Entra e si siede nella prima Chiesa che incontra per leggere il secondo messaggio.

A Piazza della Minerva scoprirai dove si trova esattamente la Confraternita dei Bamboccianti. La scuola di pittura in questo periodo è chiusa per lavori di restauro. Noi ti aspettiamo comunque.

Subito guarda istintivamente l’orologio. Erano le undici. Calcola il tempo necessario per raggiungere l’indirizzo a piedi: circa dieci minuti ad andatura normale. Scorre i citofoni in cerca della Confraternita e suona il campanello.

Una voce maschile risponde: “Siamo temporaneamente chiusi per lavori di restauro.”

“Lo so, ma non sono interessato a lezioni di pittura. Sono Padre Julius. Vengo proprio adesso dal negozio di giocattoli e mi è stato detto di presentarmi qui.”

“Siamo al piano terra. Attraversa pure la porta a vetri già aperta. Entra dove senti la musica.”

Il portoncino si apre automaticamente. Con un poco di batticuore Padre Julius avanza e lentamente percorre uno stretto corridoio. Non si respirava aria di lavori nell’appartamento. Un poco di muffa, qua e là, sui muri. Qualche vecchia stampa sulle pareti riproduceva alcune vedute tipiche dei pittori olandesi, annoverati nella Scuola dei Bamboccianti. Una musica fuori moda giungeva dalla stanza in fondo. Riconosce la voce calda di Ella Fitzgerald e la tromba viva e vibrante di Luis Armostrong. 

Quando entra la canzone jazz si attenua e poi sfuma nel nulla. Il sacerdote prende confidenza con il silenzio e con l’ambiente. Poi ascolta la voce di una persona, seduta sopra una poltrona, in penombra per non farsi riconoscere. “Caro Padre Julius, ero certo che avresti accettato questo stravagante invito.”

“Non potevo rifiutare; sono stato quasi obbligato dal susseguirsi degli eventi.”

“Sì è vero. Accomodati e rilassati, caro Julius. Immagino vorrai vedermi meglio in faccia.”

“Certamente. Da questa mattina, come uno stupido, sto rincorrendo non so cosa.”

“Vorrei la tua parola d’onore che manterrai il segreto sulla mia identità.”

“Certamente. Appartengo a un Ordine religioso che fa dell’obbedienza uno dei capisaldi. Siamo i servi del Signore in terra e dobbiamo solamente attenerci alle direttive che ci sono impartite.”

Si accende una luce e Padre Julius esprime tutto il suo stupore. “Non è possibile! Assomigliate al Padre Generale dell’Ordine dei Penitenti a cui appartengo. Sembrate due gocce d’acqua.”

“Esatto. Sono proprio Padre Giacobbe, unto nella Chiesa di Gesù Nazareno. E sono anche il finanziatore occulto della Fondazione di studi sul paranormale che sei stato chiamato a presiedere.”

“Rimango esterrefatto e quasi stento a crederlo.”

“Perché dovrei mentire? Non avrei chiesto altrimenti la tua parola d’onore.”

“Però, reverendo Padre, a questo punto, vorrei delle  spiegazioni.”

“Certamente fratello Julius. Devi sapere tutto. E poi vorrei anche essere confessato. Ci sono molti peccati dai quali vorrei essere assolto.”

“Non ho con me i paramenti della confessione e poi ho manifestato il desiderio di essere sciolto dai voti.”

“Sei tuttora nel cuore della Chiesa. E inoltre io ho qui la sacra stola. Perché tutto quello che dirò, lo ascolterai nella veste di confessore. Sempre che tu, fratello Julius, non voglia farmi uno sgarbo e non voglia accontentarmi.”

“Perché mai dovrei! Tutto dice che siamo due sacerdoti allevati in seno alla Chiesa!”

“Prima indossa i paramenti e ascolta.”

Padre Julius, in latino, sottovoce, recita la formula rituale della confessione. 

“Da tempo ero curioso di conoscere l’identità del misterioso mecenate, patrocinatore della Fondazione di studi sul paranormale da me presieduta.”

“Mio padre era artigiano falegname: un mestiere che si tramandavano in famiglia da generazioni. Prima della guerra, insieme ad un suo amico commerciante, avevano aperto un piccolo banco di pegni e si erano messi a speculare sulla povera gente. Erano bravi affaristi ed anche molto opportunisti. Non si sentivano per nulla dei galantuomini. In quegli anni mio padre ripeteva spesso che i valorosi stavano nelle fosse comuni e i furbi riuscivano a sopravvivere. Alla fine della guerra io ero ancora un bambino e mio padre era tornato alla sua piccola bottega di falegname in Trastevere. Si chiamava Giuseppe, ma nella zona era a tutti noto come il sor Peppino. Mi additava sempre, perché lo considerava un vero capolavoro, un tavolo ottagonale eseguito da un lontano antenato falegname e rimasto nel fondo della bottega a fare da scrivania dei conti, dove si ricevevano i clienti, da quando era nato, nel 1771. La data era stata sistemata su un lato del basamento, utilizzando alcune listarelle di bosso, un legno particolarmente resistente e molto luminoso quando viene lucidato. Sul lato opposto, alla medesima altezza della data, era stato ricavato un minuscolo cassetto, ove l’artefice del manufatto aveva lasciato un foglietto, annotandovi le proprie volontà circa il destino del capolavoro.

Questo tavolo ottagonale doveva essere donato alla mia amatissima moglie, morta prematuramente di parto. Rimanga in questa bottega a testimoniare la mia devozione per lei, fino al giorno in cui una cartomante esperta non dimostrerà di apprezzarlo per la sua unicità e di meritarlo.

Quando era già anziano, mio padre, prima di morire, effettivamente, nel rispetto delle volontà testamentarie dell’artefice, ha passato il cimelio di famiglia a una cartomante del rione Trastevere, che aveva preso a frequentare per via delle carte, diceva lui; per via di una passione senile per le donne, pensavo io. Quando mi ha detto dove era finito il tavolo, ci sono rimasto male e me ne sono anche apertamente lamentato con lui. Avrei voluto averlo come scrivania personale dopo la sua morte. Lui mi ha risposto che non era stato uno sgarbo nei miei confronti, o un favoritismo per una bella donna. Quel tavolo da sempre era servito per leggere i Tarocchi, anzi era nato anticamente proprio con quella funzione. Per generazioni gli antenati avevano letto le carte sulla stella di Davide e mio padre raccontava che ogni tanto aveva ascoltato delle strane Voci provenire da quelle figure. I presunti influssi della cabala giudaica sui Tarocchi non mi hanno neppure sfiorato. Non ho mai neppure preso in mano un mazzo di carte tradizionali. Forse perché abbracciai, anche se non spontaneamente, la vocazione religiosa. Mio padre, mi orientò verso il seminario. Io dovevo essere un prete, per capire quello che era successo e per non mettere più al mondo figli. Avrebbero potuto vedere gli orrori di un’altra guerra che io serbavo con terrore negli occhi, per averla vissuta da bambino.

Mi ritrovai con l’abito dei Penitenti addosso e per anni non ho desiderato mai altro. Mio padre diceva che dovevo essere io a utilizzare il denaro che mi avrebbe lasciato come ritenevo opportuno, perché avevo quell’istruzione che a lui era mancata e sapevo cose che l’intera schiatta dei falegnami ignorava, perché conoscevano solo i segreti della colla e delle aniline e la stagionatura del legno. La prima volta sono stato da Leda per rivedere ancora il tavolo ottagonale di famiglia, poi sono tornato per ascoltare la voce dei Tarocchi. Prima di conoscere Leda ero solamente un sacerdote qualunque che aveva sempre ricoperto incarichi anonimi e senza importanza. Dopo averla frequentata, sono diventato Padre Generale dell’Ordine dei Penitenti e la mia vita è cambiata. Sono anche crollate le certezze della fede. La Fondazione è nata grazie alla piccola fortuna accumulata da mio padre, morto ad ottanta anni suonati, alle soglie del nuovo millennio.”

 “Reverendo Padre, vorrei sapere perché sono stato scelto io, tra molti penitenti più qualificati di me, a presiedere la Fondazione?”

“Fratello Julius, non volevamo un vecchio condizionato dai pregiudizi e neppure un italiano, espressione degli interessi della tradizione. Eri lituano e avevi frequentato corsi di psicologia nella Russia sovietica. Un impasto di realismo e di validi studi necessari per avere un approccio critico e aperto al mondo del paranormale.”

“Certo una scelta ragionevole e oculata che però ha alquanto cambiato la mia vita.”

“Avverto un risentimento nelle tue parole, fratello Julius. Condivisibile sotto certi aspetti.”

“Mi dica, Reverendo Padre, se la cartomante Leda era stata messa al corrente del mio ruolo nella Fondazione. Lei potrebbe esserne stato l’incauto informatore!”

“Se avessi potuto, avrei impedito il vostro incontro, frutto di un’apparente casualità. Una voce interiore deve averti sospinto a conoscerla. Ha esercitato un’attrazione sottile. Accade spesso di ascoltare voci indeterminate. Anche se poi, molto frettolosamente, per pigrizia e paura le rinneghiamo.”

“Secondo me, Reverendo Padre, la chiave di tutto sta nell’inconscio: dove ci sentiamo come smarriti nell’arido deserto.”  

“Vedi fratello Julius, le voci si manifestano per ciò che vogliamo esse siano, secondo la nostra cultura e secondo quanto siamo propensi a riconoscere. Sempre diverse e disponibili a essere comunque accettate. Demoni, o Angeli, se ci fa più piacere. Talora stentiamo a riconoscerle e pensiamo siano frutto della nostra mente; perché accettare veramente la loro autonomia sconvolge l’ordine razionale delle cose. Alcuni spiriti, per essere ancora su questo mondo, hanno bisogno del nostro corpo, della nostra sofferenza e della nostra disponibilità. Alcuni individui più sensibili sono consapevoli di vivere un dramma, altri neppure se ne accorgono e se ne vanno in giro come automi involontari. E la schiera di chi sa, si assottiglia, giorno dopo giorno, perché è certamente più comodo non interrogarsi e fare finta di niente.”

“I miei studi di psicologia m’indurrebbero a pensare ad uno sdoppiamento della personalità. Sono piuttosto scettico, Reverendo Padre, a vedervi il marchio inconfondibile del paranormale. Piuttosto, un omino con gli occhiali, incontrato nella Biblioteca Vaticana, mi ha avvicinato con un verosimile messaggio profetico? E’ stato lei a farmelo incontrare?”

“No assolutamente! Non so chi sia, né di cosa parli, fratello Julius.”

“Può giurarlo, Reverendo Padre?”

“In queste parole sto mettendo tutta la mia onestà intellettuale.”

“E’ sufficiente, Reverendo Padre. Ora vorrei tornare all’ispiratore dei misfatti commessi nei musei Vaticani. Evidentemente proviene dalla stessa sfera paranormale sulla quale stiamo indagando. Oramai le prove accumulate sono abbastanza evidenti.”

“Fratello Julius, devi procedere con rigore e fermezza. Anche se esci dalla Chiesa, continuerai a presiedere la Fondazione e riceverai, come laico, un compenso adeguato.”

“Sul fatto che sarei rimasto nella Fondazione, non ne dubitavo. Restare mi vincola al silenzio. Non siete forse dello stesso avviso Reverendo Padre?”

“Ovviamente restare in seno alla Chiesa in questo momento garantisce a entrambi una discreta protezione da ogni forma di interferenza esterna. Io, al tuo posto, sulla volontà di tornare allo stato laicale, rifletterei. Parlerei di un proponimento avventato, dettato dall’incapacità di affrontare gli ultimi inspiegabili accadimenti.”

“Piuttosto, perché mai quella sceneggiata al negozio dei giocattoli per incontrare Saramila? Non potevate, Reverendo Padre, farmi venire subito qui, direttamente?”

“L’incontro con Saramila era propedeutico. Doveva vagliare la tua idoneità.”

“Idoneità?”

“Non solo, anche la tua affidabilità e discrezionalità. Tutte doti su cui io ero pronto a garantire. Tuttavia dovevi essere vagliato da vicino. La mano svela i tratti più nascosti della persona.”

“In quali circostanze vi siete conosciuti, Reverendo Padre?”

“Alla bottega di giocattoli, dove lavorava. Alle soglie del nuovo millennio, cercavo una tavola di backgammon nuova. Le pedine negli anni si erano perse e al loro posto usavo dei tappi di aranciata da me colorati. Era un passatempo dei miei primi anni di seminario che non ho più dimenticato.”

“E poi vi sarete rivisti, immagino.”

“Certo, sono stato incantato dai suoi fluidi. Per mesi ci siamo incontrati. Attratto solo dalla curiosità di esplorare l’occulto.”

“E, nel tempo trascorso insieme a Saramila, siete riuscito a conoscere meglio l’enigmatica creatura?”

“Non abbastanza. Asserisce di essere originaria di un’altra dimensione. Non proviene da un altro pianeta. Per viaggiare non usano navi spaziali. Usano altri strumenti più raffinati, comparabili a quelle della psiche umana, ma molto più potenti.”

“Esseri di un’altra dimensione che si trasferiscono sulla Terra, ma senza navi spaziali. Una nuova tessera da mettere nel calderone del paranormale.”

“Nell’immaginazione degli umani s’intersecano paure e percezioni extrasensoriali che hanno un certo fondamento. Comunque non costituiscono l’avanguardia di un’invasione. Fratello Julius, non sono interessati a questo mondo con le sue tecnologie; non saprebbero cosa farsene. Non hanno volontà di dominio. Inizialmente, secondo quanto racconta Saramila, giunsero qui, molto tempo fa, per esplorare questa dimensione. Poi non riuscirono a tornare più indietro. Il corporeo li aveva come assimilati, indeboliti. Ed allora cominciarono a frequentare gli occultisti in circolazione.”

 “Reverendo Padre, questa donna possiede veramente facoltà paranormali? Talora gli spiriti s’impossessano di alcune persone, temporaneamente, per manifestarsi. E possono anche perseguire obiettivi abietti.”

“Saramila comunque è una persona positiva e sincera. Sostiene che il problema vero sono le entità, numerose e pericolose, che orientano le sorti del mondo e tengono in scacco l’umanità.”

“Sono entità aliene?”

“Sono entità scaturite da umani. Sono rimaste molto a ridosso del loro mondo e non si sono evolute: né dal punto di vista morale, né da quello quantico.”

“Stiamo entrando in un terreno minato. Lo spiritismo è una fede. Interagisce con l’inconscio. Ciò rende più difficili le nostre valutazioni.”

“Fratello Julius, le forze occulte si muovono nell’oscurità. Tramano. Si mimetizzano. Solo al cinema si manifestano con effetti speciali, eclatanti. L’obiettivo della Fondazione dovrebbe essere quello di mettere a fuoco la natura dell’occulto. ”

“Allora, Reverendo Padre, vado ad incontrare nuovamente Saramila. Torno a percorrere, nell’obbedienza, la strada che mi era stata indicata.”

“Bene, fratello Julius! Resterai affascinato dal suo modo di essere. E poi non sei vecchio, come me. Io vorrei tornare nel mio anonimato. Leggerò con interesse tutti i tuoi dispacci successivi.”

“A questo punto ci vorrebbe l’assoluzione finale, ma le vostre parole, Reverendo Padre, palesano complicità che non possono essere ignorate.”

“L’idea della confessione mi era nata per vincolarti al silenzio che il sacramento richiede. Non merito nessuna assoluzione, hai ragione, fratello Julius. Adesso ti prego, non indugiare. Già oggi, torna da Saramila. Prima che il negozio di giocattoli chiuda.”

“Certo, lo farò. Ne può stare sicuro, Reverendo Padre.”

“E non pensare d’approdare allo stato laicale. Continua a presiedere la Fondazione. Sei una persona che stimo. Sei il nostro eletto.” 

“In Paradiso le schiere degli eletti, sono le anime dei beati. Non penso di meritare tale onore. Sono un peccatore, Reverendo Padre”

“Credimi, fratello Julius, sei stato prescelto per le tue virtù morali e intellettuali, per il tuo rigore scientifico e la tua volontà di perseguire la verità. Non deludere le mie attese. Non abbandonare la ricerca, proprio ora. E soprattutto, non ti fare scrupoli di coscienza. Nessun extraterrestre sta minacciando il pianeta. Potete continuare a combattere le vostre guerre, in casa, tranquillamente, con la vostra tecnologia, le vostre armi biologiche e nucleari. Non condurremo i vostri criminali in una stella sperduta nella galassia. Non vogliamo ergerci a giudici. Sarete giudicati dalla vostra coscienza. Credo di avere detto tutto. Ho finito. Tu sei un temperamento combattivo. Fin dall’inizio abbiamo puntato su un puritano. Una razza quasi del tutto estinta, oggi. Addio.”

Padre Julius voleva ancora approfondire certi argomenti e quel congedo gli sembrava prematuro. Gli interrogativi però fanno parte dell’esistenza e forse era meglio averne, piuttosto che vivere di riflesso nei messaggi proposti dai mass media, come osservava il professor Leandro.

Fuori dal portoncino, nella piazzetta dove stava il simpatico elefantino che sorreggeva l’obelisco egizio, la vita quotidiana continuava nella routine e nell’indifferenza. Il silenzio si era già appropriato di troppe persone. E Padre Julius voleva dialogare con qualcuno. Saramila certamente lo stava già aspettando. In virtù dei suoi poteri, doveva sapere che il sacerdote sarebbe tornato a parlarle al negozio di giocattoli.

In internet, Padre Julius va a curiosare sulle oscure vicende che avevano visto un obelisco trafugato dall’Egitto, finire sulle spalle di un elefantino, disegnato da Lorenzo Bernini e sistemato volutamente con il sedere rivolto verso il convento dei domenicani, che avevano contrastato lo scultore nelle sue scelte architettoniche. La sintesi di quel capolavoro approdava all’epigrafe latina, voluta da Papa Alessandro VII, che attribuiva al forte animale una funzione simbolica. Serve una mente robusta per sostenere una solida sapienza. Padre Julius sarebbe stato in grado, come l’elefantino, di sopportare il peso delle scoperte che avrebbe fatto nei giorni futuri?

 

 

 

83

Torna in scena il paranormale

 

Padre Julius lascia la sede della Confraternita dei Bamboccianti e decide di pranzare in un ristorante esotico gestito da suore, giacché stava in quei paraggi. Ne era diventato un assiduo frequentatore. Tutti i giorni, quando il tempo clemente lo consentiva, dal suo ufficio in Vaticano ne approfittava per fare una passeggiata a piedi e spezzare la vita sedentaria che conduceva. A percorrere i due tratti di strada impiegava circa un’ora e mezza; così poteva lasciare correre i pensieri e trovare una distrazione.

Mangia il piatto unico del giorno proposto dalla casa: un cuscus tunisino, accompagnato da carne di pollo e verdure. Avrebbe volentieri invitato padre Giacobbe a pranzare insieme, ma si era eclissato, troncando ogni rituale commiato, dando ad intendere che non c’era più nulla su cui conversare. Frattanto diverse domande erano affiorate ed esigevano una pronta risposta, pertanto decide che sarebbe tornato al negozio di giocattoli nel tardo pomeriggio. Nei suoi uffici in Vaticano si limita all’essenziale con scarsa vena e poca attenzione. I suoi pensieri ritornavano a considerare l’enigmatica personalità del mecenate padre Giacobbe. Un Julius sempre più ansioso non vedeva l’ora di rivedere Saramila. Lascia il lavoro prima del previsto e preferisce gironzolare per le vie del centro storico, rincorrendo interrogativi a cui non riesce a dare una risposta. 

L’impiegata del negozio di giocattoli lo riconosce e gli si avvicina. “Padre Julius, chiudiamo tra mezz’ora. Si sieda qui, ascolti un poco di buona musica new age. I brani sono tutti rilassanti: rumori della foresta, il temporale, le onde del mare. Può darsi che un disco le piaccia davvero e ne acquisti anche uno.” Escono sottobraccio, per infondersi coraggio. “Suvvia Julius, immagino vorrai farmi alcune domande. Diamoci del tu. Adesso non sei più un cliente.”

“Saramila, oggi ho lavorato male e poco. Sono andato in strada senza una meta precisa. Sono frastornato. Altro che alcune domande. Ne avrei una valanga.”

“Julius, allora facciamo conversazione qui vicino; conosco un ristorante cinese niente male. Suvvia, andiamo là.”

Il sacerdote si limita ad annuire. Non indossava l’abito talare. Nessuno si sarebbe meravigliato, se al ristorante si accompagnava a una donna più giovane di lui. 

“Sediamoci in quest’angolo: il preferito di Saramila.”

“Tu come hai fatto esattamente a entrare nella mente di Saramila e a impossessarti di lei?”

“Non hai usato il termine esatto. Saramila non si sente posseduta. Cammina. Parla. Agisce. Va al ristorante che più le piace. Ordinerà i classici involtini primavera, il pollo alle mandorle e infine la banana caramellata. Già sta pregustando quei sapori e quegli odori inconfondibili.”

“Tuttavia devi riconoscere che il corpo di Saramila è usato da una presenza aliena che se ne serve per interagire in questo mondo. Non pensi che tu stia privandola della sua libertà?”

“Ti stai mettendo dalla prospettiva sbagliata. Siamo come due creature che vivono in perfetta simbiosi. Saramila aveva tentato di togliersi la vita, ingerendo una forte dose di barbiturici. Dopo il risveglio dal coma, è passata attraverso le cure di uno psichiatra. Il suo medico curante è il più meravigliato di tutti. La sua paziente inspiegabilmente si è ripresa. Al risveglio ha dichiarato d’avere ascoltato della musica. Era deperita e adesso ha cominciato a mangiare con regolarità. Non soffre più crisi di panico. Ha persino trovato un lavoro che le piace. Senza di me, ospite inatteso, Saramila ora sarebbe morta.”

“Voi riuscite a captare i pensieri? Possedete proprietà telepatiche?”

“Talora, non sempre. Molto dipende dalle situazioni. Quando viviamo in stretto contatto con una creatura umana, siamo anche molto vulnerabili, perché l’organismo che ci ospita lo è. E se non riusciamo a uscire in tempo, rischiamo d’essere trascinati via nella spirale della notte.”

“Uscire ed entrare. Non dev’essere facile quest’operazione, immagino.”

“Non è facile! Tutt’altro.”

“Eppure ne parli con una certa familiarità, perché in qualche modo sarai pure entrata.”

“Caro Julius, basta guardarsi attorno. Vi sono teorie antiche sulla metempsicosi, fin dai tempi dei pitagorici; e poi la reincarnazione degli induisti, fino allo spiritismo dei giorni nostri. I corpi pare siano a disposizione. Si viaggia per purificarsi.”

“Tu non sei un’anima in viaggio. Le anime reincarnate non ricordano: né chi erano, né dove stavano. Ammetti che sia tutto avvolto da un certo alone di mistero. Dovresti essere più precisa su questo punto.”

“Provengo dalla dimensione dell’infinitamente piccolo che ha progettato i mondi disseminati nel cosmo infinito.”

“Non puoi certo fornirmi delle prove.”

“Il mio mondo può essere approssimato dal solo microscopio elettronico. E saprai che le leggi della fisica classica mutano molto nel mondo infinitesimale. Per compiere questo mio viaggio straordinario non bisogna prepararsi una valigia e prendere la prima astronave in partenza verso la Terra. E comunque è più prudente mantenere un certo alone di mistero e segretezza.”

“Padre Giacobbe mi ha detto che siete giunti qui per esplorare questa dimensione. Ricordi alcuni particolari di quel viaggio avvenuto tanti anni fa?”

“Molto poco. Ogni successiva incarnazione ci rendeva sempre più umani e più vulnerabili. Il nostro leader ebbe l’idea di perfezionare un gioco di carte allora abbastanza in voga in Italia settentrionale: i Tarocchi. Vi aggiunse dei jolly che potevano sparigliare il gioco e li chiamò Trionfi. Poi perfezionò il sistema di ventidue carte e ne fece un mezzo di divinazione e di riconoscimento. I Tarocchi sarebbero diventati uno strumento diffuso tra gli occultisti. In questo modo, secondo lui, avremmo avuto maggiori probabilità di mantenere i contatti. Nonostante tutto, ci siamo più volte smarriti, e poi ritrovati.”

“Dimmi Saramila cosa potrei, o dovrei fare per te, per voi?”

“Hai incontrato di persona un professore che dice di conoscere assai bene i Tarocchi. Devi metterci in contatto con lui, condurlo nella sede della Confraternita dei Bamboccianti.”

“Potevate contattarlo con una email.”

“Potevamo, ma ci serviva una mediazione di una persona di spessore intellettuale. Una forte tempra morale. Una razza di uomo quasi del tutto estinta oggi, specialmente in questo sciagurato paese. Volevamo cautelarci, accompagnarci con amici fidati. Tu sei il nostro mediatore ideale per avvicinare Leandro. Entrambi siete passati attraverso le forche caudine della cartomante Leda e finora siete riusciti a sopravvivere. 

I nostri nemici sono molto esperti e sanno camuffarsi, ma, in un modo o nell’altro, finiscono sempre per bazzicare l’occulto. A ridosso dei Tarocchi si consumano grandi misfatti, che nessuno ha mai raccontato e che nessuno riuscirà mai a dimostrare. ”

“Allora la Fondazione di Studi sul paranormale, da me presieduta, assume un'altra valenza, ben più marcata.”

“Avrai la grande occasione di svelare le corde dell’occulto, di cui nessuno parla alla luce del sole. I delitti palesi li commettono solo gli sprovveduti e i principianti.”

“Stai dicendo, Saramila, che l’occulto è al servizio del Male?”

“Sto affermando, Julius, che l’essenza stessa del Male è occulta. Grazie agli schermi protettivi, riesce a proliferare indisturbata, come una cellula malata.”

“Il Padre Generale mi ha detto che siete alieni di un’altra dimensione, smarriti in involucri corporei e quasi costretti a forzate reincarnazioni. Tu stessa me lo hai confermato. Confesso però che sono piuttosto perplesso.”

“Diciamo Julius che in realtà tutto è assai più complicato. L’intrigo parte molto più da lontano. Da quando questo Mondo è stato progettato. Forse, come sacerdote, sei più propenso a pensare che sia opera di Dio.”

“Talora la mia fede in Dio vacilla. Tuttavia, Saramila, non posso negarne l’esistenza. Sprofonderebbe tutto nell’abisso.”

“Dio è una metafora e anche una comoda mistificazione. Fa comodo alle Chiese che ospitano i fedeli. E consola i credenti che cercano ristoro per la loro esistenza drammatica. Noi siamo un piccolo gruppo e siamo venuti qui per un fratello smarrito che si era perso e non aveva fatto più ritorno. Stiamo cercando d’investigare le cause della sua morte.”

“Saramila, trovo anche questa spiegazione non del tutto soddisfacente. Vorrei una risposta esaustiva.”

“Ascolta bene le mie parole, Julius. Le ho trascritte già prima del nostro incontro, perché tu possa sempre tenerle a mente e non smarrirti nei dubbi che subentreranno dopo la nostra conversazione. Molteplici essenze primordiali hanno progettato la realtà sensibile. Sarebbe possibile detronizzare Dio dal suo piedistallo, ma non converrebbe alle Chiese, agli Stati, agli individui. A questa logica conclusione sono già pervenuti alcuni filosofi. Tuttavia potrebbero condividerla tutti, se la verità delle origini non fosse stata oscurata nei meandri dell’inconscio. Per questo da secoli ci si interroga e non si trova una risposta.

Conserva pure questo foglietto, ora è tuo.”

Saramila resta in attesa di una risposta, ma Julius tace e osserva quel messaggio stretto tre le sue mani che cominciano a tremare.

“Un sacerdote, Padre Julius, sta investigando sul paranormale e in Trastevere si ferma di fronte ad un portone, dove spicca la targa di una famosa cartomante. Forse ha investigato con troppa solerzia e qualcuno vuole disorientarlo, indirizzarlo verso altre direzioni. A noi invece la sua ricerca sta a cuore e gli suggeriamo, sotto forma di voce interiore, d’interpellare lo scrittore eretico che ha fatto luce sulle origini dei Tarocchi.”  

“Attualmente sto conducendo un’indagine sulle proprietà terapeutiche della musica. E così ho scoperto che siete specializzati nel genere musicale adatto per la meditazione.”

“Allora, quando ti ho consigliato d’ascoltare qualche brano, ti ho letto nel pensiero?”

“Sì, a volte capita d’intuire un pensiero. Tuttavia non credo, Saramila, che si possa leggere il pensiero nei suoi dettagli.”

“Io sono stata guarita da una musica. Adesso in casa ascolto sempre alcuni brani che sono in vendita presso di noi. Fanno bene. Mi fanno sentire protetta.”

“La musica dunque protegge?”

“Sì. Protegge dalle influenze negative, dalle presenze malvagie.”

“Ve ne sono? Qui, adesso, attorno a noi?”

“Non saprei. Non riesco a sentirle. Adesso sono concentrata sulla conversazione. Ma dimmi, tu che sei un esperto, perché la musica riesce a guarire?”

“Perché la musica trasmette armonia e fa vibrare le nostre fibre che entrano in risonanza con suoni soavi, delicati, carezzevoli. Lo sai, Saramila, che fin dai tempi di Aristotele già esistevano le basi della musicoterapia moderna?”

“Certo Julius, oggi abbiamo in più la tecnologia.”

“Tornando alle presenze malvagie, pensi, Saramila, che possano impadronirsi della volontà di una persona come me, come te?”

“Io penso che possa accadere.”

“Per questo senti il bisogno di proteggerti?”

“La musica protegge e cura la mia integrità psichica. Le entità negative cercano di farmi del male, perché sanno fare solamente questo.”

“Tu pensi d’essere stata danneggiata da queste entità?”

“Sì. I miei genitori erano morti improvvisamente e tragicamente, in seguito ad un incidente d’auto. Avevo da poco compiuto venti anni.”

“Mi dispiace toccare questo doloroso argomento.”

“Dopo la loro morte cercavo un conforto nelle sedute spiritiche. Un’amica diceva d’essere medium. E allora ho sentito quelle presenze orribili e fastidiose, appiccicose, che s’incollano nelle tempie e non vengono più fuori. Così sono iniziati i miei problemi psicologici, le mie ansie, il mio panico.”

“E con i tuoi genitori sei riuscita a stabilire un contatto?”

“No. Anche se qualcuna di queste entità si spacciava per loro.  Erano, ripeto, presenze strane, malevole; non mi volevano bene.”

“Saresti disposta a rilasciarmi un’intervista per la mia ricerca? Io, oltre che svolgere ricerche sulla musica ‘new age’, sto, come saprai, in questo periodo investigando sui fenomeni paranormali. Tuttavia dovrei registrare tutto. Ovviamente nel rispetto della dimensione del privato.”

“Sono disponibile, non ho nulla in contrario. Il mio caso è ben noto al mio psichiatra, ma lui non ha mai creduto alle presenze ostili.”

“E perché?”

“A suo avviso io proiettavo le mie angosce in entità a me estranee, per trovare una giustificazione alle mia crisi esistenziale.”

“Quella tua amica svolge ancora la professione di medium? Vorrei intervistare anche lei.”

“Non te lo consiglio. Io me ne sono allontanata. Non la vedo più da molto tempo. Secondo me dovrebbe essere incriminata.”

“Incriminata? Non ti pare d’usare un termine esagerato?”

“Affatto. Pratica la magia, l’occultismo. Anche se viviamo nel secolo ventunesimo, sono convinta che una forma di stregoneria esista. Diffondono morbi invisibili. Portano con sé quelle presenze che si attaccano al malcapitato e non lo lasciano più.”

“Cerchiamo d’essere razionali, Saramila. Il tempo dei processi alle streghe e agli untori è finito. Vogliamo forse tornare a quelle vergogne?”

“Certo che no! Forse non ho usato dei termini propri. Quella medium è una creatura negativa, che ospita entità altrettanto malvagie.”

“E queste entità provengono da altri pianeti; sono alieni d’altre dimensioni?”

“Non so. So solamente che ho paura di queste entità malvagie.  Una medium mi ha messo in contatto con degli spiriti. Poi sono sprofondata in uno stato depressivo, indotto da presenze aliene, che non sono un’invenzione della mia psiche malata. Ero integra prima di quei contatti.”

“Ci sono dei casi di donne possedute da spiriti satanici. Io so di padri che curano questi tipi di disturbi psichici.”

“Non è il caso di Saramila. Durante la terapia non fa mai menzione di Satana. Perché non ne ha mai sentita la presenza. Nel corso dell’intervista, fatti dire il nome di quella medium. Volendo la puoi sempre andare a trovare e scoprire personalmente come agisce.”

“Mi sembra che tu voglia proprio farmela conoscere. E’, o non è così?”

“Intuizione perfetta. Raccontata da Saramila la mia storia assume un'altra valenza, perché è vittima di una malattia invisibile sulla quale stiamo indagando. Adesso gustiamoci la cena. Dopo ci facciamo una bella passeggiata per digerire.”

“Inseguire invisibili presenze malvagie non aiuta certo la digestione. Per fortuna ho incontrato una bella e simpatica ragazza. Adesso che veleggio verso lo stato laicale, potrei anche innamorarmene.”

“Allora devo stare veramente attenta. Sono più preparata sulle entità che sulle questioni sentimentali.”

“Siamo entrambi alle prime armi. Chissà che non sia bello. Saramila. ”

“Confesso io... non ho mai provato Julius... Voglio essere sfrontata questa sera; ti invito a casa mia: a sentir musica e per conoscerci meglio.”

 

 

84

Julius conosce Saramila

 

Il sacerdote sapeva bene che nella Bibbia il rapporto sessuale veniva indicato col termine conoscenza. Gli era sempre parso un eufemismo di natura morale. A pensarci bene, invece, quella sera gli diventa chiaro che il rapporto sessuale era veramente la maniera più completa per interagire con un'altra persona, per conoscerla a fondo. Tantomeno Julius e Saramila quel giorno stavano cercando un’avventura erotica. Tentavano di comunicare nell’unico modo possibile: nella purezza originaria dell’uomo tornato allo stato di natura. Il loro era un esperimento unico ed irripetibile. Una necessità fisiologica e mentale. Una prova imperiosa da superare insieme, per dire d’essersi conosciuti veramente. Altrimenti sarebbero rimasti degli estranei e nel loro caso non potevano permetterselo, se volevano andare avanti.

Noi non disturberemo la loro intimità, non sveleremo nulla sulla chimica delle emozioni provocate da un intenso abbraccio, da appassionate carezze e da lunghi baci. Saramila e Julius erano consapevoli d’essersi incontrati in un momento cruciale della loro esistenza; entrambi rimpiangevano di non essere più tanto spensierati e di non potere distillare fino in fondo l’alambicco dell’amore. La loro unione non era casuale, ma forzata dalle circostanze, dalla necessità di conoscersi più profondamente, per portare avanti la missione che ciascuno aveva voluto abbracciare.

Uscita da una crisi esistenziale profonda, Saramila quasi non si riconosceva più nella nuova donna che si bagnava alle fresche e dolci acque dell’amore. Svincolato interiormente dal voto di castità, Julius approdava a un secondo corpo femminile in maniera più naturale, mescolava umori ed emozioni, si lasciava trascinare dalla piena della scoperta del piacere e si congiungeva con una forma di vita sconosciuta che doveva guidarlo e farlo partecipe di risorse della mente finora impensate.

I due, così diversi e così tanto vicini, riescono a conoscersi nel fondo delle fibre senza frapporre barriere. E quella sorta di miracolo non scaturiva dalla verga magica del Mago dei Tarocchi, bensì dalla parte inconscia di Saramila che si consegna a Julius, come Eva originaria nel Paradiso terrestre, quasi immacolata: senza il peso del peccato originario addosso, senza pretendere assicurazioni prima, senza il fardello del dopo. Grazie a quel connubio definiscono il loro progetto comune. Saramila fa rivelazioni sorprendenti e fornisce preziosi consigli su come comportarsi. Illumina un uomo disposto a mettere in discussione i propri convincimenti per diradare le ombre dei misteri che si infittivano sempre, come se vi fosse una pertinace volontà d’oscurare il cammino del girovago errante, a caccia di un frammento di logico buon senso. 

Il popolo dei parlanti era assuefatto al gran guazzabuglio di voci; i libri, una volta dichiarati sacri, avevano bisogno dell’imprimatur, per difendersi dalle imitazioni e dalle eresie; il popolo degli scriventi faceva a gara per diventare celebre e correva dietro alle mode. Queste le tesi del professore che Julius aveva incrociato. Se non fosse stato per quel pastorello leggiadro, il tanto famigerato Discorso sopra l’origine dei Tarocchi sarebbe passato inosservato. E tutto sarebbe continuato nell’indifferenza generale, perché andavano così le cose, nell’era del computer e d’internet.

Sommersi da una valanga d’informazioni, fitte e intricate. Uomini avvolti in una rete. Dove tutto era reperibile e apparentemente esplicabile. Tranne gli Arcani maggiori dei Tarocchi, la cui voce misteriosa pare che la cartomante ancora non fosse riuscita a registrare. A Julius non erano simpatiche quelle icone. In cuor suo le malediceva e avrebbe voluto bandirle con un ostracismo, perché avevano cambiato irrimediabilmente la sua esistenza. Se avesse riflettuto meglio invece, quella sera almeno, avrebbe benedetto gli Arcani Maggiori, perché fino alla fine dei tempi avrebbero prodotto scrittori frenetici e pedissequi parlanti. Gli Arcani in genere, come progenitori della cultura, dovrebbero godere di maggiore considerazione. E i libri, in quanto figli di quei rompicapo, dovrebbero essere più riconoscenti.

 

 

 

85

Formata al rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi

 

Julius arriva in taxi proprio di fronte all’abitazione della cartomante. Il nome esotico India calamitava i curiosi e i cultori delle discipline orientali; riusciva ad abbracciare al contempo gente superstiziosa e persone più preparate culturalmente. Nella città di Roma, la Via del Porto Fluviale sfociava sull’unico ponte di ferro che attraversava il Tevere. In quella zona il rione era poco frequentato. Mancava l’andirivieni dei pedestri; nella strada il commercio era quasi assente. Tale particolarità conferiva alla via un’aria riservata che indubbiamente proteggeva l’anonimato dei frequentatori. La targhetta era volutamente piccola. Si notava appena, solo se già sapevi dove andare.

India: cartomante – int.13

Il sacerdote, dismesso l’abito talare, indossava una camicia chiara e un pantalone di lino color avana. ‘Julius, la mia presenza metterebbe subito in allerta la cartomante. Ai clienti dice d’essere in stretto rapporto con l’Arcano della Morte, dietro al quale si cela una potente entità. Riesce a captare i diversi in un attimo. Dobbiamo agire cogliendola di sorpresa.’ Il sacerdote aveva fatto proprie le raccomandazioni di Saramila e imparato a mostrare la sua parte più vulnerabile. Quando entra, toglie gli occhiali grandi e scuri. Non lasciavano intravedere il colore degli occhi azzurri e mimetizzavano lo sguardo creando una certa barriera protettiva. Tuttavia non voleva denotare alcuna soggezione, o timore.

India osservava i suoi clienti, il tempo necessario per inquadrare sommariamente la persona. Aveva studiato la psicologia comportamentale che cerca d’interpretare i caratteri di un individuo dall’aspetto esteriore: lineamenti, postura, modo di camminare, abito. Ogni particolare poteva denotare timidezza o arroganza, buona educazione o poca cultura, bontà d’animo o malizia. La cartomante riceveva i clienti personalmente. Gli appuntamenti erano ben scaglionati a intervalli di un’ora: i suoi frequentatori non dovevano incontrarsi e farsi vedere da altri. L’anonimato e il rispetto del privato erano fattori prioritari. 

Formata al Rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi. Dove si rivela all’uomo il modo di servirsi della sua Volontà. Per assoggettare a essa tutti gli animati del mondo visibile e invisibile. Veggenza, talismani, medianità, cartomanzia.

India collocava su Bancarella delle Sorprese il suo piccolo trafiletto a pagamento, in pratica da quando il settimanale di annunci era nato e aveva continuato a farsi notare ogni settimana, nell’edizione del sabato, quella più venduta e richiesta. Rispondeva personalmente al cellulare e fissava gli appuntamenti su un’agenda spartana. Abitava in un appartamento modesto di due stanze, bagno e cucina, ubicato in un quartiere popolare romano. La sua clientela era abbastanza variegata, perché la superstizione e certe pratiche spiritiche attingevano larghi strati della popolazione. 

Nell’appartamento, alquanto disordinato, si respirava l’odore del sugo, misto al soffritto d’aglio. Quando entravi, ti sentivi in una delle tante case popolari della città; non vi era nulla di particolarmente attraente, o di spiccatamente detestabile. Eri a tuo agio, solamente se t’immedesimavi nell’atmosfera della portineria di un tempo e soprattutto se non ti lasciavi troppo condizionare dai particolari. Nella stanza più grande, a cui si accedeva dopo avere percorso il corridoio, aveva ricavato lo studio, dove lavorava. Non c’erano le porte che dividevano gli ambienti, così il cliente che entrava poteva anche guardare la cucina, o la stanza da letto sempre disfatta. 

Mentre osserva quella singolarità, Julius presume che le porte fossero state tolte apposta. Psicologicamente senza porte ti sentivi un poco più fragile, senza protezione e non potevi sfuggire agli occhi indagatori della cartomante che cominciava a scrutarti per scoprire le tue debolezze. ‘Queste entità sono possessive, esigenti e maligne. Non si sentono vincolate da nessuna limitazione d’ordine etico. Molte persone quotidianamente sono invase e svuotate.Alcune di queste vittime di ripetuti abusi mentali sono senza volontà. Non riusciranno mai a emanciparsi. Un tempo esisteva il fenomeno della schiavitù dei neri. Parallelamente è cresciuto un fenomeno che non può essere individuato con gli strumenti d’indagine tradizionale: la schiavitù mentale di una persona totalmente pervasa da un’entità maligna.’

Con la palma sudata la medium stringeva le mani dei clienti, per conoscerne lo stato d’animo e per prendersi delle energie a buon mercato. Quando avvertiva qualcosa che non andava, praticamente metteva la persona alla porta, senza neppure scusarsi tanto. “Non mi piaci, cocco.” Se era un uomo. “Non mi piaci, cocca.” Se era una donna.

‘Quando ti saluta, devi apparire spaesato. Devi darle la sensazione che vorresti tornare indietro. Se ti sente insicuro, vorrà speculare sulla situazione.’  Le parole guida di Saramila erano ben impresse nella memoria di Julius, che più volte aveva provato e riprovato l’incontro simulandolo.

India sottoponeva ciascun avventore al rituale magico: mostrava la svastica d’argento adagiata sul petto come pendaglio, per studiarne le reazioni. Prendeva una ciocca dei suoi lunghissimi capelli e vi adagiava sopra l’antico simbolo della genesi stellare. La bocca stretta della donna sorrideva. “Bacia la svastica! E’ il rituale per essere ammesso!” Le dita affusolate sporgevano dai mezzi guanti di merletto. Le unghie finte e lunghe, dipinte di un colore perlaceo, parevano artigli animaleschi. Le sopracciglia, appesantite dal trucco, quasi nascondevano gli occhi piccoli ma brillanti. I capelli neri corvini, fitti e senza piega, erano maculati con strisce rossastre. 

Julius rimane alquanto imbarazzato dalla stravaganza della donna e dal suo sguardo penetrante. Esterna anche un poco di fastidio verso quel rituale, a cui si sottopone con qualche secondo in più d’esitazione. “Accomodati sulla sedia di velluto. Io vado al bagno.” Nella stanza disposti un poco ovunque, v’erano diversi uccelli imbalsamati, dai più comuni ai più rari. Tutti conservavano un’espressione dolente, come se avessero registrato nello sguardo la propria tragica fine e volessero gridare il proprio terrore. Julius avverte nell’aria lo stridio e le voci lontane dei volatili, coperte a tratti dal soffio del vento. Istintivamente vorrebbe andare via subito. Si sente investito dalla morte di tutte quelle creature, per cui prova una profonda pena. Travolto dal dolore e dall’impotenza, torna alla realtà con le parole della cartomante.

“Sembri così serio. La tariffa per la lettura delle carte è di venticinque euro.”

Julius é attraversato nuovamente dall’impulso di lasciare quell’abitazione maledetta. Riesce a controllarsi, perché è stato adeguatamente istruito da Saramila. Subito si volta indietro verso l’ingresso. Adesso senza porte si sente più tranquillo. Ringrazia il destino che quelle barriere siano state tolte di mezzo.  

“Allora bello? Ti vedo un poco molle, demoralizzato.”

“E’ che oggi sono nervoso.”

“Non mi piacciono i clienti indecisi. Hai un’aria di sagrestia.”

Julius non può che arrossire, ma risponde a tono, senza nascondere nulla. 

“E’ vero: sono un sacerdote che ha smesso i voti, per via di una storia.”

“Un prete spretato! Questa sì che non succede tutti i giorni. Merda santissima! E allora perché cavolo sei venuto da me!”

“Una donna in confessione mi ha parlato di te.”

“E cos’altro ti ha raccontato?”

“Di com’era morto il marito, dopo averle letto le carte.”

“E tu come sei venuto a sapere il mio indirizzo?”

“All’uscita dal confessionale, la donna mi ha raggiunto e ha tanto insistito per darmi il tuo biglietto da visita, affinché mandassi un sacerdote in incognito a purificare la tua casa e la tua persona.”

“Non si possono accusare dei rispettabili e innocui Tarocchi. Io mi limito solo a leggere le carte, sia bene inteso. Ordisco fatture, ma sono sempre le carte, il tramite.”

“Avevo messo il biglietto dentro una Bibbia. Così avvolgendolo, credevo di circoscrivere e ridurre il raggio della sua azione. Confesso che non ho mai pensato seriamente di ricorrere all’esorcista.”

“Allora esistono? Non li vediamo in azione solo nei film?”

 Julius annuisce; si sentiva messo alle corde come un pugile. Riusciva a controllare le sue reazioni e poteva conservare lucidità e freddezza grazie ai corsi di meditazione trascendentale al suo attivo.

“Un esorcista opera solo se porta appresso i paramenti sacri e il crocifisso. Io poi sono uno spretato e quindi non posso più svolgere certe funzioni. Se la mia presenza t’irrita per qualche motivo, posso anche andare via. Non sono qui per crearti problemi, anzi vorrei che tu risolvessi i miei.”

“Raccontami il tuo caso allora.”

“Un noto proverbio dice carta canta!’ E fa proprio al caso nostro. Questa è la foto della mia ragazza.”

Le raccomandazioni di Saramila, così insistenti e ripetute, orientavano le mosse di Julius, che apparivano del tutto scontate e naturali. ‘Quando le mostri la mia fotografia, porgila con una mano leggermente insicura. Deve accorgersi che sei emozionato. Non devi essere freddo.’

“La gravidanza è avanti. Secondo la legge, la mia ragazza non può più abortire.”

“Portala da una levatrice compiacente che posso raccomandarti.”

“Lei non vuole abortire. E’ questo il problema.”

“Certo… Mostrami la foto della ragazza. Disponiamo le carte attorno. E vediamo che dicono. Io affido tutto all’amabilissima sorte. Mischio sempre le carte tredici volte, dopo averle disposte nel loro ordine naturale. Non inganno mai i miei clienti.”

India prende il solito mazzo di carte unto e logoro e recita anche qualche formula magica.

“La combinazione pare propizia. Abbiamo tutto l’aiuto necessario.”

“Ne sei sicura?”

“Guarda! Nella settima posizione, l’ultima, la falce della Morte miete la sua vittima: andrà a fare visita al feto e non gli risparmierà la vita.”

India prende la mano sinistra di Julius e mette le sue dita sulla fredda icona del tredicesimo Arcano. “E’ gelata e fa venire i brividi; vero?”

“Sorprendente! Com’è possibile!?”

“Capirai. Per il momento devi pagare dazio; bello! Altri venticinque euro, in offerta per la Morte diletta!”

“Certo ci mancherebbe.” Julius sente crescere la tensione. Le pulsazioni cardiache aumentano improvvisamente.

“Per prima è uscita la Temperanza. Fotografa esattamente l’oggetto del  desiderio: la dolce ragazza, da te tanto amata. Prossimo a lei sta il Diavolo intrigante che lavora a nostro favore. La seconda carta sei te: stai per tradire la fiducia della tua donna.”

“Sì, è vero, India. Hai ragione. Oggi mi sento più demonio che santo.”

“Nella terza posizione troviamo l’Imperatrice: preposta a vegliare sulle unioni maritali. Accanto, nella quarta, cade l’Innamorato: un segno tangibile della tuo innamoramento destinato a durare nel tempo. Tu mi ricordi quel monologo recitato da un attore comico famoso, incentrato sulla filastrocca: ma l’amor mio, ma l’amor mio, non muore. Un pezzo grandioso, geniale! Lo conosci?”

“No, sinceramente, non l’ho presente. Con la vita che faccio, ho avuto poche occasioni per ridere.”

“Poi tu sei straniero! Dall’accento si sente, anche se parli un italiano pulito, quasi perfetto.”

“Sono originario della Lituania.”

“Vicino alla patria della vodka e del caviale. Ci hanno rotto tanto i santissimi in televisione, quando vi siete liberati dopo il crollo del comunismo. E poi venite tutti qui.”

“Detesti gli stranieri, vedo.”

“Sinceramente mi eravate più simpatici quando c’era il muro a dividerci. Ma i clienti quando pagano sono gli stessi, non faccio distinzioni.”

“Quella donna nel confessionale mi ha detto che sei capace di tutto!”

“Ed è vero, cocco! Nella quinta posizione, in veste di Mago,  preparo la mia pozione e la vendo per poco. Mi accontento di un’offerta simbolica, anche se vale molto di più. Nella sesta casetta incontriamo il Gerofante. Genuflettiti qui, davanti a lui e bacia la carta!”

Julius vorrebbe negarsi a quel bacio blasfemo, ma si sente osservato e poi pensa a quante volte in vita sua aveva baciato effigi di santini. Sente l’odore della carta sudicia entrargli in gola. Vorrebbe sputare dallo schifo, ma reprime la repulsione. Gli sembrava quasi di baciare la bocca della cartomante più prossima e più aggressiva. “Che cosa ha di particolare questo Gerofante? Non è forse con il sacro pastorale?”

“Credi sia il Papa che si affaccia a San Pietro, cocco?”

“Non so. Domando.”

‘Più riuscirai ad essere candido e più sentirà interesse per il tuo caso. I Tarocchi diventano degli strumenti letali nelle mani di questa cartomante. Ti voglio mettere in guardia dai rischi che corri. Devi essere molto prudente. T’insegnerò alcune tecniche di difesa. Sono fondamentali per sopravvivere, per non farsi possedere, o uccidere dalle entità.’

“Allora sei proprio un fregnone che viene dal nord. E’ il Papa simoniaco. Il Borgia delle concubine e dei complotti. E’ l’essenza stessa del male, paludata con una sottana.”

“Per questo me lo hai fatto baciare?”

“I Tarocchi sono una forma di religione pagana. Vi sono persone che portano il Trionfo prediletto nel portafoglio. Non lo sai? Allora, adesso facciamo un riassunto di quello che accadrà. A casa tua verrà una suora, nella veste di guaritrice. Sarà fraterna, rassicurante, ma non potrà fare miracoli, nel senso che la tua donna non dovrà esserle ostile. Prima del suo arrivo, avrai la tua parte: dovrai già avere convinto la tua bella a bere la pozione capace di provocare un aborto spontaneo, su cui nessun medico andrà a indagare. Sarà colta da forti dolori e poi da un’emorragia. Dovrai portarla al più presto in ospedale, ovviamente.”

“Questa è una soluzione. Così posso liberarmi della creatura indesiderata e conservare la donna che amo. Vada pure al diavolo ogni scrupolo morale.”

Julius pareva perfettamente cinico, al momento giusto. Eppure aveva esternato a Saramila la propria riprovazione morale. ‘Voglio pormi come obiettivo quello di denunciare apertamente questi fenomeni. Saramila, con i soldi del nostro mecenate potrò fare delle ricerche, approntare delle pubblicazioni.’

‘Si fanno ricerche sui voli degli uccelli migratori, sui comportamenti sessuali degli insetti, si finanziano progetti per prototipi che potrebbero essere sfruttati nel futuro. L’occulto per definizione deve restare tale. Per l’immaginario ci sono le saghe sui vampiri, gli zombi, le guerre stellari. Prudenza, Julius. Impara l’arte della dissimulazione. In questo loro sanno essere perfetti.’

“Allora spretato, facciamo prima qualche conto: cinquanta euro me li devi per la lettura delle carte.  Un’offerta concreta per la suora: non meno di settanta euro. E’ il minimo che accetta. Altrimenti non si muove nemmeno. Più trenta euro, per le spese del taxi.”

“In tutto sono centocinquanta euro. Non sono pochi, ma sono spesi bene.”

“Ora dimmi: chi è questa suora?”

“Sono sempre io, cocco. In veste più casta, con la cuffietta che tiene coperti i capelli e l’abito scuro d’ordinanza.”

“Ecco i tuoi soldi.”

“Allora scrivi qui il tuo indirizzo con tanto di cellulare per rintracciarti. Ti chiamo verso sera, dopo cena.”

Julius comincia a scrivere l’indirizzo.

‘Via dei …..’

Esita… non conclude.

“Allora cocco! Ti sei fatto prendere dagli scrupoli di coscienza?”

“Sì.”

“Bada, hai già pagato e i soldi indietro non li riavrai di certo. Non mi piacciono gli indecisi. Tuttavia, sappi che la Morte non fa mai sconti. Prima o poi verrà a prendere quello che le avevi chiesto. Pensaci! Lo dico per il tuo bene!” 

 Julius non si fa intimorire; con decisione, lascia l’abitazione della donna, senza rispondere alle offese pesanti che gli venivano scagliate contro. Aveva messo nel sacco le prove che cercava: la cartomanzia si fondeva con la medianità e l’occulto male d’esistere poteva espandersi come una macula infetta nella città di Roma: un tempo culla della cristianità, ora crogiolo d’indifferenza e crocevia di genti d’ogni paese. 

 

 

86

La BOCCA della VERITA’

 

La Bocca de la Verità

Pe tutta Roma cuant’ è larga e stretta

nun poterai trovà cosa più rara.

E’ una faccia de pietra che t’impara

chi ha detta la busci’a, chi nu l’ha detta.

S’io mo a sta faccia, c’ha la bocca uperta,

je sce metto una mano e nu la striggne

la verità da mé tiella pe certa.

Ma si ficca la mano uno in busci’a

èssi sicuro che a tirà né a spigne,

cuella mano ch’è lì  nun viè più via.

Con questo sonetto in dialetto romanesco, il poeta Gioacchino Belli narrava la leggenda popolare che aleggiava attorno ad un grande mascherone di pietra di circa dodici quintali. L’effigie scolpita rappresentava probabilmente una divinità fluviale. Quasi certamente doveva trattarsi del coperchio di un antico thesaurus: una cisterna presso il tempio, dove i gentili mettevano gli ex-voto: i sacri doni fatti alla divinità venerata. Questa faccia di pietra, nota a tutt’oggi come Bocca della Verità, fin dal basso medioevo, secondo alcuni, aveva fama di pronunciare oracoli e, secondo altri, aveva il potere di bloccare la mano degli spergiuri e delle donne infedeli. Il capolavoro di marmo raffigura il volto di un vecchio barbuto, con occhi, naso e bocca forati. 

Nell’anno 1632, in occasione dei restauri della zona voluti da Papa Urbano VIII Barberini, l’antico volto di pietra fu spostato nel pronao della Chiesa di Santa Maria in Cosmedin. Si trattava della solita assimilazione e contaminazione di un’opera monumentale pagana, come traspare anche dalle parole introduttive del sonetto del Belli:

In di una chiesa sopra a na piazzetta…

…c’è in nell’entrà una cosa benedetta.

L’obiettivo era di sottrarre definitivamente quell’anonima opera all’abbraccio della leggenda che la faceva risalire agli dei, agli oracoli, alle voci degli inferi. Secondo una diceria, messa in circolazione da alcune cartomanti, in una notte di plenilunio, una donna, condotta presso la Bocca della Verità dal suo amante geloso, ne aveva tratto fuori l’intero mazzo dei Tarocchi. Dopo averli esaminati, lui esterrefatto aveva sofferto un mancamento e poi aveva cominciato a vaneggiare parole senza senso. Lei, al contrario, si era seduta accanto alla faccia di pietra e aveva appreso l’arte della divinazione, poi tramandata di nascosto, al fine di non essere scambiata per una strega e finire sul rogo.

Anche Leda aveva raccolto le voci che circolavano nei circoli esoterici del ghetto ed aveva pure acquistato una riproduzione in resina del mascherone di pietra da sistemare dietro al tavolo ottagonale; ma la copia le era sembrata priva di vibrazioni, inadatta all’atmosfera della sala e quindi alla fine l’aveva relegata in soffitta, perché gettarla nel cassonetto avrebbe suonato come un’offesa. Il 22 maggio è il giorno in cui l’energia sprigionata dagli Arcani è massima, per via della cabala e del quinto mese, considerato come l’elemento dinamico dell’intero sistema dei Tarocchi, giacché il numero 5 mette in movimento i 4 elementi fondamentali della vita,  visualizzati, nella loro interazione di segno contrario, proprio dal numero 22 .

Nella nostra storia siamo prossimi allo scoccare della mezzanotte, nel giorno 22 maggio dell’anno 2005 e la luna piena ha fatto la sua comparsa in cielo. Nei Tarocchi, il numero 18 individua il Trionfo della Luna.

18 = 1 + 8 = 9.  

Stando alla cabala, la luce della Luna è riconducibile all’Eremita, la cui lanterna illumina il cammino insidioso nelle notti oscure, quando l’astro non è al pieno del suo splendore. La Luna dei Tarocchi, il 18, unifica la natura del numero 1, espressione della magia e della vitalità del firmamento, con la specificità del numero 8: simbolo dell’equilibrio del cosmo dai cui discendono gli influssi lunari.

Leda sapeva tutto questo, per averlo assimilato seguendo gli insegnamenti della cabala. 22 minuti prima della mezzanotte del 22 maggio, vuole consultare le carte per leggere il proprio futuro. Di solito non leggeva mai i Tarocchi in quella particolare fase lunare, in quanto l’astro interagiva con gli Arcani. Gli eventi però incalzavano e doveva per forza considerare quella notte come eccezionale. Quando il satellite era comparso visibile dal terrazzo, Leda aveva anche esposto il corpo nudo al chiarore della luna. Era un’abitudine che non aveva mai dismesso nelle notti limpide e tiepide. In quel frangente particolare, pensava d’essere fortificata dall’energia astrale. L’abbronzatura di luna, così cara alla sua pelle, le aveva trasmesso sì freschezza, ma soprattutto fastidio ed anche le note della celebre canzone parevano derisorie come non mai.

Da tempo la cartomante era agitata e non riusciva a prendere sonno come prima; non si sentiva più protetta, ma abbastanza vulnerabile, incapace di fronteggiare i cambiamenti d’umore dei comuni mortali. Temeva d’essere stata abbandonata dal suo demone e aveva perso il solito umore volitivo e dinamico. Perciò aveva deciso d’interpellare i Tarocchi e ascoltarne le voci. Prima di maneggiare le carte, Leda intende procedere alla purificazione delle mani, utilizzando 22 petali di rosa. Ne ha ordinate di fresche per l’occasione al fioraio della piazzetta accanto, a cui ha raccomandato la puntualità del recapito. 

Il ragazzo preposto alle consegne locali, seguendo un rituale cabalistico, indispensabile a garantire la fedeltà della cliente, era giunto alle ore 19 e 22 minuti in punto, con 11 rose bianche ed 11 rosse, per attivare il numero 11, nelle due sequenze di 11 Arcani pari e di 11 Arcani dispari. Il giovane marocchino riceve la consueta mancia, ma non le attenzioni della donna, con la quale sognava di avere un’avventura. Data la sua prestanza fisica e la carnagione bruna, più di una cliente del quartiere lo aveva notato e invitato a prendere un tè nelle sue ore di libertà.

La cartomante priva ciascuna rosa di un petalo, poi, sfregandoli tutti tra le palme, cerca d’assimilarne l’essenza. Vuole così eliminare le energie estranee che erano rimaste sulle sue mani. Sceglie un mazzo ancora sigillato dei Tarocchi di Marsiglia. Mescola diligentemente i soli Trionfi per sette volte consecutive e poi taglia il mazzo, secondo la regola. Nell’ordine escono: la Torre, l’Eremita, l’Appeso, il Diavolo, il Gerofante, le Stelle e la Luna. 

Anche se non deve fare breccia nell’immaginario di nessuno, come una sacerdotessa devota, Leda osserva il cerimoniale e dispone la sequenza all’interno delle case individuate dalla Stella di Davide. Nella prima casa, la Torre folgorata crollava miseramente e trascinava nella sciagura i cultori dei segreti alchemici. Nella seconda casa, antagonista per eccellenza, l’Eremita, aveva tutta l’aria d’entrare in competizione con la cartomante, indegna d’indossare gli abiti della Papessa. Fiero del proprio sacrificio, l’Appeso nella terza casa indicava la via dell’impossibile riscatto morale. Nella veste di tiranno assoluto, il Diavolo nella quarta casa dominava impietosamente su coloro che lo servivano passivamente. Non v’era alcuna traccia di benevolenza verso la sua prediletta. Nella quinta casa, solenne ammoniva il Gerofante con la sua verga cruciforme. Esprimeva una condanna senza appello verso gli atei e i peccatori. Nella sesta casa, le forze cosmiche, le Stelle silenti si mostravano indifferenti alle sorti della cartomante. Nella settima casa, la Luna si specchiava nella propria solitudine. Esaltava gli influssi siderali nella notte e accentuava le paure di Leda, adesso più che mai dipendente dal proprio demone.

Leda considera anche il ruolo dell’ottava e dell’ultima carta, per vedere se esisteva una speranza di recuperare la fiducia del suo padrone. La Ruota della Fortuna indicava un brusco cambiamento molto prossimo che avrebbe segnato la sua vita. Infine il Sole lontano irradiava una fievole luce sull’intero ciclo dei Trionfi che si era aperto con la Torre. L’astro avrebbe osservato gli eventi da spettatore passivo. I Tarocchi avevano apparecchiato un oracolo niente affatto benevolo. Quantunque tentasse di concentrarsi, quella sera, Leda non riusciva a percepire accanto a sé la presenza di nessuno degli Arcani, che sembravano essersi volatilizzati.  

Ricorre all’ausilio della litania, dissolve.....coagula, ma sul momento non produce alcun effetto.  

La cartomante sta per allontanarsi dalla sala, quando avverte  una presenza tra le 22 colonne: simbolo visibile dei Trionfi. Si ferma, s’inginocchia di fronte alla colonna, decorata a spirale, dedicata al Diavolo e percepisce un confuso mormorio che la fa trasalire. Finora il demone aveva parlato alla sua mente; mai si era manifestato con voci fisiche, pur se indistinte. Sopra il capitello corinzio era comparsa una piccola sfera luminescente, a tratti rossastra, a tratti bluastra, che sembrava pulsare. “La tua devota, t’implora, ti supplica...”  Leda sussurra appena un’inutile preghiera e atterrita ascolta una voce nitida, ferma, suadente.

“Non puoi limitarti a compiere azioni criminali piacevoli. Devi superarti con un gesto molto più clamoroso, liberandoti del tuo involucro terreno.” La cartomante si alza e fa per prendere una spada di samurai appesa alla parete; apparentemente una delle tante stravaganze della grande sala. 

“Non così! Aspetta! Domani dovrai versare il tuo sangue in una coppa e farlo bere a Melissa. Un suicidio sacrificale merita una degna cornice.” Leda scivola in un sonno spezzettato e marchiato da un incubo ciclico, che si ripresentava, sotto forma di un’iterazione infernale, una sorta di sfida con le proprie ancestrali paure. A tratti si svegliava di soprassalto, sudata e con il cuore in gola. Davanti incombeva una grande pira, dove era costretta a entrare da una forza misconosciuta che la spingeva verso il fuoco. Una musica, suonata da un’orchestra di venti Angeli, accompagnava beffardamente la corsa straziante verso la catasta infuocata. 

La cartomante, per sfuggire ai turbamenti onirici che la inquietavano, decide d’alzarsi anzitempo e di preparare un caffè ben forte. Aspetta con smania l’arrivo provvidenziale della segretaria di cui ha disperatamente bisogno. Vuole provare il suo orgasmo mattutino. Pensava così di ritrovare un poco della sua grinta quotidiana. Il piacere la rilassava ed era indispensabile. Melissa però quel lunedì mattina non arriva. Neppure avverte d’essere in ritardo. Al cellulare non risponde. Leda decide di chiamare al telefono la sua amante Veronica.  Su di lei sapeva che poteva contare. “Devi sostituire la mia segretaria oggi stesso. Non riesco a mettermi in contatto con Melissa. Forse le è accaduto qualcosa.” Veronica accetta volentieri l’invito e corre subito in soccorso della sua amata.

“Spero che riusciremo ad annullare il maggior numero d’appuntamenti dei prossimi tre giorni. Non sono ispirata.”

“Non ti preoccupare. Calmati. Ci penso io.”

“Veronica, fai lavare le mani a tutti quelli che entrano. E non dimenticarti che devono togliersi le scarpe.”

“Certo Leda. Conosco a memoria tutto il rituale. Mi assumi?”

“Forse.”

“Ora dobbiamo cominciare a disdire gli appuntamenti del pomeriggio. Quelli della mattina, non possiamo più rimandarli. Devi dire che sono raffreddata per via dell’aria condizionata e che ho perso la voce e non riesco a parlare bene.”

Pur dovendo affrontare qualche difficoltà, la cartomante spera, in virtù dell’esperienza accumulata, di trovare la forza necessaria per seguire i casi della mattina.

“Buone notizie, Leda. Sono riuscita ad annullare quasi tutti gli appuntamenti del pomeriggio, tranne uno: l’ultimo delle ore diciassette e trenta. Di un certo Taro. Ho preso visione della scheda e sono rimasta interdetta per via della data di nascita: 22 maggio 1188. Comunque Melissa sembra avere accettato la data per buona. Si evince dalla scheda.”

“Fammela vedere! Quella sciocca non mi ha detto nulla. E’ ridicolo accettare una data di nascita impossibile.”

“E’ quello che ho pensato anch’io. Ecco: guarda: questa è la scheda che ha preparato la tua segretaria.”

 

Presentato: da amici

Nome: Taro

Data di nascita: 22 maggio 1188

Trionfi dominanti*: Imperatore, Gerofante, Giustizia, Luna

Trionfi associati al nome**: Luna, Mago, Torre, Morte

*La data di nascita 22-5-1188, prendendo in esame, separatamente, sia le ultime due cifre dell’anno e anche la somma di tutte le cifre dell’anno stesso, individua i numeri 4 (22=2+2=4), 5, 8, 8, 18 (1+1+8+8 = 18)  che corrispondono ai Trionfi dominanti.

** Nella premessa iniziale consultare la seconda tabella: lettere dell’alfabeto, Numeri, Trionfi.

 

Leda esamina la scheda con una certa meraviglia. La data di nascita, con una chiara valenza cabalistica, riproponeva gli influssi lunari e rimarcava il ruolo spietato della Giustizia. Il nome Taro, ovviamente simbolico, evocava un alchimista, con i poteri del Mago e della Luna, proteso verso la sconfitta della Morte corporale.

“Vedremo chi è veramente costui. E’ inutile fare congetture adesso. Piuttosto mi dispiace avere sconvolto i programmi della tua giornata.”

“Stai tranquilla Leda. Non ti abbandono.”

“Sì, Veronica, ho bisogno dei tuoi baci e delle tue carezze.”

 

 

87

La coppa del sacrificio

 

I preparativi per accogliere Taro solo apparentemente rientravano nella routine ordinaria. Veronica vuole assistere al rituale, pianificato in ogni più piccolo dettaglio: incenso, musica, formule magiche, clessidra. La cartomante non sa resistere alla sfida della cabala e usa per l’occasione un mazzo intonso e immacolato per ricevere degnamente lo sconosciuto provocatore. Trascorre l’attesa concentrandosi sui Tarocchi di Oswald Wirth, così schietti e spontanei, dai tratti ironici, vispi come adolescenti in vena di corsa.

Secondo le istruzioni ricevute, l’Uomo si presenta in anticipo. Si lava le mani scrupolosamente e sceglie 22 petali, che strofina tra le mani asciugate con cura. Poi entra nella sala, dopo essersi tolto dei mocassini di cuoio marrone. Il sedicente Taro cammina disinvolto e ostenta sicurezza. Dà la sensazione già di conoscere quel luogo. 

Leda sta seduta sulla sua savonarola, immobile e pensosa. Sembra più una statua antica che una persona fisica. Mantiene gli occhi bendati, volutamente per estraniarsi e meditare sulla scia della musica e degli scrosci d’acqua.

L’Uomo percorre la sala osservandola poi si siede di fronte alla cartomante e la saluta in tono rispettoso. “Porgo i miei saluti alla cartomante più famosa della città.”

“Sono dispiaciuta. E’ per via di un’infezione virale che sto così. Dal profumo delle mani percepisco che devi avere scelto molti petali per captarne tutta l’energia.”

“Nato il ventidue di maggio, ho scelto ventidue petali. Non poteva essere altrimenti. Sarei voluto venire a questa lettura delle carte proprio il giorno ventidue, ma era domenica e l’evento purtroppo è slittato di un giorno.”

“La segretaria mi ha già letto la tua scheda e mi ha fatto notare però la stranezza della data. Deve esserci stato certo un errore. O forse è uno scherzo. Mille e cento ottantotto. Un poco lontana.”

“Ho spiegato alla segretaria che volevo mantenere l’incognito.”

“Vedi Taro, sei anche fortunato. Oggi neppure avrò l’opportunità di vederti in faccia. Puoi stare tranquillo. Qui rispettiamo la privacy di tutti i nostri clienti: da quelli meno noti, a quelli più famosi. Comunque non sei il primo che si presenta in incognito, o non mi dice il suo vero nome.”

“Io non ho intenzione, o motivo di nascondermi. Anzi.”

“Allora dimmi il tuo vero nome e il tuo anno di nascita. Il giorno e il mese li prendo per buoni.”

“Mi chiamo Taro e sono nato il ventidue maggio, nell’anno 1188. Non sto prendendoti in giro; non sto mentendo.”

“Dimmi qualcosa di più. Non posso credere di avere di fronte un uomo nato tanto tempo fa. Nessuno riesce a vivere così a lungo.”

“Certo nessuno. Io sono un’incarnazione. Il mio nome originario è Taro, nato il ventidue maggio dell’Anno del Signore 1188.”

“Di solito, Taro, questa vicenda dell’incarnazione è piuttosto complicata. Per via che si dimenticano tante cose.”

“Io ho completato il sistema dei Tarocchi nell’anno 1221. Sarei voluto rimanere nella città di Bezierés ad aspettare che giungessero i crociati mandati da Papa Innocenzo III. Non si è salvato nessuno. Le mura non sono bastate e sono crollate. Facevano le guerre con grande violenza, una volta. I nemici erano anche le donne e i bambini inermi. Ci avevano affibbiato il nome di eretici, di Catari, per via che perseguivamo la purezza della fede e rinnegavamo il potere temporale della Chiesa.”

“Devono essere stati momenti terribili! Te ne ricordi bene.”

“Non credi alla reincarnazione, Leda?”

“Non sei il primo che si sente un reincarnato. Sono stata visitata da Pietro Valdo. Da Napoleone. Solo per nominarne alcuni. Potrei fornirti l’elenco: perché ho voluto conservare nomi e date. Napoleone è venuto due volte. Solo che non si ricordava di essere già stato qui una prima volta e di avere visto in me i lineamenti della sua amata Paolina. 

“Certo questa sala per la lettura dei Tarocchi credo non abbia eguali in Italia. Con ventidue colonne: una per ciascun Arcano. Una maniera per accoglierli tutti come meritano.”

“Solo una persona negli ultimi tempi ha avuto sentore del significato cabalistico delle colonne! Avverto che devi essere già stato qui!”

“Certo, ma con un altro nome, in un’altra occasione, non lo nascondo per niente.”

“Comunque non voglio indagare sulla tua identità. Sono una professionista. Di solito registro le sedute ordinarie dei miei clienti. Nel tuo caso me ne sono astenuta. Sei venuto come Taro. E leggerò le carte a Taro.”

“Allora tutto va avanti secondo copione, Leda.”

“Certo lo spettacolo deve continuare. Allora Taro, ho scelto per te un mazzo molto popolare che in genere è simpatico a tutti: i Tarocchi di Oswald Wirth. Sono di tuo gusto?”

“Allora se devo scegliere il mazzo più rispondente ai miei Tarocchi, devo lasciarli tutti al loro posto. Sono tutti infedeli!”

“Chi ha manipolato i tuoi Tarocchi?”

“I revisori dell’Inquisizione. Ci hanno messo dentro fede e dogmi!”

“E’ una bella tesi, ma andrebbe dimostrata!”

“L’ho fatto.”

“Come?”

“Ho scritto un trattato e l’ho pubblicato in internet. Il mondo elettronico è molto liberale e disponibile, accetta tutto. Fino a poco tempo fa, prima che fosse oscurato, era visibile a tutti.”

“Adesso hai svelato la tua identità! Sei Leandro.”

“A volte. Quando Taro se ne sta tranquillo, in un cantuccio. E preferisce solo ascoltare.”

“Allora perché sei venuto sotto le spoglie di Taro? Avevi un appuntamento tra qualche giorno, se non sbaglio.”

“Sono voluto venire in leggero anticipo. Per dimostrarti che hai a che fare con l’inventore dei Tarocchi.”

“Sono piuttosto scettica: non sulle entità immateriali, quanto sul periodico viaggio delle anime che discendono nei corpi messi a disposizione. Mi pare una telenovela infinita.”

“Eppure Leda, la metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, è attribuita al greco Pitagora. Dunque annovera un antesignano di grande fama.”

“Certo il filone è costante. Tutti gli occultisti sono convinti assertori della reincarnazione. Dio apparecchia e condisce le anime con i corpi: come il sugo con i maccheroni.”

“Taro comunque è tornato a rivendicare i tratti originari e i veri nomi dei Trionfi, attratti in questa sala da questo magnifico tavolo ottagonale e dalle tue subdole arti divinatorie.”

“Peccato, Leandro, che i miei Tarocchi non rispondano ai profili originari. Tuttavia le carte hanno sempre qualcosa di magico e questo mazzo ha una lunga storia e una dignità. Non saprei trovarne uno di migliore. Cerchiamo tutti d’afferrare qualcosa che sfugge. Tu insegui i Trionfi. I miei clienti anelano amori e fortuna.”

“Leda, voglio ribadire che anche questo mazzo blasfemo è inadeguato.”

“Per serbare un eterno ricordo, allora amiamoci su questi tappeti!”

“Con le tue arti subdole potrei smarrirmi per sempre: qui.”

“Insieme Taro potremmo fare grandi cose. Senza di me sarai sperduto in questo mondo sempre più frenetico. In passato potevi concederti pause e riflessioni. Vieni. Non sei tentato dal mio corpo?”

“Lo sono, ma oramai credo sia tardi. Il tuo tempo è finito. Quello degli innamoramenti fatali, a cui gli sprovveduti non sanno mai resistere. Non vorrei proprio ora subire un salasso di preziose energie.”

“Domani Leda, per tutti sarà morta: suicida, come accadeva nell’antica Roma. I più nobili non cadevano mai sotto il colpo di daga dei sicari. Preferivano una vasca calda, per via che il sangue fluiva via molto più rapidamente. E tu neppure ti degni di soddisfare la mia ultima vaghezza amorosa!”

“Perché dovrei cedere adesso e lasciarmi impietosire da un probabile suicidio che mi lascia del tutto indifferente. Ha tutta l’aria di un’occulta messinscena. Addio Leda; sono tornato anche per dimostrarti che sono più forte di te, dei tuoi demoni, dei tuoi padroni.”

“Aspetta! Taro, non andare! Ancora un ultimo abbraccio!”

A questo punto Leda si alza e si accosta alla voce di Taro: ne vuole afferrare la persona, che però si sottrae alla presa abilmente. La cartomante irritata decide di togliersi la finta benda, per vedere in faccia il suo interlocutore.

L’inafferrabile presenza pareva essersi dileguata nel nulla.

Allora corre, per inseguirla fuori dalla sala. Non scorge però nessuno. La porta di casa era spalancata. L’ascensore era fermo al pianerottolo. Dalle rampe sottostanti non giungeva rumore di passi. Su per le scale, risaliva, quasi fluttuando nell’aria, una sorridente Melissa, pallida e attraente, con un abito lilla trasparente. Aveva in mano una coppa, che somigliava molto alle carte degli Arcani minori, tutta decorata e sbalzata a mano con motivi floreali. Dalla fattura sembrava antica e anche preziosa.

Questa coppa del sacrificio aspetta di ricevere il sangue della più intrigante e più brava tra le cartomanti di questa benedetta Città Eterna.

A Leda non rimane che aspettare che Melissa varchi la soglia della propria vita. La voce sembrava gorgogliare dal petto di Melissa e inondava Leda, pronta a immolarsi. La cartomante si era messa una tunica bianca e sembrava una vestale che s’immergeva in un fiume battesimale. L’acqua tiepida era piacevole. Bisognava fare scorrere via il proprio sangue, in modo naturale e nella maniera più rapida possibile. Finire in modo eroico e immolarsi. Scivolare nella coppa degli Arcani minori e rivivere forse in un altro corpo più giovane e vigoroso. Sotto lo sguardo allucinato della segretaria, somigliante a una discinta menade durante un baccanale. 

 

 

88

Taro: l’Artefice dei Tarocchi

 

Il ventitré maggio, il professor Leandro, alle ore otto di mattina, riceve una telefonata di Padre Julius. “Dobbiamo incontrarci, oggi, se possibile. E’ una questione importante. C’è di mezzo anche la mia indagine sul paranormale. T’invito a cena dalle suore.”

“Non potremmo fare a meno della cornice mistica?”

“No. Innanzi tutto si mangia ottimamente e con me hanno un occhio di riguardo. Inoltre il ristorante è in una posizione strategica.”

“Strategica?”

“Sì, in quei paraggi vorrei farti conoscere qualcosa di veramente sorprendente.”

“Allora, se è così sorprendente, dove ci vediamo?”

“A Piazza di Torre Argentina, di fronte alla libreria. Andiamo a mangiare alla Sorgente Pia: in via del Pappagallo. Cucina esotica.”

“A che ora?”

“Alle ore sette di sera.”

“Bene, sarò lì.”

All’appuntamento giungono entrambi con alcuni minuti d’anticipo e s’incontrano proprio in libreria, di fronte al banco delle novità. Non comprano nulla, erano entrati semplicemente per curiosare.

Il ristorante era molto prossimo: pochi minuti di cammino per scambiarsi i soliti commenti sul quotidiano. “Le suore aprono abbastanza presto, alle ore diciannove e chiudono anche in un orario insolito: alle ventidue e trenta.”

“Un orario alquanto conventuale, Julius, ma tu conosci il posto e me lo raccomandi per la cucina tipica.”

“Certamente. Le suore provengono da ogni parte del mondo. Arricchiscono la cucina portoghese con piatti della loro terra d’origine. Sei mai stato qui?”

“Una volta. Tempo fa. Mi fa piacere ritornarci. E’ una scelta in sintonia con il tuo abito talare. Ci vieni spesso?”

“Ci viene mezza Curia vaticana. Mi conoscono e mi trattano molto bene. Questa sera, offro io. E consiglio: zuppa di cipolle gratinata, salmone affumicato con sedano e finocchio, formaggio di capra con mandorle e senape, ed infine una mousse al cioccolato.”

“Mi fa piacere conoscerti nelle vesti del buongustaio. Come ti vanno le cose? Hai poi scelto veramente di gettare alle ortiche la fede?”

“Subito dopo avere incontrato Leda sì: gli eventi mi avevano disorientato. Poi sono tornato sulle mie decisioni, dopo un incontro ravvicinato col paranormale.”

Vilnius s’interrompe per prudenza. Si stava avvicinando al tavolo una giovane suora per prendere l’ordinazione.

“Ti presento Gertrude. Sarà lei a scegliere il piatto di carne del giorno, me ne propone sempre uno, unitamente al resto che sono abituato a consumare ogni volta.”

La suora sorride e snocciola un breve rosario culinario. “Oggi, Padre Julius, consiglio cinghiale al porto, in erbe aromatiche. E naturalmente bisogna accompagnarlo con del buon vino rosso che lei gradisce padre: bordeaux del 2002, una buona annata.”

“Certo, brindiamo! Ottima scelta, sorella.”

“Allora Julius, dimmi cosa sta bollendo nella pentola del paranormale.”

“Vive ben camuffato, a ridosso di noi tutti. Conosci per caso i Bamboccianti?”

“Per alcuni anni ho insegnato anche storia dell’arte: li rammento quali pittori olandesi, emigrati a Roma nei primi del Seicento. Importarono il genere tipico del paesaggio.”

“Lo sai che esiste qui, a pochi passi, una scuola di pittura che porta il loro nome?”

“Non ne ho mai sentito parlare.”

“La loro sede è a poche centinaia di metri. A Piazza della Minerva. Vorrei invitarti a conoscere il Maestro, dopo cena. E’ disposto a incontrarti verso le undici di sera. ”

“Come mai così tardi? Tengono dei corsi serali?”

“Affatto, in questo mese sono chiusi per lavori di restauro. Loro hanno stabilito l’ora e programmato questo nostro incontro. Vogliono darti del tempo per riflettere e, se vuoi, puoi anche rifiutarti d’incontrarli.”

“Perché non dovrei accettare?”

“Confesso che mi sento alquanto imbarazzato nello svolgere questo ruolo di messo e mediatore. Da un anno circa, per conto dell’Ordine dei Penitenti, presiedo una Fondazione di studi sul paranormale. Il direttore della scuola di pittura, ho scoperto che è anche il nostro mecenate occulto che finanzia la ricerca. Questo signore ospita un essere che proviene da un'altra dimensione, legge nel pensiero e immagino possieda altri poteri paranormali che gli uomini non hanno.”

“Hai certezza di quello che stai sostenendo?”

“Ne ho le prove.”

“Vuoi prendermi in giro, o cerchi solo di stuzzicarmi l’appetito?”

“Non vedo perché dovrei ingannarti? Quale vantaggio ne trarrei. Sarebbe da cinici e da idioti.”

“Abbiamo tutto il tempo per mangiare con calma; fare una bella passeggiata per digerire e rinfrescarci un poco al venticello de Roma di una volta, così fiacco che sembra esistere solo negli stornelli. E dopo magari prendere un digestivo, prima d’andare a conoscere il paranormale.”

“Il Maestro è un sacerdote come me. E’ anziano, ma fin troppo lucido per la sua età. Io, dai suoi racconti, approssimativamente ne ho ricostruita l’età: circa settanta anni, anche se non li dimostra per niente. Sembra che il tempo, per lui, si sia fermato.”

“E perché mi fai queste rivelazioni?”

“Semplicemente perché vuole incontrarti. Sembrano interessati alla tua ricerca sui Tarocchi. Mi hanno detto che avevano salvato sul computer le pagine del tuo sito, prima che fosse oscurato.”

“Ne sono lusingato. Quanto mi racconti, Julius, dimostra che non siamo soli nell’universo. Avresti fatto la scoperta più rivoluzionaria di sempre.”

“Non ho comunque capito ancora quali sono veramente le loro intenzioni. Tu sei disposto ad un incontro?”

“Certamente, potrei magari un giorno anche raccontarlo. Sarebbe come avere scoperto un altro continente. Improvvisamente mi è venuto l’appetito.”

“Dunque la tua curiosità intellettuale non ti fa fare un passo indietro. Ci avrei scommesso.” 

“Julius, la cena sarà molto calorica, quindi avrò energie da spendere e poi, alla fine, come si fa a dire no. E’ una grande occasione che non capita tutti i giorni. E penso che tu non voglia rifilarmi una bufala. Dopo avermi fatto oscurare il sito, sarebbe degno di un sadico.”

“Ero sicuro che sarebbe prevalsa la sete di conoscenza. Ecco è arrivato l’antipasto. Il vino era già aperto. Alcune bottiglie di rosso, che i clienti di solito consumano, vengono aperte un’ora prima, perché se ne possa apprezzare tutto il profumo e il gusto.”

Leandro beve un sorso. Mangia un poco di tutto, ma in piccole quantità. Le porzioni erano del resto già abbastanza contenute, ma molto ben preparate.

“Complimenti Julius. Devo riconoscere che la cucina è ottima.  Certo che i misteri della vita sono tanti.”

“Questa sera, Leandro, forse riuscirai a fare luce sui misteri che per tanto tempo hai inseguito, ma adesso degustiamo questo cinghiale delizioso che ci riporta ai sapori della selvaggina di un tempo. Lo sai che alle dieci in punto invitano i clienti a partecipare alla preghiera?”

“Allora ringrazieremo per questo ben di Dio che le suore hanno servito.”

“Andiamo poi a fare una passeggiata, Leandro. Voglio vedere con calma Piazza Navona di sera. Di solito con i preti bigotti scappiamo in Vaticano. Rientriamo prima delle undici, per mostrare che non abbiamo approfittato troppo della notte e delle sue tentazioni.”

Mangiano e scherzano. Padre Julius prega ad alta voce. Leandro rimane in silenzio rispettoso. Terminano la cena, poi escono per passeggiare senza fretta, ma parlano poco, perché ognuno rincorre i propri pensieri.

“Leandro, siamo arrivati al civico dei Bamboccianti. Io ho solo il compito di accompagnarti. Non mi è stato concesso di rivedere il Maestro una seconda volta. Comunque non vado via: ti aspetto accanto all’obelisco. Confesso di sentirmi alquanto in ansia. Rimango nei paraggi, se non ti dispiace.”

“Non ti preoccupare, Julius. Se hanno risparmiato un uomo di Chiesa, con me saranno altrettanto benevoli.”

Il professore suona il citofono dello stabile, spalanca il portoncino, segue le indicazioni fino all’appartamento situato al piano terra. Ascolta una voce invitarlo a percorrere il corridoio e a entrare nella stanza che stava proprio in fondo.

“Siediti Leandro. Mettiti a tuo agio. Sappiamo del tuo trattato sui Tarocchi. Lo abbiamo anche letto prima che fosse oscurato.”

“Maestro, buonasera. Julius mi ha detto che provenite da un’altra dimensione. So che esiste in Italia un comitato che studia i fenomeni paranormali. Io sono la persona meno indicata, non ho la qualifica per certi tipi d’incontri ravvicinati.”

“Ne siamo a conoscenza. Al comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, al CICAP hanno aderito premi Nobel, scienziati e scrittori. Così dice il sito che abbiamo già esaminato.”

“Allora grazie al web siete ben informati. Mettetevi in contatto con loro. Avrete degli interlocutori affidabili.”

“E’ vero: il comitato si propone obiettivi scientifici. Tuttavia non intendiamo essere sottoposti a test ed esperimenti in qualche laboratorio; non dobbiamo dimostrare nulla e fornire prove attendibili della nostra diversità.”

 “Io proprio non capisco, Maestro, perché vi siete scomodati per me? Cosa avrei di tanto speciale?”

“Merito del tuo trattato, Leandro. Ci sono delle intuizioni interessanti, anche se alcune parti sono palesemente ispirate, ma forse non ne sei del tutto consapevole.”

“I Tarocchi vanno affrontati con spirito critico, senza farsi condizionare dai trattati precedenti. La vocazione dello scrivente dovrebbe essere quella di dire qualcosa di nuovo. Di che natura sarebbe questa presunta fonte ispiratrice?”

“Appartiene alla sfera del paranormale che Padre Julius sta investigando. Hai avuto per ispiratore uno spirito stravagante.”

“Nel secolo passato ricordo solo un caso di uno scrittore ispirato dal suo spirito guida: Emmanuel. Il fortunato pare che avesse vissuto molteplici vite, in seguito a successive reincarnazioni. Il brasiliano Chico Xavier sostiene d’avere elaborato centinaia di libri tutti ispirati da questo spirito. Lui scriveva per testimoniare le proprie doti medianiche.”

“Per uno spirito può essere arduo interagire con una persona. Chico Xavier ha reso tutto più facile. Ha legittimato lo spiritismo rendendolo più popolare. Gli spiriti erano in cerca di una campagna pubblicitaria che rendesse loro più semplice la caccia. Tu sei riuscito a intrufolarti tra i Tarocchi in virtù di una mediazione molto particolare.”

“Maestro lo ammetto: la voce di Taro talora mi ha dato suggerimenti preziosi. Date l’impressione di conoscerlo meglio di me.”

“Molti secoli fa, Taro è stato l’artefice dei Tarocchi. Perseguitato seguace di Pietro Valdo si era rifugiato nelle terre dell’eresia dei Catari, per trovare protezione. Poi ha lasciato Bezières prima che fosse distrutta e si è rifugiato con un amico ebreo nel ghetto di Roma. E infine con una trovata teatrale ha fatto uscire le carte da un mascherone di pietra che aveva visto la luce contemporaneamente all’edificazione del ponte Fabricio: oggi il più antico, ancora lì a resistere, indistruttibile al tempo.”

“Taro agli inizi è scaturito fuori come una mia creazione letteraria. Ho raccontato i Tarocchi con le pupille di un alchimista. L’avevo dato per morto in Bezières, insieme agli abitanti della città distrutta dai crociati di Papa Innocenzo III.”

“Con te, Taro ci teneva a fare una bella figura e si è fatto passare per eroe. Però ha preferito lasciare le fragili mura e ha trovato riparo in una città più sicura, all’interno della comunità ebraica. Molte tue intuizioni sui Tarocchi sono ispirate proprio da lui. Adesso preferisce mimetizzarsi, come fa sempre, molto bene.”

“In sintesi Taro, utilizzando il suo stesso sistema d’idee, sarebbe sopravvissuto fino ad oggi, attingendo una sorta d’immortalità?”

“Ne siamo convinti, Leandro. Taro ha reso possibile il nostro incontro. Ai suoi occhi siamo certamente credibili. Ci può ascoltare in maniera serena, senza pregiudizi. Abbiamo già cercato di fornire prove della nostra esistenza a certi livelli, ovviamente tutelandoci. Siamo stati sempre smentiti. Menzogne. Trucchi. Fenomeni atmosferici. Visionari. Ai governi diamo fastidio.”

“Maestro, avete ragione. La gente deve continuare a credere nei valori su cui si fonda il potere degli Stati e delle Chiese. In questo sono in sintonia e si spalleggiano. La vostra esistenza enigmatica sarebbe veramente scandalosa. Farebbe crollare tutto il castelletto di menzogne tenuto insieme da secoli.”

“Tu, Leandro, non sembri affatto scettico. Sei propenso ad accettare la nostra esistenza.”

“Mi pare ovvio. Vi siete aperti una scuola di pittura. Certo non per vendere quadri. Come fate a portarli dalle vostre parti?”

“Qualcosa di umano si doveva pur fare! E poi ci consente di conoscere gente. Agli inizi del Seicento, arrivarono a Roma i giovani pittori olandesi che illustravano la vita quotidiana e i paesaggi, in maniera realistica e nuova, in un ambiente dominato da schemi accademici vetusti. La Confraternita dei Bamboccianti nacque allora, per creare una rete di protezione ai pittori, che all’inizio erano mal visti. Ho pensato di ridarle lustro aprendo una scuola di pittura proprio nel centro di Roma. Ho sempre coltivato una grande passione per le arti figurative, sacrificata alla causa del sacerdozio. La mia vocazione fu indotta; subita, per via di un padre autoritario che voleva in fondo purificarsi l’animo non proprio candido, per i guadagni illeciti, durante e dopo la guerra, con il banco dei pegni.”

 “Rapporti tra padri e figli; peccati da condividere e da scontare; lusinghe edipiche. Proprio alle origini del nostro cammino, vede Maestro, si apre forse la pagina più drammatica e inesplorata della nostra esistenza. Non so se ne avverte il peso, nel suo passaggio frettoloso nel corpo che la ospita. Ora, in lei scorgo un mondo che immagino paradisiaco, perché non ha conosciuto il dolore e l’isolamento, scaturiti dal peccato originale commesso dai progenitori. Spesso dico tra me: ‘se vengono gli extraterrestri e m’invitano a fare un giretto con loro, accetto e volto pagina. Tanto qui non ho più nulla d’importante da fare.’ Equivale a coltivare l’idea di un viaggio che possa cambiare la vita.”

“Non vorremmo illuderti, per deluderti domani. Non possiamo portarti con noi, come accade nei film di fantascienza.”

“E’ vero! Scusi, Maestro, dimenticavo: non posso chiedervi un passaggio. Julius mi ha riferito un argomento molto strano, anzi del tutto incredibile. Non sareste più in grado di tornare indietro e aspettereste la fine dei tempi.”

“E tu pensi che abbiamo mentito?”

“Volevate fuorviarlo, impressionarlo. Non si viene da una dimensione superiore, in questo pianeta, per spirito d’avventura. Non siete esploratori. Né cercate interlocutori. E molto probabile che siate tornati per riprendere qualcosa che era vostra e non volete perdere.”

“Cosa pensi si voglia riprendere?”

“Non saprei esattamente. Stavo cercando col mio Trattato di ricostruire una certa memoria della genesi. Essa potrebbe aiutare a mettere fine ai tormenti esistenziali dell’umanità.”

“E sei giunto ad una conclusione?”

“Ho posto le basi per un nuovo tipo di approccio logico filosofico. Ogni teoria sulle origini dovrebbe rispettare la legge del dualismo universale. Sono solamente due le dimensioni: la prima è quella delle idee, la seconda, quella reale. Questo, come diceva Platone, è solamente una copia del mondo delle idee. E il sogno è una porta aperta verso l’altra dimensione. Per questo si sogna, per viaggiare in maniera differente, senza bagagli ingombranti e il costo dei biglietti aereo.”

“E’ un’intuizione molto sensata, Leandro. In effetti le due dimensioni a cui hai accennato sono osmotiche: separate da una sottilissima membrana semipermeabile.”

“Maestro, talora la mia esperienza onirica è straordinaria per l’intensità dei colori, la quiete, gli odori, le sensazioni. Forse tali visioni straordinarie mi sono state suggerite dalle divinità dell’Olimpo.”

“Ecco giusto di Olimpo volevamo parlarti!”

“Non sono stato in quell’impervia regione della Tessaglia.”

“Noi ci siamo stati. Ti sei mai chiesto come mai i greci abbiano scelto quel monte?”

“So che era stimato uno dei più alti della Grecia.”

“E’ stato misurato dagli strumenti moderni, mentre gli antichi andavano a intuizione. Misura duemila novecento diciotto metri. Pare che nel cielo si vedessero strane luci, allora scambiate per tuoni. Quelle luminescenze erano semplicemente aurore boreali. Un ricercatore francese del Settecento ha dimostrato che proprio l’aurora boreale aveva dato un fondamento al mito: la luminosità del monte Olimpo è dovuta alla fantastica luce, accesa dall’aurora boreale nel cuore della notte.”

“Maestro, non lo sapevo.”

“Pare che Taro invece ne fosse informato.”

“Adesso non riesco proprio a capire.”

“Taro ha vissuto la giovinezza proprio nei sobborghi di quella che oggi è Greenwick: dove passa il meridiano zero.”

“Maestro, proprio non vedo il nesso.”

“Taro negli anni si è dato un gran da fare. E’ riuscito con l’aiuto d’amici massoni influenti a fare passare il meridiano principale proprio a Greenwick. Allora le coordinate geografiche del Monte Olimpo hanno assunto un significato esoterico indubbio. Parallelo 40° 04’ 00’’. Meridiano 22° 21’ 00”.”

“Perché sarebbero coordinate indicative?”

“4 sono gli elementi fondamentali della vita. 22 i Tarocchi. 21 il Mondo. E gli Zeri attivi rimandano alla quintessenza.”

“Una coincidenza sorprendente, neanche a farlo apposta.”

“Quando gli amici londinesi di Taro fondarono la Gran Loggia della Massoneria, la prima, scelsero una data cabalistica* di proposito: 24 giugno 1717.”

“Non posso non essere d’accordo, tuttavia questo ragionamento cosa intende dimostrare, Maestro?”

“Attraverso la cabala, gli umani si affannano a fare conti sulla fine dei tempi. Tu non appartieni a questa corrente?”

“No! Per il semplice fatto che si basano su dei presupposti convenzionali. Lo è il meridiano Zero, che sarebbe passato per Roma, se ancora fosse stato in piedi l’Impero romano. Lo è ogni data di nascita che potrebbe variare, se prendessimo come Anno Zero, la nascita di Buddha.”

“Allora pensi che gli apocalittici siano tutti dei visionari?”

“Piuttosto mi sembrano un tantino presuntuosi. Già i millenaristi attorno all’Anno Mille parlavano della fine dei tempi. Maestro, ogni popolo ha sentito di essere al compimento di un ciclo. Non si possono fare calcoli matematici sul momento fatidico dell’Apocalissi.”

 “Eppure, Taro, come tutti gli occultisti, faceva i suoi conti sulla fine dei tempi. E sulla carta originale del Mago incise anche una data, scomparsa poi nelle versioni successive.”

“Recentemente Maestro, sono venuto a sapere che anche Newton, il più grande fisico dell’era moderna, restò per tutta la vita un cultore di scienze occulte e lasciò in eredità un intero baule con appunti e calcoli cabalistici.”

“Taro confidava, troppo ingenuamente, che nessuno avrebbe cambiato i suoi Tarocchi. E con te ha cercato, nei limiti del possibile di ristabilire la verità storica. La data fatidica comunque la si può ancora evincere dal mazzo dei Tarocchi Visconti, i cui originali sono oggi conservati al Morgan Library Museum di New York. Finora nessuno degli interpreti lo ha fatto notare. E tutti gli studiosi hanno dato per scontato che la carta del Mago, svilita al rango di Bagatto, in sostanza raffigurasse un abile illusionista alle prese con gli strumenti della sua professione.”

“Allora questo nostro incontro per lo meno è servito a dare soddisfazione all’artefice dei Tarocchi. Vuol dire che andremo a studiare in maniera più approfondita questo Mago, finora bistrattato e poco considerato nella sua vera essenza. Se Taro ha veramente indicato una certa data e l’evento apocalittico dovesse compiersi proprio allora; avremmo la prova della sua chiaroveggenza. Effimera prova, Maestro. Se nel 2021 ci fosse proprio il Diluvio, avrei al massimo la soddisfazione di averlo annunciato, per via di un Mago bislacco disegnato nei Tarocchi Visconti. Io certamente, nella speranza di doverlo vivere, ci arriverei più preparato. Anche se, alla luce della ragione, mi sembra un tantino prematuro. Siamo così lanciati spensierati e vincenti verso il futuro. Quale grande peccato avrebbe commesso l’umanità per meritarsi un tale trattamento? Dica Maestro.”

“Ha dimenticato le origini e costruito un’esistenza senza equilibrio. Infranto le leggi delle natura, violando le regole. Ti sembra poco Leandro?”

“Sotto certi aspetti condivido, Maestro. Ci siamo negati ogni piacere naturale. Abbiamo ucciso l’eros, la fantasia, la libertà. Speso il nostro poco tempo in rituali vari; approntato guerre di conquista, crociate di religione; per ritrovarci impreparati al nostro funerale senza neppure accorgersene e avere certezze del nostro corpo e del mondo nel quale siamo nati. Maestro mi dia una traccia concreta. Un aiuto. Se lo merito. Altrimenti, diciamoci addio, subito.”   

“La vibrazione, il ventesimo Arcano, le trombe del Giudizio, i  Cavalieri, le quattro virtù ermetiche, i quattro elementi fondamentali. Le coordinate geografiche dell’Olimpo vogliono porre l’accento proprio su questo. E Taro lo sapeva perfettamente. La data scomparsa ne è la sintesi.”

“Taro si è dato un grande da fare, se, come sostenete, ha ispirato anche il mio lavoro intellettuale. Il popolo deve restare all’oscuro. I parlanti ripetono passivamente la pseudo verità degli scriventi. Maestro, fatemi conoscere quegli ET che organizzano viaggi interplanetari. Conoscerete di certo qualche agenzia astrale. Non costa nulla presentarmi.”

“Non possiamo farlo. Semplicemente non sono in programma viaggi per destinazioni stellari, tipo la costellazione di Arturo.”

“Proprio non sono in programma?”

“Vedi il tuo sito ha messo in agitazione il sistema di controllo voluto dalle Voci. Esse un tempo possedevano grandi poteri ed ancora sono molto pericolose.”

“Quali Voci?”

“Gente delle vostre parti. Alienati spiriti che non si sono evoluti e sono rimasti sospesi a metà: nel Limbo, come i dannati, per imperfezione e per punizione d’essere troppo arroganti. Adesso manipolano quelli che recitano il rosario e confezionano l’informazione. Fondano scuole per avere seguaci. Tuttavia restano Voci: astratte presenze la cui energia sta per esaurirsi per sempre. Loro inventarono i roghi e l’Inquisizione. Loro detengono il potere e hanno modellato questo mondo a loro immagine e somiglianza.”

“Comunque il nostro incontro si esaurisce qui: in una fantastica chiacchierata.”

“Anzi al contrario. Ti siamo riconoscenti del lavoro svolto sui Tarocchi.”

“Ancora della gratitudine astratta.”

“Possiamo anche fornirti qualche aiuto concreto. Infilati dentro le pieghe temporali che stanno per chiudersi. Puoi venirci a trovare da solo, con i tuoi mezzi. E’ l’unico modo per farlo.”

“Un organismo biologico progettato, come potrebbe mai arrivare dalle vostre parti, Maestro?”

“Utilizzando la logica e la mente: se l’organizzazione del programma originario prevedeva un viaggio di andata e uno di ritorno, come tu stesso adesso hai sostenuto.”

“Maestro, quando una persona riesce a completare un proprio percorso evolutivo attraverso i Tarocchi, le quattro virtù ermetiche potrebbero accendere l’animo dei forti a compiere imprese egregie. Sapere di sapere. L’arte del silenzio. Volere. Osare.”

“Vedi Leandro, simbolicamente le trombe apocalittiche fanno vibrare i quattro elementi fondamentali. Quelle Voci l’hanno fatto, ma in maniera parziale, portandosi dietro i limiti della condizione umana.”

“                  Viaggio, per fuggire altro viaggio

Con questo celebre verso in tasca, il poeta Guido Gozzano andò a stare in Marocco per un certo tempo, intendeva cercare di curare la sua malattia cronica ai polmoni. La meta esotica non gli fu sufficiente ad evitare la morte.”

“Al momento finale si arriva sempre impreparati. La mente dovrebbe essere allenata, Leandro. Non ci si prepara forse per le competizioni agonistiche?”

“Concordo Maestro. Anche se, da queste parti, si pensa che la musica, la benedizione e le parole del prete possano bastare come viatico. Moriamo impreparati per tradizione.”

“Comunque ora Leandro vorremmo congedarci. Devi tornare dal tuo amico Julius, che ansioso ti sta aspettando.”

“Sarà certo preoccupato. Addio e grazie Maestro. Non ci incontreremo più; immagino.”

“Un abbraccio, Leandro. Addio.”

 

* La data 24 giugno 1717, analizzata alla luce della cabala:

il giorno 24 = 2+4 = 6 

il mese di giugno:  6 

l’anno 1717 =17 + 17 = 34 

6 + 6 + 34 = 46 = 4 + 6  = 10

10, nei Trionfi, indica la Ruota del Divenire; 

Il Numero10 visualizza l’Uno scaturito dallo Zero originario.

 


89

Una donna in bicicletta

 

Neanche a farlo apposta, ventidue minuti prima della mezzanotte, il professor Leandro spalanca il portoncino che si affacciava su piazza della Minerva. Padre Julius, in ansia, stava facendo il girotondo attorno al piccolo obelisco in pietra, sorretto dall’elefantino scolpito dal Bernini e teneva d’occhio la scuola di pittura dei Bamboccianti. “Grazie per avermi aspettato Julius. E’ andato tutto bene. Sono stati pieni d’attenzioni.”

“Vi sono state rivelazioni da parte del Maestro?”

“Diversi argomenti interessanti che devo metabolizzare. Adesso però sono stanco. Ne discuteremo a mente serena tra qualche giorno.”

“Dimmi almeno se sono credibili.”

“Certo Julius, ne sono convinto. Secondo me stanno viaggiando nel tempo. Vengono dal nostro futuro. Debbono già avere avuto altri contatti, a più alti livelli. Solamente noi, popolo dei parlanti, non ne abbiamo saputo niente. Il popolo degli scriventi ci ha  raccontato di tutto e di più; ma non ci hanno mai detto la verità.” A questo punto Leandro si congeda fin troppo frettolosamente. Inseguiva un proprio ragionamento e non voleva distrarsi. 

Il sacerdote rimane alquanto deluso. Vorrebbe subito sapere tutto sul contenuto del colloquio, tuttavia giustifica il desiderio d’isolamento dell’amico, anche per la tensione nervosa accumulata e condivisa. Abbraccia Leandro e decide di recarsi a piedi verso piazza San Pietro. Quando arriva nei pressi dell’antico mausoleo di Adriano, percorre ponte Sant’Angelo, con le due balaustre adornate dai dieci Angeli di Gian Lorenzo Bernini. Viene avvicinato da una donna in bicicletta e si ferma sotto una statua

“Scusa, hai da farmi accendere?” Disinvolta una giovane si accosta con la sua sigaretta.

“Mi dispiace. Non fumo.” Guardandola bene in viso, Padre Julius riconosce i lineamenti della segretaria della cartomante.

“Lei non è Melissa?”

“Sì. Sono io. Ieri mi sono licenziata.”

“Allora avrà trovato un’occupazione migliore, spero.”

“Adesso vendo qualche cosuccia in strada.”

Padre Julius detestava le forzature degli ambulanti, abituati a metterti inutili oggettini in mano, pur di guadagnare un euro. La donna poggia la bicicletta sul parapetto. Il sacerdote vorrebbe allontanarsi alla svelta. “E allora le auguro buona fortuna, Melissa.”

“Anche a te. Voglio proprio darti un ricordino.”

“Grazie. Non è il caso.”

La donna comunque fa per prendere dalla borsa qualcosa. Poi lascia cadere una carta. Padre Julius abbassa automaticamente lo sguardo. Nonostante la poca luce in strada, riconosce l’Appeso dei Tarocchi in terra. Istintivamente s’inchina per prenderlo, tuttavia gli riesce difficile afferrarlo con le dita. L’Appeso sembrava non volere staccarsi dal suo prediletto albero del supplizio e tenace restava incollato al suolo umido. Julius rammenta del sogno fatto, quando era tornato bambino a rincorrere l’amico Marco e della ragazza che lasciava cadere sulla neve l’Arcano Numero XII. Mentre desiste e alza lo sguardo, troppo tardi, vede spuntare un pugnale, che Melissa gli affonda, con inaudita forza, all’altezza del cuore. Trafitto, scivola ai piedi del parapetto del ponte, mentre la donna si allontana rapida sulle due ruote. Vorrebbe gridare, ma ogni parola restava soffocata nel sangue e nel dolore. Da terra, con gli occhi sbarrati, scorge sopra di sé uno dei capolavori celestiali del Bernini: ammonitore e superbo, il simbolo della Passione svettava come una fiaccola di terrore. Ascolta rintocchi di campane e la voce di un Angelo.

Poi il nulla.

 

 

90

Le voci dei Tarocchi

 

Anche Leandro preferisce fare una passeggiata in direzione di Trastevere, per prendere il notturno che lo avrebbe portato all’altro capolinea verso casa. Il fresco della notte lo rinvigorisce. L’aria chiusa di muffa, respirata nella scuola di pittura, gli era restata nel naso. Si soffia a vuoto per liberarsi dall’incredibile. 

Nitida nelle orecchie conservava la voce aliena, con cui aveva un poco fraternizzato. Mentre dialogavano, le parole sembravano sapienti e illuminanti. Appena uscito in Piazza della Minerva, tutto era parso più incerto e vago. 

Durante la corsa notturna di mezzanotte, cerca di ricostruire alcuni momenti salienti della conversazione. Non voleva assolutamente dimenticare l’allusione fatta dal Maestro alla data fatidica, gelosamente custodita proprio dall’icona del Mago raffigurata nei Tarocchi Visconti.

Quella notte Leandro sogna d’incontrare l’Eremita, al capolinea dell’autobus.  Mentre stava salendo distrattamente, se lo ritrova al fianco, all’altro lato del predellino. Si scambiano appena un sorriso e poi l’Eremita gli si siede accanto, per percorrere un tratto di strada insieme. Sul bus v’erano alcune persone. Tutte sole e taciturne. Distribuite su sedili singoli, mentre lui e l’Eremita stavano l’uno a fianco all’altro, a parlare. Nella vettura si sentiva solo la loro voce. Gli altri passeggeri parevano assopiti, assenti.

“Non ti annoio, se facciamo quattro chiacchiere?”

“No. Anzi. Sono meravigliato d’incontrarti.”

“Adesso più che mai, noi Tarocchi abbiamo bisogno del tuo aiuto.”

“Certo, però non saprei proprio come.”

“Scendiamo alla prossima fermata.”

“La prossima è Largo di Torre Argentina. E’ tutto chiuso a quest’ora!”

“Lo so, ma ci sono alcuni ruderi scoperti dell’antica Roma repubblicana.”

“Vuoi fare l’archeologo? A quest’ora?”

“Voglio condurti presso l’antica ara forense, dove si sgozzavano i vitelli e gli aruspici leggevano il futuro della città tra le viscere della vittima sacrificata. Nel marmo s’intravedono ancora le antiche macchie di sangue delle cerimonie pagane, propiziatorie agli Dei. Adesso, con la lanterna magica, illumino l’ara che si spalancherà. E’ una delle nove porte magiche, sparse per il mondo, per potere accedere alla mia dimora.”

“Dobbiamo andare per molto sotto questi cunicoli, Eremita?” Durante il sogno il professore cominciava a sudare. Il passo della guida era lesto e faceva fatica quasi a starle accanto.

“Vedi già siamo arrivati. Lo riconosci questo tavolo?”

“Perbacco, Eremita, assomiglia a quello ottagonale della cartomante! Non posso credere ai miei occhi! Come ha fatto a finire quaggiù?”

“Quello della cartomante è una copia. L’originale sta qui e appartiene alla Torre.”

“Strano; sopra c’è in bella evidenza la mia sequenza. Tutti e sette i Trionfi sono esattamente al loro posto.”

“Ce li abbiamo messi noi, Leandro. E c’è anche il resto del mazzo degli Arcani maggiori. Adesso disponi tutti i Tarocchi per bene in fila, nell’ordine naturale.”

“Avresti potuto farlo tu questo lavoro, senza chiamarmi!”

“Io sono una proiezione mentale. Non posso muovere niente. Vedi? Come cerco di prendere in mano una carta, essa mi passa attraverso la mano, inerte.”

“Hai ragione. Scusami, Eremita.”

“Entità malevole hanno tentato d’assimilare i Tarocchi per indebolire lo spirito di Taro.”

“Sul tavolo vedo la tua lanterna. Con i suoi poteri riuscirà a darvi nuova linfa.”

“Perimene ha pensato lo stesso, ma non sortirà alcun effetto. Ha perso tutti i suoi poteri da quando il Folle l’ha trascinata avanti e indietro nell’abisso.”

“Perimene? Chi è costui?”

“Il Primo Famiglio. Ha creduto di fare la migliore tra le cose possibili. Non sapeva purtroppo che la lanterna aveva perso ogni potere, per essere stata troppo a lungo nell’abisso. Non sono riuscito a ispirarlo e Perimene ha voluto con testardaggine lasciarla vicino ai Tarocchi. Devi invece farla cadere volutamente in terra. Ti ho portato qui anche per questo.”

Leandro obbedisce e getta la lanterna a terra.

“Bene! Adesso devi andare a casa della cartomante Leda e prendere un mazzo di Tarocchi e disporci sul tavolo nell’ordine naturale che ben conosci. La sequenza dei Trionfi ci evocherà e ci farà ritornare dall’oro alchemico, dove la nostra essenza si é   rintanata, per dare modo ad un genio malvagio spuntato dall’abisso di travolgere i nostri gusci vuoti. ”

“Lo farei volentieri, però la cartomante adesso non riceve. E’ notte fonda. Non posso andare a svegliarla di soprassalto.”

“Non ce ne sarà bisogno. Non devi disturbarla. Vai domani mattina, quando riceve i primi clienti.”

“Lo farò, stanne sicuro.”

Leandro si sveglia sudato, in piena notte, e subito annota i tratti salienti del sogno. Conosce gli scherzi del censore metafisico e non vuole che cancelli per sempre ogni tipo d’informazione. Riesce a riprendere sonno solo verso le prime luci dell’alba e insolitamente dorme fino alle undici. 

Prima di recarsi dalla cartomante, il professore va a pranzare in centro. Ovviamente sceglie la stessa birreria, dove era stato con Lucio: perso di vista, nel marasma di una città tentacolare e indifferente. Le persone non avevano il tempo, almeno così dicevano, di coltivare amicizie, affetti. Guardavano sempre il telefonino in cerca di messaggi sopraggiunti, di notizie; alienati nel cellulare e nelle sue infinite potenzialità. 

In città faceva caldo; tuttavia le viuzze del centro storico erano fresche, perché strette e sempre in ombra. Il traffico quel giorno era davvero immobilizzato da un gigantesco ingorgo. La città di Roma, concepita molti secoli prima, non poteva sopportare il flusso automobilistico moderno. Ne era venuta fuori una creatura deforme. Eppure i romani dicono che la capitale è bella. Indubbiamente lo è: nel loro cuore e nei loro ricordi.

Leandro preferisce salire le scale a piedi. Con quel caldo non voleva correre il rischio di restare chiuso in ascensore. Il solo pensiero lo faceva rabbrividire. Dietro al tavolo, abitualmente destinato alla segretaria, stava seduta una donna più attraente, ma molto meno giovane di Melissa, di cui il professore rammentava il nome, per via del dolce suono che non si sposava per niente col suo portamento alquanto sgraziato. 

“Dovrei chiedere alla cartomante un favore. Sono un suo amico. Mi vedrà, anche senza aver preso un appuntamento.”

“Leda...…oggi non riceve.” Sollecitata a fornire ulteriori chiarimenti, la donna, certo un’amica, ripeteva sempre le medesime parole, in maniera meccanica. Con una mano faceva ruotare la clessidra della cartomante. Pareva come ipnotizzata di fronte ad un miraggio scaturito dalla sabbia che scendeva e risaliva nell’ampollina di vetro. Osservava quel fenomeno illusorio con lo sguardo assente, lontano nello spazio e nel tempo. Non c’era verso di smuoverla e di farla tornare alla realtà in nessuna maniera.

Leandro risolve d’entrare egualmente nella sala dove la cartomante riceveva. Per rispetto al rituale si lava le mani e osserva i petali di rosa al loro posto nella bacinella; appassiti perché del giorno prima. Ne prende ventidue, per scaramanzia. Anche se poco profumati, li mette egualmente nel taschino della camicia. Si toglie le scarpe. Non vuole infrangere la regola della cerimonia pagana. Si meraviglia di non udire in lontananza la consueta musica di sottofondo. 

Osserva prima i disegni dei tappeti, poi i motivi floreali del soffitto di gesso. Assente il simulacro della Papessa vivente. Quasi tutte le colonne, di marmi diversi e varia foggia, al loro posto sembravano un presidio inutile e parevano ingombranti. Una sola colonna, la più sottile, l’unica con una decorazione esterna a spirale, era stata spostata e sistemata di fronte alla savonarola, quasi a presidiarla, a volere impedire che un’altra persona potesse prendere il posto che spettava alla cartomante.

Leandro percorre lo spazio che lo separava dalla teca, dove erano allineati diligentemente i vari mazzi carte. Avrebbe voluto aprirne uno nuovo e ancora sigillato, collocare gli Arcani maggiori nel loro ordine naturale sul tavolo ottagonale preposto alla consultazione, per assecondare la richiesta formulatagli in sogno dall’Eremita. Con grande sorpresa scopre però che qualcuno già lo aveva preceduto. Aperta, sul tavolo, stava la custodia dei Tarocchi di Oswald Wirth.  I Trionfi erano stati disposti diligentemente su tre file di sette Arcani, una sotto l’altra, in sequenza: 1-7, 8-14, 15-21.

Lo Zero era stato messo sopra la prima fila, in cima alla quarta carta. Anche gli Arcani minori erano stati distribuiti più sotto, lungo un’unica fila di quattordici carte. Prima la fila dei denari, poi i bastoni, sotto le spade e infine le coppe.

In quell’operazione vi erano solo due cose fuori posto. L’Arcano del Diavolo pareva essersi volatilizzato, tuttavia osservando meglio si era posizionato sotto l’Asso di Coppe, capovolto, proprio per essere notato e non restare confuso col resto del mazzo. Leandro rimette le carte in ordine. Lascia sul tavolo solo i Trionfi e gli Arcani minori li ripone nel cofanetto.

Cerca Leda nella sua alcova. Forse stava male ed era rimasta nel letto a riposare. La stanza appariva in ordine. Sul comodino incontra un biglietto da visita della cartomante, scritto sul retro. ‘Non mi sono pentita di nulla. Nella vita solo alcuni riescono ad interpretare un atto unico da protagonisti. Sono discesa in una Coppa e svanita dietro alla carta del Diavolo dei Trionfi.’

Il professore presagiva il drammatico finale e non si stupisce  quando entra in bagno e s’imbatte nel corpo nudo di Leda: cereo e senza vita, abbandonato in una grande vasca tutta di pietra. Poggiata in terra stava una coppa insanguinata. La donna sembrava essersi suicidata da diverse ore, forse di notte, tanto era pallida. Gli occhi erano sbarrati. 

Leandro è scosso e agitato, ma non si lascia prendere dal panico. Giudica sciocco allontanarsi, senz’avvertire gli investigatori. Non aveva niente da nascondere. Prima chiama il 113, per fare soccorrere la sconosciuta in evidente stato confusionale, infine telefona ai carabinieri e va a sedersi sul divanetto stile Luigi XV ad aspettare il loro arrivo. Nel frattempo si mette a osservare la sala; vuole sentirne l’atmosfera per l’ultima volta. Annusa forte l’aria, captarne gli odori e sincerarsi se ancora vi aleggiava quel profumo di Leda tanto caro che lo aveva eccitato la prima volta.

Dopo avere fornito agli inquirenti tutte le dovute spiegazioni possibili, Leandro finalmente lascia l’appartamento della cartomante. Adesso in strada ha voglia di sgranchirsi le gambe. E’ stato seduto troppo a lungo. Abbandonato il quartiere di Trastevere, come si lascia alle spalle una sventurata coincidenza, traversa Ponte Fabricio, oltrepassa l’Isola Tiberina e si dirige verso Trinità dei Monti. Vuole salire verso il verde risposante di Villa Borghese e rinfrescarsi un poco alle brezze del ponentino. Nel costeggiare il teatro ubicato in Largo di Torre Argentina, per caso osserva le locandine pubblicitarie. In cartellone spiccava un lavoro dal titolo fin troppo familiare: Le voci dei Tarocchi: opera attribuita al pittore olandese Pieter Van Lear, detto il Bamboccio. 

Nonostante il desiderio di prendere aria e procurarsi una pausa, sembrava proprio un appuntamento a cui non poteva mancare. Lo spettacolo pomeridiano iniziava alle ore diciotto. “L’ultimo palco laterale, il più prossimo al palcoscenico può ospitare solamente due persone. Una vera fortuna trovare un posto libero a quest’ora.” L’impiegata al botteghino mostra la piantina poi stacca il biglietto e lo appoggia nella vaschetta girevole sottostante al vetro divisorio, dove Leandro depone i suoi soldi.

“Sì’, oggi ha tutta l’aria di essere proprio un giorno fortunato, ma non per tutti.” Il professor Leandro risponde e il suo pensiero va alla cartomante, al suicidio apparentemente inatteso e senza spiegazioni della donna. Il tragico evento poteva avere una sua logica solamente alla luce del paranormale. Ne era convinto, ma certo gli investigatori non avevano gli strumenti per approfondire su uno dei tanti misteri irrisolti della capitale.

Il posto nel loggione appena comprato gli avrebbe consentito di seguire i personaggi più da vicino e sarebbe riuscito a cogliere meglio tutta l’atmosfera di quel dramma teatrale, attribuito a Pieter Van Lear. Durante il suo soggiorno romano era stato soprannominato il Bamboccio, forse per i suoi lineamenti esageratamente goffi e gonfi da farlo assomigliare a un ragazzino grassoccio e idiota

La strana storia della Confraternita dei Bamboccianti dunque non si era interrotta come previsto, ma continuava ad attrarlo dentro le mura di un teatro sulla cui facciata campeggiava una scritta scolpita nel marmo: 

 

ALLE   ARTI   DI   MELPOMENE

D’ EUTERPE   E   DI  TERSICORE

 

 

 

Indice dei Capitoli 

1.      Il tavolo ottagonale della cartomante – pag. 3 

2.      Il Trionfo numero Zero – pag. 8 

3.      Dissolve …….. coagula – pag. 12

4.      ‘Satanasso, satanasso, vieni retro sul mio passo’ – pag. 16

5.      Giovedì 5 maggio dell’anno 2005: una strana consultazione dei Tarocchi – pag.19

6.      Il ritratto parlante del Folle – pag. 24

7.      La Papessa – pag. 26

8.      I poteri di Arcidiavolo – pag. 28

9.      Una pergamena infiocchettata – pag. 30

10.   Leda legge le carte all’Uomo dei Tarocchi – pag. 31

11.   Innamorato e Cupido: simbiosi e dissapori

12.   Il Gerofante: direttore dell’opificio angelico

13.   Il trono di marmo pario dell’Imperatore

14.   Melissa, la segretaria della cartomante

15.   Arcimondo, ultimo rampollo dei Trionfi

16.   Due compari di merenda

17.   La Papessa rievoca il mito di Edipo

18.   L’Imperatore visita il sito dell’uomo dei  Tarocchi

19.   Arcimondo incontra l’Uomo dei Tarocchi

20.   Lucio consulta la cartomante Leda

21.   L’epistola del pastorello leggiadro

22.   L’Assemblea degli Arcani Maggiori

23.   L’Eremita a colloquio col Mago

24.   Incontro al cimitero di San Pietroburgo

25.   Breve idillio tra il Folle e Arciluna

26.   La profezia di Federico II

27.   Ventidue sfere d’oro alchemico

28.   La strana gravidanza dell’Imperatrice

29.   L’Eremita indaga sulla gravidanza dell’Imperatrice

30.   Due stelle a cinque punte

31.   I poteri della Temperanza

32.   L’Appeso lascia l’albero del supplizio

33.   La Dimora della Ruota della Fortuna

34.   L’Auriga traghetta l’Eremita su Eusfera

35.   Riflessioni sulla massima: conoscere è ricordare

36.   Ammessi al cospetto dell’Arcano della Giustizia

37.   Nei pressi del laghetto di Villa Borghese

38.   Il fiuto del destriero mitologico individua la Donzella

39.   L’Eremita affronta l’Arcano della Morte

40.   Lezione sull’inconscio originario collettivo

41.   Scovare l’Arcano del Diavolo

42.   Un viaggio attraverso il cosmo

43.   Le mura ciclopiche della Città del Sole

44.   Un’orchestra di Angeli musicanti

45.   L’Imperatore senza più trono

46.   Il Folle pone tre quesiti alla Sfinge

47.   Le origini della Sfinge egizia e il mito di Edipo

48.   Gli interrogativi esistenziali della Sfinge

49.   L’afflizione della Papessa

50.   La Papessa svela i misteri che avvolgono la Sfinge

51.   Storia d’amore tra Lucio e Virginia

52.   Violare la Fortezza delle Voci

53.   Visita a casa di Lucio

54.   Nella Dimora dell’Eremita ha inizio

 l’Assemblea degli Arcani Maggiori

55.   L’Assemblea discute i primi due punti all’ordine del giorno

56.   Terzo punto all’ordine del giorno: la gravidanza dell’Imperatrice

57.   I poteri della lanterna dell’Eremita

58.   Gl’Inferi danteschi e il filosofo Nietzsche

59.   Le rivelazioni di Caronte e Nietzsche

60.   Il Folle svela all’Assemblea il segreto per risalire dall’Abisso

61.   Le origini della lanterna dell’Eremita

62.   Il Folle sfida il Gerofante

63.   L’esperimento e ventidue pepite alchemiche

64.   Il Folle si misura con i poteri occulti della lanterna

65.   Il Mago incontra il matematico Fibonacci

66.   La Papessa visita la Cripta dei Tesori

67.   I poteri dell’anello nuziale

68.   Disputa tra il Gerofante e il Giudizio

69.   Breve idillio tra l’Imperatore e l’Imperatrice

70.   L’Antro della Musica e i dodici zecchini d’oro dell’Appeso

71.   La curiosità di Arcitorre

72.   Gli scherzi demenziali del Folle

73.   L’Innamorato sulle tracce di Cupido

74.   Nuovo cimento tra la Donzella e il leone di pietra

75.   Vano miracolo

76.   Una catasta di vecchie scope da ardere

77.   I simulacri smarriti nel labirinto carsico

78.   Il ritorno di Perimene

79.   Indagini sull’epistola del pastorello leggiadro

80.   Colloquio tra padre Julius e Leandro

81.   L’Ordine dei Penitenti investiga sul paranormale

82.   La Confraternita dei Bamboccianti

83.   Torna in scena il paranormale

84.   Julius conosce Saramila

85.   Formata al rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi

86.   La BOCCA della VERITA’

87.   La coppa del sacrificio

88.   Taro: l’Artefice dei Tarocchi

89.   Una donna in bicicletta

90.   Le  voci dei Tarocchi



Biografia e opere
Alessandro Scalzaferri, nato a Roma, 
laureato in Filosofia, poeta, studioso dei Tarocchi. 
Scrittore artigiano indipendente. 
Autore di un ciclo di opere ispirate alle carte della divinazione:
 
-      Genesi dei Trionfi, poemetto
-      Una combriccola di Arcani lestofanti ha messo a soqquadro il dolce paese, novella
-      Discorso sopra la natura e l’origine dei Tarocchi 
alla luce della filosofia dei numeri, trattato
-      L’Uomo dei Tarocchi - ANNO DOMINI MCCXXI TARO FECIT, romanzo
-      Le voci dei Tarocchi, romanzo teatrale
-      Interviste ai Tarocchi,  racconto

 

Email di contatto: ledoslerris@gmail.com


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